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martedì 19 novembre 2019

VERSO EURO 2020: NON SOLO RECORD PER L'ITALIA DEL MANCIO. DIETRO LE CIFRE, UN GIOCO PREGEVOLE E GIOVANI IN CRESCITA COSTANTE

                                  Immobile e Belotti, gemelli del gol azzurri "in alternanza" (foto Guerin Sportivo)

Record su record, per la Nazionale del Mancio. Undici vittorie consecutive, solo successi nel girone di qualificazione europea, e poco ci mancava che si stabilisse un altro primato, il nuovo massimo scarto di gol della storia azzurra: ne bastava un altro paio con l'Armenia, ma accontentiamoci, per carità. Sono cifre di un'eloquenza granitica, che non garantiscono trionfi planetari per il futuro prossimo (Euro 2020) o un po' più lontano (Mondiali in Qatar, dove prima bisogna arrivare), ma dimostrano comunque che il cambio di marcia c'è stato, eccome se c'è stato. 
GIRONE ABBORDABILE, MA... - L'argomento del relativo valore degli avversari è valido e debole al contempo: perché non occorre essere profondi conoscitori delle vicende del pallone per accorgersi che non sono state battute delle corazzate, ma... Ecco, ci sono un sacco di ma: ad esempio i tanti gruppi facili in cui siamo capitati in passato, sia nelle eliminatorie che nelle fasi finali dei vari tornei, e nei quali abbiamo spesso messo insieme figure barbine che, a ricordarle, ancora si arrossisce. E poi il punto zero da cui il cittì è partito per questo viaggio: non eravamo più nessuno, una ex grande potenza calcistica rasa al suolo da un risultato umiliante, e in più bloccata da un handicap enorme, il rinnovamento che pareva impossibile, la difficoltà a trovar ricambi di valore già pronti per le grandi sfide, la mancanza di coraggio nel mettere alla prova le nuove leve. Questi erano gli sconfortanti blocchi di partenza di una Italia da ricostruire: a una stagione e mezza dall'avvento in panca dell'ex Bobby gol, la situazione è cambiata come dalla notte al giorno. Certo, il sorteggio ci ha aiutati, quella fortuna che un po' meritava, diciamocelo, una rappresentativa che ha contribuito ad alimentare la leggenda di questo sport, che ha messo insieme quattro titoli iridati e scritto pagine memorabili. Ma anche parlare di girone benevolo è relativo: ricordiamo che a giugno, al momento di incrociare i tacchetti con la Bosnia Erzegovina, non eravamo nemmeno sicuri di essere superiori a Dzeko, Pjanic e compagni. 
LA SVOLTA DELLO STADIUM - La nuova Azzurra è nata lì, allo Stadium torinese, in una serata di fine primavera: dopo un primo tempo che sembrò confermare la maggiore efficienza dei bosniaci, andati al riposo in vantaggio grazie al tocco sotto misura del bomber romanista, arrivò la reazione veemente dei nostri, una reazione però non affidata alla foga ma a una lucidità nell'interpretazione del match, una linearità di manovra, una sicurezza di palleggio che produssero le due stilettate di Insigne e Verratti, due prodezze balistiche che permisero di capovolgere con merito il risultato e di incamerare tre punti fondamentali. Da quel giorno non ci si è più fermati: punteggio pieno nel raggruppamento e, ciò che più conta, prestazioni contraddistinte quasi costantemente da espressioni di gioco di livello europeo.
BELLA A VEDERSI ED EFFICACE - Già, il gioco: altra "vittoria" centrata da Mancini in questa prima parte di gestione azzurra. La sua Selezione pratica, dal centrocampo in su, una manovra agile, rapida, esteticamente pregevole, efficace, sempre propositiva, ricordando in questo il primo biennio di Prandelli CT. Ma rispetto a quell'ormai lontano 2011-2012 c'è una maggiore perizia tecnica, una precisione nel tocco e nel trattamento del pallone che da tempo non ammiravamo in queste desolate lande calcistiche. Il Club Italia ha un'identità ben precisa e suona lo spartito con armonia, fatta salva qualche stecca qua e là, finora indolore. E' un meccanismo di squadra che ha radici solide e profonde, formatesi nel tempo, tanto che i primi vagiti in tal senso si videro nell'autunno 2018, a sprazzi nell'amichevole genovese con l'Ucraina e soprattutto nella straordinaria recita in casa della Polonia, l'altro snodo cruciale per la crescita della Nazionale insieme al citato match d'andata con la Bosnia. La differenza rispetto a un anno fa è che a Chorzow dovemmo aspettare l'acuto a tempo quasi scaduto di un difensore, Biraghi, per concretizzare la nostra schiacciante superiorità. 
COOPERATIVA DEL GOL - C'era, in quei giorni, il drammatico problema della mancanza di validi sbocchi offensivi, il rischio era quello di diventare come il Portogallo di un tempo, bello a vedersi ma tremendamente sterile. Le dieci gare del girone eliminatorio hanno invece fatto tirare un sospiro di sollievo: non abbiamo bomber epocali, Belotti si fa quasi sempre valere con dignità, Immobile ha qualche guizzo anche se in generale non riesce a replicare in azzurro l'infallibilità sotto porta che sfodera nella Lazio, Chiesa collabora attivamente all'azione ma manca ancora di un adeguato killer instinct; e tuttavia l'Italia attuale è soprattutto una cooperativa del gol, che porta alla conclusione vincente un pacchetto di centrocampisti dalla forte propensione alla spinta e di trequartisti che sanno essere micidiali incursori. Così, hanno trovato la via della rete Sensi, Barella, Lorenzo Pellegrini, e ieri sera a Palermo Zaniolo ha confermato il suo magic moment siglando una doppietta. Di quando in quando qualche acuto arriva anche dalla retroguardia: due segnature per Romagnoli, anche se con Liechtenstein e Armenia, una ciascuna per Bonucci e per il sontuoso Acerbi di questa annata. Residua qualche amnesia in fase di copertura, quasi inevitabile del resto quando si ha sempre la prua puntata verso la porta avversaria, ma almeno il dopo Buffon ci sta mostrando dei guardiani affidabilissimi: Donnarumma in Bosnia ha compiuto un paio di parate capolavoro, e sembra aver acquisito in azzurro quella continuità di rendimento che ancora gli fa in parte difetto nel Milan, mentre Sirigu col Toro sta disputando uno dei migliori campionati in carriera.  
AUTORITARI IN BOSNIA, IMPLACABILI AL BARBERA - Volando sulle ali di un gioco via via sempre più rodato, alimentato da una zona nevralgica densa di piedi buoni, il gruppo ha trovato sicurezza nei propri mezzi, disinvoltura nella gestione delle varie fasi di gara e capacità di tenere pallino: è passato con autorità a Zenica, quasi "scherzando" una rappresentativa dotata di notevole talento, ha giocato al tiro al bersaglio a Palermo con gli armeni, firmando un'altra piccola conquista: la capacità di goleare senza pietà quando ce n'è l'occasione, esattamente come fanno tutte le altre grandi (ma anche le "medie") del calcio mondiale e come noi, invece, non siamo quasi mai riusciti a fare (ricordiamo ancora certi striminziti 1-0 o 2-1 con colossi come Malta, Azerbaigian e Far Oer, per tacere del 2-2 del 2013 proprio contro l'Armenia, a Napoli, che ci privò del ruolo di testa di serie per Brasile 2014). 
PORTE APERTE AI GIOVANI - Guardando oltre le trionfali cifre, dunque, il bilancio è in ogni caso molto più ricco di luci che di ombre. Il merito più grande del Mancio rimane quello di aver dato larghissimo spazio alle verdi speranze del pallone tricolore. L'ho scritto più volte negli anni passati, anche nei momenti più bui del nostro calcio: ci possono essere alti e bassi, generazioni meno valide di altre, ma il nostro vivaio, per ragioni storiche e di DNA, non smetterà mai di produrre elementi di qualità. Il problema, in questo ventunesimo secolo, è sempre stato un altro: la scarsa fiducia riservata nei club agli emergenti, e la conseguente poca esperienza in fatto di partitissime ad alto livello.
In tal senso sono andate le esternazioni dei giorni scorsi di Antonio Conte da una parte e di Paolo Nicolato, trainer dell'Under 21, dall'altra. Il coach dell'Inter, dopo la sconfitta in Champions a Dortmund, ha lamentato il fatto di non poter chiedere l'impossibile a gente come Sensi e Barella, ottimi calciatori che però fino alla stagione scorsa difendevano i colori di  Sassuolo e Cagliari, e quindi privi, al momento, dell'abitudine a giocare su palcoscenici di rilievo internazionale. Uscita comunque discutibile per due motivi: primo, perché certe cose sarebbe meglio dirle direttamente ai propri dirigenti, secondo, perché se si costruisce una squadra attorno a due ragazzi come i sopra citati, bisogna accettare il fatto di dover operare soprattutto in prospettiva, cioè di mettere minuti e partite importanti nelle gambe di questi giovani per prepararli, magari già dalla prossima annata, a fare la voce grossa fuori dai confini. 
RAGAZZI ITALIANI DI NUOVO PROTAGONISTI - In questo, diciamolo, una grossa mano a Conte è arrivata e arriverà proprio da Mancini, che sta svezzando i due califfi del centrocampo nerazzurro al calor bianco di insidiosi confronti europei, con risultati oltremodo benefici sia per la Beneamata sia per il Club Italia. A tale aspetto si ricollega l'affermazione di Nicolato, il quale ha sottolineato come nella sua rosa attuale solo cinque giocatori siano titolari in A. Un problema che Note d'azzurro denuncia da tempi assolutamente non sospetti, e che tuttavia, almeno per i giovanotti già promossi nella Maggiore, sta trovando parziale soluzione: molti di loro sono protagonisti in campionato (si veda anche "la Nazionale del mese" che da ottobre compilo per la pagina Facebook del Guerin Sportivo), e certo ha avuto un ruolo fondamentale proprio l'atteggiamento determinato del  Mancio, che ha deciso di dare piena fiducia e spazio a ragazzi che spesso non sono dei punti fermissimi nei rispettivi club: pensiamo al Kean dell'anno scorso, al Biraghi di questi tempi e soprattutto allo Zaniolo convocato quando era ancora poco più che un pulcino.
Grazie a queste apparenti forzature, oggi abbiamo una rosa di venti - venticinque azzurrabili di ampio affidamento, alcuni letteralmente inventati dal nulla come Di Lorenzo, altri, come il citato Zaniolo e il baby Tonali, chiamati ad affrontare con esiti confortanti un processo di maturazione più veloce del previsto, altri ancora rivitalizzati come Bernardeschi, in ombra nella Juve ma sempre positivo in rappresentativa. Tutto questo, lo ripeto, non significa che vinceremo l'Europeo: significa semplicemente che abbiamo di nuovo un drappello di calciatori italiani in grado di andare in giro per l'Europa senza farci patire le pene dell'inferno, e anzi regalando spesso momenti di football godibile, con tanto di risultati anche fragorosi. E' solo una base su cui edificare, ma è una base discretamente solida. Il resto, forse, verrà. 

sabato 26 ottobre 2019

SANREMO 2020: ECCO IL REGOLAMENTO. BIG PRECETTATI PER "I SOLITI IGNOTI" DEL 6 GENNAIO. MISCUGLIO INCOMPRENSIBILE FRA BRANI INEDITI E COVER


Ora che il regolamento è stato finalmente pubblicato, si può ragionare un po' più concretamente sul Sanremo che verrà. Registriamo innanzitutto l'ennesimo ritorno allo schema-base che più di tutti ha decretato le massime fortune del Festivalone, quantomeno a far data dalla rinascita iniziata nei primi anni Ottanta. La formula Ravera, dal nome dell'organizzatore dell'epoca, o formula Baudo, visto che il Pippo nazionale l'ha più volte riproposta nelle edizioni di cui ha avuto la responsabilità. E dunque, subito accantonata la categoria unica riesumata da Baglioni nella kermesse 2019, ecco di nuovo la suddivisione fra Big e Giovani. Lo si sapeva già da qualche settimana: ciò che non si sapeva era il tipo di competizione studiata per gli artisti vip. Ebbene, nessuna eliminazione: i venti prescelti (ma forse qualcuno in più, è il settantennale e ci saranno moltissime richieste) saranno tutti ammessi alla finalissima di sabato 8 febbraio, mentre toccherà agli otto esordienti-emergenti tornare a scannarsi senza esclusione di colpi, riducendosi a due per la sfida conclusiva di venerdì dopo una serie di scontri diretti. 
TRADIZIONALISMO - Insomma, su questo piano nulla di particolarmente coraggioso da parte del neo direttore artistico Amadeus, ma del resto era difficile prevedere azzardi particolari, alla luce delle inclinazioni tendenzialmente tradizionaliste di un conduttore ormai lontano dagli spigliati esordi televisivi e, diciamo così, "cannibalizzato" dalla media e rassicurante normalità dello standard delle produzioni targate Rai 1. Ma non è il caso di rammaricarsene: è un'edizione importante, quella del 2020, forse la più importante di sempre, anche solo per il fatto che si festeggia un compleanno di rilievo, un traguardo storico e impensabile per una rassegna canora che a più riprese è stata data per morta, decotta, superata anche da insigni critici con la penna perennemente avvelenata. Non era perciò utile imbarcarsi in avventure pericolose, proponendo una struttura del Festival rivoluzionaria e rivoluzionata: per quello ci sarà il tempo dal 2021 in poi, nel caso si rendessero necessarie. Certo, magari una fase eliminatoria "morbida" come quella adottata da Carlo Conti nel triennio 2015-2017 poteva anche starci, giusto per dare un po' di pepe in più alla competizione, ma negli ultimi anni la platea catodica ha dimostrato di poter "sopportare" anche una gara annacquata, senza rischi per i Campioni, e allora...
IL PASTICCIO COVER - Spulciamo fior da fiore dal regolamento: ritornano le cover, e anche questo non era un mistero. Erano la passione di Carlo Conti, cresciuto a pane e "Migliori anni", ma almeno questa volta la loro presenza ha un senso preciso nell'ambito della natura anche celebrativa di questo Festival numero 70. Perlomeno discutibile invece, e questa è invece una grossa novità, l'idea di far pesare i rifacimenti dei brani del passato sulla classifica generale dei Campioni. Anzi, diciamolo pure: lo trovo un non senso regolamentare e tecnico. Si mischiano pere e mele, come si suol dire: il concorso deve premiare la miglior canzone in gara, che senso ha "inquinare" la graduatoria con le valutazioni legate alle composizioni già edite (e famosissime) proposte dai cantanti? Valutazioni che, in quest'ultimo caso, non potranno che riguardare esclusivamente la performance dell'interprete e l'originalità del nuovo arrangiamento, tutti elementi che nulla hanno a che fare con il brano inedito scelto dal direttore artistico. Sinceramente non riesco a trovare una valida spiegazione a questa bizzarra innovazione regolamentare: ecco, quando prima parlavo di mancanza di formule nuove e alternative, non mi riferivo certo a una cosa del genere, che mi pare invece un pasticcio e nulla più, destinato però a sollevare polemiche prima, durante e dopo l'evento. Altra cosa, e molto più lineare, far pesare sulla classifica generale le versioni dei medesimi pezzi in gara rivedute e corrette con la partecipazione di cantanti e musicisti ospiti, come avvenuto nella gestione Baglioni. Mah. 
TUTTI A "I SOLITI IGNOTI" - L'altra grande novità riguarda invece il periodo pre sanremese. Vediamo: com'era prevedibile, il cast dei Big verrà annunciato il 6 gennaio, in occasione della trasmissione che ha decretato il grande ritorno in auge di Amadeus, ossia "I soliti ignoti". Essendo anche il programma abbinato alla Lotteria Italia, di cui quel giorno verranno estratti i biglietti vincenti, è facilmente prevedibile un boom dell'Auditel. Annuncio cast e distribuzione di milioni di euro, abbinata imperdibile. E fin qui tutto normale: ma i venti o più cantanti noti selezionati dovranno partecipare come ospiti a quella puntata, rischiando, in caso contrario, una clamorosa esclusione per far posto ad altro artista. Rai e direzione artistica inflessibili, dunque, ma c'è da dire che questa passerella aggiuntiva conviene a tutti: alla tv per aumentare ulteriormente l'appeal di quella prima serata di fine vacanze natalizie, ai cantanti perché un passaggio sul piccolo schermo in più, di questi tempi, è tutto grasso che cola, non essendoci più le vetrine di un tempo tipo Discoring, Superclassifica o, in periodi più recenti, Top of the Pops. Si richiede loro, insomma, un piccolo sacrificio però molto vantaggioso. L'amico poeta e sanremologo Luca Valerio, grande memoria storica del Festivalone, mi fa notare che non si tratta di una prima volta assoluta, e che già Paolo Bonolis, alla vigilia del Festival 2005, fece sfilare i suoi Campioni ad "Affari tuoi" il giorno della comunicazione del listone. Si tratta in ogni caso di un evento assai raro, una trovata alla quale in pochi hanno pensato anche in tempi di totale spettacolarizzazione mediatica: dal Giletti dell'Arena ai conduttori degli ultimi Sanremo Giovani autunnali, la "rivelazione" dei concorrenti è sempre avvenuta tramite semplice lettura dei nomi, e tutto finiva più o meno lì. 
RISCHIO FUGA DI NOTIZIE - Se il 6 gennaio 2020 è la data in cui tutte le riserve verranno sciolte, gli inviti ufficiali ai cantanti e ai loro management giungeranno nel periodo fra il 16 dicembre e il 3 gennaio: ciò apre una sorta di "buco" temporale, giorni durante i quali potrebbero esservi fughe di notizie in quantità tale da bruciare l'annuncio in diretta tv, un po' come accadde ad esempio nel 1994 quando una gola profonda spifferò a "Striscia la notizia" l'intero elenco dei Big scelti da Baudo. Ed è fin troppo evidente che, con il web e con la moltiplicazione di testate e testatine giornalistiche online, tale rischio aumenti in misura esponenziale. 
STRANIERI IN GARA E MINUTAGGIO - A una prima lettura, non si fa cenno alla nazionalità dei partecipanti (ma non è la prima volta), ergo potrebbe esserci spazio per qualche concorrente di fuorivia, il che non sarebbe male per celebrare l'eccezionalità dell'edizione. Si è fatto in tal senso il nome di Dionne Warwick in coppia con Silvia Mezzanotte, duetto di grande suggestione vocale ma di scarso appeal commerciale. Vedremo. Si torna all'antico, infine, riguardo alla durata delle canzoni, scendendo dai quattro minuti ai tre e mezzo, con qualche minima tolleranza: un peccato perché bisognerebbe lasciare la massima libertà espressiva agli autori. Gli appassionati ricorderanno che uno dei momenti più alti nella storia della kermesse fu l'esibizione dei Dire Straits, nell'81, con la lunghissima "Tunnel of love": senza arrivare a certi eccessi, ci vorrebbe più elasticità, e Baglioni l'aveva concessa... 
OCCORRERÀ UN CAST TRASVERSALE - Poi, al di là di regole e cavilli, anche se in molti tendono a dimenticarlo l'importante è il contenuto, più del contenitore, e quest'anno più che mai occorrerà essere trasversali, dare spazio alla più ampia gamma possibile di tendenze musicali: pop d'attualità, rap e trap, talent, cantautorato moderno, indie, super veterani e reduci anni Novanta, questi ultimi magari sfruttando l'onda lunga del successo di "Ora o mai più", altra trasmissione ottimamente pilotata da Amadeus e che l'ente tv di Stato ha tutto l'interesse a valorizzare ulteriormente. Una o due caselle nel cast festivaliero potrebbero dunque essere occupate dai vari Vallesi, Lisa, Morlacchi, Salemi ecc., beninteso se presenteranno produzioni qualitative, ma è ancora presto per azzardare ipotesi. Dopodiché, speriamo in un incremento delle quote rosa, nell'ultimo biennio fin troppo trascurate.

domenica 13 ottobre 2019

VERSO EURO 2020: L'ITALIA "IN VERDE" È GIÀ QUALIFICATA. PIÙ FORTI DEL CATENACCIO GRECO, MA SENSI E PELLEGRINI PAIONO INDISPENSABILI

                      Bernardeschi: il suo ingresso ha cambiato marcia all'Italia (foto Guerin Sportivo)

Siamo fuori dal tunnel, direbbe Caparezza. Pronti per l'Europa, in attesa di riconquistare un posticino al sole anche... nel mondo. Un passetto alla volta, ma la qualificazione al torneo continentale (con tre turni di anticipo!) è già tanta manna, se pensiamo ai due anni terribili lasciati alle spalle. Nel novembre 2017, dopo il play off iridato perso con la Svezia, eravamo il nulla calcistico o quasi, un'entità tecnicamente trascurabile nel panorama planetario. Da Ventura a Mancini, passando per l'oscuro interregno di Di Biagio, eccoci qua. Non era scontato, non poteva esserci nulla di scontato dopo un'apocalisse (la definizione fu dell'allora presidente federale Tavecchio), come quella che ci precluse il viaggio in Russia. 
Ricostruire una squadra nazionale da zero è impresa che richiede tempo, fatica, esperimenti falliti, delusioni: è la storia a dirlo, basti pensare alla lunga incubazione che ebbe, negli anni Settanta, la rappresentativa del duo Bernardini - Bearzot prima di assurgere ai trionfali livelli argentini e spagnoli. Bobby gol è ancora lontano dal raggiungere quella perfezione, ma intanto un primo traguardo l'ha centrato. Poi si potrà dire tutto: che il girone non proponeva ostacoli insormontabili, che il pass per Euro 2020 è stato ufficialmente staccato in una serata tutto sommato grigia della nostra formazione. Però sette partite consecutive bisogna comunque vincerle sul campo, ed è ancora una volta il passato a venirci in soccorso ricordandoci che niente è scontato per il Club Italia, spessissimo in difficoltà soprattutto contro compagini anche estremamente modeste. 
IL MATCH PIÙ DELICATO - La gara dell'Olimpico romano era la più delicata fin qui nel percorso netto del cittì. Non certo per la caratura degli ellenici, quanto per tutti i significati che essa racchiudeva: vincere voleva dire uscire definitivamente dal limbo per tornare a battersi contro la créme internazionale del pallone, e occorreva dimostrare di essere pronti ai nuovi impegnativi confronti, quelli che dovremo sostenere nell'Europeo itinerante del giugno prossimo. Non conquistare la qualificazione ieri sera avrebbe avuto scarsa rilevanza sul piano prettamente matematico (i punti necessari sarebbero comunque arrivati più avanti), ma enorme su quello della credibilità dei nostri e del processo di crescita del gruppo, che avrebbe smarrito più di una certezza. Ci attendeva un impegno ricco di insidie, dunque, ma pochi se ne sono accorti, passando questi ultimi giorni a baloccarsi polemicamente col "caso" della casacca verde, del quale tornerò a parlare in chiusura. 
GRECIA CATENACCIARA - Poi, certo, la gara in sé per sé non ha offerto un bello spettacolo, anzi. Da quando l'Italia ha cominciato a ridiventare una squadra, direi quindi dall'ottima trasferta polacca in Nations League, quella di ieri sera è stata la sua peggior prestazione. Con una postilla, però, già più volte sottolineata in passato su questo blog in circostanze analoghe: per veder giocare del buon calcio occorre il contributo di entrambe le contendenti. La Grecia è giunta nella Capitale a fare catenaccio duro e puro, un'orrenda ammucchiata fra area e trequarti. Se questo è il modulo su cui il buon Johnny Van't Schip vuole impostare il rilancio della sua selezione, per il calcio ellenico si prospettano tempi grami: nemmeno la formazione-miracolo del 2004, quella di Dellas e Charisteas che pur non brillava per luminarie di manovra, si arroccava così davanti al proprio portiere. E dunque, per far saltare certi dispositivi difensivi, la strada è una sola, a meno che non si posseggano il fuoriclasse alla Baggio in grado di inventare la super giocata estemporanea o il bomber alla Vieri capace di far centro alla prima palla gol che gli capita tra i piedi: palleggiare in velocità fino a slabbrare gli avversari e poi cogliere il primo varco utile fiondandocisi dentro. 
LENTEZZA E FASCE POCO ISPIRATE - Una strategia che non è riuscita ieri ai nostri, quantomeno nel primo tempo, fatto di avanzate lente e prevedibili, facilmente rintuzzate. E nemmeno le manovre di aggiramento hanno avuto efficacia: è stato cercato fin troppo Chiesa sulla destra, nonostante il fiorentino avesse mostrato fin dall'inizio scarsa vena, tanto da non esser quasi mai in grado di saltare l'uomo, il che è invece una delle sue caratteristiche migliori. Sulla sinistra, Spinazzola ha spinto come un forsennato, e di questo gliene va dato atto, ma raramente ha saputo mettere cross apprezzabili in area, mentre l'altro esterno basso, D'Ambrosio, forse menomato per un infortunio subìto nelle battute iniziali, si è limitato ad adempiere ai suoi compiti di copertura ed è stato un peccato, perché l'unica volta che è andato al traversone ha messo sulla testa di Immobile una delle migliori opportunità della gara: sull'inzuccata del laziale, il guardiano Paschalakis si è esibito in una affannosa deviazione in corner. 
RIPRESA: INSIGNE E BERNA SUGLI SCUDI - Morale della favola: primo tempo senza occasioni per i nostri, e, anzi, con un brivido per Donnarumma, abile a deviare una botta di Koulouris. La ripresa ha mostrato un'Italia più rapida e precisa negli affondo, anche se non ci voleva molto e anche se ciò ha comportato qualche problema di equilibri tattici, stante il contropiede vanificato ancora da Koulouris con una conclusione sull'esterno della rete. Bernardeschi ha portato più verve rispetto allo spento Chiesa, Verratti e Insigne han cominciato a giostrare con la perizia che è loro propria e il napoletano si è procurato il rigore sblocca punteggio, costringendo Bouchalakis al fallo di mano: l'ha trasformato Jorginho, che per tutta la partita si è dato un gran da fare nella zona nevralgica senza però attingere ai consueti livelli di lucidità. Dopo, la difesa ellenica ha allargato le maglie e sono arrivati i tanto sospirati spazi per i nostri, al prezzo di qualche rischio in più in retroguardia, con Bakasetas che, da posizione favorevolissima a centro area, si è prodotto in un tiraccio fuori bersaglio. Parte finale tutta tricolore: Bernardeschi ha trovato il meritato sigillo personale con un bel sinistro da fuori (e leggera deviazione di Giannoulis), poi ha attivato con uno splendido lancio Insigne, il cui destro al volo è stato deviato in angolo dal portiere. Lo stesso Insigne aveva in precedenza sfiorato il raddoppio con una bordata dalla distanza, meritandosi la palma di azzurro più attivo e insidioso in fase offensiva, assieme al citato juventino ed ex fiorentino che pare stia superando il suo prolungato momento difficile: dopo il gol in Champions col Bayer, questa volta gol e rendimento personale di tutto rispetto. Avanti così. 
CON SENSI, PELLEGRINI E BELOTTI LA MUSICA È DIVERSA - Rimane l'impressione di un'Italia che ha comunque faticato non poco a produrre il suo consueto gioco: forse è presto per parlare di intoccabili e imprescindibili, ma la sensazione è che il rendimento di questa squadra possa crescere in maniera esponenziale con l'apporto di Sensi nel mezzo e di Lorenzo Pellegrini nelle sue molteplici vesti tattiche, così come al momento Belotti sembra in grado di offrire più garanzie e maggior killer instinct rispetto a Immobile. Però, ecco, alla fine si è vinto, e anche meritatamente, perché è giusto che chi sta chiuso a riccio (è mancato solo il pallone scagliato in tribuna) alla fine paghi dazio: non accadde due anni fa alla Svezia, perché quella che l'affrontò era un'Azzurra sbagliata nelle idee, in alcuni uomini in campo e nella guida in panchina. Oggi è tutta un'altra storia: il nostro calcio è degnamente rappresentato  da una selezione con ampi margini di crescita e con buone alternative in larga parte dei ruoli. 
VERDE O AZZURRO, L'IMPORTANTE È FARE BENE - Resta da parlare della famigerata maglia verde, che ha scatenato dibattiti incredibili, con opinioni spesso degnissime e in altri casi assolutamente fuori dal mondo, fino a intravedere inquietanti finalità politiche dietro questa scelta. Si tratta di marketing e merchandising, solo questo: chiaro che non verrà mai detto esplicitamente, così come nessuna azienda che si rispetti affermerà chiaramente "lanciamo questo prodotto perché vogliamo incrementare i nostri profitti". Ci sarà sempre lo slogan accattivante a far da paravento, nel caso specifico il verde a simboleggiare la speranza nel futuro e la rinascita del nostro football (il che poi ci può anche stare): è una delle basi della pubblicità e delle attività imprenditoriali, scoprirlo nel 2019 fa un po' specie. Poi si può discutere sull'opportunità dell'iniziativa, senza dimenticare che la nuova casacca non andrà a sostituire tout court il classico azzurro e che comunque questa divisa ha un legame con la storia della nostra Nazionale, basti pensare all'analoga maglietta verde indossata nella lontana amichevole del '54 contro l'Argentina. In fatto di tenute da gioco, abbiamo visto di peggio: ricordo l'incredibile casacca simil - uruguagia indossata dai nostri alla Confederations 2009, o certi arditi esperimenti cromatici adottati da altre nazionali fra anni Ottanta e Novanta (Belgio e Spagna, giusto per citarne due). Ci si scandalizza per altre cose: i prodi che fallirono la qualificazione mondiale nel 2017 indossavano uno sgargiante azzurro, per dire. A me, scusate, preme di più che i calciatori italiani offrano rappresentazioni degne della tradizione del nostro movimento calcistico, e l'Italia di Mancini, fra alti e bassi, lo sta facendo. Poi viva l'azzurro, sempre e comunque, ma per tornare sul podio di una grande competizione internazionale accetterei anche una casacca gialla... 

lunedì 9 settembre 2019

VERSO EURO 2020: FILOTTO ITALIA, SEI SU SEI. SENSI E PELLEGRINI SIMBOLI DEL NUOVO CORSO, SQUADRA CHE BRILLA AL CENTRO E SULLE FASCE

              Il "Gallo" Belotti: un gol (e mezzo) e varie occasioni mancate in Armenia (foto Guerin Sportivo)

Sei su sei, filotto di vittorie, e l'Europeo ormai a portata di mano. Chi l'avrebbe mai detto, solo un anno fa, dopo le prime, pallide prove della nuova Italia in Nations League? L'Azzurra di Mancini è cresciuta inaspettatamente in fretta, ha riconquistato una discreta credibilità internazionale, ha rialzato la testa dopo l'umiliazione dell'esclusione dal Mondiale. Tantissimo, in così poco tempo: non è pertanto il caso di fare troppo gli schizzinosi di fronte a certi cali di tensione, a certi impacci emersi in queste due prime gare stagionali. Fra Jerevan e Tampere, onestamente, non mi è parso di vedere un orizzonte così fosco come qualcuno lo ha dipinto. Ricordiamoci che siamo a settembre, il mese dell'azzurro - tenebra, quello in cui le nostre selezioni, storicamente, faticano di più; ma non è stato soltanto questo il problema. Fenomeni non ce ne sono, nel girone J, ma squadre belle toste sì: del resto l'Armenia, dopo averci creato non poche difficoltà, ha castigato la quotata Bosnia di Dzeko, e la Finlandia si era messa nella condizione di arrivare al confronto diretto di poche ore fa da seconda in classifica; se avesse vinto, ci avrebbe raggiunti. 
SENSI E PELLEGRINI, SIMBOLI DEL NUOVO CORSO - Esistono anche gli avversari, insomma, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Con tutto ciò, la giovane Italia torna a casa con un bilancio largamente positivo non solo e non tanto sul piano dei risultati (contro i finnici poteva anche finire in parità, visto il generoso rigore poi trasformato da Jorginho), quanto su quelli del gioco espresso e del rendimento degli uomini utilizzati. Cominciamo da quest'ultimo punto: il Mancio sta allargando la rosa dei giocatori su cui fare totale affidamento. Sensi e Lorenzo Pellegrini sono ormai due titolari, e sono, se vogliamo, anche gli uomini simbolo della filosofia del nuovo corso. Se è vero che il cittì desidera una Nazionale che comandi il più possibile le operazioni in campo, una Nazionale propositiva, col muso costantemente puntato verso la porta dei rivali, ecco, l'interista e il romanista ne incarnano alla perfezione lo spirito: due centrocampisti che sanno appoggiare costantemente la fase offensiva, inserendosi, creando spazi, lavorando palloni, andando alla conclusione. E, nel caso di Pellegrini, adattandosi con profitto anche a giostrare nel trio avanzato, proprio per le sue caratteristiche di uomo di costruzione (ma mantenendo, in linea di massima, le attitudini di gioco tipiche del suo ruolo naturale): subentrato in Armenia, ha immediatamente cercato il gol su punizione, l'ha poi realizzato di testa su lungo traversone di Bonucci e ne ha sfiorato un altro nel finale con un destro sul portiere, mentre in Finlandia ha disputato una gara tatticamente ineccepibile pur se meno appariscente, giocando con abilità e intelligenza a sostegno dei compagni di prima linea. Quanto a Sensi, ieri in campo al posto di Verratti, due suoi formidabili tiri a lunga gittata avrebbero potuto dare ai nostri un vantaggio meritato già nella prima frazione: bravo il numero uno di casa la prima volta, questione di centimetri la seconda. 
IL CONTRIBUTO DELLE FASCE - L'ulteriore dimostrazione che le fortune di questa nuova Italia originano dal settore di mezzo, un settore manovriero, rapido, elastico, abile nel palleggio. E poi dallo sfruttamento delle fasce: giovedì Emerson ha fatto il diavolo a quattro sulla sinistra (suo l'assist per l'1-1- di  Belotti),  mentre poche ore fa, uscito dopo otto minuti appena per infortunio, è stato più che dignitosamente rimpiazzato da un Florenzi sempre pronto a proiettarsi in avanti, sfiorando anche la segnatura con un bel destro al volo parato a terra da Hradecky; se pensiamo che, in fatto di esterni bassi, dovremmo in futuro poter contare pure sui vari Piccini, Calabria, Zappacosta, Biraghi e Spinazzola, oltre all'ormai esperto De Sciglio e auspicando un recupero di Conti, il lavoro sulle corsie laterali è destinato a diventare una soluzione ancor più determinante per l'ulteriore crescita della rappresentativa. 
Di sostanza anche il contributo degli esterni alti. Oltre al già citato Pellegrini, Chiesa è salito di tono da un match all'altro: qualche pausa di troppo in Armenia (ma anche un assist sciaguratamente sprecato dal "Gallo"), una più consistente presenza a Tampere, con varie scorribande sulla destra, un pallone ribattuto dall'estremo difensore e il cross vincente per Immobile. Promosso con riserva Bernardeschi, che quando si accende fa balenare tutto il suo talento, peccato lo faccia ancora troppo a intermittenza: nel finale di primo tempo di giovedì, due splendide conclusioni, che hanno fruttato una traversa e una salvifica prodezza del guardiano Ayrapetyan.  
SOFFERENZE TEORICHE - Dicevamo dell'allargamento del Club Italia: ci sono nuovi titolari, ma sono venuti prepotentemente alla ribalta elementi che potranno tornare utili, pur non partendo dalle prime file. Izzo e Acerbi, ad esempio, hanno sbagliato poco in copertura e contribuito con continuità alla fase di costruzione, soprattutto il laziale, nel segno di una partecipazione corale a una pressione che, alla lunga, sfianca anche compagini chiuse a riccio. Fateci caso: al di là delle critiche preconcette da parte degli incontentabili, quanto hanno davvero sofferto i Mancini-boys in questa settimana azzurra? Poco, poco davvero. La prima metà del primo tempo in entrambe le partite, poi i primi 25' della ripresa contro Mkhitaryan e soci, quando i nostri sono paradossalmente calati proprio nel momento in cui hanno dovuto fronteggiare un avversario ridotto in dieci; infine, gli ultimi minuti coi finnici, protesi alla disperata, ma disordinata, ricerca del pareggio. In entrambi i match, spesso si è trattato di sofferenze più teoriche che reali: gol iniziale a parte, gli armeni hanno avuto le uniche vere occasioni nel corso della sfuriata di metà secondo tempo, con il citato neo romanista e con Mkrtchyan, mentre il rigore  del finlandese Pukki è frutto soprattutto di un isolato errore di un Sensi a quel punto in debito di ossigeno. In compenso, per i nostri, cinque gol, almeno un'altra decina sfumati di un soffio, una serie di azioni potenzialmente pericolose e un sostanziale controllo della situazione nei momenti topici delle due sfide. 
IN ATTACCO SI DEVE CRESCERE - C'è da lavorare sulla mira nei sedici metri finali, in effetti: difetto tipico, a ben pensarci, di tante buone squadre in sboccio, limite nonostante il quale si viaggia alla media di tre segnature a incontro nella fase eliminatoria, con tutto che Immobile ha interrotto un digiuno di due anni, Insigne e Kean sono ai box e aspettiamo ancora la prima prodezza di Chiesa junior. Insomma, questo duplice battesimo stagionale ci lascia più conferme che dubbi, più momenti brillanti  che fasi di sofferenza e gioco opaco. E siamo a settembre, il mese delle nostre sofferenze calcistiche. Come si fa a non essere ottimisti? Capisco l'ansia di riguadagnare al più presto le tante posizioni perdute, ma non è questo il momento di spaccare il capello in due. La ricetta giusta è quella di Bobby gol: responsabilizzare le nuove leve ma senza caricarle di pressioni eccessive. I risultati li stiamo vedendo e, ripeto, sono sbalorditivi, pensando al vuoto in cui eravamo precipitati dopo il castigo svedese. 

mercoledì 4 settembre 2019

CALCIOMERCATO ESTIVO: LE PAGELLE DELLA SERIE A. INTER SUGLI SCUDI, BENE TORO E GENOA, LA ROMA PUNTA SUGLI ITALIANI EMERGENTI

                      L'azzurro Gianluca Mancini, neo difensore della Roma (foto Guerin Sportivo)

Come sottrarsi al piacevole esercizio di "pagellare" le squadre uscite dalla campagna acquisti - cessioni estiva? Impossibile, e allora proviamoci, non prima di qualche considerazione di carattere generale. Già: che mercato è stato, nel complesso? Meno peggio di quanto ci si potesse aspettare, nonostante qualche stucchevole telenovela trascinatasi oltre ogni limite di sopportazione (vedasi caso Icardi). Sono arrivati campioni di statura europea (quando non mondiale) come Lukaku, Rabiot, Rebic, De Ligt, Schone: discorso a parte per Ribery, fuoriclasse venuto a sparare in Italia le ultime cartucce di una lunghissima carriera, e sul cui peso specifico mi permetto di avere qualche dubbio. Alcuni dei giovani virgulti del football nazionale hanno poi ottenuto la grande chance del salto di qualità: penso a Sensi e Barella, nuovi pilastri del centrocampo interista, e a Gianluca Mancini, che dovrà cercare di "blindare" una Roma finora troppo sbilanciata in avanti. Insomma, gli spunti d'interesse non mancano. Passiamo ora a una breve analisi club per club.
ATALANTA - La rosa non richiedeva che pochi ritocchi di qualità, per alzare il tasso di competitività internazionale in chiave Champions League: sono arrivati Kjaer per puntellare la difesa e Muriel per vivacizzare ulteriormente una linea offensiva già scoppiettante, grazie agli estri di Ilicic e Gomez e alla potenza di fuoco di un Duvan Zapata all'apice della carriera. Poi, le conferme di pilastri come De Roon, Gosens, Hateboer, fino a un Gollini sempre più sicuro tra i pali. E il gioco made in Gasperini è già di caratura europea. 
BOLOGNA - I veri colpacci la società felsinea li aveva già piazzati nell'inverno scorso, con gli arrivi di Soriano e Sansone, unitamente all'insediamento in panchina di Mihajlovic: novità che fecero cambiare radicalmente marcia ai rossoblù, traendoli dalle secche di una classifica che prometteva il peggio. In questa sessione estiva, di rilievo comunque l'acquisto di Medel, che fa crescere notevolmente lo spessore fisico di una cerniera di centrocampo già granitica in Poli e Dzemaili. Ma il meglio è dalla trequarti in su: Orsolini e Sansone a inventare e svariare per i vari Santander (inattesa rivelazione l'anno passato), nonno Palacio e un Destro perennemente alla ricerca della consacrazione. Una squadra destinata a una tranquilla navigazione, forte dell'esempio dell'indomito Sinisa, sempre vicino ai suoi ragazzi nonostante la malattia. 
BRESCIA - Si candida al ruolo di "matricola terribile". Ha dato consistenza a una prima linea che, con Donnarumma e Torregrossa, ha fatto faville in B ma è tutta da verificare al piano superiore. Ora c'è persino troppo affollamento: in extremis è approdato  alla corte di Cellino l'esperto Matri, ma molto ruoterà attorno a Balotelli, ex Supermario, giunto davvero all'ultimissima occasione per raccogliere almeno in parte  frutti che, dieci anni fa, si annunciavano copiosissimi. Dal Genoa ecco Romulo, meteora azzurra ai tempi di Prandelli, anche lui un lusso per la piazza lombarda, laterale o interno, corsa e proprietà di tocco. Occhio anche a Bisoli, Morosini e soprattutto all'Under 21 Tonali, personalità da veterano, tecnica e visione di gioco. Se lasciato crescere senza eccessive pressioni, diventerà un big. 
CAGLIARI - Luci e ombre. Mercato ok, perché ha attutito come meglio non avrebbe potuto la perdita (grave) di Barella, l'elemento chiave della zona nevralgica. Il cavallo di ritorno Nainggolan è animato da fieri propositi di riscossa, Marko Rog è centrocampista moderno, dinamico e qualitativo. L'attacco "rischiava" di essere esplosivo, ma Simeone dovrà fare a meno per molto tempo del compagno di linea Pavoletti, gravemente infortunatosi, uno dei pochi centravanti colpitori di testa "vecchio stampo", stile Aldo Serena per capirci. Con questo poker d'assi al completo, il club sardo avrebbe potuto persino ambire a inserirsi nella lotta per l'Europa, sostenuto nelle retrovie da un Cragno che vuole definitivamente ritagliarsi un posto in Nazionale e da un Luca Pellegrini appena convocato dal cittì Mancini; ma anche il portierino è stato messo fuori causa da problemi fisici, e non si sa ancora quando potrà rientrare. Scalogna nera, insomma, e partire con due sconfitte interne non aiuta, anche se i margini di recupero sono enormi. 
FIORENTINA - Personalissima impressione: più fumo che arrosto. Ribery ha mandato in visibilio la piazza, ma ha 36 primavere e tante battaglie sulle spalle. Al di là di qualche isolata luminaria, quanto potrà effettivamente incidere? Felice di essere smentito, ovviamente. Pulgar e il cavallo di ritorno Badelj sono buoni puntelli in mezzo al campo, ma nel settore il meglio lo si aspetta da uno che era già in rosa, quel Benassi che, per doti di costruzione e inserimento, meriterebbe l'azzurro. Lirola e lo stagionato Caceres non alzano di molto il tasso qualitativo di una retroguardia che, sul fianco sinistro, sentirà molto la mancanza di Biraghi. Si è già messo in evidenza Boateng nella veste di impetuoso uomo d'assalto, mentre Chiesa, dopo i chiaroscuri della passata stagione, è atteso a una consacrazione ampiamente alla portata. Occhio al verdissimo Sottil, aletta tutto pepe, buttato subito nella mischia da Montella e protagonista di prestazioni incoraggianti. In definitiva, una Viola che non dovrebbe patire come accaduto in primavera, ma che difficilmente potrà fare la voce grossa a livello di alta classifica. 
GENOA - Una sorpresa, rispetto a certe convulse campagne acquisti del passato. Tappate presto e bene quasi tutte le falle emerse nella disastrosa annata 2018/19, giunti elementi di valore anche internazionale, che hanno fatto impennare la dotazione di talento del gruppo. Il veterano Zapata per la terza linea, fasce ricchissime con Ghiglione (sorpresa d'inizio stagione) e Ankersen a destra, i rampanti Barreca e Pajac a sinistra. In mezzo, in attesa del recupero di Sturaro (se al meglio, tanta roba per questi palcoscenici), ecco il crack Schone, colonna dell'Ajax, il cui arrivo ha scatenato nella tifoseria entusiasmi che non si vedevano dai tempi del secondo ingaggio di Milito. Ancora: l'estro di Saponara sulla trequarti e in avanti il virgulto Pinamonti che, tanto per gradire, ha esordito con un gol e un rigore procurato in casa della Roma, dove i genovesi non andavano a punti dal '94. Svolta anche in panca, con un Andreazzoli che fa praticare calcio di iniziativa e ora ha una squadra con la quale, oltre ai complimenti, potrebbe raccogliere qualche soddisfazione più concreta. Manca forse una punta di peso e abituata alle rudezze della A, ma questo Grifone, a occhio e croce, dovrebbe collocarsi in una media classifica di assoluta serenità, a debita distanza dalla zona - sofferenza. 
INTER - La regina del mercato. Si candida a sorpassare il Napoli come principale antagonista della Juve, essendosi rinforzata in tutti i reparti e, cosa assai apprezzabile, con molti italiani emergenti. Biraghi a stantuffare sulla sinistra, la coppia Sensi - Barella nel mezzo a lottare, creare, proiettarsi in avanti e tirare, quasi sempre con ottima mira. La retroguardia è blindata da Handanovic e Skrinjar, anche se è da valutare la tenuta agli alti livelli di Godin, mentre in avanti Lukaku ha tutto per far saltare il banco, ben spalleggiato da Lautaro e da Sanchez, oltre all'affidabile Politano. E poi, c'è un Candreva che sta dando segni di risveglio, dopo due anni grigi (non a caso, un calo manifestatosi in seguito all'esclusione azzurra dal Mondiale russo). Su tutti, vigila un tipo tosto, vincente e sempre assetato di gloria come mister Conte, mentre la soluzione in extremis del rebus Icardi dovrebbe aver finalmente portato un po' di serenità nell'ambiente, indispensabile per poter puntare ai massimi traguardi. Che sia l'anno giusto? 
JUVENTUS - Sulla carta è ancora la più forte. De Ligt e Rabiot sono due campioni, anche se l'olandese ha ballato non poco nel big match col Napoli; il ritorno di Higuain, poi, è stato col botto. Inutile passare in rassegna tutte le star della rosa: da Szczesny a Bonucci, da Pjanic a Matuidi, da CR7 a Mandzukic, danno tutti ampie garanzie. Così come Bernardeschi, che ha già dimostrato di poter stare alla grande in questo consesso di vedettes, e al quale si chiede solo maggior continuità (ma il rendimento costante deriva anche dalla costanza di impiego...). Parlando di "azzurrabili", sarebbe gradito da parte di Rugani quel salto di qualità atteso da anni: dovrebbe aprirgli qualche spazio in più il grave infortunio di Chiellini, che però ha privato la Signora di una colonna autentica per sicurezza, senso tattico, carisma. Sarri si è già ben inserito nella nuova realtà, ma deve ancora dare il giusto equilibrio alla compagine. 
LAZIO - Movimenti ridotti al minimo indispensabile. L'unico di rilievo ha riguardato il laterale Lazzari, giunto dalla Spal e già nel giro della Nazionale. Per il resto, squadra che vince e gioca bene non si cambia, e l'Aquila ha una spina dorsale di tutto rispetto: sull'asse Strakosha - Acerbi - Leiva - Luis Alberto - Milinkovic Savic - Parolo - Correa - Immobile si snodano quintali di talento, esperienza, concretezza. Ma i rimpianti non mancano, perché con un paio di rinforzi azzeccati questa potrebbe essere davvero una compagine da altissime sfere.

                 Stefano Sensi, nuovo centrocampista interista, già promosso da Conte (foto Guerin Sportivo)

LECCE - Grande perplessità attorno al ritorno in A dei salentini. Certo, l'ingaggio in extremis di Babacar, punta di dignitosa prolificità e ormai avvezza a questi palcoscenici, ha risollevato un po' le sorti di una squadra che però dovrà tirare l'anima coi denti per restare a galla. Il divario tecnico con la quasi totalità delle concorrenti pare ampio, ci si affida alla voglia di riscatto di due ex genoani reduci da stagioni poco esaltanti quando non disastrose, quali Lapadula (che ha perso la via del gol, e pensare che con Ventura era arrivato alla Nazionale...) e Rossettini (quest'ultimo al Chievo nello scorso torneo, dove ha ingoiato il boccone amaro della retrocessione), ed altri due ragazzi di discreto valore transitati dalle parti del Grifone in tempi recenti, ossia Fiamozzi e Tachtsidis. Occhio a Mancosu, trequartista dai piedi buoni: in B faceva la differenza, ma può mettersi in evidenza anche nella categoria superiore. 
MILAN - Il solito rebus. Il tasso di classe si è alzato sì, ma non al punto di poter coltivare sogni di rinnovata grandeur. Giampaolo è trainer che ha bisogno di lavorare a lungo sulla rosa per imporre i suoi dettami. Come la più quotata rivale cittadina, il club rossonero punta coraggiosamente su molti giovani di casa nostra, da Donnarumma (chiamato a eliminare quelle amnesie che ne hanno finora impedito il decollo definitivo) a Calabria e a Romagnoli, in attesa del ritorno in pista di Caldara e Conti, meritevoli di fiducia. I nuovi arrivi Bennacer e Krunic sono validi, ma non spostano più di tanto i termini della questione, mentre spiace per il benservito dato a Cutrone, ottimo prospetto che ben altra fiducia avrebbe meritato dopo aver tolto tante castagne dal fuoco al Diavolo negli ultimi, avventurosi anni. La spinta verso l'alto dovrà arrivare da Piatek, purché recuperi l'impressionante puntualità sotto porta dei tempi genoani, dalle alzate di ingegno di Paquetà e dall'ultimo colpo Rebic, eclettico uomo d'attacco.
NAPOLI - Team fortissimo, che si gioca con l'Inter il ruolo di anti - Juve. Curioso: è arrivato Manolas ad affiancare Koulibaly per rendere la difesa impenetrabile, primo presupposto per puntare al titolo, ma dopo due giornate i gol subiti sono già sette, un'infinità. Paradossi del calcio estivo, si spera per il Ciuccio, perché l'impianto di squadra pare così solido e imponente che sarebbe un peccato se venisse minato da un'inattesa permeabilità della retroguardia. Lo splendido Fabian Ruiz ammirato all'Europeo Under 21 si prenderà le chiavi del centrocampo, mentre dietro a Milik, atteso a un ulteriore incremento del già notevole score di marcature 2018/19, Lozano ha infoltito il già nutrito drappello dei movimentatori e stoccatori Callejon, Insigne e Mertens, e tanto per gradire ha subito timbrato proprio contro Madama. Una potenza di fuoco devastante, non dimenticando l'acquisto a fil di sirena di Llorente. Nelle retrovie occhio al terzino Di Lorenzo, ancora in tempo per ritagliarsi un posto di rilievo nel panorama calcistico tricolore, mentre Meret ha i mezzi per contendere a Sirigu e Donnarumma la maglia numero uno dell'Italia maggiore. 
PARMA - Non male. C'è il materiale umano perlomeno per confermare quanto di buono fatto nella stagione passata. Forse un po' carente a centrocampo sul piano costruttivo, ma buone idee di manovra dovrebbero arrivare dalle corsie laterali, poderosamente rinforzate con l'ex Nazionale Darmian e col giovane Pezzella, protagonista di ottime prove all'Euro Under 21 di giugno, e con Laurini ottima alternativa. In avanti si punta nuovamente tutto sul duo - meraviglia Gervinho - Inglese, fantasia e praticità. 
ROMA - Una scommessa affascinante, sia per il gioco spiccatamente propositivo su cui punta il nuovo trainer Fonseca, sia per i tanti giovani, o comunque emergenti, del vivaio nostrano a cui si darà fiducia (almeno, questa è la speranza di Note d'Azzurro). Mancini dietro, Zappacosta e Spinazzola ai lati, Pellegrini e Cristante a tessere nel mezzo, e poi il "fluttuante" Zaniolo che, dopo la sbandata comportamentale in coppia con Kean, si è ben ripresentato al proscenio (ottimo derby e due pali che avrebbero meritato maggior sorte). L'attacco, già ricco di frecce acuminate quali Under, Perotti e Dzeko, si è arricchito con Kalinic (che deve riscattare annate deludenti) e Mkhitaryan, in definitiva due azzardi. Compagine a trazione fin troppo anteriore, finora piuttosto ballerina dietro. Non sono convinto che l'ex Manchester Smalling sia la soluzione ai problemi di tenuta difensiva. 
SAMPDORIA - La squadra pare nel complesso indebolita, e del resto le prime due giornate hanno fornito un verdetto (parziale, per carità) impietoso. Sulla carta Murillo è un ottimo rinforzo per la difesa, ma finora non ha inciso, anzi. L'unico altro "colpo" della campagna acquisti è stato Emiliano Rigoni, raggiunto al fotofinish, e già da questo si capisce che c'è poco da stare allegri: trattasi di un buon giocatore che però difficilmente cambierà pelle all'intera formazione. Ha pesato molto, è chiaro, la confusa situazione societaria. Mister Di Francesco mastica amaro, ma per il momento può solo aggrapparsi alle certezze del gruppo, ossia Audero e Murru dietro, Ekdal, Barreto, Linetty  e Ramirez nel mezzo, sperare che Quagliarella abbia bevuto l'elisir di eterna giovinezza e che Caprari cresca ancora sul piano della continuità. Se nel frattempo avverrà l'atteso cambio di proprietà, a gennaio si potrà porre rimedio. 
SASSUOLO - Difficile da valutare: difesa grosso modo in linea con l'anno passato, centrocampo leggermente meno attrezzato, attacco più forte. Partiamo dal settore avanzato: la seconda giornata ci ha regalato un  Berardi su misure stratosferiche; che abbia finalmente deciso di tirar fuori gli artigli e mostrare quella caratura da campione che tutti gli pronosticano da tempo immemore? Accanto a lui, bocche da fuoco affidabili come l'ex Empoli Caputo e il rientrante Defrel. Reparto ricco di alternative, ma nel mezzo non c'è più un Sensi in grado di lavorare palle gol per loro, anche se Locatelli è reduce da una grande stagione e sa come garantire un sostanzioso approccio alla fase offensiva, al servizio dei compagni o andando direttamente alla conclusione. Riguardo alla difesa, sono partiti Demiral e Lirola e non è poco, ma gli arrivi di Chiriches e del pulcino Romagna possono compensare la perdita, e poi ci son sempre le bandiere Consigli e Peluso, che difficilmente tradiscono. 
SPAL - Due sole novità di rilievo, in una squadra che l'anno scorso impressionò favorevolmente per il suo gioco spesso bello a vedersi, propositivo ed efficace, coi limiti imposti da una rosa costruita comunque per centrare la sopravvivenza. Ora a difendere la porta c'è l'esperto Berisha, arresosi all'Atalanta al rampante Gollini, mentre in avanti la scheggia impazzita Di Francesco offre uno sbocco in più, e oltretutto ha dimostrato di essersi già inserito nei meccanismi di mister Semplici: non male per una prima linea che può già contare su Petagna e Paloschi, oltre al "vecchietto" Floccari. Per il resto, si avvertirà la mancanza di Lazzari, ma ci sono pur sempre le garanzie rappresentate da Vicari, Kurtic, Missiroli, Valoti e un Murgia finalmente in sboccio. Un roster ampiamente sufficiente per centrare un'altra salvezza condita da buone prestazioni.
  TORINO - Forse sarebbe il caso di parlare di "Grifotoro". Mi si conceda l'innocente battuta, ma è un fatto che, nelle ultime stagioni, il club granata sia cresciuto esponenzialmente sul campo grazie anche all'apporto di molti reduci da felici esperienze sotto la Lanterna: Ansaldi e Izzo, Rincon e Falque, ai quali si è infine aggiunto il furetto Laxalt. Ma la rosa è veramente ricca: c'è Sirigu, attualmente il miglior portiere italiano, con buona pace di Donnarumma; c'è un Bonifazi pronto a bruciare le tappe della maturazione, come dimostrato nelle prime due felici uscite in campionato (gol all'Atalanta a parte); c'è Baselli che, zitto zitto, è ormai perno imprescindibile della manovra. E poi un attacco che promette scintille: il già citato Falque, bomber Belotti a caccia di Euro 2020 come l'altalenante Zaza, irresistibile nelle giornate di grazia, e il dernier cri Verdi, piedi buoni, tecnica sopraffina, un tocco di imprevedibilità offensiva a una squadra che comunque, rispetto ad altre grandi, vanta un sostanziale equilibrio fra i reparti che potrebbe proiettarla in alto, molto in alto. 
UDINESE - La solita Babele in cui però, ironia della sorte, fra gli autentici fari spiccano due italiani: un Mandragora che deve tornare a crescere dopo un Europeo Under 21 in chiaroscuro, e un Lasagna che ha, contro ogni pronostico, artigliato la Nazionale e non vuole lasciarsela scappare. Le altre luci arriveranno dal dinamico e duttile De Paul, nell'ultima stagione issatosi ad autentico trascinatore, dallo sgusciante Fofana, centrocampista col vizio del gol, da Pussetto e Nestorovski. Non moltissimo, per un team che sarà chiamato a faticare non poco per centrare l'obiettivo della permanenza. Esordio boom per il difensore Beçao, castiga - Milan.
VERONA HELLAS - Il piatto piange, più o meno come a Lecce, dopo una promozione oltremodo sofferta. Non per ripeterci, ma c'è molto Genoa anche qui (del resto è inevitabile: il club di Preziosi ha negli ultimi anni movimentato tantissimo il mercato in entrata e in uscita, naturale quindi che "quintalate" di suoi ex giocatori si ritrovino gomito a gomito in altri contesti calcistici). Ecco dunque in terza linea Gunter e Bocchetti (azzurro di Lippi a Sudafrica 2010: sembra passato un secolo...), Veloso e Bessa nel mezzo, Lazovic sulla fascia destra, Ragusa e Salcedo in avanti. Una bella infornata... Attenzione soprattutto al regista Veloso, che per la verità in Liguria non si è mai espresso al massimo ma in un contesto con meno pressioni può far balenare la sua indubbia intelligenza calcistica, e a Bessa, fra i pochi ad elevarsi per tasso di classe e capacità di dare brio alla manovra offensiva. Lazovic è un laterale che nelle giornate di vena può sparigliare le carte e creare superiorità in avanti, in quelle di luna storta fa mettere le mani nei capelli. Chi farà i gol? Bella domanda: Pazzini non è più quello dei gloriosi tempi blucerchiati e milanisti, Di Carmine non è un fulmine di guerra sotto porta, c'è fiducia attorno a Stepinski, arrivato giusto agli sgoccioli della sessione. Probabile ultima occasione ad alto livello per mister Juric, dopo le disastrose esperienze genovesi.   

mercoledì 14 agosto 2019

14 AGOSTO 2018, UN ANNO DOPO. ORA È IL MOMENTO DI DARE GIUSTIZIA ALLE VITTIME DEL PONTE MORANDI

                         Così su Facebook diedi il primo sommario annuncio del crollo del ponte

Ricordo tutto di quel giorno, ora per ora, minuto per minuto. Ricordo un inizio di mattinata fatto di ragionamenti e pensieri frivoli, di quelli che ci si può concedere alla vigilia di un qualsiasi Ferragosto se non si hanno problemi personali gravi, seri, impellenti. Ricordo l'allerta arancione, certo; le luci accese in casa come se fosse una serata autunnale, la pioggia scrosciante, il diluvio su Genova: non certo una novità (anzi...), con annessa paura di eventi alluvionali a cui abbiamo fatto una dolente abitudine. Ricordo la telefonata di mio fratello, all'insolito orario di mezzogiorno, per comunicare a me e ai miei genitori che stava bene, cioè quella che sembrava un'inutile e bizzarra precisazione. "In che senso stai bene, scusa? Che significa?". Lo scoprii nel giro di pochi secondi: mio fratello si reca spesso a lavorare presso un'azienda che ha sede in Valpolcevera (e in passato sono andato diverse volte con lui, per dargli una mano). Anche quella sciagurata mattina del 14 agosto 2018 era passato rapidamente da lì, per poi spostarsi presso un altro ufficio in una zona limitrofa. Era crollato un ponte autostradale, ci disse, e noi non sapevamo ancora nulla: bastò accendere la tv, sintonizzarsi su un'emittente locale, per trovarsi di fronte a quanto di più vicino all'Apocalisse abbia mai visto in vita mia, quantomeno a così poca distanza fisica da me. 
L'ASSURDO DIVENTA REALTÀ - In verità, i contorni esatti della tragedia non erano ancora ben chiari nella mia testa: abitando dall'altra parte di Genova, non avevo quella confidenza col "ponte di Brooklyn" che invece fa parte del bagaglio umano di tanti miei concittadini. Certo l'ho percorso un po' di volte, sia sopra che sotto, senza però che tali transiti rimanessero scolpiti nella memoria, legati a episodi particolarmente significativi della mia vita. Scrissi su Facebook un post in cui annunciavo semplicemente che era "crollato un ponte a Genova". Inizialmente avevo pensato a un cavalcavia, memore di quanto era accaduto qualche anno prima a Lecco. Erano, del resto, momenti convulsi, e quella "cosa" pareva talmente assurda, surreale, fantascientifica, da non riuscire ad ammettere che fosse seriamente avvenuta. Un viadotto autostradale che crolla? Una delle più importanti arterie del Paese che si sbriciola all'improvviso? Suvvia, siamo seri...  
DOLORE CONTINUO - Invece è successo, ed è passato quasi un anno. 365 giorni, nessuno dei quali è andato via senza che io abbia rivolto un pensiero, anche solo per pochi minuti, a quel disastro e, soprattutto, alle 43 vite spezzate. Uno degli choc più grandi e violenti che abbia mai vissuto, una ferita che credo non si rimarginerà mai, e se è così per me, posso solo intuire il tormento in cui, da allora, si dibattono parenti e amici delle vittime. Il fatto è che, come ho ripetuto spesso in questo periodo, su quel ponte c'eravamo proprio tutti, e ognuno di noi poteva subire identico, tremendo destino: poteva davvero capitare a chiunque. È stato un anno triste, sì: un anno di dolore dapprima lancinante, poi sommesso eppur continuo, un anno in cui ogni attimo di effimera gioia è stato smorzato dal ricordo sempre nitido di quella giornata infernale; è stato anche un anno di riflessione, un anno in cui, proprio in seguito a questa vicenda, ho avuto ancor più chiare le priorità dell'esistenza. Intendiamoci, non che non le avessi già ben presenti, ma la tragedia così vicina alla mia casa e ai miei affetti ha rafforzato in me certi concetti, i valori che contano davvero, le cose tutto sommato trascurabili e quelle per cui vale la pena battersi, arrabbiarsi, combattere.

          Questa foto e quelle che seguono sono state scattate da me e mio fratello nei mesi successivi al crollo

IL "DOPO" - Tante cose sono accadute, in questi mesi: ciò che rimaneva del vecchio viadotto è stato in parte smontato, in parte fatto saltare in aria la mattina del 28 giugno scorso; molti abitanti della zona sulla quale si ergeva la mastodontica e fragile struttura sono stati costretti a lasciare le loro case, sfollati come dopo un terremoto, come dopo un bombardamento aereo, perché quel 14 agosto 2018, per Genova, fu davvero come una giornata di guerra, con tutte le conseguenze del caso destinate a protrarsi a lungo. Mese dopo mese si sono susseguiti gli studi, le analisi, gli approfondimenti più o meno tecnici su ciò che potrebbe aver scatenato il disastro, alle 11.36 di un anno fa; si sono moltiplicati i reperti video, i primi del tutto inconcludenti, poi alcuni estremamente significativi, fino a quello cruciale dell'azienda Ferrometal da poco desecretato, che ha mostrato in tutta la sua crudezza la dinamica del crollo lasciando comunque diversi interrogativi insoluti. Si sono susseguite anche le dichiarazioni a vanvera di tanti politici, uno soprattutto, distintosi per aver cominciato a fare bieca campagna elettorale fin dal giorno dopo: un personaggio che non merita nemmeno di essere nominato, e che spero venga presto inghiottito dall'oblìo che merita. Siamo ancora in attesa della revoca della concessione autostradale, a parer mio sacrosanta in quanto atto eticamente doveroso in attesa che vengano chiarite giuridicamente le colpe, ma la crisi politica ha rallentato il tutto. Si è anche cominciato a costruire il nuovo ponte, nel frattempo, ed è giusto così, perché la città, la popolazione, l'economia, la viabilità hanno bisogno di una nuova ed efficiente infrastruttura al più presto, così come è stato giusto spazzare via senza pietà il vecchio ponte menomato, simbolo e causa di lutto e di morte.




PENSARE ALLE VITTIME - Già, il lutto: tante cose sono state dette e fatte, in questi 365 giorni, ma, sensazione personale, delle persone rimaste uccise ci si è occupati troppo poco. Un po' come delle vittime del terrorismo brigatista anni '70 e '80, mentre i responsabili di tanto sangue, i brigatisti stessi, scrivono libri, articoli di giornale, e tengono conferenze. Va bene il rispetto per il dolore, che però non deve sconfinare nell'indifferenza. 43 persone, giovani, meno giovani, persino bambini, gente che andava o tornava dal lavoro, in viaggio verso le ferie, cancellate nel giro di pochi secondi, nella maniera più crudele possibile, e senza colpa alcuna da parte loro. Nessuna imprudenza alla guida, nessun sorpasso azzardato o eccesso di velocità, ma una strada che ti crolla sotto le ruote, un pauroso volo di cinquanta metri assieme alle macerie, e poi solo lacrime, tante lacrime, che ancora oggi continua a versare chi amava e conosceva quella povera gente. Ebbene: ora che il vecchio Morandi non c'è più, ora che il nuovo sta cominciando a vedere timidamente la luce, a un anno esatto dai fatti occorre cambiare ottica nel modo di approcciarsi a questa storica ecatombe. Le istituzioni, soprattutto quelle locali, pur fra molti incidenti di percorso hanno mostrato il sollecito attivismo che si chiedeva loro (in particolare il sindaco Marco Bucci merita un plauso incondizionato), i cantieri lavorano a pieno ritmo. I ricordi, le commemorazioni future dovranno avere un nuovo caposaldo: lottare per onorare la memoria di chi non c'è più e per rendere loro giustizia. 
CONDANNE E GALERA, SE QUESTO È ANCORA UN PAESE SERIO - I tribunali non ci restituiranno le vite di chi se ne è andato, ma dovranno mettere dei paletti ben precisi: sancire responsabilità individuali e collettive (leggasi aziende e istituzioni), erogare condanne esemplari, mandare qualcuno in galera, se occorre. Il Ponte Morandi era un malato terminale. Se c'è chi non ha vigilato, o chi l'ha fatto in maniera troppo "morbida", se c'è chi non è intervenuto nei tempi e nei modi giusti per salvare il colosso in decadenza, beh, dovrà risponderne e pagare di conseguenza, sempre se questo Paese mantiene un minimo di dignità. Solo così la catastrofe di Ferragosto non rimarrà un'inutile strage: Genova riavrà un ponte più sicuro anche se forse meno bello (i ponti devono consentire viaggi e trasporti salvaguardando la vita degli esseri umani, la perfezione estetica viene dopo, molto dopo), ma dovrà essere un'altra la vera eredità del 14 agosto 2018: una nazione che lavora con efficienza e che mette al primo posto l'incolumità fisica dei suoi cittadini. 
I NOMI DELLE VITTIME - Chiudo dunque ricordando i nomi di chi, 365 giorni fa, è stato strappato alla vita in una piovosa mattinata genovese: Giovanni Battiloro, Matteo Bertonati, Gerardo Esposito e Antonio Stanzione, i quattro ragazzi di Torre del Greco; Luigi Matti Altadonna; Elisa Bozzo (che su Facebook si firmava anche "La Ely"); i giovani fidanzatini Stella Boccia e Carlos Trujillo; un'altra coppia con un avvenire insieme davanti, Marta Danisi e Alberto Fanfani; Juan Carlos Pastenes, Nora Rivera Castillo e Juan Figueroa; i camionisti Gennaro Sarnataro (che fino a pochi minuti prima del decesso scherzava sui social), Vincenzo Licata, Marian Rosca e Anatoli Malai; Marjus Djerri ed Edi Bokrina, colleghi di lavoro come Mirko Vicini e Bruno Casagrande, morti nell'isola ecologica Amiu collocata sotto il ponte, assieme ad Alessandro Campora; Andrea Cerulli della Culmv; i quattro francesini con i dread, Nathan Gusman, Axel Nèmati Alizee Place, Melissa Artus Bastit e William Pouzadoux; i coniugi Alessandro Robotti e Giovanna Bottaro; Claudia Possetti e Andrea Vittone con i figli della donna Manuele e Camilla; e ancora Giorgio Donaggio, Henry Diaz e Angela Zerilli, Francesco Bello, Dawna Munroe e Cristian Cecala con la piccola Crystal, Roberto Robbiano ed Ersilia Piccinino col figlioletto Samuele, la vittima più giovane coi suoi otto anni. A loro, da parte mia, la promessa che non cesserò di interessarmi a questa tragedia, e ne seguirò nei limiti del possibile gli sviluppi investigativi e giudiziari. 

sabato 3 agosto 2019

VERSO SANREMO 2020: TOCCA AD AMADEUS, CONDUTTORE E DIRETTORE ARTISTICO. SCELTA AZZECCATA

Amadeus ai tempi de "L'eredità" (foto Sorrisi e Canzoni)

La lunga rincorsa di Amadeus si è conclusa. A quasi 57 anni, approda infine sul palco dell'Ariston: il Festival di Sanremo del settantennale porterà la sua firma, come conduttore e direttore artistico. Era scritto da mesi, in verità: la sua candidatura è sempre parsa la più solida, mentre non hanno mai convinto del tutto i rumors che parlavano di figure di altissimo spessore musicale, su tutte addirittura la grande e inafferrabile Mina. Personalmente, il suo nome lo avevo fatto qui sul blog in tempi non sospetti, ossia due anni fa, quando era sorto il problema di trovare un successore all'altezza dell'eccellente triennio targato Carlo Conti, e ancora nessuno poteva ipotizzare la nomina di Claudio Baglioni, cantautore storicamente allergico alle kermesse canore. 
CURRICULUM DI SPESSORE - Nessun dubbio è lecito sulla validità della scelta: il signor Amedeo Sebastiani (questo il suo vero nome) vanta un curriculum che ne legittima pienamente il nuovo e prestigioso incarico. Anni e anni di televisione, nasce come volto Mediaset per poi diventare una colonna dell'ente catodico di Stato. Le sette note fanno parte della sua vita e della sua carriera da sempre: è stato deejay e conduttore radiofonico (una delle tante scoperte di Claudio Cecchetto, formidabile talent scout), e una volta trasferitosi sul piccolo schermo ha guidato per diverse edizioni, negli anni Novanta, l'indimenticabile Festivalbar di Vittorio Salvetti. In Rai, poi, ha fatto veramente di tutto, ma particolarmente negli ultimi tempi ha sfondato definitivamente il muro della più estesa popolarità, entrando nelle case degli italiani pressoché quotidianamente col game show "I soliti ignoti - Il ritorno".
Non solo: è l'imprescindibile gran cerimoniere di "L'anno che verrà", la maratona di San Silvestro di Rai 1, senza dimenticare lo scanzonato "Stasera tutto è possibile" sul secondo canale. Fra il 2018 e il 2019, gli impegni si sono ulteriormente moltiplicati, quasi come se l'azienda volesse sottoporlo agli ultimi, decisivi test prima della grande ribalta in  Riviera: ecco dunque la novità "Ora o mai più", gara musicale riservata a cantanti degli anni Ottanta, Novanta e inizio ventunesimo secolo un po' dimenticati dal pubblico dopo alcuni grandi successi, e infine la conduzione della gradevolissima (benché piovosa) serata "Ballata per Genova" dalla Fiera internazionale del capoluogo ligure, in onore di una città ferita dal crollo del ponte Morandi. E in tutte queste circostanze, il simpatico ravennate ha sempre portato a casa la pagnotta con buoni risultati. L'unica vera riserva sul nuovo direttore, in definitiva, è rappresentata dal fatto di essere in pratica al debutto in un ruolo di così grande responsabilità, che dovrà per di più ricoprire in occasione di una delle edizioni più importanti di sempre del Sanremone: ma i mezzi per essere all'altezza del compito non gli mancano. 
CHI E' AMADEUS - Già, ma professionalmente che tipo è Amadeus? Io lo vedo così: un anchorman istituzionale ma non ingessato, dallo stile scarno ma al contempo colloquiale, ligio al copione ma anche capace di qualche "variazione sul tema", in simpatiche interazioni con pubblico, ospiti o, nel caso dei quiz, concorrenti. Un limite? In "Ora o mai più" è parso a tratti in difficoltà nella gestione dei tempi di trasmissione, soprattutto quando si trattava di porre un freno ai... debordanti giudici. Dettagli trascurabili che possono essere limati in serenità. In definitiva, si tratta di una figura rassicurante per il pubblico medio dell'ammiraglia Rai, ma non per questo un personaggio da bollare come "passatista". Musicalmente lo definirei onnivoro: nel suo percorso ha "assaggiato" i sound giovanili di Festivalbar e delle radio dancerecce, così come quelli più tradizionali che fanno la parte del leone nella proposta artistica di viale Mazzini; in più, con il citato show dedicato ai cantanti dimenticati, è emersa anche un'apprezzabile sensibilità nei confronti di chi, pur meritevole, è rimasto indietro per svariati motivi ed è perennemente in cerca di una seconda possibilità. 
UNA MISSION: RIDARE VISIBILITA' A QUELLI "FUORI DAL GIRO" - Una sensibilità che Amadeus potrebbe portare nella sua nuova esperienza ligure. In effetti, a Sanremo si chiede anche questo: restituire visibilità a validissimi artisti rimasi esclusi dal grande giro per tutta una serie di circostanze, non sempre imputabili a loro colpe. In questa estate 2019, per dire, stiamo assistendo al fenomeno Mietta: tornata alla ribalta con un singolo moderno e orecchiabile, "Milano è dove mi sono persa", sta facendo breccia per esclusivo merito dei fans, che la stanno spingendo sui social network con un'energia, una passione, un amore infiniti, sancendo così la sconfitta della discografia ufficiale e delle scelte dei grandi network radiofonici e dimostrando che, nella musica italiana, c'è vita oltre l'heavy rotation. Ecco, questo è un fattore al quale il neo direttore artistico sanremese non dovrà restare sordo: sarà doveroso guardare oltre la superficie del mainstream, riservare uno spazio dignitoso a chi, nel tempo, ha continuato a produrre musica di qualità lontano dai riflettori. Parallelamente, proseguire nel solco dell'ultimo Baglioni, che ha portato in gara realtà indipendenti di nicchia, da Motta agli Ex Otago agli Zen Circus. 
RECEPIRE LE MODE - Per il resto, il Festivalone, per rimanere sulla cresta dell'onda, richiede essenzialmente la capacità di saper recepire le mode musicali più à la page, e da questo punto di vista Amadeus non dovrebbe avere problemi di scelta: conosce i personaggi e gli stili che fanno tendenza fra le nuove generazioni, quelli che maggiormente garantiscono la riuscita commerciale della manifestazione come hanno dimostrato, in questo 2019, gli exploit di Ultimo, Mahmood, Achille Lauro, Shade e Federica Carta, Boomdabash. Rimarrà da chiarire la formula di gara. Della gestione Baglioni erano piaciute, a pubblico e critica, l'abolizione delle eliminazioni e l'istituzione di una categoria unica, formata da ventidue big e due giovani selezionati in dicembre, ma non è detto che tutto venga confermato. In un tavolo di lavoro convocato dalla Rai qualche giorno fa, al quale hanno partecipato esponenti dell'industria discografica, organizzatori di eventi musicali, esperti del settore, era emersa la richiesta degli addetti ai lavori di incrementare lo spazio a disposizione  delle nuove leve, il che potrebbe portare a un ripensamento della selezione di fine anno e a una reintroduzione della categoria Nuove proposte per la kermesse di febbraio. 
PIU' SPAZIO AI GIOVANI: NUOVA FORMULA? - Del resto, parliamoci chiaro: la formula Ravera - Baudo, dai nomi di coloro che l'hanno perfezionata e istituzionalizzata, è quella che ha decretato i maggiori consensi al Festival: big da una parte, debuttanti dall'altra, e non certo ridotti a due unità come nell'ultima edizione. E' fondamentale ridare linfa al "settore giovanile" di Sanremo, alla categoria che fino a qualche anno fa rappresentava il principale serbatoio da cui attingere per la formazione del cast dei "campioni": un vivaio che, per restare all'ultimo decennio, ha sfornato virgulti come Arisa, Malika Ayane, Nina Zilli, Ermal Meta, Francesco Gabbani, Ultimo, Mahmood, Raphael Gualazzi, e che non può essere ridotto a spazio infinitesimale. Attendiamoci quindi novità, anche perché Amadeus ha sostenuto, in passato, di aver già bene in mente il tipo di Festival che avrebbe fatto nel caso fosse stato chiamato in causa. Non è quindi detto che accetti passivamente formule e regolamenti stilati da chi l'ha preceduto.

mercoledì 17 luglio 2019

17 LUGLIO 1994: ITALIA SECONDA NEL MONDO, OVVERO ELOGIO DI UNA SCONFITTA

                    Pagliuca e Taffarel abbracciati prima della lotteria dei rigori a Pasadena (foto Guerin Sportivo)

17 luglio 1994: a Pasadena, l’Italia perde ai rigori la finale mondiale col Brasile.  Fermi tutti, mi si potrebbe dire: stiamo qui a celebrare una sconfitta? Non esattamente. E' frutto di una mentalità profondamente sbagliata pensare che, chi non arriva sul gradino più alto del podio di una competizione sportiva, sia un perdente sempre e comunque. A parte il fatto che c'è una bella differenza fra l'arrivare secondi, settimi o diciottesimi, ma piazzarsi fra le prime quattro in un torneo iridato (o comunque in una grande competizione internazionale) è da considerare in assoluto un risultato di grande prestigio: la Germania, per fare un esempio, ci sopravanza nella classifica assoluta "all time" di Coppa del Mondo proprio grazie ai suoi numerosi piazzamenti, nettamente superiori ai nostri, a parità di titoli vinti. E dunque, l'argento azzurro a USA '94 fu un traguardo di rilievo, che confermò la posizione di preminenza planetaria del nostro movimento calcistico in quegli splendidi anni Novanta, un'età dell'oro che oggi sembra così lontana ma che auspico non sia irripetibile, per il football made in Italy. 
IL MONDIALE PIU' STRANO - Fu un Mondiale particolare, unico, curioso, drammatico. Il primo disputato in un Paese pressoché privo di tradizioni calcistiche, per cominciare. Il primo coi tre punti in palio per la vittoria. Drammatico per le condizioni ambientali scandalose, fra caldo asfissiante e umidità opprimente, in cui i calciatori furono chiamati a battersi, a rischio della loro stessa salute. Fattore quest'ultimo che, a maggior ragione oggi a mente fredda, deve indurre a valutare con benevolenza certe prestazioni sottotono da parte dei nostri rappresentanti così come di altre selezioni. Fu, infine, il Mondiale bello e maledetto di Maradona, presentatosi tirato a lucido, trascinatore di un'Argentina a trazione interiore che nelle prime due gare sembrava in grado di far saltare il banco, e poi messo fuori causa da un controllo antidoping, con susseguente, sollecita eliminazione della Selecciòn da parte della brillantissima Romania di Hagi, Raducioiu, Petrescu e Munteanu. 
LA GRIGLIA DI PARTENZA - Sul piano strettamente tecnico, a parte la citata Argentina che in verità non godeva di molta considerazione alla vigilia, avendo stentato penosamente per conquistare il pass (Australia battuta di misura nello spareggio), la griglia di partenza delle favorite vedeva nelle prime file le tre grandi classiche, ossia Germania (campione in carica), Italia e Brasile, e la Colombia unanimemente accreditata come probabile sorpresa dopo lo 0-5 inflitto nelle eliminatorie a Batistuta e compagni. Scivolò fra le outsider l'Olanda, sempre valida ma priva del lungodegente Van Basten e di un Gullit reduce da una stagione super con la Sampdoria, mentre c'era attesa attorno alla Norvegia, giustiziera dell'Inghilterra nelle qualificazioni, alla rivoluzionata Spagna poco bella e molto concreta di Javier Clemente, e alla Nigeria tutte stelle (Amokachi, Amunike, Yekini, Finidi, Okocha...) che pareva in grado di poter finalmente realizzare il sogno di una squadra africana nelle semifinali. Partivano nelle retrovie Svezia e Bulgaria, nonostante il merito di aver estromesso la Francia: sarebbero invece entrambe giunte fino in fondo. 
ITALIA RICCA DI TALENTO, SENZA MANCIO MA CON SUPER BAGGIO - L'Italia era l'Italia di Arrigo Sacchi, in sella dall'autunno 1991. Sull'onda lunga del suo Milan spettacoloso e pigliatutto, i tifosi attendevano una Nazionale in grado di ripercorrere suppergiù le stesse orme, anche grazie a un serbatoio di giocatori assai ampio e di grandissima qualità, nulla a che vedere col ristretto bacino in cui può pescare oggi il pur abile Mancini. Proprio il Bobby gol sampdoriano chiuse con la selezione poco prima del Mondiale, dopo una grigia prova in amichevole coi tedeschi, mentre il suo ex gemello del gol Vialli, pur riprendendosi in extremis da un grave infortunio che gli aveva fatto saltare larghissima parte della stagione, non riusci a convincere il cittì a portarlo negli States. Era comunque una selezione "tutte stelle": basti pensare a Pagliuca, Maldini e Baresi in retroguardia, Albertini e Donadoni in mezzo al campo, e poi lui, il Pallone d'oro in carica, Roby Baggio da Caldogno, pronosticato come possibile uomo del Mondiale in stile Maradona '86. Le cose non andranno proprio così ma... quasi. Altri elementi di grande affidamento erano Costacurta, che aveva superato gli impacci delle prime uscite in azzurro, il terzino destro Benarrivo, splendido stantuffo sulla fascia, il mediano Dino Baggio, mortifero nelle sue incursioni in avanti di testa e di piede, Nick Berti, anche lui risorto dalle ceneri di un infortunio e protagonista di un finale sprint con l'Inter, e il redivivo Massaro, che dai tempi di Bearzot non vedeva più la rappresentativa, detto "Provvidenza" per aver tolto più di una volta le castagne dal fuoco al Milan con gol puntualissimi e decisivi.
PERCORSO ACCIDENTATO - Il cammino della truppa di Sacchi verso l’atto conclusivo fu accidentato, sofferto, non privo di momenti fortunati ma anche di agguati della cattiva sorte bellamente superati. Passammo il primo turno tramite ripescaggio rientrando fra le quattro migliori terze, aiutati dalla formula allora in vigore: costò cara la sconfitta all'esordio con l'Eire, poi al successo sulla Norvegia riuscimmo a far seguire solo un pari col Messico, in un girone equilibratissimo in cui tutte le squadre finirono a quota quattro. Negli ottavi, pur giocando mediocremente, ci salvammo all’ultimo tuffo da un’immeritata sconfitta con la Nigeria, trovatasi in vantaggio su insolito errore difensivo del grande Maldini e poi regolata nei supplementari (e nonostante un’assurda espulsione inflitta a Zola), il tutto con la firma di un Roby Baggio fin lì deludentissimo e improvvisamente risorto dalle proprie ceneri come il Pablito di Spagna '82. 
POCO BEL GIOCO - Facemmo poi fuori la Spagna grazie all’asse vincente “baggesco” Dino – Roberto, con coda di polemiche per via di una gomitata di Tassotti a Luis Enrique in piena area italiana nel finale, non sanzionata dall’arbitro sul campo ma poi punita dalla Fifa con una lunga squalifica al difensore del Milan, che chiuse lì la sua esperienza in azzurro anche perché non più di primo pelo. In generale, nel nostro percorso di bel gioco se ne vide poco: contro la Norvegia fino all’espulsione di Pagliuca e alla conseguente sostituzione del Codino (con inevitabile assalto polemico della critica a Sacchi), poi fu vittoria di cuore e di orgoglio; nel primo tempo con gli iberici, prima di una ripresa in trincea; e nei primi 45 minuti della semifinale con la Bulgaria, quando la Nazionale sacchiana toccò il suo apice spettacolare così come lo toccò Baggino, splendido trascinatore e autore della doppietta decisiva. Una partita, quest'ultima, che si poteva vincere con scarto ampio e che invece provocò qualche brivido nella seconda frazione, con un 2-1 che comunque premiò la compagine più meritevole. 
FORMAZIONE TIPO... O QUASI - La gestione azzurra di Arrigo Sacchi è rimasta nella storia soprattutto per il gran numero di giocatori convocati e utilizzati e il conseguente, continuo mutare delle formazioni. A Usa ’94, strada facendo, la nostra Nazionale aveva tuttavia trovato un’inquadratura di massima, con Tassotti (o Mussi), Costacurta, Maldini e Benarrivo schierati davanti a Pagliuca (che per due partite e mezzo aveva lasciato il posto a Marchegiani, a causa della citata espulsione coi norvegesi), nonché Apolloni efficacissimo difensore aggiunto, capace di ritagliarsi molti spiccioli di gloria nell'avventura americana; a centrocampo Dino Baggio, Berti, Albertini e Donadoni, con Conte prima alternativa, qualche apparizione di Evani, e Signori spesso sacrificato lontano dalla porta (una delle principali contestazioni mosse al CT); attacco con Roby Baggio e Casiraghi o Massaro, con pochi sprazzi per Zola. 
Qualche episodio fortunato, dicevamo, come il fallo non sanzionato di Tassotti su Luis Enrique o un possibile rigore per la Bulgaria in semifinale, ma anche tanta scalogna, vedasi la lesione del menisco che tolse quasi subito di mezzo Baresi, leader carismatico della difesa e della squadra, l’espulsione incredibile di Zola con la Nigeria, per finire con l’infortunio del Divin Codino in semifinale, che lo costrinse a disputare la sfida conclusiva a scartamento ridotto; e andrebbe anche citato, come già accennato, il contesto climatico proibitivo in cui l’Italia si trovò quasi sempre a dover giocare, arrivando quasi “cotta” al confronto con un Brasile più fresco. Per il team di Carlos Alberto Parreira, percorso senza grossi patemi: vinto il primo girone su Russia, Camerun e Svezia, più di una difficoltà a smontare il dispositivo difensivo statunitense negli ottavi, fino al diagonale vincente di Bebeto, sfida combattutissima nei quarti con l'Olanda, che rimontò con Jonk e Berkamp le reti del duo Romario - Bebeto, prima che l'ex Genoa Branco decidesse la contesa con una punizione delle sue. In semifinale, di nuovo la Svezia, lungo assalto risolto dall'immancabile acuto dell'asso Romario.
FINALE NOIOSA - La finalissima del “Rose Bowl”, davanti a circa 100mila spettatori, fu senz’altro una delle meno spettacolari di sempre. L’Italia recuperò a tempo di record Kaiser Franz, che sostituì lo squalificato Costacurta. Nel quadro di un incontro bloccatissimo sul piano tattico, fu prevalentemente la Seleçao a fare la partita, ma le occasioni per passare non ci mancarono, e capitarono sui piedi di Massaro e del "menomato" Roby Baggio (due volte). Colossali opportunità anche per Romario, Bebeto e Mauro Silva, sul cui tiro Pagliuca si fece sfuggire il pallone che terminò sul palo, baciato poi con gratitudine dal portiere blucerchiato in procinto di passare all'Inter. Finì 0-0, soluzione ai rigori per la prima volta nella storia delle finali iridate: dei nostri a segno solo Evani e Albertini, mentre gli errori di Baresi, Massaro e Baggino diedero agli auriverdes il quarto titolo, che venne dedicato ad Ayrton Senna, tragicamente scomparso a Imola poco più di due mesi prima. Per il calcio italiano, un "argento" che fa comunque curriculum. 

lunedì 8 luglio 2019

MONDIALI CALCIO DONNE 2019, BILANCIO FINALE. CONFERMA DEGLI USA, EXPLOIT AZZURRO, BOOM GENERALE DI INTERESSE ANCHE IN ITALIA. AVANTI COSÌ


È stata una domenica dolceamara per il calcio stars and stripes. Se la Nazionale maschile ha perso in casa la Gold Cup, il torneo continentale Concacaf (la confederazione del Nord America, del Centro America e dei Caraibi) contro un Messico che ha ribadito una volta di più la sua superiorità sui concorrenti di zona, dall'Europa sono invece giunte ottime notizie. Le ragazze del soccer in trionfo a Lione, campionesse del mondo per la seconda volta consecutiva, quarta in assoluto. Ma questo successo è forse il più significativo di sempre, perché giunto al termine di un Mondiale che resterà probabilmente nella storia come uno spartiacque nell'evoluzione del football femminile. Un torneo che ha evidenziato i macroscopici progressi tecnici di molte nazioni (con l'Italia in primo piano, possiamo dirlo?), e che ha catalizzato l'attenzione di una quantità di spettatori (in loco e davanti al video) impensabile alla vigilia. 
INTERESSE A LIVELLI ALTISSIMI - Ribadisco la mia convinzione: non è stato solo un successo artificioso, pompato da una massiccia campagna mediatica. Trucchetti del genere possono reggere per poco tempo e generare comunque un seguito cospicuo ma non eccezionale, mentre per la kermesse francese l'audience è stata enorme e soprattutto accompagnata da una partecipazione e da una passione sintomatiche di un interesse genuino e non teleguidato. Sul campo, è alfine emerso il verdetto più giusto, che racchiude in sé anche il più grosso limite attuale del calciodonne a livello planetario: ancora troppo ampio è il divario qualitativo fra gli States e il resto del mondo. Nell'atto conclusivo, le olandesi hanno opposto una generosa difesa, contro avversarie arrembanti e note per la facilità nel trovare sbocchi offensivi vincenti. Oddio, nella prima mezz'ora il match non è stato granché, con eccessiva frenesia di manovra da parte della favorite e, più in generale, una troppo elevata percentuale di errori tecnici anche banali, al punto da far pensare che le nostre azzurre, pur destinate alla sconfitta contro le americane, non avrebbero sfigurato al posto delle loro giustiziere arancioni. 
DOMINIO AMERICANO - Alla lunga, la gara ha preso quota, per esclusivo merito delle campionesse uscenti (e immediatamente... rientranti), che già prima dell'intervallo avrebbero potuto essere avanti nel punteggio: il portiere Van Veenendaal si superava tre volte, prima respingendo una botta di Lavelle, poi neutralizzando una deviazione ravvicinata di Morgan su cross di Rapinoe (con la collaborazione del palo destro) e infine deviando in corner un sinistro  della stessa Morgan, la più pericolosa (al suo attivo anche una "spizzata" di testa nell'area piccola, finita di poco fuori bersaglio); segnali inequivocabili di una superiorità che si concretizzava nella ripresa. Tutto si decideva in dieci minuti, fra il 60' e il 70': prima il leader carismatico Rapinoe trasformava un rigore concesso per fallo di Van der Gragt sulla scatenata Morgan, quindi raddoppiava Lavelle con un bel sinistro dal limite al culmine di una discesa iniziata a centrocampo, che le "tulipane" non riuscivano a contrastare. Le europee si sbilanciavano in avanti nel tentativo di riaprire la sfida ma la loro veemenza produceva ben pochi pericoli per la retroguardia avversaria, mentre si aprivano invitanti spazi al contropiede delle statunitensi, che però non ne approfittavano per arrotondare il punteggio. 
AZZURRE SUGLI SCUDI - Finiva 2-0 ed era un verdetto scontato, come detto. Ma non è il trionfo delle ragazze del cittì Ellis l'eredità più importante lasciata da questo Mondial francese. Ciò vale soprattutto per il nostro Paese: le azzurre meritano l'elogio pieno per aver centrato un traguardo che alla vigilia in pochi avevano pronosticato. Linari e Bonansea si sono dimostrate giocatrici di statura internazionale, le varie Gama, Giuliani, Giugliano, Galli e Girelli hanno offerto un rendimento elevatissimo, ma tutte in generale hanno buttato il cuore oltre l'ostacolo. Diamo merito a Milena Bertolini di aver allestito una squadra ben organizzata, capace di soffrire in trincea e di sganciarsi in micidiali affondo, pugnace in retroguardia e al centro e spesso rapida e mortifera in avanti. Essere fra le prime otto al mondo è un premio meritato e uno stimolo a continuare la scalata, perché ormai non ci si può più nascondere.
SFONDATO IL MURO DELL'INDIFFERENZA - La svolta c'è stata anche fuori dal campo. Che qualcosa sia cambiato, nel modo del pubblico italiano di approcciarsi al football in rosa, lo dimostra in fondo anche il dato di ascolto della finalissima: c'è chi ha parlato di flop, ricordando le stupefacenti cifre messe in fila dalla Nazionale italiana pochi giorni fa, ma posso assicurare che quasi due milioni di telespettatori (un milione e mezzo circa su Rai 2 e poco meno di mezzo milione su Sky) in una domenica pomeriggio di inizio luglio, per una partita di calciodonne fra due squadre straniere, è qualcosa di più di un miracolo, altro che storie. Questo sport fino ad oggi negletto ha fatto breccia, ma i problemi iniziano adesso: occorrerà quantomeno conservare questo zoccolo duro, perché la passione e l'entusiasmo vanno alimentati. Nella fattispecie, ci vuole un lavoro massiccio sia da parte dei media che delle istituzioni calcistiche: i primi devono assicurare una copertura dignitosa anche durante l'anno, lontano dai big events come i Mondiali, le seconde dovranno investire, migliorare le strutture e l'organizzazione, lavorare per approdare al professionismo. 
ANCORA TRACCE DI DISCRIMINAZIONE - Riguardo all'atteggiamento di chi osserva da fuori, se passi avanti sono stati indubbiamente fatti, è anche vero che ci sono ancora grosse lacune culturali: sui social come sui mezzi d'informazione tradizionali, emerge talora un atteggiamento altezzoso e sprezzante verso questa disciplina e verso chi la pratica. Concentrare l'attenzione sulle tendenze sessuali delle praticanti è piuttosto triste (ma poi, cosa interessa a uno spettatore se la tal giocatrice è etero o lesbica? E soprattutto, cosa cambierebbe in un caso o nell'altro nella valutazione della persona e dell'atleta?), il paragone insistito col calcio maschile è del tutto fuori luogo e fuorviante: chiaro che ci siano differenze, che rimangono comunque limitate soprattutto all'aspetto della preparazione fisica, mentre sul piano tattico, del trattamento della palla e dell'approccio mentale agli incontri, i progressi negli ultimi anni sono stati lampanti. Se poi non li si vuole vedere è un altro discorso: io, in questi Mondiali, ho visto giocare un buon calcio, meno frenetico e atleticamente "rampante" rispetto a quello degli uomini, ma comunque gradevole e nient'affatto privo di pathos. Ma i luoghi comuni in stile "il calcio non è gioco da femminucce" hanno fatto danni profondi, e sono del resto il retaggio di una discriminazione fra sessi altrettanto radicata in tutti i settori della nostra società, lavorativi e non.