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martedì 26 luglio 2016

COCA-COLA SUMMER FESTIVAL 2016: VINCE KUNGS, SCELTA INFELICE. LE "CANZONI DELL'ESTATE" SONO ALTRE...



"This girl" di Kungs è la canzone dell'estate 2016? Non scherziamo... Con tutto il rispetto per il giovane deejay francese, e tenendo sempre presente il concetto che, in tema di musica leggera, è soprattutto questione di gusti, credo che la giuria del Coca Cola Summer Festival non abbia saputo leggere con efficacia le reali tendenze della stagione canora, né in chiave presente né in chiave futura, cioè in riferimento all'eredità "canzonettistica" che questi mesi lasceranno, perché mi vien difficile credere che il brano giunto primo al traguardo rientrerà nel gruppetto di quei prodotti discografici che, anche se non diventeranno evergreen, si faranno comunque ricordare di qui a qualche anno. 
VERDETTI BIZZARRI - Certo, va detto che la manifestazione targata Canale 5 - RTL 102,5 sta cominciando ad abituarci a questi verdetti bislacchi: se dodici mesi fa il trionfo di Alvaro Soler con "El mismo sol" non aveva prestato il fianco a particolari critiche, nel 2013 c'era stata l'inopinata affermazione di Cris Cab con "Liar liar", pezzo che non è decisamente passato alla storia delle hit canicolari. Un peccato, perché l'albo d'oro ha un peso anche per un evento giovane come questo, non ancora fortemente radicato ma che, comunque, in quattro edizioni ha già saputo guadagnarsi una discreta credibilità. E avere nomi forti nell'albo d'oro accresce il prestigio del festival, a maggior ragione se di nomi forti meritevoli del massimo alloro ce ne sono in abbondanza, nel cast. 
IL FENOMENO SOLER - Il citato Soler, per dire, era in gara anche quest'anno, e con "Sofia" sta facendo da settimane la voce grossa nelle classifiche di vendita e di gradimento: un suo bis nella kermesse romana non avrebbe certo destato scandalo, sottolineando anzi la notevole... continuità di rendimento di un artista che può oggi essere considerato come il più efficace "fabbricante" di tormentoni da spiaggia, roba da fare invidia a certi fin troppo rimpianti cantanti degli anni Sessanta e Ottanta, le età dell'oro dei brani leggeri leggeri da fischiettare sotto l'ombrellone. 
BUONA EDIZIONE - Già, i tormentoni. E' soprattutto questo ciò che un semplice appassionato chiede a rassegne come il Summer Festival: presentare un pacchetto di proposte ad alta digeribilità, easy listening, facili da mandare a memoria e da cantare, che possano far da colonna sonora ai mesi estivi. Anche questa volta l'evento condotto dal trio Alessia Marcuzzi - Rudy Zerbi - Angelo Baiguini ha tutto sommato saputo rispondere a tale esigenza, confermandosi buon erede del Festivalbar. E l'industria del disco sembra seguire sapientemente l'onda di questo ritrovato gusto per la canzone vacanziera, consolidando un trend positivo già emerso nettamente da un paio d'anni. 
ECCO I TORMENTONI - L'estate 2016, dunque, resterà nella memoria di chi ama la musica leggera come l'estate di "Sofia", di "Vorrei ma non posto" del duo Fedez - J Ax, di "Vivere a colori" di un'Alessandra Amoroso mai così ispirata, di un Nek che in "Uno di questi giorni" prosegue saggiamente nel solco del fragoroso rilancio avuto a Sanremo 2015, pur attenuando un po' i toni da discoteca; e ancora, di Emma con la gradevole ed energica  "Il paradiso non esiste", di un Max Gazzè ("Ti sembra normale") dallo stile immutabile eppur capace di non annoiare mai, di un Francesco Renga che azzarda qualche nuova sonorità in "Il bene", e di Elisa con l'allegrotta e trascinante "Love me forever". Tutti brani che al Summer Festival, peraltro, han fatto solo passerella.
LA DANCE DI ANNALISA E ARISA - Fra gli artisti in gara, a parte Soler tanti italiani avrebbero meritato la medaglia d'oro. Particolarmente quotati erano i The Kolors in versione melodica con "Me minus you", e un'Annalisa sempre più poliedrica (i maligni direbbero, piuttosto, ancora incerta sulla strada da intraprendere definitivamente): dopo il classicheggiante "Diluvio universale" sanremese, ecco la dance spinta di "Se avessi un cuore", contemporanea e di notevole impatto. A proposito di dance, ha... saltato il fosso anche Arisa: "Una notte ancora", che ha persino vaghe reminiscenze di certo sound anni Novanta, sembra funzionare, e oltretutto propone della brava Rosalba anche un'immagine fortemente sensuale che finora si era solo intravista, ma che non sembra assolutamente stonare addosso alla cantante di "La notte" e "Controvento". 
GIOVANI-BIG E BIG-GIOVANI... - Le proposte meno coraggiose e più convenzionali, spiace dirlo, sono arrivate dalle ultime creature "defilippiane", ossia Sergio Sylvestre, Chiara Grispo ed Elodie. Erano tutti considerati "Big" d'elezione, nel cartellone, mentre nella categoria giovani è stato misteriosamente relegato quell'Ermal Meta già visto a Sanremo e in possesso di un curriculum solidissimo anche come autore di artisti di primo piano, battuto nella finalissima da un Irama più convincente rispetto all'esperienza rivierasca del febbraio scorso, vincitore con l'accattivante "Tornerai da me". Per inciso, il fatto che a contendersi il titolo di miglior emergente siano stati due ragazzi del vivaio ligure, assieme a Madh, rivaluta il lavoro di selezione operato da Carlo Conti e compagnia, in un'epoca in cui le cosiddette Nuove Proposte dell'Ariston faticano terribilmente a farsi strada sul mercato, con rare eccezioni.
LA VENA DI SIMONI, MORO E TIROMANCINO - Brano pop standard ma di buon livello "Volevo te" di Giusy Ferreri, addirittura con echi che riportano agli Ottantiani Modern Talking. Bianca Atzei ("La strada per la felicità") e Irene Fornaciari ("Questo tempo") hanno portato proposte che rientrano nel solco della più schietta tradizione musicale italiana, melodie cantate a voce spiegata che forse avrebbero meglio figurato in una cornice più ovattata come quella dell'invernale vetrina sanremese, ma che meritano l'elogio anche per i testi non banali. E a proposito di testi sostanziosi, di notevole spessore "Sono anni che aspetto" di un Fabrizio Moro ormai assestatosi su livelli di grande pregio compositivo, mentre non sorprende più la vena di Paolo Simoni, che in "Io non mi privo" canta con linguaggio moderno e senza retorica  le difficoltà della generazione dei trentenni italiani, minata da un ventennio di malapolitica. Anche i Tiromancino ("Piccoli miracoli" e soprattutto l'ariosa e intensa "Tra di noi") hanno ritrovato la felice creatività poetica e musicale di qualche anno fa, e possono a buon diritto considerarsi fra i migliori rappresentanti del pop italiano anni Dieci. 
IL RITORNO DI ARIANNA - Pollice in su per una Noemi efficacemente cantautoriale in "Idealista", meritano la citazione anche un Marco Carta vagamente rockeggiante nel sound e nella voce ("Non so più amare"), Antonino con la martellante "Gira", e il rap della coppa Marrakash - Guè Pequeno ("Nulla accade"). Fra le bizzarrie, da segnalare il Fabio Rovazzi di "Andiamo a comandare", fenomeno web che trovo tutto sommato divertente e che potrebbe perfino percorrere un discreto tratto di strada, e poi la ricomparsa di Arianna, lustri fa giovanissima cantante e volto di Walt Disney, impegnata in "featuring" con Flo Rida ("Who did you love?") in una hit di caratura internazionale, del tutto a proprio agio in una veste sexy e fascinosa. 
COSA CAMBIARE: VOTAZIONI E DIRETTA - In ogni caso, quasi tutti brani migliori, a mio avviso, di quello che ha trionfato; se non altro, lo ripetiamo, più rappresentativi di una stagione e di un momento musicale come quello che stiamo vivendo. Del resto, pur promuovendo nel suo complesso anche questa edizione del Coca-Cola Summer Festival, già da tempo vado scrivendo che qualcosa si potrebbe cambiare, a partire da un sistema di votazioni più articolato, che si sviluppi attraverso una molteplicità di canali e su tempi più lunghi, magari diluendo maggiormente la rassegna, con l'atto conclusivo da celebrarsi a fine agosto. E con la diretta, perché stare qui a discutere di una registrazione televisiva, laddove gli esiti del concorso sono noti da un mese circa, ha francamente poco senso nell'era del web e dei social network. 

lunedì 11 luglio 2016

EURO 2016: IL PORTOGALLO "FORMICHINA" TRIONFA SENZA SCANDALO IN UN TORNEO DIMESSO. GIUSTA PUNIZIONE PER LA SOPRAVVALUTATA FRANCIA


In un Europeo fra i più dimessi e minimalisti di sempre, è perfino logico che ad arrivare per prima sul traguardo sia stata una squadra operaia, artigiana, calcisticamente provinciale nel senso più positivo del termine. La "formica" Portogallo in trionfo a Saint Denis è un verdetto che non desta scandalo, né deve sorprendere troppo. Le coppe in serie conquistate dalla Spagna e lo strepitoso Mondiale targato Germania ci avevano abituati al concetto che, alla fine, vince sempre chi sa praticare un gioco propositivo, di iniziativa, votato all'offesa pur se non dissennata. Qualcuno si era forse dimenticato che il football non è solo questo: è anche organizzazione difensiva ferrea, copertura attenta e paziente, capacità di soffrire in trincea e di stanare gli avversari per poi piazzare la botta vincente nel momento topico. Il calcio della concretezza, il calcio delle formiche che prevale su quello delle cicale. Cicale francesi, nella circostanza, belle e invincibili solo sulla carta. 
EURO SENZA TOP TEAM - Del resto, siamo sinceri: qualsiasi rappresentativa si fosse imposta in questo Euro 2016, si sarebbe comunque trattato di campioni "dimezzati". Sì, perché nessuna Nazionale, in questo mese di torneo, ha mostrato di meritare pienamente l'alloro finale. Non la Germania, presentatasi con un potenziale ridotto almeno del 50 per cento rispetto alla vittoriosa campagna brasiliana di due anni fa: non più martellante e incisiva in attacco, impigliatasi nelle ragnatele di una manovra piacevole ma sterile, sempre solidissima dietro fin quando non è stata tradita da due inconcepibili "colpi di mano" di uomini esperti come Boateng e Schweinsteiger. Non il Belgio, forse la formazione più ricca di classe pura, ma immatura sul piano tattico e mentale. Non la Spagna, che ha maramaldeggiato contro gli avversari più deboli per poi tornare a mostrare la corda con i più competitivi, confermando il declino chiaramente evidenziatosi al Mundial. Non l'Italia, purtroppo, che certo nulla avrebbe rubato approdando alla semifinale, ma che ha pagato la mancanza di autentici campionissimi, ispiratori e stoccatori dalla cintola in su. 
LA FRANCIA E IL TABELLONE AMICO - E la Francia? Beh, la Francia merita un discorso a parte. Il tabellone del torneo aveva preso forma all'insegna della morbidezza più assoluta. Un primo turno con Romania, Albania e Svizzera, e, con tutto il rispetto, quale "grande" del Continente non avrebbe apprezzato un sorteggio così? Negli ottavi, una terza ripescata (le è toccata l'Eire) e nei quarti la vincente di uno scontro fra seconde, una compagine uscita dai gruppi B ed F (Galles, Slovacchia, Russia e Inghilterra, oppure Islanda, Ungheria, Austria e Portogallo): avversari in larga parte competitivi, ma abbordabilissimi per una selezione, come quella dei Bleus, che puntava in partenza al bersaglio grosso. L'exploit clamoroso degli islandesi (un'impresa autenticamente leggendaria, tale da far impallidire quella del Leicester) ha fatto saltare il banco, trasformando l'autostrada in uno scivolo verso le semifinali. Quasi come nel precedente torneo organizzato dai transalpini, Francia '98: anche allora, un cammino più o meno di tutto riposo fino ai quarti, dove Zidane e compagni trovarono il primo rivale di caratura internazionale, la spaurita Italia di Cesare Maldini. Insomma, gli uomini di Deschamps "rischiavano" di vincere questo Europeo dopo cinque incontri quasi di allenamento e due soli confronti "veri": sarebbe stato un trionfo senza sale e senza spessore. Giusto che alla fine la buona sorte abbia voltato loro le spalle.
FRANCIA SENZ'ANIMA - Oltretutto, mi pare che questa Francia continui ad essere sopravvalutata. Lo fu già in Brasile, dove arrivò ai quarti sulle ali di un altro percorso soft (Honduras, Svizzera, Ecuador e Nigeria gli ostacoli), per poi essere eliminata quasi in souplesse dalla Germania. Intendiamoci, le scorte di talento non le mancano, ma sul piano del gioco non ha detto nulla di nuovo, non ha una manovra lineare, procede a strappi facendo sostanzialmente leva sulle qualità dei suoi singoli: sembra, appunto, una selezione tout court, più che una squadra. Griezmann, l'uomo dell'Europeo,  ispiratissimo come il Pablito Rossi di Spagna '82, l'ha tenuta a galla con un rendimento d'eccezione, ma poi i nodi sono venuti al pettine. I padroni di casa non sono riusciti a trovare la chiave tattica e tecnica per prendere il sopravvento su un Portogallo gravemente menomato, in pratica costretto a giocare il 99 per cento del match decisivo senza il suo uomo simbolo. 
PORTOGALLO "PROVINCIALE" - Chiaro che l'uscita di Cristiano Ronaldo dopo il fallo di Payet abbia accentuato l'atteggiamento "conservativo" dei lusitani, che hanno fatto ciò che dovevano e potevano: occupazione "militare" del campo, chiusura degli spazi, sapienti abbassamenti di ritmo in attesa di infilarsi nel varco giusto; un atteggiamento da "provinciale", si diceva, e il riferimento è a certe "piccole" realtà che spesso riescono a fare lo sgambetto ai colossi metropolitani: per i cultori del calcio vintage è fin troppo facile citare l'Ascoli, l'Avellino o il Catanzaro degli anni Ottanta... In più, il Portogallo ha messo sul piatto doti di palleggio esemplari: esclusi alcuni sbandamenti nella fase iniziale, ha poi gestito il pallone con sapienza superiore, limitando al minimo gli errori di tocco e di misura. 
OCCASIONI TRANSALPINE - Certo, la Francia avrebbe anche potuto vincere: pur avvitata in un gioco lento e privo di fantasia, pur irretita per lunghi tratti dai rivali, alla fine è riuscita a costruire sei palle gol, non tante in 120 minuti, ma nemmeno poche. Rui Patricio ha salvato in apertura su un colpo di testa di Griezmann e si è poi ripetuto due volte su Sissoko e, soprattutto, su un bel diagonale di Giroud nella ripresa; un'altra inzuccata di Griezmann si è persa alta di un nonnulla, e il subentrato Gignac ha colpito un palo clamoroso allo spirare dei tempi regolamentari, peraltro imitato da Guerreiro su punizione nel secondo extra time. La definitiva stilettata di Eder, destro chirurgico dalla distanza dopo insistita azione personale, è stata anche un premio alla sagacia tattica del cittì Fernando Santos, che si è... fatto perdonare la mossa Quaresma (inconsistente e irritante) con l'inserimento di questo gigante d'ebano, che ha consentito alla sua squadra di alzare leggermente il baricentro e di ampliare il ventaglio delle soluzioni offensive, invece di limitarsi a una passiva attesa della lotteria dei rigori. 
DI NECESSITA' VIRTU'... - Per il Portogallo di oggi vale, amplificato, il discorso fatto nei giorni scorsi a proposito degli Azzurri: ognuno cerca di vincere coi mezzi che ha, non c'è scandalo in tutto questo, purché non si arrivi a praticare l'anticalcio, cosa che non si può certo imputare ai lusitani, pur se il loro successo, lo ripetiamo, non resterà negli annali quanto a fiammeggianti espressioni di grande football. Certo, è stato più un trionfo del collettivo che dei singoli: ieri sera han brillato soprattutto il fondamentale Rui Patricio, Cedric e la diga William, ma è stato tutto il complesso a girare magnificamente, inaridendo alla lunga le velleità degli anfitrioni. Storicamente, è un'affermazione ineccepibile: negli ultimi cinque Europei, i rossoverdi hanno giocato due finali e due semifinali, e nel mezzo ci han piazzato anche il quarto posto al Mondiale 2006. Una continuità di rendimento agli alti livelli quasi teutonica...

                                              Per Griezmann un Europeo super

QUANTO VALGONO I BLEUS? - Quanto alla Francia, questo secondo posto, alla luce di ciò che si è detto prima, conta poco più di niente. Ci sono dei valori, nell'Exagone, certo: da Lloris a Koscielny, da un Pogba però troppo sulle sue (dov'è finita l'esplosività juventina?) alla generosa punta Giroud e al tuttofare Griezmann, capace di rientrare a dar manforte dietro per poi farsi trovare lucidissimo nei sedici metri finali; meno convincente Payet, che ha iniziato la rassegna alla grandissima ma poi ha abbassato i ritmi dimostrandosi talento piuttosto "anarchico", come si diceva una volta, troppo spesso tanto fumo e poco arrosto. Ma è una squadra che ha un terribile bisogno di scoprire quanto vale realmente, e lo potrà fare solo confrontandosi con avversari di autentico spessore, in partite vere: a Euro 2016, lo ripetiamo, è accaduto solo due volte, con una vittoria e una sconfitta...
FORMULA SBAGLIATA - Europeo minimalista, si diceva. L'allargamento a 24 finaliste è stato un clamoroso successo economico, come han riportato i giornali nei giorni scorsi, nonostante vi sia ancora qualche sapientone che parla di calcio delle Nazionali in crisi... Diverso il discorso sul piano tecnico: giocare una prima fase di trentasei partite per eliminare la miseria di otto squadre vuol dire azzerarne o quasi il pathos, a meno che non si consideri emozionante l'attesa di conoscere il nome delle quattro terze ripescate... La formula aveva  mostrato i suoi grossi limiti già nei Mondiali giocati fra il 1986 e il 1994: la presenza delle terze "droga" il tabellone degli ottavi, assegnando a sole quattro delle sei vincitrici di girone avversari teoricamente "morbidi" nel primo turno a eliminazione diretta, e di converso offrendo un'ancora di salvezza eccessiva a chi ha deluso nella prima parte della manifestazione. La vera fortuna del Portogallo, nella fattispecie, è stata questa, non certo la storiella, con cui ci hanno ammorbato in questi giorni, del fatto di aver vinto una sola partita nei 90 minuti, come se le vittorie ai supplementari non valessero alcunché... Ritengo in ogni caso sempre preferibili i format che ammettono alla seconda fase solo le prime due dei raggruppamenti iniziali, come avveniva nell'Europeo a 16 squadre e come avviene nel torneo iridato a 32: se non altro sono più equanimi, negli ottavi tutte le prime affrontano tutte le seconde, non si scappa... Se proprio si deve restare a 24 finaliste continentali, che si ripeschi la formula di Spagna '82, quella coi gironcini a tre, che all'epoca oltretutto si mostrò assolutamente funzionale.  
FASE DI TRANSIZIONE - Al di là di questo, nessuna rappresentativa ha offerto un rendimento autenticamente di eccellenza, i momenti di spettacolo vero sono stati rari, la media gol è finita sotto il livello di guardia (2,12 a gara). Tutto normale, tutto fisiologico, quando si è reduci da un'era calcistica dominata da una Nazionale che ha lasciato nella storia un'impronta di gioco e non solo di risultati, e quando i successori designati, i tedeschi, si trovano alle prese con alcune carenze di ruolo che alla vigilia erano state sottovalutate. Di questo "vuoto di potere" potevano approfittare diversi team: fra di essi l'Italia, che moralmente l'avrebbe anche meritato per essere uscita indenne, quando non vincitrice, da un calendario terribile e impietoso fin dall'inizio (Belgio, Spagna e Germania, ricordiamolo sempre); perfino il Galles, strada facendo, aveva legittimato le sue ambizioni con un assetto tattico impeccabile, grande aggressività (forse una delle compagini più votate all'offensiva) e individualità di tutto rispetto (non solo Bale, che pure ha brillato). C'è riuscito invece il Portogallo sornione e sparagnino, che quasi in silenzio ha trovato una nuova generazione d'oro, quella di Cedric, di Guerreiro, di Joao Mario, di William e di Renato Sanches, più pratica e concreta rispetto alle "covate"  dei Figo e dei Rui Costa, o dei Deco e dei Maniche. La generazione delle "formichine" lusitane. 

domenica 3 luglio 2016

EURO 2016: L'ITALIA NEUTRALIZZA LA GERMANIA MA PERDE... LA LOTTERIA. GRANDE TORNEO, MA ORA IL RISCHIO E' CHE SI RIPARTA DA ZERO


Non sono trascorse che poche ore, l'amarezza è ancora grande, i rimpianti al livello di guardia. Eppure, questa volta, non c'è bisogno di ragionare a sangue freddo per ribadire quanto già avevo scritto dopo il trionfo sulla Spagna. L'Europeo degli azzurri è stato eccezionale, sic et simpliciter: hanno ridimensionato il precoce mito del Belgio squadra del futuro (e comunque seconda nel ranking FIFA) con un esemplare saggio di calcio all'italiana in versione 2.0, difesa attiva e spirito d'iniziativa, per poi vincere in scioltezza e in anticipo il girone iniziale; hanno strabattuto e dominato sul piano del gioco, dell'aggressività, della continuità d'azione gli iberici bicampioni continentali, concludendo la demolizione della Roja invincibile avviata due anni fa da Olanda e Cile; hanno, infine, neutralizzato e quasi ridotto all'impotenza la Germania campione del mondo in carica. In poche settimane, Conte e i suoi ragazzi son stati in grado di colmare, nei confronti di queste tre squadre, un gap di talento e classe che alla vigilia pareva abissale. Sono andati a un passo da una clamorosa semifinale, ma a un passo davvero, uscendo pressoché indenni da un tabellone che i sorprendenti sviluppi del torneo avevano reso, sulla carta, proibitivo.  
SQUADRA DA RICORDARE - Sul serio: come si poteva pretendere di più? Certo, l'ingresso fra le magnifiche quattro, le elette del Vecchio Continente, a un certo punto ci è parso davvero alla portata, e in fondo è quello il traguardo che scava il solco fra una buona e un'ottima Nazionale. Questa Italia, sul piano delle fredde statistiche, degli almanacchi, è rimasta a metà del guado. E anche per questo, ieri sera, abbiamo visto Andrea Barzagli piangere lacrime sincere in televisione: "Nessuno si ricorderà più di noi, essendo usciti ai quarti"; e già: nessuno parlerà di questo splendido gruppo, delle belle prestazioni offerte, dei pronostici sovvertiti, delle gare giocate ad armi pari con le grandi d'Europa. Ebbene, mi sento di poter dire che il nostro statuario difensore si sbaglia di grosso, e non date retta a giornalisti che non sanno guardare al di là del punteggio; il risultato non può essere sempre l'unico metro di giudizio, e ogni traguardo raggiunto, o mancato, va tarato sulla situazione del momento, sul valore proprio e su quello degli avversari.
C'E' ELIMINAZIONE ED ELIMINAZIONE... - Tanto per esser chiari: questa uscita ai quarti vale molto di più, infinitamente di più sia di quella del 2008, quando ci presentammo come campioni del mondo e giocammo un Europeo mediocre dall'inizio alla fine, sia di quella del Mondiale '98, quando rotolammo fino all'eliminazione per mano francese sulle ali di un gioco sparagnino, risparmiatore, poco spettacolare, pur potendo schierare campioni in ogni reparto e, soprattutto, una batteria di attaccanti che tutto il mondo ci invidiava. In questo particolare momento storico, invece, il calcio tricolore aveva soprattutto bisogno di ritrovare una propria identità, di ricostruirsi una credibilità andata in frantumi due anni fa in Sudamerica. Aveva bisogno di una Nazionale che, a dispetto dell'indifferenza dell'ambiente, sapesse conquistarsi prepotentemente un posto al sole, tornare nel cuore degli appassionati fornendo anche un'immagine di serietà, di pulizia, di unità interna, pur battendosi in una situazione di grande disagio tecnico, di mezzi non eccezionali che han fatto parlare in molti, ingenerosamente, di "peggiore Italia degli ultimi cinquant'anni", o cose del genere. 
ITALIA OLTRE I PROPRI LIMITI - Ecco, direi che tutti questi obiettivi sono stati centrati, fra Lione, Saint Denis e Bordeaux. L'Italia ha di nuovo una Nazionale, una Nazionale che non vive di espedienti ma che ha trovato una identità precisa, sul piano tecnico, tattico e morale. Una squadra che oggi poteva festeggiare il successo sulla Germania e attendere l'avversario di semifinale, e sarebbe stata una delle imprese più clamorose nella storia del pallone nostrano. Perché, davvero, nell'anno di disgrazia 2016 era quasi impossibile fare di meglio: queste tre settimane di battaglia non hanno cancellato la crisi profonda del nostro movimento, la scarsa attenzione verso i giovani del nostro vivaio, i club imbottiti di stranieri, la carenza di uomini di valore in molti ruoli chiave; e hanno solo mascherato la realtà di una rappresentativa che è andata costantemente oltre i propri limiti, limiti evidenti dalla cintola in su e che, siamo onesti, presto o tardi avrebbero dovuto presentare il conto, anche perché storicamente il Club Italia, nelle sue fasi di più acuta difficoltà, raramente trova quella fortuna che sorregge altri: come la Grecia 2004 che vinse casualmente un Europeo partendo dal nulla e nel nulla tornando, o anche, ebbene sì, come la Germania.
LA FORTUNA? A VOLTE E' ANCHE TEUTONICA - La continuità storica agli alti livelli dei vincitori di ieri è fatta di tantissimi, enormi meriti, ma anche di un pizzico di buona sorte sparsa qua e là, quella che li ha quasi sempre portati a pescare il numero fortunato della lotteria, le poche volte che si sono trovati ad affrontare sfide infide: quando vanno in sofferenza (e, lo ripetiamo, capita di rado), quando si trovano a un passo dal baratro, quando l'equilibrio è esasperato ma la bilancia sembra poter pendere dalla parte dei rivali, nove su dieci riescono a cavare fuori dal cilindro, in qualche modo, il colpo da prestigiatori che li fa scollinare. Da Spagna '82 a Mexico '86, da Corea - Japan 2002 a questo Euro 2016: non c'è nulla di male, e del resto la fortuna aiuta gli audaci, quindi è giusto così. 
NULLA DI MEMORABILE - Nel dettaglio, questa ennesima Germania - Italia è stata, nei 120' di gioco, meno epica e memorabile di tante indimenticabili tenzoni del passato. Tutto un po' sotto tono, in un clima tragicamente straniante, perché emozionarsi per una partita di football risulta veramente difficile quando si gioca con il lutto al braccio, quando l'ennesima strage si è consumata nel nome del più ottuso e barbaro fra tutti gli ottusi e barbari terrorismi che hanno infangato il genere umano. Sul campo, un primo tempo bloccatissimo, con leggero predominio teutonico ma migliore occasione per i nostri, su cross lungo di Giaccherini e tiro di Sturaro che, deviato da Boateng, finiva a lato di pochissimo. Ripresa con gli uomini di Low più decisi, vicini al gol con Thomas Muller (gran salvataggio in acrobazia di Florenzi), a segno con una deviazione sotto misura di Ozil su cross di Hector sporcato da Bonucci, e vicini al raddoppio su tacco di Gomez, deviazione di Chiellini e provvidenziale intervento di Buffon. Ma poi, scampato il pericolo, ecco il generoso ritorno azzurro: cross di De Sciglio e girata di poco a lato di Pellè, quindi gratuito mani in area di Boateng e penalty solare impeccabilmente trasformato da Bonucci, e poco dopo un bel destro dell'attivissimo De Sciglio sull'esterno della rete.

                                    Conte: dopo il suo addio, futuro carico di incognite

L'UNICA PARTITA POSSIBILE - Piccole schermaglie nei prolungamenti (ma peccato, peccato davvero per quell'Insigne messo dentro troppo tardi),  a sancire un pari sostanzialmente giusto, in cui le contendenti si sono battute gagliardamente, ognuna coi mezzi a disposizione, ma nessuna delle due avrebbe meritato di cogliere l'intera posta. L'Italia non ha preso in mano il gioco come fatto contro la Spagna, né ha potuto sprigionare la buona aggressività, la spinta e la velocità di esecuzione sciorinate al debutto coi belgi, perché l'avversaria era diversa, più tosta, più fresca, più smaliziata tatticamente, più nitidamente superiore. Una Germania che della versione "rullo compressore" di Brasile 2014 ha conservato solo l'impermeabilità difensiva, meccanismi perfetti che hanno sistematicamente chiuso ogni varco ai tentativi azzurri, e qualche sprazzo di manovra vellutata e rapida in fase di costruzione, poche e pericolose accelerazioni tra mille languori. Pur sempre una montagna difficile da scalare, a cui Barzagli e compagni hanno opposto le sole armi possibili: difesa paziente (ma gli unici momenti di autentica sofferenza si sono avuti nel periodo culminato con l'1 a 0), occupazione degli spazi e ricerca dello spiraglio giusto in ripartenza: quest'ultima parte del piano poteva riuscire con centrocampisti più dotati in fase di impostazione (ma Verratti e Marchisio erano a casa) e con attaccanti di maggior statura internazionale. Nelle nostre condizioni, ripeto, si è fatto il possibile e lo si è fatto assai bene. 
LOTTERIA, SENZA SE E SENZA MA - Poi l'assurda giostra dei rigori. Da anni sostengo sia una pura e semplice lotteria (il blog mi è testimone), a prescindere da chi vince e da chi perde, perché troppi fattori prevalgono sulla mera perizia tecnica degli esecutori, fino a schiacciarla: quando si battono diciotto tiri dal dischetto consecutivi (come nella finalina di Europa '80 fra Italia e Cecoslovacchia), la mazzata dell'errore può colpire chiunque, in qualsiasi momento, quando meno la si aspetta. E' una roulette mozzafiato, ma pur sempre una roulette, preferibile alla monetina ma non alla ripetizione della partita (con la moltiplicazione delle gare anche inutili che caratterizza il calcio d'oggidì, strano che non si trovi posto in calendario per incontri di spareggio da far disputare in queste situazioni).
Dopodiché, certo, magari un Pellè poteva evitare di presentarsi ai sedici metri facendo il figo e credendo di poter intimorire Neuer, lui, umile punta del Southampton: il suo atteggiamento imperdonabile (e seguito dall'ovvio errore) è chiaramente sintomo di immaturità, dovuta alla scarsa esperienza agli altissimi livelli sua e di tanti compagni di Nazionale. Un peccato, in ogni caso, perché questa smargiassata gli alienerà molte simpatie ed era l'ultima cosa di cui aveva bisogno, trattandosi comunque di un giocatore che, anche dopo un buonissimo torneo, è tutto fuorché intoccabile, e per conservare la maglia azzurra dovrà sudare sette camicie. 
VENTURA: UN SALTO NEL BUIO CON LA LINEA VERDE - Questa considerazione, e il definitivo 7-6 di Bordeaux, chiudono il dolceamaro capitolo Europei e aprono immediatamente quello successivo. Come Zoff nel 2000, ma per ben altri motivi, Conte lascia a metà un lavoro estremamente promettente. Il rilancio azzurro rimane con l'urlo strozzato in gola, da settembre si rischia di ripartire quasi da zero, con un allenatore meno carismatico e meno avvezzo alle grandi ribalte del football mondiale (nonché molto meno vincente, particolare tutt'altro che trascurabile). Ventura dovrà innanzitutto mantenere il magico clima, l'unità d'intenti che Conte aveva saputo ricreare. E dovrà innovare, innovare profondamente, perché il tempo stringe per tanti azzurri di oggi, e i giovani non possono davvero più attendere.
Sarà ancora l'Italia di Buffon e Bonucci, di Chiellini e forse persino di un Barzagli in là con gli anni ma ancora in piena efficienza, e come rinunciare a Parolo, Candreva, Giaccherini (uno dei migliori in assoluto di Euro 2016), a un Darmian che ha potenzialità maggiori di quelle mostrate in Francia, a un De Sciglio concreto e concentrato come non si vedeva dai tempi degli esordi azzurri, all'eclettico e generoso Florenzi, a uno Sturaro che accumulando minutaggio può solo migliorare? Ma dovrà essere anche l'Italia di Rugani, Romagnoli, Zappacosta, Cataldi, Benassi, Berardi, Belotti, i migliori Under 21 del biennio 2013-2015, nonché l'Italia dei grandi esclusi di Conte, da Bonaventura a Soriano, da Acerbi a Jorginho, da Pavoletti a Gabbiadini; l'Italia dei grandi infermi che torneranno, Perin, Verratti e Marchisio, e dei convocati che in queste settimane hanno avuto pochissimo spazio: Ogbonna (positivo nell'unico match disputato, quello con l'Eire) e soprattutto Bernardeschi, Insigne ed El Shaarawy; senza tralasciare l'incognita Lapadula, potenzialmente un boom. I mezzi non mancano, ma è concreto il timore che il circolo virtuoso innestato da Conte si spezzi in assenza del "mentore". Una bruttissima gatta da pelare per il nuovo cittì, nel momento in cui la nostra selezione aveva soprattutto bisogno di stabilità e continuità nella guida tecnica.