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venerdì 26 giugno 2015

SANREMO 2016 E... 2017: CARLO CONTI ANCORA IN SALA DI COMANDO, COM'E' GIUSTO. CON LUI UNA "FORMULA FESTIVAL" DESTINATA A DURARE

                                       Carlo Conti, saldamente in sella al Festivalone

Come volevasi dimostrare. La riserva è stata sciolta in occasione della presentazione dei palinsesti Rai del prossimo autunno: il deus ex machina del Festival di Sanremo sarà ancora Carlo Conti, direttore artistico fino al 2017 e sicuro padrone di casa per l'edizione del febbraio 2016. "Note d'azzurro" aveva spinto per il bis dell'anchorman toscano in tempi non sospetti, in un periodo in cui il buon Carlo, reduce dal successo di audience e di gradimento del suo primo Festivalone, non nascondeva un certo scetticismo circa l'eventualità di riprendere in mano il carrozzone rivierasco. Di più: su queste pagine mi ero spinto oltre, auspicando per il suddetto un incarico a lungo termine. 
SVOLTA STORICA - Troppo facile, dunque, dire adesso che si sia trattato della scelta più giusta. Ed è una svolta a suo modo epocale, se è vero che, nell'ultima fase storica della kermesse ligure, la tendenza è sempre stata quella di cambiare il più frequentemente possibile la struttura organizzativa e gestionale dell'evento, quindi direzione artistica e presentazione: un anno, due al massimo, e poi spazio al puntuale avvicendamento. Un modus operandi che partiva, a parer mio, da un'impostazione di fondo sbagliata: cioè che la "filosofia" dello show sanremese dovesse essere costruita attorno a un'idea brillante di conduzione, una conduzione che fosse essa stessa spettacolo nello spettacolo, capace di catalizzare i riflettori al pari della gara; e poi che il team di "anfitrioni" dovesse variare il più possibile negli anni, per offrire al pubblico continue novità. Sbagliato, perché in un evento come il Festival le novità, l'originalità, la brillantezza dovrebbero arrivare dalla "materia prima", ossia dalle composizioni musicali in concorso: tutto il resto è sovrastruttura, per quanto importante. 
RADDOPPI FINITI MALE - Va poi detto che, negli ultimi quindici anni, il solo Morandi ha esaurito la sua doppia esperienza all'Ariston con un bilancio in vistoso attivo: buchi nell'acqua, invece, per gli ultimi due brevi regni di Baudo (passi falsi nel 2003 e nel 2008), e soprattutto per il Fabio Fazio targato 2014, con un crollo inatteso e per questo ancor più bruciante, per lui e per i vertici Rai. Normale che, davanti a precedenti del genere, Conti nicchiasse: fedele al motto "me ne vado da vincitore", troppo grosso era il timore di non confermare lo straordinario consenso di Sanremo 2015, e di bruciare così (in parte) un trionfo faticosamente costruito dopo anni di anticamera professionale. 
UNA NUOVA "FORMULA SANREMO" - Tuttavia, come già da me sottolineato alcune settimane fa, il matrimonio Conti - Sanremo appare radicalmente diverso, rispetto a certe direzioni artistiche del recente passato. Dopo anni di soluzioni valide, ma tutto sommato estemporanee, si è forse trovato l'uomo in grado di imprimere una linea "editoriale" ben precisa e duratura al Sanremone. L'artista toscano, lavorando quasi sottotraccia, ha infatti messo a punto una vera e propria "formula Festival", legata al passato eppure fresca, di grande impatto e lineare, se pensiamo agli sperimentalismi financo eccessivi di certe ultime edizioni (su tutti, il doppio brano per i Big). 
Riprendo ciò che avevo scritto sul blog, un mese dopo la fine dell'ultima rassegna, circa l'impronta data da Conti: "Nulla di particolarmente rivoluzionario, quanto piuttosto un ritorno nel solco della tradizione, con gli opportuni aggiornamenti richiesti dall'evoluzione del mezzo catodico. Così, il Sanremo 2015 è risultato un Festival asciutto, snello, ritmato nella conduzione, incentrato sui cantanti in gara: giovani di nuovo in primo piano, ribalta degna di questo nome per i Big, competizione avvincente in entrambe le categorie, buon livello dei pezzi. Questo è il ritratto perfetto del Festival di Sanremo, nel formato in cui si è affermato e ha avuto successo lungo i decenni; nessuna alchimia, nessun meccanismo astruso, nessun coup de théatre (Benigni, Celentano, Madonna...) per assicurarsi i riflettori mediatici: solo tanta musica e pochi tempi morti, pur se con l'inevitabile "tassa" da pagare alle esigenze di rete, leggasi passerelle dei personaggi Rai in promozione di future trasmissioni. E' una struttura spettacolare estremamente funzionale, che non può essere "pensionata" dopo una sola edizione per avventurarsi lungo strade nuove, ma che può reggere a lungo, e Conti è la persona più adatta a mantenerla a regime". 
SULLE ORME DI BAUDO - Ecco, dunque, perché Conti può essere davvero il nuovo Baudo, in riferimento a ciò che l'anchorman siciliano ha dato al Sanremo. Certo con caratteristiche in parte diverse rispetto al Pippo nazionale: meno istrionico, meno accentratore, meno mattatore, ma ugualmente capace di reggere le complesse fila della macchina festivaliera con mano ferma e con continuità. In grado di assicurare alla kermesse un periodo discretamente lungo di stabilità sugli alti livelli. Perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, il Festival di Sanremo nella sua essenza è ciò che abbiamo in buona misura visto quest'anno: cantanti in primo piano (e soprattutto tanti cantanti, non i miseri quattordici degli anni precedenti), e poche divagazioni, compatibilmente con le esigenze della tv attuale che mal tollera passerelle "esclusivamente" musicali, e che ha invece sposato la logica della commistione musica + varietà. Solo che per troppo tempo il fattore "show" ha prevalso su quello canoro, mentre dal febbraio scorso la tendenza sembra essersi decisamente invertita. 
AUDITEL? NIENTE PAURA... - A Conti non resta, si diceva, che perfezionare un meccanismo già ben oliato, senza paura di eventuali oscillazioni di audience: potrebbe anche esserci un calo, ma non ci giurerei e, nel caso, non sarà particolarmente significativo. Tutto dipenderà, credo, dalla partenza, perché la seconda volta il pubblico si aspetta sempre qualcosina in più, fin dall'inizio, e non perdona più nulla. Ecco, in questo senso il Fazio quater, già di per sé impostato male all'origine, risultò ulteriormente gravato da un avvio del tutto infelice. 
PUNTI FERMI PER IL FUTURO - In attesa di scoprire, nei prossimi mesi, le innovazioni che verranno inserite nella struttura della manifestazione (poche, scommettiamo?), ribadisco alcuni punti fermi: insistere sull'alto numero di big in gara, mantenendo il medesimo gusto leggero, pop e glamour nella composizione del cast, ma ampliando lo spazio per le proposte alternative, quest'anno un po' latitanti: il materiale non manca, e nei prossimi giorni il Coca Cola Summer Festival di Roma ne offrirà una succosa conferma, come già era accaduto l'anno passato. 
Ci sarà invece da fare un grosso lavoro sulle Nuove proposte, che hanno rappresentato la più inattesa delle sorprese negative dell'ultima edizione: nonostante la collocazione in prime time e un meccanismo di gara di grosso appeal emozionale, gli esiti commerciali sono stati sconfortanti. Si ripartirà dalle selezioni televisive autunnali, in pratica il "Sanremo giovani" lanciato da Baudo nel tardo '93 ripensato in chiave contemporanea, quindi verosimilmente con un impronta talent. Un tentativo, in tal senso, era già stato fatto nel 2002 (Destinazione Sanremo) e fu un buco nell'acqua sia sul momento sia sulla lunga distanza (visto che per il Festival 2003 produsse una sezione Giovani di non altissimo livello), ma forse oggi i tempi sono più maturi. Ad ogni modo, le nuove formule e gli esperimenti a nulla varranno, se non si amplierà lo spettro della selezione degli emergenti, aprendo decisamente il campo a un maggior numero di generi e ad artisti in erba più coraggiosi e sperimentalisti, meno appiattiti sulle tendenze imperanti, perché di ulteriori cloni di Emma e Mengoni non si avverte francamente il bisogno, né di voci splendide ma che cantano motivetti triti e ritriti. 

giovedì 25 giugno 2015

EURO UNDER 21: VA A CASA UN'ITALIA IN CRESCITA E DI PROSPETTIVA, VITTIMA DI ERRORI PROPRI E CONVENIENZE ALTRUI

                                          Belotti, fra i migliori azzurrini in Rep. Ceca

Tre sole partite e già l'Italia è fuori dell'Europeo Under 21. Un altro passo falso per il calcio azzurro, che da un paio d'anni a questa parte sembra aver smarrito la strada maestra dei risultati (quelli pesanti, nelle fasi finali dei tornei). Premesso che ci faremo rapidamente una ragione della seconda esclusione consecutiva dai Giochi Olimpici (manifestazione di scarsa attendibilità tecnica, per come è concepita attualmente), non è da questo scivolone che si possono trarre auspici nefasti sul futuro del pallone tricolore: anche volendo sorvolare sui tristi spunti che fornisce la cronaca in tal senso (gli ultimi: Parma fallito, Catania invischiato fino al collo in una storiaccia di presunti illeciti), chi segue da un po' di tempo questo blog sa bene quali siano le criticità del sistema football Italia, qui puntualmente sottolineate fin quasi alla noia. Fra queste, certo, c'è anche la fiducia ridottissima concessa ai giovani del nostro vivaio, dal che in molti hanno già tratto la più scontata delle equazioni: pochi ragazzi di valore, Under mediocre e risultati deludenti inevitabili.
GIOCATORI CHE VALGONO - Però stavolta la storia è un po' diversa. Preso atto del fatto che quella presentata in Repubblica Ceca da Gigi Di Biagio non è stata la migliore selezione di azzurrini della storia (sicuramente inferiore, è chiaro, a quella seconda in Europa nel 2013), non si può non ricordare che in passato si è visto di peggio, pensiamo alla modesta rappresentativa del biennio 2009 - 2011 (fatta fuori ai playoff dalla Bielorussia). Scendendo nel dettaglio, questa Italia eliminata con onore ha potuto mettere sul tavolo valori non indifferenti. Ad esempio, dire che Rugani sia già pronto per la Nazionale maggiore è persino riduttivo: contro il Portogallo ha fatto praticamente reparto da solo, e più in generale ha sciorinato un repertorio completo, costanza, precisione negli interventi, sicurezza e personalità svettante; a mio modesto parere, siamo davanti a qualcosa di più di un ottimo difensore, vedremo se il tempo mi darà ragione o meno. 
Anche Romagnoli e Zappacosta sono sulla strada buona per convincere Antonio Conte, mentre Berardi in queste due settimane ha mostrato solo in minima parte le doti che, invece, ha più volte messo a disposizione del Sassuolo, penalizzato forse da un modulo che ha cercato di valorizzarne le qualità di rifinitore, più che quelle di stoccatore puro: ma una promozione al... piano superiore la si potrebbe tranquillamente azzardare, visto anche il mal di gol che affligge l'Italia "adulta". Altri ragazzi, in primis Cataldi e Benassi, hanno bisogno di ancora un po' di esperienza agli alti livelli, ma il talento è evidente; Belotti, che ha oggettivamente fatto un buonissimo Europeo, spesso costretto a lotte impari contro le soverchianti difese avversarie, deve invece ottenere maggiore spazio nel suo club, giocare e accumulare minutaggio, insomma. 
TITOLARI NEI CLUB - Minutaggio che invece non è mancato, a molti esponenti di questa Under: se spesso, nell'attuale delicata congiuntura storica, i nostri migliori giovani si intristiscono confinati in panchina o in tribuna, o sono costretti a scendere di categoria per poter vedere il campo, stavolta avevamo un buon lotto di titolari in squadre di A, sebbene in buona parte di secondo piano: pensiamo ai citati Zappacosta, Rugani, Romagnoli, Cataldi, Berardi, ma anche a Crisetig e Benassi. Certo, si potrà obiettare che diversi ragazzi delle altre rappresentative vantano invece già corpose esperienze nelle competizioni europee (fra gli azzurrini solo Sturaro può mettere in curriculum questa voce), ma già il fatto che molti dei nostri siano riusciti a farsi spazio in una massima serie votata all'esterofilia è un passo avanti, rispetto al recente passato. 
PROSPETTIVE NOTEVOLI - E dunque, non è per abbracciare la filosofia della volpe e dell'uva, ma, per una volta, cerchiamo di guardare la situazione in prospettiva, senza rimanere legati al risultato immediato. Del resto, quanti elementi di Under 21 azzurre vincenti abbiamo visto, poi, perdersi nei meandri del calcio professionistico senza riuscire ad emergere? Viceversa, ricordiamo che una delle selezioni giovanili più deludenti in quanto a traguardi raggiunti, quella del biennio 1996 - 98, eliminata nella fase di qualificazione dall'Inghilterra dopo aver perso anche con la Georgia, annoverava nelle sue file gente come Buffon, Iaquinta (campioni del mondo 2006), Fiore, Ambrosini (vicecampioni d'Europa nel 2000), Cristiano Lucarelli e Tacchinardi. La funzione dell'Under dovrebbe essere questa: rendere i giovani competitivi per i palcoscenici dei grandi. Sotto questo aspetto, il gruppo di Di Biagio potrebbe rivelarsi molto più prolifico di quanto adesso si sia indotti a pensare. 
DISASTRO IN AVVIO - In Repubblica Ceca la nostra sorte è stata inevitabilmente subordinata alla falsa partenza con la Svezia: un'ora giocata con sufficiente autorità, in perfetto controllo della situazione, ma con una gestione troppo passiva dell'esiguo vantaggio, quando si sarebbe potuto tranquillamente affondare i colpi su un avversario ridotto in dieci; poi, l'inopinato pareggio su corner e la follia di Sturaro: è sempre sgradevole gettare la croce addosso a un solo elemento, ma non si può negare che le colpe della sconfitta con gli scandinavi ricadano in larga parte sullo juventino, che per la sua esperienza agli alti livelli mai avrebbe dovuto lasciarsi andare a una reazione del genere. 
Giornata infelice anche per il cittì, quella: una formazione sbagliata, come evidenziato anche dalla girandola di cambi nella gara successiva. Troppi "pretoriani" in campo, gente come Bianchetti e Battocchio la cui "titolarità" azzurra è stata in questi mesi superata dagli eventi, nel senso che la stagione di club ha messo in evidenza giocatori più pronti e più meritevoli, ma il buon Gigi ha avuto se non altro il merito di accorgersi dell'errore e di tornare sui propri passi, anche se certi abbagli generalmente si pagano, in una competizione breve come questo Europeo. 
CRESCITA NELLE ULTIME DUE GARE - Con il Portogallo le cose sono andate decisamente meglio: non c'è stato il dominio assoluto del campo descritto da alcuni cronisti in estasi, ma una gara di grana buona, purtroppo caratterizzata dall'eccessiva prodigalità in zona d'attacco, con almeno sei occasioni nitide sprecate: e il fatto che l'ultima, quella che poteva dare una svolta al nostro cammino, sia capitata sui piedi di Biraghi, non certo un bomber, è stato forse il segnale che questa manifestazione sarebbe stata stregata fino in fondo, per noi. I gol sono poi arrivati tutti insieme ieri sera, con l'Inghilterra, che al contrario dei lusitani ha accettato la sfida in campo aperto (per esigenze di classifica) e ci ha consentito una più ampia libertà di manovra. Insomma, un'Italia in vistoso crescendo, con prestazioni che hanno confermato le buone doti della rappresentativa, sia come singoli sia come meccanismi di squadra. 
NESSUN BISCOTTO, MA MENTALITA' "ADULTA" - E' poi vero che bisogna mettersi nelle condizioni di non dipendere dai risultati degli altri, però si può anche sbagliare il primo match e poi recuperare: il fatto che anche a livello giovanile prevalgano atteggiamenti sparagnini volti a salvaguardare l'utilità del pari piuttosto che a giocarsi comunque la partita, come accaduto ieri fra Portogallo e Svezia, è oltremodo triste. La storia parla chiaro, e dice che, nelle grandi competizioni internazionali, la tanto bistrattata Italia certe situazioni quasi sempre le ha subite, mentre quando si è trovata a disputare l'ultima partita del girone in condizioni di privilegio (già qualificata, se non già sicura del primo posto), mai ha "sbracato" ma si è sempre giocata la partita (penso ad Argentina '78 o a Euro 2000, i primi due esempi che mi vengono in mente). Si badi bene, qui non si vuole accusare lusitani e scandinavi di disonestà, così come in fondo non fu disonesto nemmeno quello che i grandi media ribattezzarono "biscottone", il famigerato Svezia (ops) - Danimarca del 2004: si tratta semplicemente di un adattamento alla mentalità più deteriore del football adulto, la convenienza che  porta ad accontentarsi di un determinato risultato. Nessuna irregolarità, ma sia chiaro che lezioni, in tal senso, nessuno ce ne potrà più dare. 

mercoledì 17 giugno 2015

CLUB ITALIA: LA NAZIONALE CADE COL PORTOGALLO E CHIUDE UN'ANNATA GRIGIA. IL PROGETTO CONTE NON DECOLLA

                          Rugani: uno dei giovani che vogliamo vedere in azzurro da settembre

L'ultima "settimana azzurra" della stagione si chiude con un buco nell'acqua clamoroso, in quel di Ginevra. La sconfitta col Portogallo è più pesante di quanto non lasci intendere lo striminzito 0-1: pesante per i suoi risvolti pratici, che vedremo, e perché assurge, in fondo, ad emblema assai veritiero di un anno post Mundial che va in archivio con molte più ombre che luci. La gestione Conte, al tirar delle somme, non ha portato le scosse e la svolta auspicate dopo il disastro brasiliano, e del resto, a pensarci bene, era difficile che l'andazzo potesse cambiare in maniera radicale, visto che gli uomini a cui si è affidato l'ex trainer bianconero sono in larga parte gli stessi che innervavano il Club Italia targato Prandelli.
DAI FUOCHI D'ARTIFICIO AL GRIGIORE - L'inizio era stato assai promettente, con quel brillante galoppo in amichevole sull'Olanda (bronzo Mundial) e la convincente vittoria all'esordio europeo, in casa della Norvegia; e con Immobile e Zaza che, pur con i limiti dell'inesperienza e con ampi margini di miglioramento, sembravano poter costituire una credibile coppia d'attacco per la rinascita della nostra rappresentativa. Ahimè, la magia dell'aria nuova "contiana" si è presto dissolta: dopo, sono arrivati due successi striminziti sulle cenerentole Azerbaigian e Malta, mentre nelle ultime sei gare solo una volta i nostri prodi sono riusciti a portare a casa il bottino pieno, nell'amichevole pro alluvionati di Genova con l'Albania, roba del novembre scorso.
I numeri sono pietre, e dicono che l'Italia va in vacanza con tre vittorie e tre pareggi nel girone di qualificazione per il torneo continentale, il che significa secondo posto dietro la Croazia: fosse ancora in vigore la vecchia formula a sedici squadre per la fase finale dell'Euro, a questo punto saremmo a fortissimo rischio playoff. La débacle coi lusitani ha poi aggiunto la ciliegina sulla torta: la sconfitta, dedicata a chi continua pervicacemente a sostenere l'inutilità delle amichevoli, ci costa il posto di testa di serie nel sorteggio per le eliminatorie di Russia 2018: altra impresa alla rovescia, dopo quella che la decadente banda prandelliana aveva messo a segno nell'autunno 2013, il pari interno con l'Armenia (!) che ci privò di analogo privilegio in occasione della composizione dei gironi di Brasile 2014.
SI NAVIGA A VISTA - Insomma, un pianto, ma i dati di fatto sono questi, e non si può fare  a meno di rilevarli, anche in un blog come il mio che ha sempre cercato di salvare il salvabile nel cammino degli azzurri, dal 2011 a oggi. L'impressione, netta, è che da settembre a oggi si sia optato per la navigazione a vista, non gettando basi autenticamente concrete per un futuro più confortante. Per questo ho letto e ascoltato con sospetto la marea di elogi riversatasi sugli azzurri dopo il pari di Spalato, in seguito a una prestazione a tratti incoraggiante ma che ha prodotto, di fatto, solo un pari in rimonta e di rigore (il cucchiaio di Candreva), lasciando la situazione di classifica esattamente come era alla vigilia.
CENTROCAMPO OK ANCHE SENZA PIRLO - E' un'Italia ancora pateticamente attaccata ai suoi totem iridati del 2006: e se la cosa si può al limite accettare per Buffon, che dopo la paperissima nel match di andata con la Croazia si è riscattato con una stagione monstre (e punta giustamente a eguagliare lo Zoff quarantenne di Spagna '82), il fatto che le chiavi della manovra siano ancora affidate agli stanchi piedi di Pirlo non può non destare legittime perplessità, visto che il nuovo corso era stato avviato con l'auspicio di una maggiore apertura ai giovani del vivaio. Eppure proprio il centrocampo rappresenta una delle poche note liete di questa annata senza sorrisi: è il reparto che oggi, dopo dieci mesi di accurata selezione, offre al cittì la scelta più ampia e qualitativa, dalla fase di filtro a quella di rifinitura: Candreva è ormai un elemento di statura internazionale, così come Verratti, mentre Parolo, Bertolacci e Soriano hanno chiaramente i mezzi tecnici per poter fare assai più del poco che hanno mostrato nelle ultime due gare, e un posto per l'eclettico Florenzi lo si dovrà trovare ad ogni costo, così come sono pronti a dare un cospicuo contributo, a ridosso delle punte, anche i brillanti Bonaventura e Insigne, sol che gliene venga data la possibilità. Discorso a parte per Marchisio, che deve decidersi a riversare anche in azzurro la sostanza che ha messo nell'ultimo anno nell'impianto tattico juventino. 
E' TEMPO DI RUGANI E ROMAGNOLI... - I drammi sono dietro e davanti: in terza linea, per un elemento di ormai provata caratura "extra" come Bonucci e nell'attesa del rientro di Chiellini, siamo ancora a barcamenarci fra i tremori di Astori e Ranocchia: più affidabile il primo del secondo, ma stiamo comunque parlando di elementi che, nei tempi di vacche grasse del calcio azzurro, in rappresentativa mai avrebbero trovato cittadinanza; in particolare l'interista, dopo la sconfortante prova svizzera, a rigor di logica dovrebbe aver definitivamente chiuso con la Nazionale, e francamente non si comprendono le titubanze di Conte nel dare via libera a Rugani e Romagnoli, giovani rampanti e nettamente più dotati dei due citati. In avanti, invece, le alternative non mancano, ma nessuna combinazione fra i disponibili ha fornito la quadratura del cerchio: Immobile, Zaza e Pellè pungono troppo raramente, Gabbiadini ha avuto fin qui meno spazio di quello che avrebbe meritato, ma non è certo un super fromboliere (anche se la sua produttività sotto porta sta crescendo esponenzialmente), e senza uno che timbri regolarmente là davanti è dura emergere ad alti livelli. 
QUALCHE BUON LAMPO A SPALATO - Un cantiere aperto, questo siamo, ma la data di consegna lavori permane ignota, e il tempo a disposizione non è moltissimo. La critica si aggrappa ai pochi lampi che qua e là emergono da prestazioni spesso avvitate in un grigiore senza sbocchi: a Spalato l'Italia ha regalato fiammate di gioco incoraggianti, e prodotto una buona quantità di palle gol, dimostrando che il divario di classe con la Croazia non è così ampio come era apparso a San Siro l'anno scorso; El Shaarawy, prima di naufragare a Ginevra come gran parte dei compagni, era parso sulla strada buona per riappropriarsi delle antiche misure tecniche, saltando l'uomo e regalando spunti in quantità in attacco, ma fallendo anche una rete clamorosa (un'altra, però, gli è stata cancellata ingiustamente). Della disinvoltura di Candreva, ormai pienamente consapevole delle proprie potenzialità, ho già detto, mentre anche Darmian ha confermato di essere diventato una certezza per questa squadra, fascia destra o sinistra che sia. Ma siamo sempre punto e a capo, se il buon lavoro sulle corsie laterali e nella zona nevralgica viene vanificato da una difesa pasticciona e una prima linea sprecona. 
ERRORI E BLACK OUT - Con questi chiari di luna non si vince e non si raccoglie nulla: se a questo aggiungiamo i troppi errori di misura e di tocco, che rallentano o bloccano la costruzione della manovra e consentono agli avversari recuperi di palla spesso letali, il quadro è completo. E se venerdì scorso i nostri erano stati perlomeno più continui nel corso della gara, col Portogallo, dopo i primi venti minuti di discreta fattura, sono bruscamente calati per poi scomparire letteralmente una volta incassata la decisiva rete di Eder, salvo scuotersi in chiusura, quando hanno confezionato ben tre palle gol con Gabbiadini, Matri e Ranocchia. Prima, però, il buio assoluto o quasi: inaccettabile perché, pur con tutti i nostri difetti, questi lusitani, a maggior ragione gravati dall'assenza di Cristiano Ronaldo, non ci erano affatto superiori.
DA SETTEMBRE PIU' GIOVANI, PIU' GIOCO, PIU' CONCRETEZZA - Insomma, parliamoci chiaro: dopo un anno di piccolo cabotaggio, occorre qualcosa di più. E' positivo lo sperimentalismo tattico di un Conte non più legato mani e piedi alla difesa a tre, ma ora bisogna andare oltre, rompendo gli indugi e puntando con più decisione sui giovani delle ultime due covate Under 21 (sì, anche quella che domani inizia la sua avventura nell'Europeo di categoria): c'è ad esempio un Berardi che, reduce da una stagione più "matura", potrebbe togliere qualche castagna dal fuoco offensivo in cui questa Italia si dibatte, mentre Immobile, capocannoniere prima in B poi in A negli ultimi anni, non può certo aver esaurito improvvisamente le sue risorse di goleador. Da settembre ci aspettano quattro partite del tutto alla portata, di cui tre in casa con Malta, Bulgaria  e Norvegia (a cui aggiungere la trasferta in Azerbaigian). Chiedere dodici punti è davvero il minimo, pretendere più continuità d'azione e maggior concretezza è un dovere, altrimenti è inutile stare a parlare di competitività internazionale. Ed è anche inutile sollazzarsi coi pochi lampi di Spalato e con qualche quarto d'ora ben giocato, se poi non sappiamo neppure più cosa significhi esser testa di serie... 

domenica 7 giugno 2015

CHAMPIONS LEAGUE 2015: TRIONFA UN BARCELLONA "TERRESTRE". SICURI CHE LA JUVE NON DEBBA AVER RIMPIANTI?

                                             Suarez: ha deciso la finale di Berlino

Dream team e marziani non se ne sono visti, ieri sera, all'Olympiastadion di Berlino. Il Barcellona del secondo "triplete", perlomeno per quanto mostrato nell'atto finale della Champions League 2014/15, non è una squadra stratosferica, un inarrivabile ensemble di extraterrestri: trattasi, molto più prosaicamente, di un undici di altissima qualità, ricco di talento, che però non sempre ruba lo sguardo con la bellezza e la perfezione del suo gioco, anzi; ma nei momenti decisivi può mettere sul tavolo una concretezza spaventosa e, soprattutto, una batteria di formidabili solisti che il loro acuto, bene o male, lo piazzano in ogni gara, importante o meno che sia. No, niente extraterrestri, dunque, ma un più banale "diavoletto" sì: è quel Suarez diventato croce, senza delizia, del calcio italiano a tutti i livelli, da un anno a questa parte. In Brasile, l'estate scorsa, simbolo "cattivo" dell'Uruguay che (non certo per merito suo...) ci sbattè fuori dal Mondiale; poche ore fa risolutore, di fatto, di una finalissima molto più ispida, per i blaugrana, di quanto in molti si attendessero. 
SI POTEVA FARE... - Occhio a cedere alla tentazione del "si è fatto tutto ciò che si poteva", facile scorciatoia per i deboli. Perché se è vero che la Juventus è uscita a testa alta dalla sfida dell'anno, è anche innegabile che il film dei novanta minuti abbia scritto una storia ben chiara: gli spagnoli erano superiori, ma non avanti anni luce, e gli uomini di Allegri hanno dato, netta, la sensazione di poter fare il colpo grosso, mancandolo anche per alcuni (non molti, d'accordo) demeriti propri. Si era detto, alla vigilia, che per venire a capo di certi improbi impegni occorrono due cose: centrare la partita perfetta sul piano tecnico, tattico, fisico, mentale, con tutti gli elementi al 101 per cento delle loro risorse, e nel contempo sperare in qualche stecca del nobile avversario (un po' ciò che avvenne all'Italia contro il Brasile nell'epica sfida del 1982). Ebbene, se quest'ultimo fattore si è in fondo realizzato, da parte di Madama non tutti i meccanismi sono parsi precisi al secondo, e non tutti i "tenori" all'altezza della partitura. 
FIAMMATE ACCECANTI - Il Barcellona, si diceva, pur giocando una buonissima gara non ha fatto alcunché di veramente trascendentale. Grande compattezza e rapidità, brucianti accelerazioni alternate a lunghe pause, perfino qualche sbandamento in fase di copertura. Neymar molto attivo ma a tratti confusionario e spesso inconcludente, Messi parecchio sulle sue, con la tendenza, nel primo tempo, a dare via quasi subito la palla, quasi scottasse. Una buona occupazione delle corsie laterali, questo sì, con un Dani Alves particolarmente ispirato, e poi rare ma impressionanti fiammate, come la splendida, vertiginosa manovra che, sull'asse Neymar - Iniesta, ha messo Rakitic nella condizione di sbloccare ben presto il punteggio, con un chirurgico sinistro da centro area.
La Juve ha barcollato, ma senza crollare, mostrando sia di aver davvero acquisito una congrua statura internazionale, sia di non essere a distanze siderali dall'augusto rivale. Ha concesso agli spagnoli diverse palle gol nell'arco del match (formidabile Buffon a salvare sulla staffilata di Alves attorno al quarto d'ora, evitando ai suoi di uscire precocemente dal match), e tuttavia, dopo aver evidenziato inizialmente qualche impaccio in fase di avvio della manovra (merito anche dell'eccellente disposizione dei catalani), ha gradatamente preso le misure ai ragazzi di Luis Enrique, con Barzagli e Bonucci a svettare sicuri in retroguardia, e si è ritagliata pochi ma significativi spazi in fase offensiva, a partire da un'incursione di Morata sulla destra mal sfruttata da Vidal con un tiro fuori misura. 
JUVE NON AL TOP - Proprio la problematica serata del cileno è esemplificativa del concetto prima espresso: una Signora comunque viva, sul pezzo, pronta a cogliere le rare opportunità offerte da una partita non proibitiva, ma affrontata comunque in posizione di disagio, si vedeva frenata dalle performance sottotono di molti suoi alfieri: Vidal si metteva in mostra soprattutto per un certo nervosismo, che gli faceva conquistare una precoce ammonizione per lasciarlo via via scivolare fuori gara: ed era una "perdita" pesantissima, stante l'importanza del centrocampista nell'economia complessiva del gioco bianconero, dal contenimento alla costruzione alla  finalizzazione. Il tutto, mentre si attendeva invano che Tevez entrasse nelle pieghe della gara col piglio del fuoriclasse risolutivo: l'apache si accendeva raramente, trovava infine, soprattutto nella ripresa, diversi spazi per il tiro, ma spesso mancava la precisione, quasi sempre la potenza, anche se da una sua bella girata in area nasceva il tap-in vincente di Morata per l'1 a 1.
C'è stato un Marchisio eccellente, questo sì, che si è sfiancato in tutte le zone del campo e mostrato il solito tempismo negli inserimenti, con in più il delizioso tacco che ha dato il là all'azione dell'unico gol e un paio di schioccanti conclusioni dalla distanza, mentre Pogba, pur se a volte impreciso, è parso in deciso progresso, anche se l'esplosività e l'incisività che lo contraddistinguono sono ancora un ricordo. Lichtsteiner ed Evra ai lati han fatto il loro senza grossi picchi, frenati nella spinta dalle esigenze difensive (ma lo svizzero ha messo lo zampino nella rete del pari), mentre Pirlo, va detto con onestà, non ha sostanzialmente inciso, limitandosi a una ordinaria amministrazione che non è ciò che ci si attende da un fuoriclasse, per quanto in evidente declino. 
DIECI MINUTI PER SOGNARE L'IMPRESA, POI SUAREZ... - Quasi lo stesso film del Bernabeu, stranamente: anche lì, contro un Real che per dimensione tecnica non è affatto lontano dal Barça, i torinesi avevano centrato il bersaglio grosso pur girando all'80 per cento delle proprie potenzialità. E ieri sera, dopo aver raddrizzato l'incontro, per una decina di minuti hanno davvero dato l'impressione di poter mettere le mani sulla Coppa (ahi, quel contropiede di Pogba, rovinato da un controllo problematico del francese...). Non è bastato perché, poco dopo, è ricomparso il solito Messi delle partite importanti, quello visto tante volte, ad esempio, al Mondiale di dodici mesi fa: un Leo sonnacchioso  ma che all'improvviso accende la luce, come già aveva fatto in chiusura di primo tempo con un slalom chiuso... a fondo campo; partito a testa bassa verso la porta, ha irretito Buffon con un maligno diagonale che il portierone ha smanacciato, mettendo il "diavoletto" Suarez nella condizione di piazzare il più semplice dei tap - in.  Il possibile rigore su Pogba e altre due pericolose incursioni davanti a Ter Stegen nel finale (con Pereyra e Marchisio), prima che Neymar fissasse in contropiede un 3 a 1 di scarso significato, a schemi totalmente saltati, rappresentano l'ulteriore conferma di quanto fosse una finale "open", ossia aperta davvero ad ogni soluzione, sol che la Juve, pur inferiore sul piano dei... chili di talento, avesse saputo o potuto giocarsela attingendo ad ogni sua più recondita risorsa. 
L'ULTIMO GRADINO - Insistere sul concetto di "testa altissima" poi ci sta, beninteso, soprattutto dopo essersi approcciati alla grande soirée di Berlino quasi pretendendo e rivendicando il ruolo di sfavoriti, all'insegna del "tutto ciò che arriverà in più sarà un trionfo". Per quanto mi riguarda, lo ribadisco, il concetto era vero solo in parte, e forse questo difetto di personalità è una delle lacune che la Juventus quadricampione d'Italia deve colmare, per tornare davvero a volare più in alto di tutti anche fuori dei confini. Oltre, naturalmente, a qualche calciatore in più in grado di spostare equilibri consolidati: ma i blaugrana di Enrique, più borghesi (proletari proprio no...) e meno nobili di quelli di Guardiola, erano superabili anche con chi già c'era, coi Tevez e i Morata. 
I VERI DREAM TEAM - Onore ai campioni d'Europa, in ogni caso: concreti, si è detto in apertura, perché in grado di capire quando è il caso di smettere di specchiarsi e cominciare a tirare di sciabola. Tatticamente più tradizionali rispetto al... regno di Pepp, e aggrappati a un quartetto di "mostri". I tre lì davanti, ognuno dei quali, però, deve rinunciare a qualcosa di se stesso (spazi, giocate) per il corretto funzionamento del complesso, e Iniesta un po' più dietro, metronomo, inventore e rifinitore, uno per il quale il trascorrere degli anni sembra non incidere.
Eppure, chiudendo il cerchio con quanto detto all'inizio, le squadre "extraterrestri" credo siano ben altre: lo sono state lo stesso Barcellona del periodo 2009 - 2011, o il Bayern tante volte ammirato in questi ultimi anni, anche se incoronato da una sola Coppacampioni (e anch'essa sofferta, due anni fa col Borussia Dortmund); lo furono i due Milan di Sacchi e Capello, che in finale travolsero gli avversari. Resta il fatto che il calcio spagnolo si è portato a casa quattro coppe europee su quattro negli ultimi due anni, e siamo a otto su quattordici dal 2009 a oggi: se le Furie Rosse di Del Bosque hanno conosciuto un (momentaneo?) declino e han dovuto ripartire daccapo dopo Brasile 2014, il calcio iberico di club non cede, e ha ormai distanziato anni luce i Paesi rivali, anche le opulente Germania e Inghilterra. Riguardo all'Italia, come già avevo scritto in questo post, è stata la stagione della "ripresina", ma non ci si può accontentare. 

venerdì 5 giugno 2015

WIND MUSIC AWARDS 2015: SERATA TROPPO LUNGA E PREVEDIBILE, MA IL POP ITALIANO E' VIVO (E A VOLTE ANCHE IN PLAYBACK...)


I Music Awards hanno recuperato la loro griffe storica (Wind) e il palcoscenico prediletto (l'Arena di Verona). Ma le novità dell'edizione 2015 si fermano qui. Scrivere per il quarto anno consecutivo di questa kermesse mi risulta difficile, terribilmente difficile, perché da recensire e commentare c'è ben poco: o, quantomeno, poco che non sia già stato detto in passato. L'evento è ormai cristallizzato in una sorta di immutabilità che non giova al suo appeal televisivo. Del resto, e lo si sa, si tratta di uno show istituzionale, nulla di diverso, nell'impostazione, dal Premio Regia televisiva o dalla poco rimpianta notte dei Telegatti (che il direttore di Sorrisi e Canzoni, Aldo Vitali, pare voglia far risorgere su nuove basi). Una interminabile sequela di premiazioni, con stucchevole contorno di convenevoli, di complimenti per i risultati di vendita ottenuti dai vari dischi, con domande sui progetti futuri, sui tour mondiali o interplanetari in procinto di partire, eccetera eccetera. Tutto legittimo, per carità: doveroso e necessario, in questi tempi di crisi, promozionare ove possibile l'attività dei nostri artisti, ma per dare brio, sprint, diciamo pure "senso" a una serata del genere ci vorrebbe qualcosa di più. 
Partiamo dal minutaggio: quattro ore, una diretta fiume, sono insostenibili, dal divano di casa, anche per il più acceso consumatore di musica pop. Quattro ore di passerella, di consegna di trofei, di ascolto di canzoni per lo più note e stranote, senza un brivido, un guizzo di imprevedibilità: è dura, veramente dura. La costruzione dello spettacolo è sbagliata, fin dalla concezione: un evento del genere, messo a ridosso della stagione estiva, potrebbe essere l'occasione ideale per il lancio di un bel gruzzolo di nuovissime, potenziali hit per i mesi vacanzieri. Invece, i WMA hanno sempre lo sguardo rivolto al passato: cantanti che presentano evergreen, brani onusti di gloria e di anni, i più "coraggiosi" azzardano la riproposizione di singoli presenti sul mercato ormai da diversi mesi. Poche, poche davvero le anteprime. 
NOTE GIA' SENTITE - Ecco dunque l'ennesimo medley di Gigi D'Alessio, i Modà con un pezzo intenso come "Tappeto di fragole", risalente però al 2011, Renga con "Il mio giorno più bello nel mondo" che impazzava nel 2014, idem per "Le parole perdute" di Fiorella Mannoia e per il curioso duo Arisa - Club Dogo in "Fragili". Più recenti ma non freschissime le proposte di Fedez - Noemi ("L'amore eternit"), Negrita ("Il gioco") e Ligabue ("C'è sempre una canzone"). Le vere primizie, a parte "Il tempo non sente ragione" di Ramazzotti, le abbiamo ascoltate a sera ormai inoltrata, da Mengoni ("Io ti aspetto") a Emis Killa ("C'era una volta"), fino ai Subsonica ("Specchio") e a Deborah Iurato ("Da sola"): una costruzione della scaletta che non ha reso giustizia alla voglia di novità musicali tipica di questo periodo dell'anno. Ed è anche un peccato che uno "special event" come l'inedita accoppiata Baglioni - Morandi, presentata in avvio di serata, sia stato bruciato dal solito Fazio di "Che tempo che fa", non molti giorni or sono, togliendo all'ospitata di ieri il carattere di eccezionalità. La Rai dovrebbe gestire meglio al proprio interno certe opportunità. 
NOIA - Così, i paragoni continui fra i Music Awards e il vecchio Festivalbar continuano a risultare del tutto impropri: l'accostamento più calzante può essere semmai con "Vota la voce", manifestazione organizzata da Sorrisi e svoltasi fino al 2000, che premiava, a inizio autunno di ogni anno, gli artisti più amati sulla base di un referendum popolare indetto dal settimanale milanese, in serate che proponevano qualche lancio di prodotti nuovi ma soprattutto la celebrazione di successi commerciali già consolidati. Oggi come allora, il piacere di sentire buona musica rischia, alla lunga, di essere travolto dalla noia. 
Qualche aggiustamento di rotta servirebbe: ad esempio cambiare il manico. Aver consegnato la manifestazione all'eterna guida del duo Carlo Conti - Vanessa Incontrada non giova a movimentare il tutto: perché se Conti vive sul poderoso slancio dell'esperienza sanremese e ieri è parso più sciolto e meno legato rispetto a simili occasioni passate, nell'ambito di una conduzione comunque tradizionale, la spagnola risulta sempre più insopportabile, coi suoi "besitos" e col suo continuo indulgere sul personale con ogni artista ("Verrò al tuo prossimo concerto" e via chiacchierando, sempre all'insegna della più totale prevedibilità). 
SILVESTRE TRA LA FOLLA - Certo, rimane la qualità del cast, quest'anno particolarmente alta. Una parata di stelle delle sette note che comunque fa bene alla credibilità e... all'autostima della nostra disagiata discografia: avere Ferro, Ligabue, Antonacci, Ramazzotti e perfino De Gregori la stessa sera sullo stesso palco è cosa che, forse, riusciva solo al Vittorio Salvetti dei tempi del Festivalbar, non a caso evocato con nostalgia ieri dallo stesso Eros. A proposito del quale, però, si può dire che se il momento più emozionante del gala è stato rappresentato dalla riappacificazione fra lui e Luca Barbarossa, dopo lo scontro in campo durante la Partita del cuore di pochi giorni fa, non c'è molto da stare allegri. Della vecchia "rassegna del juke box" è parso di scorgere un "ritorno di fiamma" quando Kekko Silvestre si è trovato ad esibirsi live in mezzo alla folla, forse il più bel momento di musica schietta e genuina offerto dalla festa scaligera: queste particolari performance, coi cantanti circondati dal pubblico, si vedevano spesso al Festivalbar in Arena, solo che allora erano in playback. Playback che continua ostinatamente a far capolino anche ai WMA: se era inaccettabile già negli anni Ottanta e Novanta, oggi è semplicemente un controsenso. 
BUONA PRODUZIONE - Ma perlomeno questa fiacca passerella ha fornito confortanti conferme sullo stato creativo dell'industria canzonettistica nostrana, dopo i passi avanti che qui sul blog avevo già registrato nei mesi scorsi, a partire dal Summer Festival 2014 fino al Sanremo 2015: c'è buon fermento, vengono fuori brani ben confezionati e orecchiabili. La produzione dell'ultimo anno, di cui all'Arena abbiamo ascoltato diversi saggi, presenta diverse gemme degne di nota: pezzi come "Magnifico" di Fedez - Michielin, "Love is a temple" di Mario Biondi, "Le parole perdute" della Mannoia,  o le novità sonore proposte da Ramazzotti nel nuovo album, sono segnali importanti, e dovrebbero resistere all'usura del tempo. Ma ora aspettiamo un'ondata di stuzzicanti novità per solleticare le nostre orecchie sotto l'ombrellone. 

lunedì 1 giugno 2015

BILANCIO DELLA SERIE A, SECONDA PARTE: SAMP, TORO E PALERMO OK, GIOVANI AZZURRI ALLA RIBALTA, L'INTRAMONTABILE TONI

                                 Toni: ha scoperto l'elisir dell'eterna giovinezza calcistica
                                       
A proposito di Europa: chi sarà la terza rappresentante tricolore nell'ex Coppa UEFA? Non dovesse andare chi l'ha meritato sul campo, ossia il Genoa, dietro regna sovrana la confusione. La Sampdoria è la prima pretendente in virtù del suo settimo posto, ma c'è una norma che parla chiarissimo (è a pagina 3 del regolamento della manifestazione, per chi volesse toccare con mano): per partecipare, occorre non essere stati coinvolti direttamente o indirettamente, a far data dal 27 aprile 2007, in attività volte ad influenzare il risultato di incontri nazionali o internazionali. E i blucerchiati, nel 2012, sono stati deferiti per responsabilità oggettiva e presunta in merito all'affaire Guberti per Bari - Sampdoria dell'anno precedente, uscendo dal procedimento non per assoluzione, ma patteggiando una condanna di un punto di penalizzazione e 30mila euro di ammenda. Il problema esiste, non a caso la UEFA ha chiesto chiarimenti in merito alla Federcalcio italiana: e il fatto che nel 2014 il Toro sia stato invece regolarmente ammesso alla competizione (oltretutto da ripescato per il caso Parma), nonostante il coinvolgimento in analogo problema "giudiziario", non implica in automatico che l'errore, se di errore si è trattato, debba essere ripetuto una seconda volta. 
SAMP E TORO, PIU' ALTI CHE BASSI - Tornando alle cose di campo, proprio Samp e Toro, così come il Palermo, sono state altre protagoniste positive del torneo, oltretutto sostanzialmente inattese, anche se i loro risultati li hanno colti percorrendo strade di gioco diverse dalle compagini citate nella prima parte di questa analisi: meno fioretto e più sciabola, in estrema sintesi. Per tre quarti di torneo i blucerchiati hanno addirittura respirato aria di Champions, troppa grazia, ma nel valutare il loro cammino pesa enormemente il crollo finale, una sola vittoria nelle ultime dieci gare, undici punti di vantaggio dilapidati nei confronti dei "cugini": un'involuzione che non può essere spiegata solo con la forzata rinuncia all'ottimo Eder, che però è evidentemente pesata tantissimo. I granata sono stati più altalenanti, "spargendo" lungo il cammino le fasi "up" e quelle "down": eccellente in particolare la prima parte del ritorno, con imprese importanti (vittoria a Milano con l'Inter e in casa col Napoli, derby conquistato dopo tempo immemorabile), poi forse ha pesato la fatica del doppio impegno, con le belle prove europee al cospetto di Athletic Bilbao e Zenit San Pietroburgo a compensare ampiamente le piccole amarezze interne. 
NESSUNO IN... VACANZA ANTICIPATA - Il Palermo ha spiccato il volo sulle ali dello straordinario Dybala, fuoriclasse in pectore, e non ha mai veramente mollato i pappafichi: nel finale, arbitro della lotta salvezza, ha perso con l'Atalanta, ma si è riscattato vincendo a Cagliari. A tal proposito, mi piace sottolineare un altro aspetto positivo di questo torneo: nessuno, in dirittura d'arrivo, ha davvero sbracato come troppo spesso è accaduto in passato. Pur con qualche fisiologica pausa dovuta al calo di motivazioni, grosso modo tutti han fatto il loro dovere fino in fondo, e l'hanno dimostrato o con risultati effettivi o con prestazioni gagliarde (penso a quella dell'Udinese a Roma, o dell'Empoli con la Samp). Neanche il disastrato Parma ha smobilitato, e anzi ha accumulato un discreto tesoretto sottraendo punti anche a rivali quotatissimi. 
I MIGLIORI AZZURRI E AZZURRABILI - Italiani alla ribalta, si diceva, giovani e meno giovani. Il rendimento elevatissimo di Florenzi e la sua versatilità lo collocano fra i potenziali titolari inamovibili della Nazionale, così come Parolo, splendido tuttofare del centrocampo, una delle chiavi della stagione monstre laziale assieme a Candreva, ormai giocatore di statura internazionale così come lo juventino Bonucci, che giganteggia in difesa e partecipa anche alla costruzione; confortanti conferme sono giunte da Darmian, che già era stato uno dei pochi a salvarsi dal disastro di Brasile 2014. Detto nella prima parte di Rugani e Valdifiori, altri elementi definitivamente acquisiti alla causa azzurra sono Bertolacci e Soriano, di cui ho già ampiamente tessuto le lodi in passato, e restando in casa Samp dovrebbe a breve sfondare anche Romagnoli, mentre il guardiano rossoblù Perin, fin da adesso, potrebbe prendere in qualsiasi momento il posto di Buffon fra i pali della rappresentativa (ma l'ostinato Gigi vuole imitare Zoff e disputare il Mondiale 2018 a 40 anni suonati).
 Paloschi ha tirato fuori dal cilindro un campionato superlativo, elemento cardine della tranquilla salvezza del Chievo: è definitivamente recuperato al grande calcio, e la convocazione per lo stage dell'Italia conferma che può essere utilissimo alla causa di Conte, in un momento in cui le punte "azzurrabili" segnano drammaticamente il passo. Scendendo.. d'età, Gabbiadini ha convinto all'esordio in una grande, Berardi ha di nuovo messo insieme un buonissimo bottino di gol (mentre Zaza è stato troppo intermittente), sono emersi Zappacosta (laterale completo), Baselli e Cataldi; Pavoletti, che non è più di primo pelo, è stato la grande sensazione del finale di stagione genoano, e Bonaventura ha navigato con maestria nel mare in tempesta di un Milan quasi allo sbando.  
TONI IL SEMPITERNO - Di Luca Toni si è detto tutto il bene possibile: per quanto mi riguarda rimane una riserva, che è poi la stessa che accompagna le ripetute prodezze sotto rete di altri due "vecchiacci" (detto affettuosamente) come Totti e Di Natale (ma anche del redivivo e meno reclamizzato Maccarone), ossia il fatto che il calo qualitativo della nostra massima serie abbia allungato la carriera a molti stagionati bomber di qualità, consentendo loro di aver vita relativamente facile in maglie difensive slabbrate e poco talentuose (basti vedere il numero elevatissimo di gol complessivo delle ultime stagioni, "vendemmiate" che non sono quasi mai sinonimo di calcio di pregio). Ma certo ci vogliono anche classe, quella classe in possesso di gente cresciuta in un football italiano più competitivo, applicazione in campo e negli allenamenti, in poche parole professionalità: Toni è risorto nel 2012 dopo un quadriennio oscuro che lo aveva quasi collocato fra gli ex, merita solo un plauso incondizionato. 
DELUSIONI - Come detto in precedenza, la delusione più nobile e grottesca è stata quella romanista, mentre lo stesso Napoli non può certo dirsi soddisfatto della propria temporada. Bocciatissime le milanesi: Inter senza progetto tecnico e aggrappato a sporadiche giornate sì, alle alterne lune di Guarin e alla costanza di fromboliere di Icardi; insufficiente l'apporto di Mancini, dal quale ci si aspettava un quid in più atteso invano fino alla fine; inspiegabile l'involuzione di Ranocchia, lontano anni luce dai tempi baresi. Più misteriosa, ai miei occhi, la crisi del Milan, il cui organico lo poneva assolutamente in grado di conquistare quantomeno un posto in Europa League. Coraggioso l'investimento sul "prodotto interno lordo" in una fase di diffusa esterofilia: detto di Bonaventura, Destro fra alti e bassi ha confermato di saper comunque vedere la porta, mentre non ha convinto Antonelli (grave errore lasciare Genova). Nel finale si è rivisto un positivo El Shaarawy, un ragazzo che deve essere assolutamente recuperato in pieno per il bene di tutto il calcio tricolore, perché ha numeri da potenziale fuoriclasse. 
Nonostante l'impennata finale (quattro vittorie su quattro), inserisco a malincuore fra le delusioni il Sassuolo, perché credo che dai neroverdi sia lecito attendersi molto: lo dicevo già l'anno scorso, l'ho ribadito quest'estate, per qualità di organico quella di Di Francesco è rosa da medio - alta classifica, invece nel girone di ritorno è andata incontro a una profonda involuzione e ha trovato la salvezza matematica (per quanto nei fatti già scontata) solo col successo di Cesena. Zaza, che aveva iniziato alla grande anche in azzurro, ha poi conosciuto una stagione problematica, ma anche lui è un patrimonio del nostro calcio e va atteso con fiducia. (2 - FINE). 

BILANCIO DELLA SERIE A, PRIMA PARTE: FINALE SPETTACOLO GRAZIE ALLA CORSA EUROPEA. JUVE, LAZIO, GENOA, EMPOLI E FIORENTINA LE SQUADRE PIU' "BELLE"

                                 Parolo, uno degli artefici della splendida stagione laziale

Ma sì, alla fine questa Serie A 2014/15, nata in abiti dimessi dalle ceneri del Mondiale brasiliano e sviluppatasi lungo sei - sette mesi all'insegna della povertà di gioco e di emozioni, senza pathos in testa come in coda, specchio fedele della relativa modestia del movimento calcistico italiano, ha trovato in dirittura d'arrivo nuove risorse vivificatrici. Il rush finale ha proposto un campionato nuovo, vestito (quasi) a festa: lotta serrata per la conquista di un posto nelle due manifestazioni europee, espressioni di gioco imprevedibilmente brillanti da parte di alcune compagini (non tutte di primissimo piano), qualche giovane rampante offerto alla causa azzurra prossima ventura e, di converso, un ultra - veterano scatenatosi in zona gol fino ad artigliare il trono della classifica marcatori. 
RILANCIO EUROPEO - Insomma, in sede di bilancio della "temporada" appena conclusasi, non c'è di che lamentarsi più di tanto, visti i chiari di luna. E a nobilitare il torneo, a renderlo più credibile agli occhi di esperti ed appassionati, è arrivato anche il risveglio nelle Coppe: l'ottimo cammino di Fiorentina e Napoli fino alle semifinali di Europa League (con grossissimi rimpianti per i partenopei: la finale era ampiamente alla portata) e soprattutto la splendida cavalcata della Juventus fino all'ultimo atto di Champions, hanno dimostrato che il nostro football è sì malato, ma non ridotto così male secondo il messaggio che in troppi vogliono lasciar passare (qualcuno parla della Serie A come fosse la lega finlandese, con tutto il rispetto: suvvia, tornate sulla Terra...). 
Finale brioso, si diceva, due mesetti godibili a compensare la totale prevedibilità della corsa scudetto, con Madama troppo superiore agli avversari, ulteriormente rafforzata da una rinnovata dimensione internazionale, e la bagarre salvezza risoltasi in maniera sollecita, anche qui per evidente disparità di forze: Cesena non attrezzato per la massima categoria, Parma alle prese con ben più gravi problemi, Cagliari raso al suolo dalla mancanza di una chiara bussola tecnica (Zeman sì, Zeman no, Zeman... ripristinato, Zeman di nuovo via), con "anziani" non più all'altezza e non in grado di far da chioccia a prospetti interessanti ma mandati allo sbaraglio. 
LAZIO TERZA, MA ARGENTO "MORALE" - Non è il caso di fare pagelle e pagelloni, altre firme ben più quotate e preparate ci penseranno ed è inutile intasare l'offerta di articoli di tal genere; segnalo, a tal proposito, l'ottimo lavoro dell'amico Gianni Gardon, a questo link. Mi limiterò, come l'anno passato, a qualche flash su squadre e protagonisti parsi più meritevoli. Corsa europea entusiasmante, si diceva, anche se a vivacizzarla è stata, va detto, l'inconstanza di squadre che non sono mai state in grado di assumere un andatura lineare su livelli elevati. Penso a Roma e Napoli, innanzitutto. Può sembrare paradossale inserire i giallorossi fra le delusioni del torneo, visto il secondo posto artigliato quasi in extremis: a chi storce il naso di fronte a questa valutazione, consiglio di dare un occhio al rendimento del team di Garcia da dicembre in poi. Roba da mettersi le mani nei capelli: per lunghe settimane la Lupa è stata una nave che imbarcava acqua senza sosta, con difficoltà insormontabili nel produrre una manovra appena apprezzabile, vittima di debolezze mentali e di una campagna acquisti invernale da matita blu (incredibile che qualche buontempone avesse considerato positivi gli acquisti di Ibarbo e di Doumbia). 
Riguardo ai partenopei, che fossero usciti indeboliti dal mercato estivo era stato ampiamente sottolineato, e per una volta il campo ha fornito inappuntabili riscontri tecnici ai giudizi sulla carta. Amnesie difensive, alti e bassi ingovernabili, rendimento inaccettabile con le medio - piccole (sconfitte con Chievo, Udinese, Palermo, Torino, Verona, Empoli, per non parlare dei tanti pareggi, in ultimo quello col Parma già retrocesso e in enormi guai societari). La speranza Champions coltivata fino all'ultimo è stata sostanzialmente un cadeau della Lazio, che ha parzialmente tirato il fiato in dirittura d'arrivo (sconfitte interne con Inter e Roma), ma che nello spareggio del San Paolo ha colto il giusto premio alla sua straordinaria stagione, in cui per continuità, solidità, piacevolezza e qualità di manovra avrebbe anzi meritato la medaglia d'argento dietro agli inarrivabili bianconeri. 
QUELLE CHE HANNO DATO SPETTACOLO - Il discorso sulla Lazio introduce quello sui "vincitori morali" della stagione, ossia sui club portatori di aria nuova e inebriante, fautori di un gioco di alto spessore. Candreva e compagni, certo, mentre non mi fa certo velo la passione tifoidea se nel gruppo metto il Genoa, lo splendido Genoa che, pur cambiando in parte volto fra andata e ritorno, si è mantenuto su alti livelli di rendimento e sciorinato sovente, soprattutto negli ultimi due mesi, un football di caratura quasi europea, aggressivo e ad alti ritmi, inizialmente tendente troppo al ricamo per poi trovare gradatamente la dovuta efficacia sotto porta. Ha colto un sesto posto che è fra i migliori risultati del dopoguerra, e si è ripreso la supremazia cittadina (quarta volta dal ritorno in massima divisione), traguardi che nessuno potrà togliere al Grifo: rimane il nodo della effettiva partecipazione all'Europa League, appesa al filo di ricorsi e controricorsi cavillosi, talmente intricati che entrare nel dettaglio sarebbe ingiusto nei confronti dei miei pochi lettori, non essendo il sottoscritto a conoscenza di ogni aspetto della vicenda. 
LE MAGAGNE EUROPEE DEL GRIFO - Han voluto invece entrare nel dettaglio tanti, troppi giornalisti, diffondendo notizie incomplete quando non palesemente infondate, e palesando una crassa impreparazione in campo giuridico. Sconcerta e amareggia, in tal senso, soprattutto l'atteggiamento ostile di larga parte dell'informazione locale, critica e distruttiva a prescindere nei confronti del sodalizio rossoblù. C'è chi, dalle colonne di un giornale in gravissima difficoltà (si parla di imminente chiusura: del resto, se la qualità media dell'informazione è questa...), ha addirittura avuto l'ardire di sostenere che questa storia sia probabilmente peggiore di quella della "valigetta" (ossia il controverso illecito di Genoa - Venezia 2005, tralasciando il fatto che la fantomatica "valigetta" di Preziosi di fatto non sia mai esistita, altra invenzione giornalistica). Vada come vada, rimane il grave passo falso iniziale della società (la licenza UEFA doveva essere ottenuta subito), ma i chiarimenti sul processo di risanamento dei conti del Genoa (forniti dalla dirigenza e dal legale Grassani) meritano fiducia, e i continui accostamenti al caso Parma sono del tutto arbitrari. 
EMPOLI E VIOLA DA APPLAUSI - Tornando alle "belle" della Serie A, altra citazione è di diritto per l'Empoli: un collettivo perfettamente organizzato, col gusto del gioco offensivo, grazie anche a un centrocampo e ad esterni martellanti. E anche qui, come per il Genoa, gran ritmo, elemento imprescindibile per farsi strada nel pallone d'oggidì. Sarri ha lanciato sulla ribalta  che conta Valdifiori, cervello fino, ottimo orchestratore della manovra giunto fino alla Nazionale; Rugani non ha patito l'impatto con la massima categoria, e l'azzurro dovrebbe conquistarlo a strettissimo giro di posta; Tonelli, Verdi, Pucciarelli e l'eterno Maccarone si sono espressi su standard di eccellenza. Bene tutto sommato anche la Fiorentina, nonostante quel breve ma disastroso black out primaverile che ha prodotto ben quattro sconfitte consecutive, di cui due in casa con Verona e Cagliari. Colpa del logoramento fisico e mentale causato dal cumulo di impegni? Di certo, quando la Viola ha girato al massimo delle potenzialità è parsa una delle squadre più piacevoli da guardare: gioco di pregio, pochissimi palloni sprecati grazie all'abbondanza di piedi buoni, manovra avvolgente e agile, costante iniziativa: unico limite, emerso in maniera lampante soprattutto in EL, la scarsa concretezza. Troppo pochi i gol rispetto alla mole di lavoro creata. Alla fine, comunque,sono arrivate la conferma europea e addirittura un quarto posto, col Napoli scavalcato sul filo di lana: ed è in fondo positivo che a rappresentare l'Italia nella seconda coppa continentale siano i due team arrivati quasi in fondo all'ultima edizione, è un segno di continuità, con la possibilità di riprovarci con una maggiore abitudine alle incognite di questa competizione non amatissima dalle nostre parti. (1 - CONTINUA).