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mercoledì 28 novembre 2012

LE MIE RECENSIONI: "ARGO"


Una drammatica e romanzesca pagina della storia recente rimasta a lungo misteriosa, fino alla "declassificazione" operata da Bill Clinton nel 1997. Una vicenda in cui si intrecciano politica estera, acrobazie diplomatiche, conflittualità internazionali pericolosamente vicine al punto di rottura, e ancora servizi segreti, agenti sotto copertura, spionaggio: il... brodo di coltura ideale per allestire il più classico dei "thriller - action - spy movie" all'americana. Il rischio principale nella realizzazione di un'opera come "Argo" era proprio questo: annacquare e, in definitiva, svilire una storia vera, dall'enorme impatto narrativo eppure mai raccontata sul grande schermo, affogandola negli stilemi più triti e convenzionali delle pellicole made in USA del genere "alta tensione". 
LA VICENDA - Bene, si può dire che il rischio sia stato in larga parte brillantemente aggirato: "Argo", che ha in Ben Affleck, regista e protagonista, l'ispirato deus ex machina, ricostruisce con intenso realismo quel lontano episodio snodatosi fra 1979 e 1980. Ricordiamolo in breve: nel novembre '79, nell'Iran della rivoluzione, Repubblica islamica sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini, una folla di manifestanti fa irruzione nell'ambasciata americana a Teheran, prendendo in ostaggio coloro che vi lavorano, eccezion fatta per sei funzionari che riescono a fuggire da un'uscita secondaria, rifugiandosi presso la dimora dell'ambasciatore canadese. Per riportare a casa i sei "ospiti" (così vengono definiti in codice) prima che gli iraniani li scoprano e li catturino, la CIA si affida a un suo giovane ma già esperto agente, Tony Mendez, che per centrare l'obiettivo studia un progetto talmente fuori dagli schemi da risultare geniale: spacciare le sei persone per membri di una troupe cinematografica, di cui lui si pone a capo, giunta in Iran alla ricerca di una location per girare un fittizio film di fantascienza ("Argo", per l'appunto, la più classica delle produzioni di terza categoria che vorrebbe scimmiottare i capisaldi del settore, tipo "Guerre stellari"), e come tali farli rientrare negli States sani e salvi. Geniale ma rischioso, quasi folle: per riuscire nell'impresa Mendez dovrà superare le perplessità dei suoi superiori e degli stessi funzionari americani che dovrebbe trarre in salvo, oltre all'ostilità  iraniana. 
RIGORE STORICO E RITMO... DIESEL - Ricostruzione rigorosa, si diceva, peraltro senza eccessi documentaristici, come è giusto che sia per un film comunque concepito e sviluppato come un thriller. Un thriller raffinato, però, che non violenta la Storia, la realtà come effettivamente si configurò, ma si limita ad adattarla, dove occorre, alle sue inevitabili esigenze "cattura spettatori". Di qui alcune innocenti e marginali concessioni a certi "tormentoni" della tradizione americana di genere (soprattutto nel finale), piccole cadute di tono qualitativo all'interno di un canovaccio stilisticamente di notevole levatura, privo di sovrastrutture, nel complesso ben costruito. 
Cercando il pelo nell'uovo, si può casomai evidenziare uno stacco piuttosto netto, sul piano dell'incisività  "cinematografica", fra prima e seconda parte: si inizia, e ci si mantiene a lungo, su un ritmo piuttosto lento. Il racconto scorre via faticosamente: indubbiamente, nel primo tempo la vicenda è ben contestualizzata e illustrata, ed è forse questo sforzo storiografico a far perdere mordente alla narrazione causando più di un calo di tensione. Ma era giusto portare per mano il pubblico all'interno di un episodio raramente rievocato dai grandi media, fornendogli tutti gli strumenti possibili per aiutarlo a capire.
AFFLECK SOPRA TUTTI - La tensione, comunque, recupera ampiamente terreno a film inoltrato, quando si staglia netta su tutti la figura del primattore, Affleck - Mendez. Forzando un po' la mano critica, si potrebbe parlare di "Argo" quasi come di un "one man film": nonostante la buona prova collettiva del cast, con un picco degno di nota in un John Goodman abilissimo nel tratteggiare il tipico mestierante di Hollywood, spregiudicato e disposto a sposare anche le idee cinematografiche più improbabili (un affarismo che nasconde però, in fondo, amore autentico per il mondo di celluloide), tutto ciò che non è ricostruzione dei fatti dell'epoca ruota attorno alla figura, in apparenza dimessa eppure dalla spiccata personalità, dell'agente in missione. Un eroe anti - eroe, Mendez, lontano anni luce dagli standard dei protagonisti senza paura, quasi superuomini, di tanti action movie: diremmo un eroe comune, con le sue fragilità personali e professionali, certo fiducioso nella riuscita dell'impresa ma non al punto da ostentare la incrollabile sicumera di uno Schwarzenegger o di un Seagal (o di tanti 007 prima dell'ultima versione "umana" di Skyfall). 
BUONISMO A PICCOLE DOSI - Meglio così, per non far scadere in commerciale baracconata una pellicola che non l'avrebbe meritato, e che rispetta invece dall'inizio alla fine la sua non nascosta ambizione divulgativa, la voglia di ripescare un episodio dal peso specifico notevole nella storia delle relazioni internazionali, eppure in buona parte tuttora misconosciuto. Né si fa eccessivamente leva sulla lacrima facile: la sceneggiatura punta anzi su un certo pudore dei sentimenti anche nei momenti più tesi, una sorta di sobrietà emotiva, concedendosi al buonismo giusto in occasione della vicenda della giovane Sahar, governante iraniana della residenza dell'ambasciatore canadese, inizialmente sospettata di poter spifferare ai rivoluzionari la presenza dei sei americani e invece coraggiosa nel coprirli anche a rischio della propria vita. 
Forse si indugia un po' troppo sul privato del protagonista, le cui traversie familiari appaiono come un surplus non richiesto né necessario, una serie di parentesi sostanzialmente slegate dal tema centrale dell'opera: certo, è il figlioletto di Mendez a dargli, indirettamente, l'ispirazione per l'idea del film di fantascienza, ma non basta a dare un senso alla presenza di questi scorci... casalinghi in una pellicola di ben più ampio respiro. 

lunedì 19 novembre 2012

GENOA ALLO SBANDO, MA IL "CREPUSCOLO PREZIOSIANO" PUO' E DEVE ESSERE MIGLIORE

                                 Borriello: il Genoa punta sui suoi gol per risalire
                                        
Il lungo crepuscolo dell'era Preziosi è diventato una via crucis sportiva, per il Genoa e per la sua tifoseria. Un cammino della disperazione disseminato di bocconi amari, di pagine nere. Ieri sera l'ultimo capitolo di questo libro horror, un duplice pugno nello stomaco: nella stessa domenica, sconfitta in uno dei derby tecnicamente più poveri di sempre contro una Sampdoria fra le più modeste della sua quasi settantennale storia, e conseguente ultimo posto in classifica. Quest'ultima, più dell'altra, è la vera onta: andando a memoria, e quindi scusandomi per eventuali "falle" nei miei ricordi, negli ultimi quarant'anni solo una volta il Grifo era venuto a trovarsi in coda alla graduatoria in una fase avanzata del campionato: Serie A 1973/74, torneo  chiuso con la retrocessione. Da allora, di tempeste il club rossoblù ne ha attraversate, alcune anche con esiti nefasti; ma mai, nemmeno nelle sue edizioni più... spelacchiate, nemmeno nelle più oscure stagioni in B e in C, il vecchio Grifone era stato costretto a indossare la... "maglia nera" del gruppo. 
2010, GLI ULTIMI FUOCHI - E' la più naturale conclusione di una "discesa agli inferi" iniziata circa due anni fa, non prima. Perché le cose vanno raccontate con precisione storica e cronistica: fino all'estate del 2010, un "progetto Preziosi", espressione oggi oggetto di amare ironie in città e fuori, esisteva davvero. Dopo la stagione della Champions sfiorata e dopo quella del ritorno in Europa (League), il Joker aveva dato l'impressione di voler continuare a perseguire la crescita tecnica della squadra, di puntare con sempre maggior decisione a un inserimento nei quartieri medio - alti della massima serie: sotto la Lanterna erano arrivati top player italiani e stranieri come Rafinha, Veloso e Toni (per tacere del portiere Eduardo, in realtà un bluff che trasse beneficio da un paio di prestazioni eccezionali, e mai più neanche avvicinate, ai Mondiali sudafricani), un difensore dell'esperienza e del carisma di Kaladze, due dei giovani nostrani di maggiore prospettiva, Ranocchia e Destro. In più, la conferma di Palacio, l'uomo simbolo del Genoa del dopo Milito. Ecco, in quella circostanza "il re dei giocattoli" fu davvero sfortunato oltre ogni immaginazione: perché può capitare di prendere un giocatore di alto livello che poi delude completamente le aspettative, ma difficilmente succede che tanti campioni di statura internazionale falliscano tutti, contemporaneamente. Fatto sta che una campagna acquisti potenzialmente da boom si rivelò, e non per colpa del presidente, un buco nell'acqua destinato a fare storia. 
IL CROLLO - Da quel momento, nulla è stato più come prima. Patron Preziosi ha perso la bussola tecnica e dirigenziale. Forse perché l'amore per il Genoa si è raffreddato, quasi spento. Forse perché non vede l'ora di trovare qualche altro facoltoso (si spera) imprenditore a cui passare una patata bollente che, oramai, gli procura solo mal di fegato e nessuna emozione. Fatto sta che l'arguto intenditore di calcio, quello che pescava dal nulla Milito, quello che dava fiducia a un Thiago Motta considerato non più proponibile, per motivi fisici, in un football di alto livello, si è smarrito in un vorticoso e infruttuoso turn over di calciatori. 
Fra affrettate cessioni eccellenti e acquisti di elementi di acclarata modestia, è stato messo in opera un depauperamento qualitativo sempre più marcato. E le strategie di mercato hanno continuato a seguire logiche imperscrutabili: il Genoa ha rischiato di retrocedere per colpa di una difesa colabrodo? Ebbene, la retroguardia è rimasta quasi uguale, con il solo Canini a puntellarla (?), per tacere di un Ferronetti la cui fragilità fisica era nota a tutti gli addetti ai lavori (e infatti è entrato puntualmente ai box). Da Veloso, che per la verità a Genova raramente si è coperto di gloria, ma che resta comunque elemento di classe e di esperienza internazionale, si è passati all'inconsistente Tozser. E nelle fasi finali della sessione di mercato di agosto, sono sì arrivati Vargas e Borriello, ma è stata di fatto azzerata la fascia destra di difesa, affidata in pratica al solo, giovanissimo Sampirisi, partito bene ma poi smarritosi, perché se tutta la squadra va male non si può chiedere ai "pulcini" di tirarla fuori dalle sabbie mobili. 
CREDIBILITA' SOCIETARIA - Ma, quel che è peggio, in questi due anni è stato quasi azzerato l'ottimo lavoro di ricostruzione della credibilità della società Genoa, messo in atto dal Prez e dai suoi collaboratori nel quinquennio precedente. Dopo la devastante retrocessione in C per illecito, passo dopo passo il club aveva acquisito un'autorevolezza che da tempo immemore non possedeva più. Questa autorevolezza, questa credibilità, si erano tradotte in risultati sportivi concreti: non solo la lunga permanenza in Serie A, costantemente fra le prime dieci squadre e addirittura con un quarto posto ex aequo con la Fiorentina, ma il passaggio, da Marassi, di giocatori di altissimo livello, giovani o affermati, già nazionali o diventati tali grazie alle prodezze in maglia genoana. 
Ecco, oggi, al tramonto di questo disgraziato 2012, tutto ciò non esiste più, o almeno questa è l'impressione che trasmette la realtà rossoblù. Il Genoa di oggi, nei pensieri di tifosi e giornalisti (non tutti, beninteso), è un club di parcheggio per le grandi (soprattutto le milanesi). E' una società in cui i giocatori ruotano a ritmo vertiginoso, senza il tempo di ambientarsi, di creare un legame con l'ambiente e con la città, al punto che molti di essi risultano essere, in campo, autentici corpi estranei, gente che gioca senza impegno e senza cuore. Dire ciò non è in contraddizione con quanto tante volte ho scritto sul blog in difesa del Presidente: c'è stato un Preziosi efficace e illuminato, ora ce n'è un altro smarrito e in crisi. Cose che capitano, i cicli finiscono, succede in tutte le aziende. 
LO SCEMPIO DEL DERBY - Tutto questo ha prodotto lo scempio del derby del 18 novembre. Lo ribadisco: gara di scultorea bruttezza, una stracittadina già da Serie B per il livello qualitativo di inaudita modestia mostrato da entrambe le contendenti. Contro una Samp ridotta al lumicino dalle assenze, svuotata di contenuto tecnico, psicologicamente a disagio alla luce del fardello di sette sconfitte consecutive, il Genoa ha disputato un primo tempo da encefalogramma piatto, che poteva terminare con un punteggio talmente largo da configurare una disfatta storica. Il fatto che nella ripresa sia bastato premere modestamente sull'acceleratore per sfiorare in più di una circostanza un pareggio che, ebbene sì, non avrebbe fatto gridare allo scandalo, è una ulteriore dimostrazione della pochezza blucerchiata e suona a condanna aggiuntiva per un Genoa davvero ai minimi termini in fatto di competitività. 

                            Delneri: nessun beneficio per il Genoa dal suo arrivo in panchina

DELNERI E... PASSARELLA - Il Genoa di ieri sera non ha alcuna chance di arrampicarsi fino alla quota salvezza. Tatticamente una difesa imbarazzante negli automatismi più elementari, un centrocampo acefalo, un attacco che fa quel che può (povero Immobile, sbaglia tanto ma ci prova, tira, conclude, si danna l'anima), tanti giocatori nettamente al di sotto dei loro standard (Granqvist e Jankovic, per dirne due), e un animus pugnandi spesso inesistente, il che è la condanna peggiore per una compagine che deve lottare per non retrocedere. In tutto questo, i continui cambi di guida tecnica contano fino a un certo punto, se il materiale che viene messo a disposizione dei vari trainer è sempre meno... prezioso. Però va anche sottolineato che l'impatto di Gigi Delneri sulla classifica della squadra è stato devastante come poche altre volte è accaduto nella storia della Serie A: all'esonero di De Canio il Grifo era salvo; dopo cinque turni, e cinque ko, si ritrova malinconicamente sul fondo della graduatoria. Qualcosa di simile accadde ai tempi di Passarella al Parma, nel 2001: subentrò a Ulivieri, collezionò cinque sconfitte in cinque partite e tolse il disturbo. Mi ricorda sinistramente qualcosa... 
Non torno sui miei passi: continuo a considerare De Canio un allenatore mediocre, e non da oggi. Dopo una partenza incoraggiante, il suo Genoa era andato via via scolorando, cominciando a manifestare quelle lacune tattiche e quei problemi di identità esplosi poi in maniera deflagrante. La gara con la Roma fu gestita in maniera calcisticamente assurda, ribadiamolo. Ma è altresì innegabile che Delneri, dopo quasi un mese di permanenza sotto la Lanterna, non abbia ancora cavato un ragno dal buco, anzi, la squadra si è ulteriormente avvitata in una crisi tecnica di cui non si intravedono sbocchi. E aggrapparsi alla bella ora di gioco contro il Napoli è solo una ingenua speranza: anche il Grifo nella "De Canio version" aveva messo alle corde per un tempo e più la corazzata Juventus, ma poi ne era stato puntualmente travolto e mai più era tornato a esprimersi su tali standard... 
SQUADRA DA RIFARE - Insomma, si gioca male e si perde, si gioca bene (raramente) e si perde. E' il trend classico della retrocedenda, e sperare in un miracoloso mercato di gennaio significa crogiolarsi in  pericolose illusioni: a prescindere dal fatto che non sarà facile convincere giocatori di spessore a venire in una squadra così male in arnese, parliamoci chiaro: dopo l'Epifania, servirebbero un centrale difensivo rocciosissimo, un mucchietto di esterni alti e bassi (soprattutto a destra), un regista di quantità e qualità e un ricambio per l'attacco. Davvero tutto questo ben di Dio sarà disponibile? E davvero Preziosi avrà voglia di dar fondo a tutte le risorse economiche per rivoltare la squadra come un calzino? Ma prima di tutto ci sarà da valutare la questione panchina: se il Joker, se la squadra, se tutto l'ambiente credono in Delneri, allora si continui con fiducia totale a puntare su di lui, senza farsi influenzare dalle ultime brutture, seguendo l'esempio dell'Udinese dell'anno scorso con Guidolin, e anche, ebbene sì, quello dei dirimpettai cittadini nei confronti di Ciro Ferrara. Altrimenti, si valutino bene il non gioco, la mancanza di personalità, il regresso tecnico emersi sotto la gestione dell'ex coach juventino, e se ne traggano le conclusioni. 
E DOPO PREZIOSI? - Alla base resta però l'elemento da cui avevamo cominciato il discorso. Ossia, il crepuscolo preziosiano, che però ha precipitato tutta l'ambiente in una situazione quasi kafkiana. Cioè, è chiaro a tutti che il... regno dell'imprenditore irpino ha imboccato la parabola discendente. Eppure, l'ambiente genoano, soprattutto quello tifoso, è paralizzato dalla paura di ciò che potrebbe accadere se il joker mollasse. Perché è così ed è paradossale: al momento alternative imprenditoriali autentiche e credibili non ve ne sono, e allora non si può che continuare con questo piccolo cabotaggio, nell'attesa che la situazione societaria si sblocchi in positivo. 
Ecco dunque che Enrico Preziosi ridiventa, e non potrebbe essere altrimenti, il solo uomo chiave per uscire dallo stallo: anche se di malavoglia, si riappropri, per qualche mese, dei pieni poteri di presidente. Torni a essere presente in seno alla squadra, al campo di allenamento, prima e dopo le partite. Faccia un mercato di reale potenziamento a gennaio, metta per una volta da parte plusvalenze e discorsi simili. Poi si potrà anche retrocedere, perché in questi primi tre mesi di campionato di terreno se n'è già perso fin troppo, ma almeno si scenderà con la sensazione che esista di nuovo una società, e che abbia fatto di tutto per tentare di salvare la baracca. 

giovedì 15 novembre 2012

GLI AZZURRI DOPO ITALIA - FRANCIA: "BRAVO CHI PERDE", MA...

                                            Montolivo: sempre più convincente

"Bravo chi perde": titolò così il Guerin Sportivo nel novembre 1985, ironizzando sulla quasi unanime beatificazione critica che accolse una sconfitta della Nazionale italiana in un'amichevole con la Polonia. Gli azzurri di Bearzot giocarono piuttosto bene, a tratti dominarono, colpirono tre legni, ma il successo finale arrise alla rappresentativa di Zibì Boniek e compagni. "Conquistare sconfitte immeritate è, in fondo, il destino dei mediocri", chiosò sconsolato nel suo commento il grande Adalberto Bortolotti, a lungo prima firma del Guerino. Quella circostanza mi è tornata in mente ieri sera, assistendo all'ennesimo ko in amichevole della selezione di Prandelli. Contro la Francia la serie si è allungata a cinque capitomboli consecutivi, dopo quelli con Uruguay, Stati Uniti, Russia e Inghilterra. Statisticamente è un dato da pugno nello stomaco, ma, si dirà, nel mezzo sono arrivati un secondo posto europeo e una partenza tutto sommato buona nelle qualificazioni mondiali, e allora lagnarsi sembrerebbe fuori luogo e anche vagamente ridicolo. 
Ecco, in larga parte è vero, ma con qualche riserva, che analizzeremo più avanti. Fermo restando che la situazione evocata a proposito degli azzurri del 1985 non può essere applicata al rovescio parmense di qualche ora fa. Diverso contesto storico - calcistico, con l'Italia di oggi che ha già felicemente verificato la sua competitività agli alti livelli e la sua notevole caratura complessiva. E' una squadra, la nostra, più che altro alla ricerca di giovani e valide alternative a quei titolarissimi consacratisi nel biennio 2010 - 2012, sfociato nella bella avventura polacco - ucraina. E, da questo punto di vista, le risultanze del confronto del Tardini, al di là dell'amarezza per il risultato numerico, non possono non essere considerate positive. Sì, questa volta dire "bravo chi perde" non è fare esercizio di sarcasmo. 
CHE MONTOLIVO! - Contro i galletti si è vista a sprazzi una bella Nazionale, al di là di quelle che erano le aspettative della vigilia, assai contenute alla luce del volto sperimentale dato dal cittì alla formazione. Quando si mette in campo una squadra nuova per metà e tatticamente rivoluzionata dal centrocampo in su, non ci si può attendere continuità assoluta nella produzione di gioco, e questo spiega e giustifica l'andazzo a corrente alternata degli azzurri, vissuti fra momenti a ritmi elevatissimi e pause peraltro neanche troppo prolungate. Un undici propositivo, il nostro, ben disposto ad assumere l'iniziativa, come nella migliore tradizione prandelliana. L'anima, il fulcro dell'azione è stato un Montolivo del quale avevo già sottolineato, nel recente articolo dedicato alle prime partite di qualificazione iridata (qui), i notevoli progressi sul piano della personalità e della costante presenza nel cuore della manovra. Ebbene, ieri il milanista è parso straripante, aggressivo sui portatori di palla avversari, ispirato nel reggere le file delle trame offensive: non a caso suo è stato l'assist per il battesimo del gol di El Shaarawy.  
TRIDENTE EFFICACE - Il Faraone è stato un'altra delle note liete, anche in questo caso senza che la cosa ci sorprendesse. In generale non ha strafatto, ma è stato incisivo e decisivo nei momenti topici, come un vero campione in pectore: bella sponda per Balotelli nell'azione dell'incrocio dei pali, perentorio affondo sul passaggio gol di Montolivo chiuso con un rasoterra vincente. E poi, altre iniziative a svariare in disinvolto palleggio sul fronte d'attacco, a confermare la sua vivacità e poliedricità, nonché la capacità di trovare celermente la giusta collocazione anche in un canovaccio tattico in abbozzo come era quello dell'Italia parmense. 
Nell'improvvisato tridente, ha fatto decorosa figura anche Candreva, sempre intraprendente, sempre pronto a proporsi in avanti, per quanto non sempre sorretto dalla necessaria lucidità. E Balotelli ha confermato, sia pure in versione ridotta, quanto fatto vedere con la Danimarca, ossia una maggiore predisposizione al sacrificio e alla partecipazione alla manovra collettiva, anche se ciò, nella circostanza, è andato a scapito di una presenza più efficace nei sedici metri finali (una traversa e un colpo di testa di poco fuori sono comunque un bottino in assoluto non disprezzabile). 

                                              Florenzi: buon esordio in azzurro

VERRATTI E FLORENZI ABILI E ARRUOLATI - Tornando nella zona nevralgica, mentre c'è da registrare la serata di scarsa vena di Marchisio, meno mobile e frizzante del solito, poco propenso a regalare i suoi consueti, mortiferi inserimenti, c'era grossa attesa attorno alla prova di Verratti. Il ragazzo non ha affatto deluso, anche se non ha mostrato miracoli: nel suo bottino azzurro, tante cose buone e qualcuna meno buona. Qualche difficoltà in copertura, mentre in fase di impostazione ha sciorinato, a tratti, un gioco essenziale, fatto di tocchi semplici e rapidi ma quasi sempre azzeccati. Deve migliorare come fisicità e continuità d'azione, ma è evidente la sua propensione a prendersi comunque delle responsabilità, a non nascondersi quando la partita si accende. 
Bene, secondo noi, anche l'esordiente assoluto Florenzi, bocciato da qualche critico frettoloso:  nel "precario" secondo tempo azzurro, col centrocampo rivoluzionato da tre cambi quasi contemporanei, ha alfine trovato la sua dimensione: dinamismo, buona efficacia nelle due fasi, grande sforzo in fase di ripiegamento e qualche tentativo in assist alle soglie dell'area avversaria. Pretendere di più sarebbe stato ingeneroso: rivediamolo all'opera in un contesto di squadra più solido e definito...
BENE MAGGIO E BARZAGLI -  Poco da dire invece sulla difesa, che era il reparto meno rivoluzionato: Sirigu è un buon portiere ma non un fenomeno come Buffon, che è in grado di indirizzare l'esito delle partite con autentiche prodezze. Una volta consapevoli di questo, possiamo dire che la sua prova è stata tutto sommato priva di sbavature, e nel finale ha pure evitato, su Menez, un 3 a 1 che per la Francia sarebbe stato un premio sproporzionato (già lo è stato la vittoria, se è per questo...). Maggio scattante e pieno di iniziativa anche più del solito, pur se la misura dei passaggi non è sempre perfetta, ma la partecipazione al gioco corale è stata assidua: smussasse certi eccessi agonistici, sarebbe un terzino di spinta di assoluto valore mondiale... Dall'altra parte, Balzaretti  un po' più sulle sue, mentre al centro Barzagli, pur beffato da Valbuena in occasione della prodezza dell'1 a 1, si è confermato guardiano d'area affidabilissimo, uno che migliora con gli anni e che ha anche imparato a uscire più frequentemente palla al piede per spostare in avanti il baricentro, allorquando ne intravede lo spazio. Per Chiellini una gara onesta, da mestierante, senza infamia e senza lode, ma l'impressione è che Prandelli potesse azzardare qualche esperimento in più là dietro, dove urgono nuove alternative: un po' di minutaggio per Santon e Astori non avrebbe fatto male alla crescita del gruppo.
L'ABITUDINE ALLA SCONFITTA - Tutto ciò detto, e tornando invece per un attimo alla riflessione da cui avevamo iniziato, d'accordo sul "bravo chi perde", ma senza esagerare. Perché l'abitudine alla vittoria, o quantomeno al risultato positivo, è sempre meglio conservarla anche nei confronti senza punti in palio, a maggior ragione in quelli contro rivali storiche come la Francia. Del resto, questa Nazionale di Prandelli si è formata, ha acquisito fiducia nei propri mezzi e statura internazionale, anche attraverso importanti affermazioni in amichevole: penso al bel successo di Bari con la Spagna, poco più di un anno fa, o al pareggio in Germania a inizio 2011, o, ancora, alle affermazioni in Ucraina e in Polonia. Insomma, contano, eccome, anche questi risultati, sebbene per qualcuno rimangano partite inutili. Pensiamo anche, ad esempio, alla prima Italia di Lippi: avrebbe affrontato con lo stesso piglio vincente il Mondiale 2006 senza i trionfi (in amichevole, per l'appunto) su Olanda e Germania dei mesi precedenti? Ribadiamo dunque che a questa nostra rappresentativa troppo spesso continua a far difetto il killer instinct, la capacità di chiudere i conti o comunque di saper gestire vantaggi anche minimi. Doti che hanno le grandi squadre: per potersi definire tale, l'Italia deve ancora abbattere questi ultimi ostacoli.  

mercoledì 14 novembre 2012

VERSO SANREMO 2013: NOMI PROBABILI E POSSIBILI, IPOTESI E SOGNI


Raramente, in passato, la ridda di voci sui possibili partecipanti al Festival di Sanremo era cominciata con così largo anticipo. Di nomi ne sono stati fatti già parecchi, ma, contrariamente a quanto sostenuto da qualcuno, di certezze assolute non ve n'è alcuna, al momento. Tutt'altra cosa, ad esempio, rispetto a due anni fa, quando la presenza di Roberto Vecchioni  era già sicura settimane prima dell'ufficializzazione del cast. 
CANTAUTORATO - E dunque, cosa sta bollendo in pentola in Riviera? Ci sono alcuni nomi più gettonati di altri, questo sì: Gino Paoli e Fiorella Mannoia, ad esempio. Rappresenterebbero i quarti di nobiltà di un Festival che, nei desiderata del nuovo deus ex machina Fabio Fazio e del suo braccio destro Mauro Pagani, vorrebbe dare ampio spazio al cantautorato italiano d'élite. Sarebbe un bell'ascoltare: vedremo. Si parla dei Modà, questa volta senza Emma ma pronti a dare l'assalto al gradino più alto del podio sfuggito di un soffio nel 2011, mentre sarebbe giunta l'ora del sospirato ritorno all'Ariston di Simona Molinari, uno dei "virgulti" più interessanti e originali prodotti negli ultimi anni dal vivaio sanremese, una ragazza che ha percorso strade artistiche di non facile presa ma che è pian piano riuscita a far breccia nel cuore di una discreta fetta di pubblico. 
FINALMENTE BIONDI? - Ancora: torna in voga il nome degli Almamegretta, periodicamente accostati al Festivalone senza che mai se ne faccia alcunché: sarà l'anno giusto? Si tenta un colpo gobbo richiamando in lizza Carmen Consoli, la cui ultima partecipazione come concorrente risale proprio a uno dei due precedenti Sanremi targati Fazio, quello del 2000 (con la bella e sottovalutata "In bianco e nero"). Altro nome da urlo sarebbe quello di Mario Biondi: un altro che, nel corso degli anni, è parso più volte a un passo dalla kermesse rivierasca, dopodiché la sua candidatura, non si sa se autentica o solo auspicata,   puntualmente... si dissolveva a pochi giorni dall'ufficializzazione del cast. Ma questa parrebbe proprio essere la volta buona. 
UN PO' DI... TALENT - Lo spettro dei generi musicali proposti si allargherebbe con l'ammissione fra i partecipanti di un Big di fresco conio come Nesli. Sempre in tema di volti giovani ma già noti, le candidature di Marco Mengoni e Annalisa Scarrone dimostrano che il veto "faziano" alla partecipazione di artisti usciti dai talent show era nulla più che presunto, e in effetti il sottoscritto (ma sarà stata una disattenzione mia) non ha mai sentito uscire dalla bocca dell'anchorman ligure parole che riconducessero a un diktat del genere. Sarebbe stato, per inciso, un diktat assai poco intelligente: gli artisti vanno giudicati singolarmente, per le loro qualità e non per la loro provenienza, è una cosa di una banalità e scontatezza incredibili ma viste le voci che erano circolate... Senza contare che la rinuncia aprioristica ai ragazzi di X Factor o di Amici avrebbe rappresentato un autogol mica da ridere, sul piano del seguito popolare del Festival presso la strategica platea dei giovanissimi...

                                          Carmen Consoli: in gara a Sanremo 2013?

MALIKA E GLI ALTRI - Molti danno quasi per certa Malika Ayane: personalmente mi farebbe piacere (la considero tuttora la vincitrice morale del Sanremo 2010), ma un suo cd è da poco nei negozi e ha un tour in corso: altri due brani nuovi per febbraio e ristampa del disco? Tutto può essere, ma allora tanto valeva ritardare di qualche mese l'uscita dell'opera. Discorso che vale a maggior ragione per i Baustelle, pure citati in questo gran calderone di voci: il loro nuovo disco esce a fine gennaio, una partecipazione a Sanremo con due inediti quindici giorni dopo o giù di lì pare al momento improponibile. A meno che non si posticipi la pubblicazione dell'album, beninteso, e allora... 
Vorrebbe tornare in pista Francesco Sarcina, senza le sue Vibrazioni: non facilissimo riproporsi come Big dopo qualche anno di basso profilo commerciale (i tempi di "Dedicato a te", "Raggio di sole" e "Ovunque andrò" sono lontani), ma l'operazione sarebbe di indubbio interesse. Rispunta il nome di Francesco Renga, che  è ormai quasi un habituè del palco sanremese ma è anche la miglior voce maschile italiana su piazza, e vederlo in azione fa sempre piacere. 
Un lista degli altri nomi fatti dovrebbe partire da Al Bano e Annalisa Minetti, i primi a circolare fra gli addetti ai lavori, ma onestamente non so quale appeal possano esercitare sulla commissione artistica, né quale valore aggiunto potrebbero apportare a un Sanremo che vuole essere "diverso" dagli ultimi, magari meno commerciale e meno nazionalpopolare. Poi i Sonohra, non fortunatissimi all'ultima apparizione rivierasca ma sempre nel cuore delle teen agers, una Anna Oxa che tenterebbe l'ennesimo rilancio, Anna Tatangelo, che ben figurò con "Bastardo" nel 2011 ma che fuori dall'Ariston non riesce proprio a trovare una dimensione adeguata e vincente, esponenti della generazione cantautoriale di mezzo come Max Gazzè e Daniele Silvestri, i redivivi Dirotta su Cuba (da troppo tempo, tuttavia, lontani dalla ribalta) e il vincitore dei giovani 2012 Alessandro Casillo, che però, in questi dodici mesi, non mi pare abbia fatto molto per consolidare la sua fresca nomea di Big. 
SOGNI - Dopodiché, spazio alle ipotesi e alle speranze del tutto personali. Nomi non letti né sentiti da nessuna parte, ma che personalmente vedrei con favore sul palco della più importante rassegna canora italiana nel febbraio prossimo. Sarebbe di grande rilievo, ad esempio, un ritorno del sempre valido e amatissimo Raf dopo tempo immemore. O la ricomparsa dei campioni di vendita del primo decennio del Duemila, gli Zero Assoluto. Raphael Gualazzi, poi, ha una sorta di debito morale nei confronti del Sanremone, che lo ha lanciato in orbita nel 2011: quell'anno si impose fra i Giovani e non tornò dodici mesi dopo, ora sarebbe cosa buona e giusta ripresentarsi... 
Sempre nel 2011 assistemmo a una bella e apprezzata performance di Giusy Ferreri, che ultimamente è un po' rimasta al palo e che da Sanremo potrebbe trarre nuovo slancio. Poi, Paolo Meneguzzi, tornato di recente in pista col singolo "Fragile" e con un album che dovrebbe vedere la luce nei prossimi mesi: quale migliore occasione promozionale di un Sanremo per tornare ai vertici delle classifiche? E Alex Britti? Si deciderà prima o poi a rimettersi in gioco, questo poliedrico talento della nostra canzone leggera? Una proposta spiazzante ma di indubbio fascino e raffinatezza sarebbe poi quella di Musica nuda, ossia il duo formato da Petra Magoni (uscita dal Sanremo made in Baudo) e Ferruccio Spinetti, un progetto al di fuori dai circuiti standard ma baciato da successo trionfale nei live. 
ANNI NOVANTA - C'è inoltre lo sterminato popolo dei veterani: si badi, non mi riferisco ai vecchi draghi degli anni Sessanta e Settanta, che ormai hanno davvero fatto il loro tempo e che non vorrei davvero più vedere in Riviera, a meno che non si tratti di nomi poco o nulla considerati dalle precedenti commissioni artistiche, ad esempio gente come Riccardo Fogli o Don Backy, e non invece i soliti Fausto Leali o Al Bano. Penso invece ai veterani degli anni Novanta, quella generazione di mezzo della musica italiana che nelle ultime edizioni del Festival è stata pressoché ignorata. Mietta, ad esempio, in questo autunno 2012 ha avuto un prepotente rilancio grazie alla riuscita partecipazione alla trasmissione di Carlo Conti "Tale e quale show"; Massimo Di Cataldo continua a comporre e morde il freno, Alexia è un volto ancora fresco e brillante, per non parlare di personaggi come Aleandro Baldi e Paolo Vallesi, belle voci e grande sensibilità artistica: lo so, qui si sfiderebbe l'impopolarità, nel senso che questi nomi sono forse, oggi, un po' lontani dai gusti del grandissimo pubblico. Ma se un Festival vuole essere "diverso", credo che anche sfidare in piccola misura le mode ultracommerciali del momento potrebbe essere un modo per differenziarsi dal passato recente e meno recente. Solo sogni? 

giovedì 8 novembre 2012

RETROSPETTIVA AZZURRA: I PRIMI PASSI VERSO BRASILE 2014

                                           El Shaarawy: il futuro azzurro è suo

La mia prolungata assenza dal blog, di cui ho fornito spiegazioni qualche post più sotto, mi ha impedito di commentare le prime quattro uscite della Nazionale azzurra nelle qualificazioni al Mondiale brasiliano. Poiché la rappresentativa maggiore del nostro calcio è, da sempre, una delle tematiche principali di "Note d'azzurro", torno ora sull'argomento, con qualche riflessione a freddo e... scusandomi per il ritardo. 
FALSA PARTENZA, POI RISCATTO - Alle corte: per due partite e mezza, abbiamo visto una Nazionale francamente impresentabile, talmente brutta da insinuare il sospetto che il secondo posto all'Europeo fosse stato un illusorio fuoco di paglia. Chi aveva seguito il gruppo di Prandelli nel biennio precedente sapeva che non poteva essere così, sapeva che quell'insperata medaglia d'argento era stata il giusto premio per una compagine cresciuta e maturata cercando sempre di fare gioco, di aggredire con intelligenza, di prendere l'iniziativa. Una squadra con un progetto tattico ben definito, con una personalità via via emersa sempre più nitidamente, con una dotazione di classe pura non disprezzabile, che non poteva essersi dissolta nel giro di pochi mesi. E in effetti, a partire dal secondo tempo della gara con l'Armenia, De Rossi e compagni si sono riavvicinati ai loro abituali standard di rendimento. Pur senza miracol mostrare, si è rivista un'Italia più equilibrata, razionale, produttiva, in grado di far valere la legge del più forte.
L'ultima "azzurra", quella trionfatrice sulla Danimarca in un Meazza desolatamente mezzo vuoto (che bello quando anche le amichevoli facevano registrare il tutto esaurito o quasi: poi dicono che il calcio non sia peggiorato...) è stata la migliore, più per solidità del complesso e carattere che per qualità di manovra, in particolare con un Balotelli mai così bene inserito nel collettivo, disposto al sacrificio a tutto campo ben al di là delle proprie mansioni specifiche. Del resto, le grandi squadre, e questa di Prandelli ne ha le stimmate, devono avere nel Dna anche la capacità di imporsi giocando male, o comunque senza sciorinare football di finissima caratura, e allora... 
TOCCATO IL FONDO CON MALTA - Insomma, certi picchi spettacolari raggiunti a Euro 2012 permangono lontani, ma di certo con armeni e danesi un bel passo avanti è stato compiuto, rispetto alla pena provata osservando le prestazioni contro Bulgaria e Malta: fu, quella, un'Italia "ancien régime", l'Italia vista tante, troppe volte in passato, la squadra timorosa e sparagnina che, una volta andata in vantaggio, viene improvvisamente colta da "paura di vincere" e, invece di affondare i colpi, lascia progressivamente campo all'avversario, cercando di gestire il risultato senza averne (ancora) la capacità. Una défaillance pagata a caro prezzo coi bulgari (due preziosissimi punti persi sulla strada per il Brasile), mentre contro i maltesi la vittoria è stata salvata per oggettiva modestia dell'avversario, domato però definitivamente solo nel finale e dopo avergli concesso inusitate opportunità di andare alla conclusione. Insomma, qualcosa di peggiore della consueta idiosincrasia della nostra Selezione alle partite facili. 
EL SHAARAWY SU, GIOVINCO GIU' - Fra Nazionale e stagione di club, sono nel frattempo giunte a Prandelli indicazioni di una certa attendibilità, riguardanti l'effettivo spessore internazionale di taluni elementi da tempo sotto la lente di ingrandimento. Due nomi su tutti, uno in positivo e l'altro in negativo. Sugli altari El Shaarawy, senza alcun dubbio protagonista assoluto di questo primo scorcio di annata. Era dai tempi dell'esordio di Balotelli con l'Inter che non si assisteva a un impatto così devastante di un giovane italiano col calcio di altissimo livello. Stephan, coi suoi gol e con la sua classe, sta tenendo in piedi praticamente da solo un Milan molto male in arnese; e in azzurro, a Erevan, poco c'è mancato che trovasse la sua prima segnatura in Nazionale. Chiaro che il ragazzo non potrà restare a lungo fuori dalla formazione titolare: la concorrenza in prima linea è quantomai agguerrita, ma l'ex Genoa ha caratteristiche uniche (opportunismo, rapidità di movimenti e di esecuzione, fantasia, eclettismo) che potrebbero presto renderlo indispensabile.
Pollice verso invece per Giovinco. Sia con l'Italia, sia in maglia Juve, la "formica atomica" in questi primi mesi  di attività ha purtroppo confermato i dubbi emersi negli anni scorsi: è giocatore che immancabilmente si smarrisce nelle grandi sfide al di fuori dei confini nazionali, palesando scarsa personalità e incisività pressoché nulla; rimane invece un'arma spesso micidiale negli impegni... sul suolo patrio, ma al cittì serve ben altro...

                                              Balotelli: più maturo e altruista

CENTROCAMPO: FLORENZI PER IL FUTURO? - Il centrocampo è ormai cristallizzato sul poderoso asse De Rossi - Pirlo - Marchisio - Montolivo, con quest'ultimo in crescendo vistoso, più continuo nella sua azione di tessitura e sempre più deciso e convinto in zona tiro. Verratti, in leggero calo in Francia dopo un avvio al fulmicotone, rimane comunque una sicurezza per il futuro, mentre la nostra Serie A sta portando prepotentemente alla ribalta Florenzi, già diventato un perno della zona nevralgica romanista:  qualità, quantità, intelligenza tattica, corsa e gol.
DESTRO E INSIGNE IN STAND BY - Contro Malta, Destro ha trovato il suo (bel) primo gol in Nazionale, poi ha patito oltremisura la concorrenza in giallorosso di Osvaldo (efficacissimo anche con la maglia tricolore) e di Lamela, in gran forma, ma le qualità, sia pur da smussare, sono emerse e di certo il ragazzo è destinato a restare nel giro. Dovrà fare ancora un po' di anticamera Insigne, che nel Napoli, quando viene chiamato in causa, non si comporta affatto male (molti alti e qualche comprensibile basso), ma che viene giudicato dalla critica con eccessiva severità, quasi dovesse essere questo talentuoso ma imberbe ragazzino la panacea di tutti i mali partenopei... Il futuro farà giustizia dell'impazienza e dell'incontentabilità di certe "prime firme".
RIFIORISCONO CRISCITO E RANOCCHIA, CHIELLINI INVOLUTO - In difesa si sono rivisti Criscito e Ranocchia. Mimmo, in Armenia, ha fornito una delle sue prove più convincenti in azzurro, per efficacia nelle due fasi: la sua assurda esclusione dalla spedizione europea, mai giustificata in maniera esauriente dallo staff azzurro, grida e continuerà a gridare vendetta per anni, ma l'ex laterale del Genoa, pur privato di una così grande occasione professionale, non può non essere contento di essersi riappropriato di un posto che, per talento e rendimento, gli spetta di diritto da anni. Tramontata invece, come sospettavamo, la cometa Peluso, buon giocatore ma non più di primo pelo e non dello spessore tecnico necessario per reggere le luci della ribalta mondiale (gli resta comunque come ricordo azzurro il fortunoso gol ai maltesi).
Ranocchia, come auspicavamo, è riapparso in questa stagione letteralmente rigenerato, mentre nella prima metà del 2012 per molti era scaduto a livello di brocco, o poco più: la dimostrazione di come l'andazzo negativo di una squadra possa condizionare pesantemente anche il rendimento dei migliori, ma anche l'ennesima conferma della totale incapacità dell'italico calcio, in tutte le sue componenti,  di valorizzare e aspettare i giovani, che vengono messi alla berlina ai primi errori e ai primi cali di forma. Nel frattempo si attende il ritorno in pista di Ogbonna, perché l'unica sicurezza autentica nel "pacchetto centrale" della terza linea pare essere Barzagli: Chiellini è da mesi in fase involutiva e anche all'Europeo si era espresso nettamente al di sotto delle sue possibilità, Bonucci non si è ancora riappropriato delle misure di difensore completo sciorinate  in Polonia  e Ucraina, e alcune amnesie contro avversari non certo trascendentali hanno lasciato non poche inquietudini per l'avvenire. 

martedì 6 novembre 2012

LE MIE RECENSIONI: 007- SKYFALL



Bentornato, 007. L'ultimo James Bond, quello di "Skyfall", in questi giorni nelle sale, ritrova in parte la sua originaria identità, quella annacquata dalla "nouvelle vague" dei due precedenti film, i primi col volto di pietra di Daniel Craig. Soprattutto in "Quantum of solace" le stimmate classiche della saga, le modalità narrative, la caratterizzazione dei personaggi consolidatesi nei decenni erano state quasi completamente dissolte da scelte registiche e di scrittura che volevano forse essere innovative, e invece avevano fatto dell'ennesima avventura dell'agente segreto inglese niente più che un contorto action movie, con un eccesso di scene caotiche ed effetti speciali che ci si può aspettare di trovare in qualsiasi produzione americana del genere, non certo in una "isola cinematografica" dalle caratteristiche storiche assolutamente uniche e peculiari come quella di Bond, M, Q e compagnia impavida. 
RITORNO AL CLASSICO - Certo, ripetere all'infinito lo stesso identico canovaccio può essere deleterio, e in tal senso era stata apprezzabile la scelta, compiuta col primo film di quest'ultima trilogia - Craig, "Casino Royale", di smitizzare alcuni tormentoni dei precedenti 007 (resta memorabile lo scambio di battute fra Bond e il barman del Casinò: "Come lo vuole il suo Martini, agitato o mescolato?"; "Ma che vuole che me ne importi!"). In "Quantum", come detto, la filosofia delle origini era stata invece essenzialmente tradita, mentre viene parzialmente rispolverata, sia pure in chiave moderna, in "Skyfall", diretto da Sam Mendes. 
Si ritorna a una trama più lineare, tradizionale, diciamo pure classicheggiante. Facile da seguire, laddove, in parte già a partire dal periodo Brosnan, spesso ci si trovava in difficoltà a comprendere i vari passaggi di un filo narrativo troppo spesso cervellotico e arzigogolato, anche perché non adeguatamente spiegato nel corso dei film. Il glaciale Craig trova in questa produzione una caratterizzazione finalmente più umana: e questo è forse uno degli elementi più rivoluzionari di questo episodio un po' più convenzionale. 
BOND UMANO E FRAGILE - Sì, perché, forse per la prima volta, si vede un Bond alle prese con le sue debolezze, la sua fragilità fisica e psicologica; un Bond che ritrova i fantasmi del suo passato, dei genitori persi in giovane età; un Bond che, profondamente offeso e ferito nell'orgoglio per la scelta del suo capo, la sempre inappuntabile e rigidissima Judi Dench, di metterne a repentaglio la vita nella classica "missione a inseguimento" di inizio film, si finge morto e si dà alla macchia, costruendosi una nuova vita invero un po' triste e grigia, con qualche superalcolico di troppo, lontano, anzi lontanissimo dalla Gran Bretagna, ove però torna  quando scopre che l'organizzazione di cui fa parte, l'MI6, è minacciata da un folle genio dell'informatica. E quando torna, però, scopre di aver perso lo smalto da infallibile agente "con licenza di uccidere": vedrete tremare la mano di James una volta impugnata la pistola, una primizia assoluta, e lo vedrete col fiatone, incapace di portare a termine una sequela di esercizi fisici che, per lui, sarebbero dovuti essere acqua fresca...
SMITIZZAZIONI ED EPICI RIPESCAGGI - Uno 007 fra storia e contemporaneità, dicevamo: perché, come in "Casino Royale", prosegue la smitizzazione di certi elementi fissi del passato: il nuovo Q dice a James di non aspettarsi da lui la dotazione di  armi bizzarre e sofisticate che gli fornivano i suoi predecessori, questa volta ci sono solo una pistola un po' particolare e una trasmittente satellitare (sarà un riferimento alla crisi economica globale?); non c'è una autentica "Bond girl" dominante, una di quelle che compaiono all'improvviso e che diventano essenziali fino alla fine del film: sembrerebbe poter ambire a questo ruolo, ad un certo punto, la fatalona ed enigmatica Bérénice Marlohe, invece la sua sarà una presenza effimera; c'è però la presenza tutto sommato discreta di Naomie Harris, giovane collega del protagonista, la cui identità coglierà di certo gli spettatori di sorpresa... 
Ma la storia, anzi, la mitologia della saga si riappropria prepotentemente della scena e reclama i suoi diritti a tornare in primo piano con un ripescaggio da lacrimoni, l'Aston Martin d'epoca che è una delle icone della serie. E il "classicismo" trionfa nel duello finale, comunque non privo di colpi di scena del tutto imprevisti, in cui alle dotazioni faraoniche del nemico, un crudele e istrionico Javier Bardem in una delle interpretazioni più convincenti della sua carriera, il protagonista contrappone una... frugalità assoluta, armi e difese che più tradizionali non potrebbero essere. 
FRA PASSATO E FUTURO - Per le modalità in cui avviene, per l'esito e per il teatro dello scontro, ossia Skyfall, il luogo dell'infanzia di Bond, la battaglia conclusiva è densa di significati: riscoperta delle radici, resa dei conti col passato per ridare un significato all'avvenire, apertura di una nuova era per la saga e per il suo primattore. Insomma, in estrema sintesi, uno 007 che si riconcilia (e ci riconcilia) con la sua storia dopo aver troppo "flirtato" con una deteriore ultramodernità, un film più pacato e persino introspettivo che però non rinuncia a strizzare l'occhio al futuro, un futuro da guardare con la tranquillità di chi ha alle spalle un importante bagaglio cinematografico da continuare a valorizzare, e senza l'ansia di doversi per forza rinnovare fino a snaturarsi. 

QUALCHE SPIEGAZIONE AI LETTORI

Ho ricominciato a scrivere l'altroieri, con due post a sfondo calcistico. Credo che qualcuno abbia notato la mia prolungata assenza dal blog, un mese e mezzo di silenzio non previsto e non voluto. Devo una spiegazione, che sarà forzatamente sintetica perché ancora non posso essere preciso e dettagliato. L'intenzione era quella di limitare al massimo, su "Note d'azzurro", gli interventi di natura strettamente personale, ma in questo caso è d'obbligo. Il fatto è che la mia salute ci si è messa di mezzo: problemi non da poco, che in queste settimane mi hanno portato a girovagare fra studi medici e laboratori di analisi, fra day hospital, visite varie, Tac e prelievi sanguigni in quantità. E anche nella settimana appena iniziata gli impegni di tal genere non mancheranno: sono in fase diagnostica per alcuni linfonodi ingrossati, e l'ultimo passaggio ci sarà venerdì, con una biopsia che dovrò fare in anestesia generale e quindi in regime di ricovero, anche se breve. 
Questo è ciò che posso dirvi al momento: i dubbi e i sospetti non mancano, ma sono pronto ad affrontare qualsiasi evenienza, nella consapevolezza che, se si sta male, bisogna curarsi, e non importa quanto lunghe debbano essere queste cure, perché la vita è un dono troppo bello per essere buttato via senza combattere. 
Comunque tornerò a parlarne quando io stesso saprò qualcosa di più preciso. Spero di dare buone notizie ma, mi ripeto, non posso escluderne di meno buone. In ogni caso cercherò di essere il più possibile presente da queste parti, più di quanto lo sia stato nelle ultime settimane, ma, sapete, non è facile, da sano che si era, trovarsi all'improvviso catapultati nel limbo dei "malati che non si sa cosa hanno". Soprattutto i primi giorni, dopo i primi risultati di esami che mostravano anomalie, ho passato momenti molto brutti. Non per il mio stato di salute fisico, che al momento rimane più che discreto a parte qualche disturbo, ma per l'angoscia che mi divorava e che mi ha fatto trascorrere più di una notte insonne. Poi la fase peggiore è passata, ma rimane l'ansia di sapere cosa mi aspetterà in futuro. 
Mi è dispiaciuto per il blog: nulla di esaltante, ma lavorando, scrivendo, commentando altrove, facendomi pubblicità ero riuscito a creare uno zoccolo duro di visitatori abbastanza costanti. La gente passava, da queste parti; e in queste settimane è in parte continuata a passare, ma non mi sorprenderei se, nel frattempo, in molti si fossero persi per strada, stufi di venire qui ogni giorno e di non trovare nulla di nuovo. Li capisco e mi spiace, è stato per me l'ennesimo, piccolo tassello di sfortuna di un 2012 scalognato per tanti altri versi: ma non potevo fare altrimenti, non avevo proprio lo spirito per sedermi davanti al pc, aprire "Note d'azzurro" e mettermi a scrivere, anche se spunti di riflessione da riversare in questo spazio ne avrei avuti eccome. Questo è quanto: ora, compatibilmente con tutto il resto, si riprende. Abbiate pazienza tutti e continuate a venirmi a trovare, se lo volete. 

domenica 4 novembre 2012

CALCIO GENOVESE: SPROFONDO ROSSO, GENOA E SAMP IN CRISI NERA

Gigi Delneri, nuovo trainer del Genoa

Il calcio genovese sprofonda. I numeri raramente mentono, e i numeri dicono che parlare di crisi è perfino riduttivo: sei sconfitte consecutive per la Sampdoria, quattro per il Genoa. Andando a ritroso, scavando nella memoria, non rammento una così devastante contemporaneità di risultati fallimentari collezionati dalle due squadre della ex Superba. Poi, chiaro, dietro la discesa a precipizio di rossoblù e blucerchiati ci sono situazioni e cause diverse, che cercherò di analizzare in maniera sintetica. 
GENOA - I nodi stanno venendo impietosamente al pettine. I nodi di una gestione tecnica lacunosa quando non fallimentare, di un "regno Preziosi" che sembra puntare decisamente la prua verso un mesto capolinea. Mi duole dirlo, perché ho sempre cercato di mantenere una posizione equilibrata nella guerra che da mesi devasta la tifoseria genoana, quella fra "preziosiani" e "antipreziosiani". I meriti del Joker li ho elencati più di una volta, in altri post dedicati in passato alle alterne vicende del Grifone, e persino la chiusura dell'ultimo mercato, con gli arrivi in extremis di Vargas e Borriello, uniti a due buoni prospetti come Bertolacci e soprattutto Immobile, mi aveva illuso che ci fossero i mezzi per conseguire, quantomeno, una salvezza più tranquilla rispetto a quella del maggio scorso. 
Le illusioni sono ben presto cadute: dopo la splendida e sfortunata partita contro la Juventus (dominata per sessanta minuti e poi incredibilmente persa), c'era in giro un pernicioso entusiasmo: si gioca bene, si diceva, le occasioni sgorgano in quantità, bisogna solo continuare così e i risultati di certo arriveranno. Ahimè, è un ragionamento che ho sentito fare tante, troppe volte in passato, applicato a squadre che praticavano un gioco di buona qualità, sprecavano palle gol e poi perdevano. In tutti quei casi, l'ultimo passo, quello verso la concretizzazione del buon lavoro fatto, non veniva mai compiuto: anzi, più spesso capitava di assistere a un involuzione progressiva. Prima, bel gioco e niente punti; dopo, niente più bel gioco e, in quanto a punti, sempre zero assoluto.
Non mi ha dunque affatto sorpreso che il medesimo percorso lo abbia compiuto questo scalcagnato Genoa 2012/13: il pomeriggio dell'1-3 coi bianconeri è stato solo l'eccezione alla regola di una squadra senza un'identità tattica precisa, senza un'anima che la portasse a serrare le fila, a stringere i denti, a gettare il cuore oltre l'ostacolo nei momenti di difficoltà, senza un gioco plausibile che non fosse il puntare tutto sui gol e sulla capacità di far reparto da solo dell'unico elemento di statura tecnica superiore della compagnia, ossia Borriello. 
Venuto a mancare quest'ultimo, il Genoa si è sciolto come neve al sole. Tutto è iniziato col ko con la Roma: tutti hanno capito come vanno affrontati i giallorossi di Zeman quest'anno, e infatti tutti o quasi stan facendo punti contro di loro. Non il Grifo, ovviamente, che trovato un inatteso doppio vantaggio ha lasciato campo libero a una compagine che si esalta nell'andare all'assalto di difese oltretutto fragili e mal protette. Già, perché il Genoa dell'anno scorso aveva ballato soprattutto in retroguardia, e la retroguardia è stata potenziata col solo Canini, peraltro fin qui senza infamia e senza lode, mentre per il centrocampo si è preferito puntare su stranieri la cui affidabilità a certi livelli permane tutta da dimostrare (Tozser e Anselmo in primis, ma che dire del leggerissimo, quasi inconsistente Merkel, sul quale pure si appuntavano tante speranze?). 
Così, il modesto De Canio è stato giustamente allontanato (dopo l'esonero del 2004: caro Prez, errare è umano, perseverare è diabolico...), dopodiché il Genoa ha stabilito un nuovo record: sì, perché sono veramente poche le squadre che non traggono almeno un minimo di giovamento dal cambio di panchina. E invece, voilà, arriva Delneri e, con lui, arrivano tre sconfitte di fila. Senza colpo ferire, nel senso che il Genoa non colpisce e non affonda, giochicchia improvvisando alla ricerca dello zero a zero e, inevitabilmente, finisce col beccare gol anche da squadre abbordabilissime (il Milan sull'orlo di una crisi di nervi di una settimana fa e il mediocrissimo ma pugnace Siena targato Cosmi). 
Certo, ha avuto poco tempo, il quotato mister ex centrocampista di Udinese e Foggia, per plasmare il gruppo a sua immagine e somiglianza, ma è altresì innegabile che in questi primi dieci giorni a Pegli abbia capito poco o nulla. O forse ha capito sin troppo, cioè che il Genoa affidatogli è squadra costruita senza alcuna logica tecnica e che, mancando per infortunio i pochi elementi di spessore, è votata al massacro perché svuotata di personalità, affidata a veterani sfiatati, stranieri modesti e giovani immaturi (Bertolacci e Immobile sono anche bravi, ma non possono crescere e maturare adeguatamente in un contesto di tale povertà qualitativa), senza gente che faccia da collante nello spogliatoio e che motivi il gruppo: dei rossoblù storici è rimasto il solo Marcolino Rossi, peraltro da mesi ai box per infortunio. E anche su questo punto, ossia su questa benedetta infermeria rossoblù costantemente piena e sempre per periodi di tempo eccezionalmente lunghi, qualcuno dovrà prima o poi rispondere, ma l'efficienza assoluta dello staff sanitario sembra un dogma inattaccabile, e allora andiamo avanti così, ma questa squadra deve sperare di arrivare al mercato di gennaio senza aver compiuto danni irreparabili. E poi, questo mercato di gennaio, sarà davvero la panacea di tutti i mali? E bisogna sempre arrivare a gennaio per raddrizzare situazioni che si potrebbero aggiustare già in estate con un minimo di accortezza operativa in più? 

                                           L'attaccante blucerchiato Eder

SAMPDORIA - Se la situazione del Genoa è sportivamente drammatica, quella della Samp, mi si consenta, è... tragicomica. Fin da quest'estate le grancasse mediatiche cittadine (soprattutto due, una cartacea e una televisiva) hanno fatto a gara nel magnificare le doti di una compagine destinata, a parer loro, a recitare la parte della mina vagante, fors'anche con qualche piccola ambizione di medio - alta classifica. E quando sono arrivate le tre vittorie nelle prime tre giornate, apriti cielo: qualche buontempone parlava già di "Samp terza forza del torneo". Ohibò: sfuggiva loro che la squadra era modellata sull'ossatura arrivata sesta in Serie B e arrampicatasi fino ai playoff, e poi alla promozione, con molta fortuna e col pragmatismo di un trainer, Iachini, messo poi alla porta con ben poca riconoscenza per inseguire chimere oggettivamente irraggiungibili (Benitez, suvvia...). Dimenticavano che certi acquisti (De Silvestri, Maresca) erano delle incognite per più di un motivo; dimenticavano che Ferrara, in Serie A, non è che si fosse coperto di gloria nelle sue precedenti esperienze. 
Così, quando sono arrivati i primi rovesci, la grancassa mediatica non ha alzato bandiera bianca, e ha continuato a nascondere la polvere sotto il tappeto puntando l'attenzione su veri o presunti torti arbitrali quali unici responsabili, o quasi, del trend negativo. Torti che in alcuni casi ci sono stati, ma non più pesanti di quelli di cui sono state vittime altre squadre (Catania, avete presente?) e di certo non tali da giustificare l'odierna "panolada". Negare l'evidenza della propria pochezza tecnica e di gioco, emersa in maniera lampante soprattutto contro Cagliari e Atalanta, non può portare che guai, e infatti ecco i blucerchiati mettere a segno una sequenza da record: sei sconfitte consecutive non saranno una primizia assoluta in Serie A, ma è sicuramente un "filotto" del tutto degno di nota. 
La Samp, come il Genoa, è squadra da bassifondi, con pochi picchi qualitativi (Gastaldello, Maresca, Obiang, Poli e in parte Maxi Lopez, però troppo discontinuo e nervoso), una marea di incognite e tanti elementi da piccolo cabotaggio. Forse un po' più equilibrata dei rossoblù, grazie a una guida societaria più lineare, ma in ogni caso compagine sopravvalutata, che dovrà fare un bel bagno di umiltà senza arrampicarsi sugli specchi di giustificazioni che alla lunga non reggono. 

L'INTER DI TORINO HA SALVATO IL CALCIO ITALIANO. QUANTO DURERA'?

                                                       Esultanza interista

Vincendo a Torino, l'Inter non ha solo salvato la lotta scudetto da una... morte precoce. No, nell'impresa nerazzurra in casa Juventus c'è stato di più, molto di più: le stilettate di Milito e Palacio hanno salvato la faccia, forse addirittura la vita, di tutto il movimento calcistico italiano. La sensazione è che, purtroppo, si sia trattato di un salvataggio momentaneo, perché i guasti sono troppo profondi in ogni ganglio vitale del sistema per essere aggiustati in una sola sera, ma visto l'andazzo recente non è il caso di far troppo gli schizzinosi (o choosy, come ama dire un nostro non irresistibile ministro dalla lacrima facile). 
CREDIBILITA' - Onestamente, a sette giorni di distanza dallo scandalo di Catania, uno dei punti più bassi toccati dal calcio tricolore in oltre cento anni di storia (roba che "er go' de Turone" del 1981 scade a semplice episodio da moviolone per tv private), ho tremato al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere se anche il match scudetto, lo scontro più atteso dell'anno, la partita che avrebbe dovuto lanciare definitivamente la Juve verso il titolo e verso il record di imbattibilità, fosse stato deciso dall'ennesimo, clamoroso, solare errore arbitrale pro bianconeri (il fuorigioco di Asamoah). Intendiamoci, non che mi aspettassi chissà che: gesti di protesta clamorosi degli sconfitti, squadra ritirata dal campo, azioni legali. Nulla di tutto ciò, perché il calcio italiano, questo triste calcio italiano, è abituato ad andare avanti nascondendo sotto il tappeto tutta la sua sporcizia, metabolizzando vicende che in un consesso civile non dovrebbero mai passare in cavalleria. E però, di certo, il contraccolpo sul piano della credibilità interna e internazionale sarebbe stato enorme, qualcosa di molto simile a un colpo di grazia definitivo per le pallide ambizioni di rinascita del pallone tricolore, già preso ampiamente a pesci in faccia nelle competizioni europee per club e sempre più a disagio in quel ranking Uefa che un tempo non lontano ci vide dominatori. 
IN FUGA DAGLI STADI - Sono convinto del fatto che, dopo l'orrore del Massimino di una settimana fa, molti tifosi abbiano deciso di non mettere più piede in uno stadio. Non li biasimo: continuare a seguire con passione uno sport in cui la legge non è uguale per tutti e in cui, anzi, c'è sempre qualcuno più uguale degli altri (oggi i bianconeri, ieri altre grandi, domani chissà, non è una questione di società ma di modus operandi generale), è qualcosa che rasenta l'ottusità o, nella migliore delle ipotesi, il sadomasochismo. Ormai il velo sulle vergogne del nostro football è stato ampiamente sollevato da anni di malgoverno, di scandali, di gestione fallimentare sotto tutti i punti di vista (tecnico, finanziario, organizzativo): la favoletta che ci raccontavano fin da piccoli, quella che "i torti e i favori arbitrali a fine anno si compensano per tutti", e che qualche buontempone irrispettoso del buon senso comune continua a propinarci, oramai non se la beve più nessuno. 
Ieri sera, però, si è rischiato il corto circuito definitivo. Solo che, per una volta, Eupalla, la Dea del calcio partorita dalla penna di Gianni Brera, ha deciso di entrare in azione per salvare il salvabile, restituendo un minimo di attendibilità a una vicenda agonistica altrimenti destinata a precipitare nella finzione stile wrestling e nel caos, fra tifosi indignati, società sull'aventino, arbitri (giustamente) nell'occhio del ciclone. Perché questa volta, boutade del tipo "è vero, siamo andati in vantaggio con un gol irregolare, ma alla fine avremmo vinto lo stesso perché giochiamo meglio e siamo in più forti", i veri amanti del calcio italiano non le avrebbero accettate. Per tutto questo, benedetta sia stata la vittoria dell'Inter, al di là del peso che questa potrà avere nell'assegnazione del titolo a maggio: rimane ancora qualcosa in cui credere, a cui aggrapparsi per noi poveri fessi che ancora dedichiamo qualche ora del nostro tempo a questo sport in stato comatoso. 
ESISTE UN PROBLEMA ARBITRI ITALIANI - Cionondimeno, le questioni rimangono tutte sul tappeto: quest'estate, dopo un altro capitolo scandaloso, la Supercoppa di Pechino fra Juve e Napoli decisa dall'entrata in scena in pompa magna del direttore di gara, avevo cercato di fornire un'interpretazione della questione un po' fuori dal coro, concentrando l'attenzione non già sui bianconeri favoriti o sulla premiazione disertata dai partenopei, quanto sull'impreparazione e le manie di protagonismo di tante, troppe giacchette nere italiche. Come si è visto in questa settimana devastante per la credibilità della categoria dei fischietti, la tematica rimane più che mai all'ordine del giorno: mai come in questi ultimi tempi gli arbitri hanno assunto un'incidenza così profonda, spesso a sproposito, nel determinare l'esito definitivo delle contese. 
TRASPARENZA - Ecco, a tutto ciò si dovrebbe dire basta: pensionando chi si è dimostrato non all'altezza e ricorrendo massicciamente, come si fa in altre discipline, alla tecnologia. E magari tentando un ripescaggio delle designazioni per sorteggio. Una tale operazione avrebbe il sapore della trasparenza, e solo la trasparenza (unita ovviamente ad adeguate competenza e preparazione) può salvare il nostro calcio, perché se si insinua nel tifoso il sospetto che non si combatte ad armi pari, beh, è il principio della fine. 
Il calcio italiano è però vittima di un immobilismo che si potrebbe risolvere solo azzerando i vertici della federazione e commissariandola. Ma non mi pare sia aria e allora continuiamo così, navigando a vista, nella speranza che ogni tanto compaia un'Inter capace di essere più forte delle ingiustizie e di ripulire parzialmente e temporaneamente l'immagine compromessa del nostro sgangherato pallone, che sarà sempre meno competitivo e destinato a esibire poveri spettacoli davanti a spalti sempre più deserti, se chi lo governa continuerà a non vedere lo sfascio in cui lo sta precipitando.