Powered By Blogger

mercoledì 17 luglio 2019

17 LUGLIO 1994: ITALIA SECONDA NEL MONDO, OVVERO ELOGIO DI UNA SCONFITTA

                    Pagliuca e Taffarel abbracciati prima della lotteria dei rigori a Pasadena (foto Guerin Sportivo)

17 luglio 1994: a Pasadena, l’Italia perde ai rigori la finale mondiale col Brasile.  Fermi tutti, mi si potrebbe dire: stiamo qui a celebrare una sconfitta? Non esattamente. E' frutto di una mentalità profondamente sbagliata pensare che, chi non arriva sul gradino più alto del podio di una competizione sportiva, sia un perdente sempre e comunque. A parte il fatto che c'è una bella differenza fra l'arrivare secondi, settimi o diciottesimi, ma piazzarsi fra le prime quattro in un torneo iridato (o comunque in una grande competizione internazionale) è da considerare in assoluto un risultato di grande prestigio: la Germania, per fare un esempio, ci sopravanza nella classifica assoluta "all time" di Coppa del Mondo proprio grazie ai suoi numerosi piazzamenti, nettamente superiori ai nostri, a parità di titoli vinti. E dunque, l'argento azzurro a USA '94 fu un traguardo di rilievo, che confermò la posizione di preminenza planetaria del nostro movimento calcistico in quegli splendidi anni Novanta, un'età dell'oro che oggi sembra così lontana ma che auspico non sia irripetibile, per il football made in Italy. 
IL MONDIALE PIU' STRANO - Fu un Mondiale particolare, unico, curioso, drammatico. Il primo disputato in un Paese pressoché privo di tradizioni calcistiche, per cominciare. Il primo coi tre punti in palio per la vittoria. Drammatico per le condizioni ambientali scandalose, fra caldo asfissiante e umidità opprimente, in cui i calciatori furono chiamati a battersi, a rischio della loro stessa salute. Fattore quest'ultimo che, a maggior ragione oggi a mente fredda, deve indurre a valutare con benevolenza certe prestazioni sottotono da parte dei nostri rappresentanti così come di altre selezioni. Fu, infine, il Mondiale bello e maledetto di Maradona, presentatosi tirato a lucido, trascinatore di un'Argentina a trazione interiore che nelle prime due gare sembrava in grado di far saltare il banco, e poi messo fuori causa da un controllo antidoping, con susseguente, sollecita eliminazione della Selecciòn da parte della brillantissima Romania di Hagi, Raducioiu, Petrescu e Munteanu. 
LA GRIGLIA DI PARTENZA - Sul piano strettamente tecnico, a parte la citata Argentina che in verità non godeva di molta considerazione alla vigilia, avendo stentato penosamente per conquistare il pass (Australia battuta di misura nello spareggio), la griglia di partenza delle favorite vedeva nelle prime file le tre grandi classiche, ossia Germania (campione in carica), Italia e Brasile, e la Colombia unanimemente accreditata come probabile sorpresa dopo lo 0-5 inflitto nelle eliminatorie a Batistuta e compagni. Scivolò fra le outsider l'Olanda, sempre valida ma priva del lungodegente Van Basten e di un Gullit reduce da una stagione super con la Sampdoria, mentre c'era attesa attorno alla Norvegia, giustiziera dell'Inghilterra nelle qualificazioni, alla rivoluzionata Spagna poco bella e molto concreta di Javier Clemente, e alla Nigeria tutte stelle (Amokachi, Amunike, Yekini, Finidi, Okocha...) che pareva in grado di poter finalmente realizzare il sogno di una squadra africana nelle semifinali. Partivano nelle retrovie Svezia e Bulgaria, nonostante il merito di aver estromesso la Francia: sarebbero invece entrambe giunte fino in fondo. 
ITALIA RICCA DI TALENTO, SENZA MANCIO MA CON SUPER BAGGIO - L'Italia era l'Italia di Arrigo Sacchi, in sella dall'autunno 1991. Sull'onda lunga del suo Milan spettacoloso e pigliatutto, i tifosi attendevano una Nazionale in grado di ripercorrere suppergiù le stesse orme, anche grazie a un serbatoio di giocatori assai ampio e di grandissima qualità, nulla a che vedere col ristretto bacino in cui può pescare oggi il pur abile Mancini. Proprio il Bobby gol sampdoriano chiuse con la selezione poco prima del Mondiale, dopo una grigia prova in amichevole coi tedeschi, mentre il suo ex gemello del gol Vialli, pur riprendendosi in extremis da un grave infortunio che gli aveva fatto saltare larghissima parte della stagione, non riusci a convincere il cittì a portarlo negli States. Era comunque una selezione "tutte stelle": basti pensare a Pagliuca, Maldini e Baresi in retroguardia, Albertini e Donadoni in mezzo al campo, e poi lui, il Pallone d'oro in carica, Roby Baggio da Caldogno, pronosticato come possibile uomo del Mondiale in stile Maradona '86. Le cose non andranno proprio così ma... quasi. Altri elementi di grande affidamento erano Costacurta, che aveva superato gli impacci delle prime uscite in azzurro, il terzino destro Benarrivo, splendido stantuffo sulla fascia, il mediano Dino Baggio, mortifero nelle sue incursioni in avanti di testa e di piede, Nick Berti, anche lui risorto dalle ceneri di un infortunio e protagonista di un finale sprint con l'Inter, e il redivivo Massaro, che dai tempi di Bearzot non vedeva più la rappresentativa, detto "Provvidenza" per aver tolto più di una volta le castagne dal fuoco al Milan con gol puntualissimi e decisivi.
PERCORSO ACCIDENTATO - Il cammino della truppa di Sacchi verso l’atto conclusivo fu accidentato, sofferto, non privo di momenti fortunati ma anche di agguati della cattiva sorte bellamente superati. Passammo il primo turno tramite ripescaggio rientrando fra le quattro migliori terze, aiutati dalla formula allora in vigore: costò cara la sconfitta all'esordio con l'Eire, poi al successo sulla Norvegia riuscimmo a far seguire solo un pari col Messico, in un girone equilibratissimo in cui tutte le squadre finirono a quota quattro. Negli ottavi, pur giocando mediocremente, ci salvammo all’ultimo tuffo da un’immeritata sconfitta con la Nigeria, trovatasi in vantaggio su insolito errore difensivo del grande Maldini e poi regolata nei supplementari (e nonostante un’assurda espulsione inflitta a Zola), il tutto con la firma di un Roby Baggio fin lì deludentissimo e improvvisamente risorto dalle proprie ceneri come il Pablito di Spagna '82. 
POCO BEL GIOCO - Facemmo poi fuori la Spagna grazie all’asse vincente “baggesco” Dino – Roberto, con coda di polemiche per via di una gomitata di Tassotti a Luis Enrique in piena area italiana nel finale, non sanzionata dall’arbitro sul campo ma poi punita dalla Fifa con una lunga squalifica al difensore del Milan, che chiuse lì la sua esperienza in azzurro anche perché non più di primo pelo. In generale, nel nostro percorso di bel gioco se ne vide poco: contro la Norvegia fino all’espulsione di Pagliuca e alla conseguente sostituzione del Codino (con inevitabile assalto polemico della critica a Sacchi), poi fu vittoria di cuore e di orgoglio; nel primo tempo con gli iberici, prima di una ripresa in trincea; e nei primi 45 minuti della semifinale con la Bulgaria, quando la Nazionale sacchiana toccò il suo apice spettacolare così come lo toccò Baggino, splendido trascinatore e autore della doppietta decisiva. Una partita, quest'ultima, che si poteva vincere con scarto ampio e che invece provocò qualche brivido nella seconda frazione, con un 2-1 che comunque premiò la compagine più meritevole. 
FORMAZIONE TIPO... O QUASI - La gestione azzurra di Arrigo Sacchi è rimasta nella storia soprattutto per il gran numero di giocatori convocati e utilizzati e il conseguente, continuo mutare delle formazioni. A Usa ’94, strada facendo, la nostra Nazionale aveva tuttavia trovato un’inquadratura di massima, con Tassotti (o Mussi), Costacurta, Maldini e Benarrivo schierati davanti a Pagliuca (che per due partite e mezzo aveva lasciato il posto a Marchegiani, a causa della citata espulsione coi norvegesi), nonché Apolloni efficacissimo difensore aggiunto, capace di ritagliarsi molti spiccioli di gloria nell'avventura americana; a centrocampo Dino Baggio, Berti, Albertini e Donadoni, con Conte prima alternativa, qualche apparizione di Evani, e Signori spesso sacrificato lontano dalla porta (una delle principali contestazioni mosse al CT); attacco con Roby Baggio e Casiraghi o Massaro, con pochi sprazzi per Zola. 
Qualche episodio fortunato, dicevamo, come il fallo non sanzionato di Tassotti su Luis Enrique o un possibile rigore per la Bulgaria in semifinale, ma anche tanta scalogna, vedasi la lesione del menisco che tolse quasi subito di mezzo Baresi, leader carismatico della difesa e della squadra, l’espulsione incredibile di Zola con la Nigeria, per finire con l’infortunio del Divin Codino in semifinale, che lo costrinse a disputare la sfida conclusiva a scartamento ridotto; e andrebbe anche citato, come già accennato, il contesto climatico proibitivo in cui l’Italia si trovò quasi sempre a dover giocare, arrivando quasi “cotta” al confronto con un Brasile più fresco. Per il team di Carlos Alberto Parreira, percorso senza grossi patemi: vinto il primo girone su Russia, Camerun e Svezia, più di una difficoltà a smontare il dispositivo difensivo statunitense negli ottavi, fino al diagonale vincente di Bebeto, sfida combattutissima nei quarti con l'Olanda, che rimontò con Jonk e Berkamp le reti del duo Romario - Bebeto, prima che l'ex Genoa Branco decidesse la contesa con una punizione delle sue. In semifinale, di nuovo la Svezia, lungo assalto risolto dall'immancabile acuto dell'asso Romario.
FINALE NOIOSA - La finalissima del “Rose Bowl”, davanti a circa 100mila spettatori, fu senz’altro una delle meno spettacolari di sempre. L’Italia recuperò a tempo di record Kaiser Franz, che sostituì lo squalificato Costacurta. Nel quadro di un incontro bloccatissimo sul piano tattico, fu prevalentemente la Seleçao a fare la partita, ma le occasioni per passare non ci mancarono, e capitarono sui piedi di Massaro e del "menomato" Roby Baggio (due volte). Colossali opportunità anche per Romario, Bebeto e Mauro Silva, sul cui tiro Pagliuca si fece sfuggire il pallone che terminò sul palo, baciato poi con gratitudine dal portiere blucerchiato in procinto di passare all'Inter. Finì 0-0, soluzione ai rigori per la prima volta nella storia delle finali iridate: dei nostri a segno solo Evani e Albertini, mentre gli errori di Baresi, Massaro e Baggino diedero agli auriverdes il quarto titolo, che venne dedicato ad Ayrton Senna, tragicamente scomparso a Imola poco più di due mesi prima. Per il calcio italiano, un "argento" che fa comunque curriculum. 

lunedì 8 luglio 2019

MONDIALI CALCIO DONNE 2019, BILANCIO FINALE. CONFERMA DEGLI USA, EXPLOIT AZZURRO, BOOM GENERALE DI INTERESSE ANCHE IN ITALIA. AVANTI COSÌ


È stata una domenica dolceamara per il calcio stars and stripes. Se la Nazionale maschile ha perso in casa la Gold Cup, il torneo continentale Concacaf (la confederazione del Nord America, del Centro America e dei Caraibi) contro un Messico che ha ribadito una volta di più la sua superiorità sui concorrenti di zona, dall'Europa sono invece giunte ottime notizie. Le ragazze del soccer in trionfo a Lione, campionesse del mondo per la seconda volta consecutiva, quarta in assoluto. Ma questo successo è forse il più significativo di sempre, perché giunto al termine di un Mondiale che resterà probabilmente nella storia come uno spartiacque nell'evoluzione del football femminile. Un torneo che ha evidenziato i macroscopici progressi tecnici di molte nazioni (con l'Italia in primo piano, possiamo dirlo?), e che ha catalizzato l'attenzione di una quantità di spettatori (in loco e davanti al video) impensabile alla vigilia. 
INTERESSE A LIVELLI ALTISSIMI - Ribadisco la mia convinzione: non è stato solo un successo artificioso, pompato da una massiccia campagna mediatica. Trucchetti del genere possono reggere per poco tempo e generare comunque un seguito cospicuo ma non eccezionale, mentre per la kermesse francese l'audience è stata enorme e soprattutto accompagnata da una partecipazione e da una passione sintomatiche di un interesse genuino e non teleguidato. Sul campo, è alfine emerso il verdetto più giusto, che racchiude in sé anche il più grosso limite attuale del calciodonne a livello planetario: ancora troppo ampio è il divario qualitativo fra gli States e il resto del mondo. Nell'atto conclusivo, le olandesi hanno opposto una generosa difesa, contro avversarie arrembanti e note per la facilità nel trovare sbocchi offensivi vincenti. Oddio, nella prima mezz'ora il match non è stato granché, con eccessiva frenesia di manovra da parte della favorite e, più in generale, una troppo elevata percentuale di errori tecnici anche banali, al punto da far pensare che le nostre azzurre, pur destinate alla sconfitta contro le americane, non avrebbero sfigurato al posto delle loro giustiziere arancioni. 
DOMINIO AMERICANO - Alla lunga, la gara ha preso quota, per esclusivo merito delle campionesse uscenti (e immediatamente... rientranti), che già prima dell'intervallo avrebbero potuto essere avanti nel punteggio: il portiere Van Veenendaal si superava tre volte, prima respingendo una botta di Lavelle, poi neutralizzando una deviazione ravvicinata di Morgan su cross di Rapinoe (con la collaborazione del palo destro) e infine deviando in corner un sinistro  della stessa Morgan, la più pericolosa (al suo attivo anche una "spizzata" di testa nell'area piccola, finita di poco fuori bersaglio); segnali inequivocabili di una superiorità che si concretizzava nella ripresa. Tutto si decideva in dieci minuti, fra il 60' e il 70': prima il leader carismatico Rapinoe trasformava un rigore concesso per fallo di Van der Gragt sulla scatenata Morgan, quindi raddoppiava Lavelle con un bel sinistro dal limite al culmine di una discesa iniziata a centrocampo, che le "tulipane" non riuscivano a contrastare. Le europee si sbilanciavano in avanti nel tentativo di riaprire la sfida ma la loro veemenza produceva ben pochi pericoli per la retroguardia avversaria, mentre si aprivano invitanti spazi al contropiede delle statunitensi, che però non ne approfittavano per arrotondare il punteggio. 
AZZURRE SUGLI SCUDI - Finiva 2-0 ed era un verdetto scontato, come detto. Ma non è il trionfo delle ragazze del cittì Ellis l'eredità più importante lasciata da questo Mondial francese. Ciò vale soprattutto per il nostro Paese: le azzurre meritano l'elogio pieno per aver centrato un traguardo che alla vigilia in pochi avevano pronosticato. Linari e Bonansea si sono dimostrate giocatrici di statura internazionale, le varie Gama, Giuliani, Giugliano, Galli e Girelli hanno offerto un rendimento elevatissimo, ma tutte in generale hanno buttato il cuore oltre l'ostacolo. Diamo merito a Milena Bertolini di aver allestito una squadra ben organizzata, capace di soffrire in trincea e di sganciarsi in micidiali affondo, pugnace in retroguardia e al centro e spesso rapida e mortifera in avanti. Essere fra le prime otto al mondo è un premio meritato e uno stimolo a continuare la scalata, perché ormai non ci si può più nascondere.
SFONDATO IL MURO DELL'INDIFFERENZA - La svolta c'è stata anche fuori dal campo. Che qualcosa sia cambiato, nel modo del pubblico italiano di approcciarsi al football in rosa, lo dimostra in fondo anche il dato di ascolto della finalissima: c'è chi ha parlato di flop, ricordando le stupefacenti cifre messe in fila dalla Nazionale italiana pochi giorni fa, ma posso assicurare che quasi due milioni di telespettatori (un milione e mezzo circa su Rai 2 e poco meno di mezzo milione su Sky) in una domenica pomeriggio di inizio luglio, per una partita di calciodonne fra due squadre straniere, è qualcosa di più di un miracolo, altro che storie. Questo sport fino ad oggi negletto ha fatto breccia, ma i problemi iniziano adesso: occorrerà quantomeno conservare questo zoccolo duro, perché la passione e l'entusiasmo vanno alimentati. Nella fattispecie, ci vuole un lavoro massiccio sia da parte dei media che delle istituzioni calcistiche: i primi devono assicurare una copertura dignitosa anche durante l'anno, lontano dai big events come i Mondiali, le seconde dovranno investire, migliorare le strutture e l'organizzazione, lavorare per approdare al professionismo. 
ANCORA TRACCE DI DISCRIMINAZIONE - Riguardo all'atteggiamento di chi osserva da fuori, se passi avanti sono stati indubbiamente fatti, è anche vero che ci sono ancora grosse lacune culturali: sui social come sui mezzi d'informazione tradizionali, emerge talora un atteggiamento altezzoso e sprezzante verso questa disciplina e verso chi la pratica. Concentrare l'attenzione sulle tendenze sessuali delle praticanti è piuttosto triste (ma poi, cosa interessa a uno spettatore se la tal giocatrice è etero o lesbica? E soprattutto, cosa cambierebbe in un caso o nell'altro nella valutazione della persona e dell'atleta?), il paragone insistito col calcio maschile è del tutto fuori luogo e fuorviante: chiaro che ci siano differenze, che rimangono comunque limitate soprattutto all'aspetto della preparazione fisica, mentre sul piano tattico, del trattamento della palla e dell'approccio mentale agli incontri, i progressi negli ultimi anni sono stati lampanti. Se poi non li si vuole vedere è un altro discorso: io, in questi Mondiali, ho visto giocare un buon calcio, meno frenetico e atleticamente "rampante" rispetto a quello degli uomini, ma comunque gradevole e nient'affatto privo di pathos. Ma i luoghi comuni in stile "il calcio non è gioco da femminucce" hanno fatto danni profondi, e sono del resto il retaggio di una discriminazione fra sessi altrettanto radicata in tutti i settori della nostra società, lavorativi e non. 

lunedì 1 luglio 2019

EURO UNDER 21: TRIONFO SPAGNA, VINCONO I MIGLIORI. VISTE LE SEMIFINALISTE, L'ITALIA POTEVA STARCI...

                       Fabian Ruiz, una delle grandi figure dell'Europeo (foto Guerin Sportivo)

La Spagna trova sempre il modo di entrare nei nostri incubi. Anche dopo averla nettamente battuta, all'inizio di quello che poteva essere il "nostro" Europeo Under 21. E invece, ieri sera, sono state le Furie Rosse a riprendersi il titolo che avevano conquistato l'ultima volta sei anni fa. Un epilogo corretto e lineare, per ciò che si è visto sul campo, ma che non può non alimentare ulteriormente rimpianti che già erano in in crescita esponenziale dal giorno dell'imprevista e precoce eliminazione azzurra. Era un torneo alla portata del team di Di Biagio, è evidente: averlo gettato alle ortiche rimane una colpa imperdonabile, per di più dopo un esordio che avrebbe dovuto rappresentare un carburante formidabile per giungere quantomeno fra le prime quattro. Chi parla di bilancio positivo forse non ha ben chiaro il quadro della situazione: con una squadra competitiva, col fattore campo a favore, col vento in poppa del trionfo sulla Roja, aver fallito rasenta l'assurdo. Il calo di tensione alla seconda partita e/o contro l'avversario sulla carta più abbordabile, se n'è già parlato da queste parti qualche giorno fa: un vizio che ha ormai ampiamente stufato e sul quale dovrà essere compiuto un lavoro particolarmente approfondito, da parte dello staff azzurro a tutti i suoi livelli, dalla Maggiore alle varie Under. E poi, un trainer che ha mostrato scarsa lungimiranza tattica e poco polso nella gestione di un gruppo che infatti, in un paio di elementi, gli è sfuggito di mano. L'augurio è che il successore sappia fare di meglio, e col materiale in arrivo dalla squadra "sub20" non dovrebbe essere difficile. Forse l'ex grande centrocampista azzurro ha fatto un biennio di troppo. Saprà rifarsi, scommetto, ma dovrà migliorarsi sotto molti aspetti.
SPAGNA CON MERITO - Mi scuso per la lunga introduzione azzurra al commento di una finale che gli azzurri li ha avuti invece solo come spettatori, ma il ko dei nostri ha rappresentato la vera sensazione di un torneo che per il resto, exploit della Romania a parte, ha fornito solo una secca conferma di Cracovia 2017, tanto da proporre lo stesso atto conclusivo. A Udine gli spagnoli hanno mantenuto l'eccellente livello di rendimento raggiunto a partire dalla goleada con la Polonia. Un'altra prova di gran spessore, certo diversa rispetto al dominio assoluto esercitato nelle precedenti due gare, perché la Germania ben altra consistenza aveva rispetto a polacchi e francesi. Ma alla fine i rischi corsi da Ceballos e compagni sono stati più teorici che reali, legati essenzialmente a un paio di eventi casuali (deviazione fortuita di testa di Vallejo e Sivera mal posizionato, sul tiro ad effetto di Amiri dalla lunga distanza che ha fruttato l'1-2): il 2-0 che stava maturando fino a un paio di minuti dal termine rispecchiava assai più fedelmente la differenza di valori e di prestazione fra le due rivali.
POCHI RISCHI PER LA ROJA - Prima del punto della bandiera teutonico, il team di De La Fuente era in totale controllo del match, magari col solo limite di aver mancato in due occasioni la rete dell'assoluta sicurezza: un diagonale di Fabian Ruiz al culmine di una meravigliosa azione corale finito a lato di un soffio, e una traversa colpita da Soler con un tiro da fuori. Poi, dopo un bel duetto nell'area piccola fra Nmecha e Waldschmidt che portava quest'ultimo a concludere pericolosamente sull'esterno della rete, giungeva il citato e rocambolesco gol di Amiri, ma nei minuti finali la Spagna controllava con sufficiente disinvoltura e conduceva in porto il successo. Un trionfo le cui basi erano state poste in un primo tempo di grana fine: in particolare, una prima mezz'ora tutta "in rosso", col risultato sbloccato all'8' da un'incursione solitaria di Fabian Ruiz, chiusa con un sinistro dalla distanza al contempo morbido e potente, imprendibile per Nubel. Una buona Germania, ma sostanzialmente sterile, fra la fine della prima frazione e la prima metà della ripresa, una reazione fiaccata però dal 2-0 che ha visto ancora il napoletano Ruiz protagonista: altra botta da fuori, palla non trattenuta da Nubel e pallonetto vincente di Olmo. 
LE DOTI BALISTICHE DEI TEDESCHI - Ripetiamo, vittoria legittima per quanto gli iberici hanno mostrato negli ultimi tre incontri disputati, quelli decisivi: grande prolificità offensiva accompagnata però da un gioco corale fluido, elegante, bello a vedersi: una squadra che strada facendo ha ritrovato la propria identità... manovriera, dopo che al vernissage con l'Italia era parsa essere tornata indietro ai tempi pre tiqui taca, quelli della Spagna dai modi spicci sul piano agonistico e con un approccio a tratti più diretto ed essenziale all'area avversaria. Nella parte conclusiva della kermesse, De La Fuente ha saputo fondere le due anime della sua compagine, quella giocoliera e quella pratica, creando un mix esplosivo contro cui né Francia né Germania avevano probabilità di spuntarla. I tedeschi, comunque degni secondi, hanno meno impressionato sul piano della qualità del gioco, sapendo trovare altre vie per perforare ripetutamente le altrui difese: fondamentali, in tal senso, le doti balistiche a lunga gittata di Waldschmidt e Amiri. 
RIMPIANTI AZZURRI E SUCCESSO ORGANIZZATIVO - Già tessute nei giorni scorsi le lodi della brillante Romania, rimane il rimpianto per la presenza fra le quattro finaliste, e quindi fra le qualificate olimpiche, di una Francia grigia e modesta, mentre mi tocca ripetere il concetto con cui ho aperto l'articolo: l'Italia aveva tutti i titoli tecnici per arrivare alle ultime sfide. Altro che ragazzotti viziati e sopravvalutati, come si legge in giro: Di Biagio poteva contare su talenti veri; non essere riuscito a valorizzarli appieno, e a incanalarne le esuberanze giovanili, è una sua evidente colpa. Chiesa, Barella, Mancini, Pellegrini, Meret sono già da categoria superiore, e lo si sapeva, ma lo hanno dimostrato anche nelle poche partite disputate in questo giugno. Del resto, il buongiorno si vedeva dal mattino di due stagioni fatte di amichevoli quasi mai convincenti: non è vero, quantomeno non sempre, che i test match non siano attendibili... 
Peccato, peccato davvero: senza esagerare, questa rimarrà una delle più grandi occasioni gettate alle ortiche dal calcio azzurro, a tutti i livelli, sullo stesso piano di altre nostre epiche disfatte da favoriti. Ci consola il successo organizzativo: le gare dell'Europeo hanno richiamato negli impianti un buon numero di spettatori. Chiaro che il tutto esaurito sia stato registrato solo per le partite dei nostri, ma in linea di massima il pubblico non è mai mancato, e anche la finale di Udine ha avuto una cornice assolutamente degna. Non è poco, anzi, per confronti fra squadre giovanili straniere. E allora, diciamolo sommessamente: il Paese è pronto ad ospitare di nuovo eventi calcistici più lunghi e complessi. Rivedremo nella Penisola, prima o poi, un Europeo o un Mondiale dei grandi? Gli incontri dell'Euro 2020 itinerante saranno un ultima, decisiva prova del fuoco.