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venerdì 29 gennaio 2021

VERSO SANREMO 2021 (?): CARO AMADEUS, MOLLA TUTTO. ANALISI E POSSIBILI RIMEDI ALLO STALLO FESTIVALIERO

Caro Amadeus, ascolta il tuo cuore, segui l'istinto che, ieri mattina, ti ha portato a esporti così pesantemente sul Sanremo prossimo venturo. Abbandona la nave: normalmente è considerato un atto di criminale viltà, in questo caso sarebbe di estremo coraggio e assoluta coerenza. Non ti meritano, non meritano il tuo entusiasmo e la tua disperata ricerca, nonostante tutto, di creare un'isola di parziale serenità in un'Italia che il Covid ha prima drammaticamente fiaccato sul piano della salute e delle vite umane, e poi crudamente imbarbarito su quello sociale, culturale e morale, un degrado che è essenzialmente il punto attorno a cui ruota tutta questa triste, abnorme, incredibile vicenda. Molla tutto, e poi magari torna tra un anno, da salvatore della patria. 

GLI ERRORI DI AMADEUS E LE POLEMICHE STRUMENTALI - Provocazione sì, ma neanche tanto. Perché cadono le braccia. Il Festivalone, si sa, è visto da molti (molti?) come un orribile mostro responsabile di ogni disastro della nazione, anzi la matrice stessa del male assoluto. Un catalizzatore di istanze "anti", "contro": c'è chi lo cavalca perché è alla disperata ricerca di visibilità, i famosi "morti di fama" di cui ho avuto esperienza diretta in una mia lontana gita in loco nei giorni della kermesse; c'è chi non vede l'ora di sbarazzarsene più o meno dal 1951, anno della sua nascita. Costantemente sotto attacco, per motivi quasi sempre futili, e spesso, come in queste settimane, pretestuosi e strumentali. 

Passa la voglia, a combattere coi mulini a vento. Nel 2021, con un tatto e un'eleganza da rimarcare, per timbrare il cartellino del "dalli al Festival" hanno messo in mezzo la pandemia e la conseguente crisi economica. Che finezza! I fatti sono noti e non è compito mio ricapitolarli, quanto tentare di rifletterci su. Amadeus è partito con eccessivo ottimismo, sposando subito la causa del "Festival della rinascita", del ritorno alla normalità a tutti i costi. Che non potesse essere così era chiaro quantomeno dai primi bagliori dell'autunno, quando si è presentata la seconda ondata, e sempre più evidente a ridosso del Natale, allorché si è cominciato a bisbigliare prima, vociferare dopo, di terza ondata. Così come era risaputo che la campagna vaccinale avrebbe avuto bisogno di tempo per produrre i suoi benefici effetti, un po' per le caratteristiche dei vaccini stessi, un po' per i rallentamenti tecnici e burocratici incontrati nel nostro Paese. 

Di fronte a questo stato di cose, era d'obbligo programmare un Sanremo d'emergenza, un evento essenziale e rigoroso, che sapesse intrattenere e divertire senza sbilanciarsi verso la solita grandeur delle ultime edizioni. E soprattutto, mettendo in doveroso preventivo l'assenza del pubblico. Su quest'ultimo aspetto, il direttore artistico si è incaponito oltre ogni misura, e sugli spettatori in sala rischia ora di "impiccarsi": nella situazione in cui siamo era da accettare, da subito, di dover pilotare una kermesse a spalti vuoti, come tutti i tornei sportivi che si stanno svolgendo tranquillamente da diversi mesi a questa parte. 

LA REALTA' PARALLELA DELLA CLOACA SOCIAL - Ecco, qui finiscono secondo me le colpe dell'anchorman, e inizia il delirio. Un delirio social, innanzitutto: l'alzata di scudi contro l'eventuale presenza di pubblico (pagato, non pagante) in sala all'Ariston è, ne sono convinto, una protesta nata e sviluppatasi al 99 per cento sul web, e quindi di valore infimo. Perché, è ora di gridarlo forte e chiaro, i social sono una discarica a cielo aperto (salvo rare eccezioni, si capisce), la cloaca dell'opinionismo più becero, superficiale, retorico, populista, moralista, il regno dell'ignoranza più arrogante e strafottente, la ultraminoranza fin troppo rumorosa. Se l'anno scorso alla Rai avessero dovuto dare retta alle campagne di Facebook e dintorni, Junior Cally (ricordate?) sarebbe stato escluso dalla gara. Non è successo e il rapper ha potuto fare i suoi passaggi promozionali in Riviera, che sono filati via come acqua fresca. Perché i social non sono la realtà, ne rappresentano solo un minuscolo spaccato, il peggiore, quello dei perdigiorno, degli odiatori seriali e dei sotuttoio a vanvera. E un'azienda seria, quale la Rai è, non può permettersi di seguire la peggiore "pancia" del Paese. Accettarne gli scombiccherati e sgrammaticati diktat creerebbe un precedente pericolosissimo per tutto il mondo dello spettacolo. Lo ha già colpevolmente fatto con la surreale sospensione di Detto Fatto per quello sgangherato e innocuo sketch sulla "spesa sexy", ma in questo caso l'errore sarebbe enormemente più grave e, forse, irreparabile. Si finirebbe con l'agire sempre sotto ricatto pseudo-morale. 

"O TUTTI O NESSUNO", QUINDI NESSUNO - Certo, poi non si può negare che, quest'anno, la protesta sia parzialmente uscita anche dagli schermi dei computer e degli smartphone. E chi la sta portando avanti non ci sta facendo bella figura. Il concetto "L'Ariston non deve aprire perché i teatri e i cinema sono chiusi da un anno" è aberrante. "O tutti o nessuno" è un modo di pensare che personalmente mi fa ribrezzo. "O tutti o nessuno, quindi nessuno", diceva tempo fa Pippo Chennedy, del resto un noto maitre à pénser. Un'eguaglianza sociale al contrario, una corsa al ribasso e al minimalismo che conduce direttamente al disastro socioeconomico. Avessi impostato la mia vita professionale su questo principio, avrei trascorso gli ultimi vent'anni in sciopero costante. Non è così che funziona, soprattutto in una fase storica particolarissima come quella che stiamo vivendo: non è applicando il "se non lavoro io non deve lavorare nessuno" che usciremo da questo cul de sac. Ben vengano degli spiragli, ben venga la possibilità che viene data a qualcuno di ricominciare a lavorare, occasione che potrebbe poi fungere da apripista per altri. Il settore dello spettacolo è pressoché fermo da un anno: vogliamo che continui a restare impantanato per un malinteso senso di parità di diritti (che nella fattispecie sarebbe l'eguale diritto a fare la fame)? Quelli che invocano rispetto per chi è rimasto disoccupato, quale rispetto mostrano per chi, in quella settimana, potrebbe finalmente uscire dalla lunga inattività cominciando a dare ossigeno a se stesso e a tutto il comparto? Troppo comodo vedere sempre le cose dal proprio punto di vista. "If I were in your shoes" è un motto sconosciuto dalle nostre parti, e non c'è nulla di più disgustoso dell'egoismo travestito da solidarietà. 

VALORIZZARE IL PRODOTTO NEL RISPETTO DELLE REGOLE - La Rai e l'organizzazione di Sanremo hanno fatto quello che dovevano: percorrere ogni strada praticabile per portare almeno una quota di spettatori in sala e, quindi, una parvenza di normalità in un contesto che normale non è. Si sono comportati come moltissimi italiani in questi dodici mesi: approfittare di ogni minimo pertugio offerto dai vari DPCM per riappropriarsi di spazi che erano stati sottratti loro dal virus, e farlo anche dando interpretazioni molto, molto forzate delle norme. L'ente tv di Stato ha tentato, sta tentando in ogni modo di valorizzare il suo evento di punta, anzi l'evento per eccellenza, quello che porta milioni di euro di pubblicità e genera introiti utili, anche, per il sostentamento di altri progetti editoriali meno sfarzosi ma comunque importanti. Onestamente, non riesco a fargliene una colpa: qualsiasi azienda agirebbe così, a meno di non voler produrre in perdita e andare quindi incontro a una rapida bancarotta. 

SANREMO E ARISTON SONO TV - L'idea della bolla sulla nave è parsa bislacca da subito, soprattutto perché di difficilissima realizzazione medica, quella dei figuranti pagati era del tutto fattibile e lecita in quanto, l'ho scritto sui social e lo ripeto anche qui, il Festival non è un semplice spettacolo teatrale, è uno show televisivo a tutto tondo che viene incidentalmente ospitato in un teatro: aspetto, quest'ultimo, che oltretutto almeno da un paio di lustri è visto con fastidio, dato che si vorrebbe creare una location ad hoc per la manifestazione, uno spazio più ampio e più in linea con le moderne esigenze spettacolari. In quella settimana, l'Ariston è un set tv in senso pieno, totale, assoluto, anche più di altri set tv tradizionali. Luzzatto Fegiz lo definì il tal modo, set televisivo per l'appunto, già nel '78, pensate un po'. E la trasformazione del Festivalone da semplice gara canzonettistica a show catodico venne sancita e deprecata da Gianni Borgna, lo storico per eccellenza della kermesse, nella sua "L'Italia di Sanremo", opera pubblicata a fine anni Novanta. Aspetto "catodico" che quest'anno, va da sé, risulterebbe ulteriormente accentuato, per ragioni contingenti. 

Sanremo è un video-spettacolo (a carattere musicale) che si svolge in un teatro, esattamente come I soliti ignoti al Delle Vittorie e come "La musica che gira intorno", da poco conclusosi al Teatro 1 di Cinecittà. Quest'ultimo è stato un evento senza pubblico "pagato" ma il pubblico (figurante) poteva averlo ("Potevano scegliere l’opzione di qualche spettatore sparso in sala, ma mi dava un’impressione ancor più spettrale", ha dichiarato la presentatrice Fiorella Mannoia), come l'ha avuto X Factor poche settimane fa e come è espressamente previsto dall'ultimo DPCM. Il tweet con cui ieri il ministro Franceschini ha sparigliato le carte evidenzia una scarsissima conoscenza dell'apparato Festival e delle dinamiche televisive, sorprendente da parte di una personalità di alto profilo istituzionale. E chi protesta, e con ragione, per lo sbarramento delle sale oltre ogni limite accettabile, non deve andare a Sanremo, ma a Roma, chiedendo magari dello stesso Franceschini, hai visto mai.  

LE STRANE FRONDE INTERNE - Ci sarebbe poi da parlare dalla singolare fronda anti Festival di una emittente tv genovese, quindi ligure: un po' come se una testata locale tifasse per la retrocessione o il fallimento di Genoa e Sampdoria. Cosa peraltro impossibile perché sulle squadre di calcio campano tutte le reti regionali, con trasmissioni su trasmissioni. Siamo all'autolesionismo per la ricerca di pochi e sparuti consensi (o telespettatori). E poi ci sono certi nobili attori teatrali che alzano scandalizzati le loro grida di dolore, ma lo fanno attuando inaccettabili distinguo, parlando con disprezzo delle "kermesse mediatiche", e quindi disprezzando (se ne rendono conto?) le centinaia di persone che lavorano alla realizzazione delle stesse e gli artisti che nella kermesse mediatica in oggetto avranno finalmente l'occasione, dopo un anno di stop, per cantare dal vivo, far sentire le loro opere a un pubblico vastissimo. Già, il rispetto richiesto da tutti, mentre per chi Sanremo dovrebbe animarlo, per cantanti, musicisti, lavoratori dietro le quinte, rispetto non ce n'è mai, tantomeno quest'anno, loro sono i paria della società culturale e spettacolare. Uno snobismo intellettualoide che non è nuovo, da certe parti, e che alla diffusione della cultura ha apportato solo danni, da sempre. 

IL FESTIVAL E GLI ALTRI TEATRI - Sorvoliamo su chi invoca l'annullamento della manifestazione per rispetto alle vittime del Covid e per la drammaticità del momento: certo, chiudiamoci in casa con le persiane abbassate e i balconi listati a lutto, mentre il campionato di calcio continua allegramente e gli schermi tv ci portano costantemente in casa le immagini gioiose, spesso sopra le righe, di spettacoli e spettacolini, quiz e rubriche leggere varie. E poi, diciamocela tutta, paragonare Sanremo, con tutto il suo enorme apparato, all'attività di una qualsiasi sala cinematografica o teatrale è follia retorica e moralista. Nemmeno in Alice nel paese delle meraviglie si arriverebbe a tale limite di assurdità: un Mondiale di calcio non conta quanto il torneo giovanile del campetto sotto casa mia. Può sembrare socialmente odioso ma è solo realistico, è così che il mondo gira, più o meno dalla notte dei tempi. 

Nessun evento spettacolare italiano è paragonabile a quello ligure, nemmeno lontanamente. Il Festival ha un peso specifico storico, artistico, popolare, mediatico che merita rispetto e un trattamento adeguato, non un egualitarismo posticcio che può guadagnarti i consensi dei superficiali ma, alla lunga, nuocerà a tutti. Perché se Sanremo muore, al di là del buco finanziario che si aprirebbe in Rai (poi magari aumenteranno il canone per rimediare alla fuga degli sponsor, e allora li vorrò vedere, i contestatori), viene meno uno degli ultimi palcoscenici di rilievo internazionale per i musicisti italiani, soprattutto quelli emergenti. E viene meno la più possente macchina promozionale esistente per rilanciare un settore in crisi profondissima. Le centinaia di artisti, giovani e affermati, che hanno fatto domanda di partecipazione per  accedere a questa edizione sono la testimonianza più vivida, lampante, inequivocabile della centralità e dell'importanza di questo appuntamento per chi di musica vive e vorrebbe tornare a vivere, il resto sono chiacchiere. Fermate la vostra medievale furia iconoclasta, finché siete in tempo. 

LA SOLUZIONE - Visto che sarebbe assurdo far morire un evento che, oltretutto, scoppia di salute, come attestano dati di ascolto, traffico web e introiti pubblicitari degli ultimi dieci anni, c'è sempre la via del compromesso, tanto praticata in Italia: venirsi incontro a metà strada e optare per un posticipo della rassegna, soluzione non ideale ma che a questo punto sarebbe davvero il minore dei mali. Ma è fattibile? L'irrigidimento su marzo non è solo un capriccetto da bimbi dell'asilo: dietro ci sono i programmi stilati da cantanti, case discografiche, management di artisti, gli impegni degli orchestrali e di tutti gli altri lavoratori, gli investimenti degli sponsor che sono stabiliti anche in base al periodo di messa in onda di una trasmissione. Un altro delirio è riuscire a ricomporre tutti i tasselli per mettere in cantiere uno slittamento (non di troppi mesi però, sennò tanto vale dire arrivederci al 2022). Ammesso e non concesso che ad aprile, maggio o giugno, e non oltre, la situazione sanitaria sia migliore di oggi.