"Dallo scudetto ad Auschwitz" è, prima di ogni altra cosa, un grande e doveroso atto di giustizia. Giustizia, ampiamente postuma purtroppo, nei confronti di un uomo che avrebbe dovuto rappresentare un mito assoluto, un totem del calcio italiano, e che invece per decenni è stato letteralmente dimenticato, imperdonabilmente avvolto da un colpevole oblio. Riportando alla luce la tragica vicenda terrena di Arpad Weisz e della sua famiglia, il libro di Matteo Marani, giovane direttore del Guerin Sportivo, salda uno dei tanti debiti dell'ondivaga memoria storica del nostro Paese, piena di scheletri nell'armadio in quanto mai in grado di fare definitivamente, coraggiosamente i conti con i più scomodi fantasmi del passato, in primis quelli del fascismo e di tutte le sue nefandezze.
LA STORIA - Chi è stato Arpad Weisz? Semplicemente, uno dei più grandi allenatori del football italiano d'anteguerra, direi sullo stesso piano di Carlo Carcano e del longevo inglese Garbutt, considerando l'immenso Vittorio Pozzo fuori categoria: forse il più importante di tutti, per la sua spinta innovativa in tema di tattica e di preparazione dei giocatori. Un trainer di altissimo spessore, scopritore di Giuseppe Meazza e capace di vincere tre scudetti, uno con l'Ambrosiana - Inter e due col Bologna; alla guida dei felsinei centrò anche un traguardo internazionale che all'epoca ebbe grandissima eco, il Trofeo dell'Esposizione di Parigi nel 1937, conquistato battendo in finale gli inglesi del Chelsea (e in quel periodo, gli appassionati lo sanno, gli inglesi erano considerati i maestri del pallone, talmente convinti della loro superiorità che la Nazionale coi tre leoni sul petto manco si degnava di prendere parte ai Campionati del Mondo).
Un mostro sacro della panchina, dunque. Tuttavia, come ebbe a dire anni dopo Enzo Biagi (frase riportata sulla copertina del libro di Marani), "era molto bravo ma anche ebreo, e chi sa com'è finito". E già: nel 1938, Mussolini imbarcò l'Italia nella vergognosa avventura di un orrido antisemitismo "per decreto", con conseguenti leggi razziali ispirate alla dottrina malata della Germania nazista. Weisz, ebreo ungherese, si trovò all'improvviso sbattuto dagli altari alla polvere, con la sua deliziosa famigliola: la moglie Elena e i due figli, la piccola Clara e Roberto, il più grandicello. Arpad messo al bando dal calcio italiano, lui e i suoi cari messi alla porta dallo Stato fascista e razzista italiano, costretti a lasciare la penisola per un doloroso pellegrinaggio europeo, alla ricerca di posti in cui l'allenatore potesse continuare a lavorare e garantire a tutti e quattro un'esistenza dignitosa.
Prima un breve soggiorno a Parigi, poi la sfortunata scelta dell'Olanda proprio poco prima dell'invasione nazista, con tutto ciò che ne conseguì in materia di "soluzione finale ebraica". Nella terra dei tulipani Arpad riuscì a compiere un autentico miracolo calcistico, portando il modesto Dordrecht dalla zona retrocessione a fasti di classifica in seguito mai più assaporati, ma la follia hitleriana presto lo raggiunse anche lassù: nell'agosto del '42 le SS bussarono alla porta dei Weisz e li deportarono in un campo "di passaggio" olandese, Westerbork. Di lì ad Auschwitz il passo fu breve: per i bambini e la donna significò morte immediata in camera a gas, mentre l'ex trainer, fisicamente integro per via della sua vita da atleta (prima di sedersi in panchina fu anche giocatore di alto livello) e quindi ancora "utile" alla causa tedesca, venne trasferito a Cosel, "sottocampo" di lavoro, dove resse fino al gennaio '44, quando si spense, ormai minato dagli stenti e svuotato nell'anima dall'orrore del lager e dalla sua tragedia familiare, senza più alcuna ragione che lo tenesse legato a una esistenza terrena.
ORRORE ORDINARIO - La vicenda di Weisz e del suo nucleo familiare non è, in sé, particolarmente "straordinaria", riferendo questo termine al contesto storico in cui essa maturò. Anni in cui la civiltà umana era precipitata in un abisso di ottusità, orrore e abominio, un nuovo Medioevo che pare incredibile possa essersi materializzato nel ventesimo secolo, il secolo del progresso per eccellenza. Anni in cui, in larga parte dell'Europa, le vite di persone considerate "diverse" divennero improvvisamente di nessun valore, appese a un filo sottilissimo e fragile, e poteva accadere di essere svegliati la mattina presto da un drappello di soldati nazisti ed essere strappati alla normalità quotidiana per venire precipitati nella realtà allucinante dei campi di concentramento e di sterminio, anticamere più o meno brevi della morte. La sorte dei Weisz fu quella di milioni di altre persone. Forse altri, come lui, furono dimenticati per anni, ma probabilmente, fra le vittime di questa rimozione, il "mister" è la più eccellente.
ORRORE ORDINARIO - La vicenda di Weisz e del suo nucleo familiare non è, in sé, particolarmente "straordinaria", riferendo questo termine al contesto storico in cui essa maturò. Anni in cui la civiltà umana era precipitata in un abisso di ottusità, orrore e abominio, un nuovo Medioevo che pare incredibile possa essersi materializzato nel ventesimo secolo, il secolo del progresso per eccellenza. Anni in cui, in larga parte dell'Europa, le vite di persone considerate "diverse" divennero improvvisamente di nessun valore, appese a un filo sottilissimo e fragile, e poteva accadere di essere svegliati la mattina presto da un drappello di soldati nazisti ed essere strappati alla normalità quotidiana per venire precipitati nella realtà allucinante dei campi di concentramento e di sterminio, anticamere più o meno brevi della morte. La sorte dei Weisz fu quella di milioni di altre persone. Forse altri, come lui, furono dimenticati per anni, ma probabilmente, fra le vittime di questa rimozione, il "mister" è la più eccellente.
RIMOZIONE - Ecco quindi che "Dallo scudetto ad Auschwitz" riapre non una, ma due ferite. Quella dello straziante calvario dei Weisz e quella della memoria tradita. Certo, la "cancellazione storiografica" di Arpad, della sua parabola umana e professionale, di ciò che rappresentò per il calcio e per l'Italia può essere stata una semplice dimenticanza, come lo stesso autore del libro ipotizza. E forse non ci sarebbe nemmeno da sorprendersi, visto il livello del giornalismo nostrano, andato peggiorando in maniera esponenziale dal dopoguerra in poi. Ancora oggi, nonostante Marani abbia squarciato il velo del silenzio, sono convinto che la grandissima maggioranza dei giovani giornalisti sportivi del nostro Paese non abbia la minima idea di chi sia stato Weisz. Per la verità, alla dimenticanza io non credo. Non stiamo parlando di un uomo qualunque, ma, lo ripetiamo, di uno dei simboli, simboli vincenti, del calcio italiano degli anni Trenta, ossia del periodo migliore del nostro football, sul piano dei risultati, dell'impatto mediatico, dei continui progressi tecnici, tattici, organizzativi e logistici. Un'icona in carne e ossa volatilizzatasi all'improvviso, passata direttamente dalla panchina del Bologna (dopo una vittoria, 2 a 0 alla Lazio...) all'oblio, nel tardo autunno del 1938.
CATTIVA COSCIENZA ITALIANA - Possibile che dopo la guerra nessuno si sia più ricordato di lui, nessuno si sia preso la briga di cercarlo, o di cercare notizie sulla sua sorte? Giornalisti, ex colleghi, ex calciatori e dirigenti del suo tempo? No, ragionevolmente non è possibile. E allora torniamo al discorso di partenza, alla cattiva coscienza di un Paese che non riesce a chiudere i conti col suo passato più scomodo perché quel passato non ha mai avuto il coraggio di prenderlo veramente di petto, con un'autocritica onesta e priva di pregiudizi ideologici: ancora oggi si continuano a fare distinguo fra fascismo "buono" e fascismo "cattivo", si tollerano rigurgiti nostalgici, eccessi di intolleranza, spesso in nome di un malinteso diritto di espressione del proprio pensiero.
Questo atteggiamento ambiguo, ambivalente, va a braccetto con i sensi di colpa e con la conseguente ritrosia a parlare di argomenti dolorosi come questo, una macchia ignominiosa per lo Stato e per il movimento sportivo italiani dell'epoca. Oppure, per contro, troppe volte si è voluto liquidare sbrigativamente tutto ciò che ha avuto a che fare col Ventennio, facendo di ogni erba un fascio: tutto nella spazzatura, tutto nel dimenticatoio, anche le cose positive, e quindi anche gli eroi del pallone come Weisz. Del resto persino il mitico Vittorio Pozzo, pur essendo ancora ben presente nella memoria di tutti gli appassionati, dopo la sua scomparsa non è mai stato adeguatamente omaggiato come sarebbe stato doveroso: l'Italia non è stata capace nemmeno di intitolargli uno stadio, il minimo dovuto a un uomo senza la cui opera, probabilmente, il mito planetario del calcio tricolore non esisterebbe.
WEISZ, IL CALCIO E IL PAESE DELL'EPOCA - Onore dunque a Marani, che ha riportato alla luce la storia di Weisz, la sua mirabolante traiettoria calcistica e la sua tragedia personale. Lo ha fatto con delicatezza e sensibilità, con rigore assoluto nelle ricostruzioni, laddove è stato possibile, e "romanzando" quelle parti di vita non documentabili attraverso testimonianze dirette, carte ufficiali, materiale d'epoca, ma facendolo con grande verosimiglianza e senza indugiare in eccessi di fantasia che sarebbero stati del tutto fuori luogo, trattandosi di una storia autentica e amarissima. Nel libro c'è Weisz con la sua vita dentro e fuori del campo, ma c'è anche, con brevi ed efficaci pennellate, il calcio dell'epoca, già fenomeno di massa eppure in una dimensione ancora a misura d'uomo. E c'è, sullo sfondo, il ritratto di una nazione che si sforza di conservare un minimo di normalità, ma cammina a grandi passi verso l'abisso.
ANNULLAMENTO DEL NEMICO - Questa trasformazione dell'Italia emerge chiaramente dal trattamento riservato a Weisz non solo dallo Stato, dalle istituzioni, ma dalla comunità sportiva: l'allenatore si ritrova emarginato di punto in bianco nell'indifferenza del suo mondo. I giornali specializzati, che lo avevano esaltato e della cui collaborazione si erano spesso avvalsi, ne liquidano in poche righe l'allontanamento dal Bologna. Di Weisz improvvisamente non si parla più: come non fosse mai esistito. L'annullamento dei "nemici", psicologico prima ancora che fisico: uno degli obiettivi dei totalitarismi, nel caso specifico centrato in pieno. Un'indifferenza forzata, quella della comunità, perché guai a dire cose sgradite al Duce e ai suoi, ma non per questo più accettabile e meno disumana. Pagina dopo pagina, si percepisce l'atmosfera di libertà negata che gravava sul paese: libertà negata ai perseguitati ma anche a chi rimaneva a casa, "libero" in apparenza, ma privato degli affetti più cari e senza nemmeno la possibilità di dare aiuto concreto, o anche solo solidarietà, a chi dalle persecuzioni veniva colpito.
GIORNALISMO VERO - La postfazione del libro illustra nei dettagli il percorso compiuto da Marani per ricostruire la vicenda del coach ungherese: interviste ai colleghi olandesi dell'epoca ancora viventi, ricerca di documentazione ufficiale (certificati anagrafici e simili) presso scuole, prefetture e altre istituzioni, i contatti con le associazioni che tengono in vita il ricordo dell'Olocausto e ne conservano le testimonianze. Che sorpresa: documenti, ricordi personali, date precise... C'era tutto, bastava cercare bene. Bastava fare il lavoro del giornalista vero, ciò che oggi in Italia sono rimasti in pochi a saper svolgere. E bastava farlo senza pregiudizi e senza remore verso un passato che molti vorrebbero dimenticare, ma che dimenticare non si può. Matteo Marani ha fatto tutto questo: è una mosca bianca, e merita quindi un plauso incondizionato.
CATTIVA COSCIENZA ITALIANA - Possibile che dopo la guerra nessuno si sia più ricordato di lui, nessuno si sia preso la briga di cercarlo, o di cercare notizie sulla sua sorte? Giornalisti, ex colleghi, ex calciatori e dirigenti del suo tempo? No, ragionevolmente non è possibile. E allora torniamo al discorso di partenza, alla cattiva coscienza di un Paese che non riesce a chiudere i conti col suo passato più scomodo perché quel passato non ha mai avuto il coraggio di prenderlo veramente di petto, con un'autocritica onesta e priva di pregiudizi ideologici: ancora oggi si continuano a fare distinguo fra fascismo "buono" e fascismo "cattivo", si tollerano rigurgiti nostalgici, eccessi di intolleranza, spesso in nome di un malinteso diritto di espressione del proprio pensiero.
Questo atteggiamento ambiguo, ambivalente, va a braccetto con i sensi di colpa e con la conseguente ritrosia a parlare di argomenti dolorosi come questo, una macchia ignominiosa per lo Stato e per il movimento sportivo italiani dell'epoca. Oppure, per contro, troppe volte si è voluto liquidare sbrigativamente tutto ciò che ha avuto a che fare col Ventennio, facendo di ogni erba un fascio: tutto nella spazzatura, tutto nel dimenticatoio, anche le cose positive, e quindi anche gli eroi del pallone come Weisz. Del resto persino il mitico Vittorio Pozzo, pur essendo ancora ben presente nella memoria di tutti gli appassionati, dopo la sua scomparsa non è mai stato adeguatamente omaggiato come sarebbe stato doveroso: l'Italia non è stata capace nemmeno di intitolargli uno stadio, il minimo dovuto a un uomo senza la cui opera, probabilmente, il mito planetario del calcio tricolore non esisterebbe.
WEISZ, IL CALCIO E IL PAESE DELL'EPOCA - Onore dunque a Marani, che ha riportato alla luce la storia di Weisz, la sua mirabolante traiettoria calcistica e la sua tragedia personale. Lo ha fatto con delicatezza e sensibilità, con rigore assoluto nelle ricostruzioni, laddove è stato possibile, e "romanzando" quelle parti di vita non documentabili attraverso testimonianze dirette, carte ufficiali, materiale d'epoca, ma facendolo con grande verosimiglianza e senza indugiare in eccessi di fantasia che sarebbero stati del tutto fuori luogo, trattandosi di una storia autentica e amarissima. Nel libro c'è Weisz con la sua vita dentro e fuori del campo, ma c'è anche, con brevi ed efficaci pennellate, il calcio dell'epoca, già fenomeno di massa eppure in una dimensione ancora a misura d'uomo. E c'è, sullo sfondo, il ritratto di una nazione che si sforza di conservare un minimo di normalità, ma cammina a grandi passi verso l'abisso.
ANNULLAMENTO DEL NEMICO - Questa trasformazione dell'Italia emerge chiaramente dal trattamento riservato a Weisz non solo dallo Stato, dalle istituzioni, ma dalla comunità sportiva: l'allenatore si ritrova emarginato di punto in bianco nell'indifferenza del suo mondo. I giornali specializzati, che lo avevano esaltato e della cui collaborazione si erano spesso avvalsi, ne liquidano in poche righe l'allontanamento dal Bologna. Di Weisz improvvisamente non si parla più: come non fosse mai esistito. L'annullamento dei "nemici", psicologico prima ancora che fisico: uno degli obiettivi dei totalitarismi, nel caso specifico centrato in pieno. Un'indifferenza forzata, quella della comunità, perché guai a dire cose sgradite al Duce e ai suoi, ma non per questo più accettabile e meno disumana. Pagina dopo pagina, si percepisce l'atmosfera di libertà negata che gravava sul paese: libertà negata ai perseguitati ma anche a chi rimaneva a casa, "libero" in apparenza, ma privato degli affetti più cari e senza nemmeno la possibilità di dare aiuto concreto, o anche solo solidarietà, a chi dalle persecuzioni veniva colpito.
GIORNALISMO VERO - La postfazione del libro illustra nei dettagli il percorso compiuto da Marani per ricostruire la vicenda del coach ungherese: interviste ai colleghi olandesi dell'epoca ancora viventi, ricerca di documentazione ufficiale (certificati anagrafici e simili) presso scuole, prefetture e altre istituzioni, i contatti con le associazioni che tengono in vita il ricordo dell'Olocausto e ne conservano le testimonianze. Che sorpresa: documenti, ricordi personali, date precise... C'era tutto, bastava cercare bene. Bastava fare il lavoro del giornalista vero, ciò che oggi in Italia sono rimasti in pochi a saper svolgere. E bastava farlo senza pregiudizi e senza remore verso un passato che molti vorrebbero dimenticare, ma che dimenticare non si può. Matteo Marani ha fatto tutto questo: è una mosca bianca, e merita quindi un plauso incondizionato.
un libro che merita, assai ben scritto e documentato e mosso da sano, genuino volere di fare giustizia su un grande nome dimenticato ingiustamente. Una triste pagina di storia con la quale occorre, talvolta anche mediante il calcio, tornare a riflettere, per non dimenticare appunto
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