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venerdì 18 dicembre 2020

VERSO SANREMO 2021: ECCO I 26 CAMPIONI! SARA' UN FESTIVAL FUTURISTA, CON AMPIO SPAZIO INDIE. LA MUSICA ITALIANA SI RINNOVA


Il Festivalone scoppia di salute. E' un grido quasi disperato di vitalità, quello che prorompe dal megalistone di 26 Campioni diramato ieri sera da Amadeus durante la lunga diretta di Sanremo Giovani. Gli aggettivi "spiazzante" e "contemporaneo" per descrivere il cast sono stati utilizzati già più volte, negli ultimi anni. Non a sproposito, intendiamoci, visto che la linea artistica intrapresa da almeno un lustro va proprio nella direzione di un'innovazione rivoluzionaria. Perché lo svecchiamento dei ranghi, ad essere precisi, è in atto pienamente già dall'inizio di questa decade (andatevi a leggere i Campioni di Sanremo 2010 confrontandoli con quelli di appena due anni prima, per dire), ma nelle ultime edizioni si è andati oltre, molto oltre, osando come non mai. Prima timidamente con Conti, poi sempre più convintamente col secondo Baglioni e col primo "Ama", le porte dell'Ariston sono state aperte a indie e rapper. Ecco, il cartellone del Festival numero 71 rappresenta l'apice di questa foga futurista: il sottobosco della nuova musica italiana non è mai stato così massicciamente rappresentato fra gli ammessi alla gara più prestigiosa. Se prima pareva un azzardo presentare anche i soli Stato Sociale (che ritroveremo in Riviera a marzo), nel 2021 almeno una decina di caselle sono occupate da nomi che faranno sobbalzare sulla sedia i "benpensanti", o più modestamente il pubblico classico della kermesse, quello un po' più attempato, sia detto senza offesa, ma non solo, perché anche molti della mia generazione, quarantenni o giù di lì, guardano l'elenco di cantanti e non capiscono, trasecolano, si voltano dall'altra parte con una smorfia di disgusto. 

IL FERMENTO DELLA NUOVA MUSICA ITALIANA - Ecco, mi spiace, ma indietro non si torna. Vivaddio, il mondo cambia e la musica con esso. L'universo indie (inteso come ambito di provenienza e origine di tanti emergenti che saranno in lizza), l'immensa galassia rap e trap sono in profondo fermento, mai come adesso, e reclamano giustamente spazio mainstream dopo esserselo conquistato attraverso altri canali. Sanremo 2021 somiglia enormemente al festival ideale vagheggiato per anni da molti, non solo dai critici di professione: cioè una rassegna che non sia passerella dei soliti noti, spesso ormai a corto di argomenti, fuori mercato e ignoti alle nuove generazioni, ai Millennials. I Campioni di marzo sono anche un invito alla curiosità, uno stimolo intellettuale all'appassionato canoro italiano solitamente pigro: uscite dal vostro microcosmo fatto dei tre-quattro artisti straconosciuti e amati, apritevi alle nuove tendenze, ascoltate, conoscete, approfondite. e, se è il caso, apprezzate.  Lo dice uno che all'inizio di questo secolo era caduto vittima di un pericoloso nostalgismo canoro fine a se stesso, per poi scoprire che è bello e importante stare al passo coi tempi, sforzarsi di capire il nuovo che avanza. Tutto questo per dire che personaggi come La Rappresentante di lista, Aiello, Coma_Cose, Madame, Colapesce-Dimartino, Fulminacci hanno tanto da raccontare, e lo sanno raccontare bene. Portano avanti sonorità affascinanti e nuovi modi di scrivere, ma nella maggior parte dei casi si tratta di stili e generi che possono comunque risultare tutt'altro che indigesti anche ai più tradizionalisti, sol che non si alzi un muro pregiudiziale davanti a loro. 

BIG O NON BIG? - Anche gli interrogativi del tipo "ma questi sono big?", lasciano il tempo che trovano. A Sanremo, la categoria regina ha spesso avuto confini elastici: nell'84 erano forse big Fiordaliso, Castelnuovo, la Mannoia, Garbo, gli Stadio? Certo già abbastanza conosciuti, ma non venditori di dischi in quantità, ciò che all'epoca era il parametro principale per misurare il livello di affermazione di un cantante. Nell''86 erano Big Marco Armani, Zucchero e Flavia Fortunato? Non scherziamo. E nel '97, erano big i Dirotta su Cuba, Nek, i Cattivi Pensieri, i Ragazzi italiani? Il discorso è che gli organizzatori di turno hanno spesso forzato la mano, promuovendo a "Campione" chi ancora non lo era, ma aveva indubbio talento e una proposta artistica interessante, e quindi era giusto metterlo sotto la luce dei riflettori, imporlo al grande pubblico e farlo decollare. Qualche volta ha funzionato, altre no, ma storicamente è sempre stato così e sorprendersi adesso è sintomo di pessima memoria. 

LE PRIMEDONNE E I FAVORITI - L'allargamento del listone "vip" a una quantità record di cantanti, che era stata raggiunta solo in occasione dello splendido Sanremo '88, ha avuto del resto anche questa funzione: immettere nella colossale macchina promozionale della kermesse un numero elevato di volti parzialmente nuovi, riequilibrando però con tanti personaggi familiari e rassicuranti. Se su 26 cantanti ce ne sono quindici - sedici ampiamente collaudati sui palchi generalisti, credo ci sia poco spazio per le recriminazioni. Abbiamo dunque la miglior voce maschile pop degli ultimi quindici anni, quel Francesco Renga che deve farsi perdonare la fiacca partecipazione del 2019 e, magari, anche l'infelice uscita dell'epoca, nella notte del Dopofestival, sulle voci femminili; a proposito di gentil sesso, ecco tutte insieme le primedonne del ventunesimo secolo, Malika Ayane e Annalisa, Noemi e soprattutto un' Arisa che è sempre garanzia di qualità, portando in dote la voce più tecnicamente perfetta, armoniosa, emozionante, sperando ovviamente sia sorretta da una canzone decente. E poi non dimentichiamoci di Francesca Michielin, il cui ritorno avevo auspicato poche settimane fa su questo blog, che alza la posta facendosi accompagnare addirittura da Fedez, ricostituendo un'accoppiata ammazza-classifiche e prenotando fin da ora la poltrona riservata ai favoritissimi, anche se la battaglia per il primato promette di essere accesissima, e dovrebbe coinvolgere anche Ermal Meta e, perché no, lo Stato Sociale, ossia due fra le più belle realtà emerse dai Festival recenti. Le caselle dedicate ai divi pop del momento sono state adeguatamente riempite con Irama, Gaia Gozzi e Maneskin, e direi che si possa essere abbastanza soddisfatti, mentre la valorizzazione di Sanremo Giovani passa per il nome di Fasma, che dopo l'edizione 2020 è stato più convincente del vincitore Leo Gassman, rimasto al palo. Mi piace rimarcare il ritorno di Ghemon, incompreso nel 2019 con la splendida e suggestiva "Rose viola". 

OSTRACISMO PER I '90 - Pochi veterani, secondo consolidata tendenza degli ultimi anni. Dispiacerà a qualcuno, ma anche questa scelta mi trova in larga parte d'accordo: ci siamo sorbiti per anni, e senza validi motivi discografici, Al Bano e Patty Pravo, possiamo tranquillamente farne a meno, d'ora in poi. C'è un giusto tributo a una certa età dell'oro dell'italica melodia col ripescaggio di Orietta Berti, peraltro divenuta nel tempo personaggio televisivo tout court ma sicuramente non prezzemolino festivaliero, mentre ci sarebbe casomai da ridire sull'insistito ostracismo ai protagonisti degli anni Novanta, che personalmente non mi spiego. Alti lamenti, in tal senso, si stanno già levando da più parti, ma la proclamazione di presunte ingiustizie subìte è forse l'aspetto più triste, da sempre, delle lunghe vigilie sanremesi. Io avevo chiesto, in tempi non sospetti, un'edizione partecipata, ossia allargata al più alto numero possibile di artisti, perché dopo un anno così terribile era necessario aprire a tanti cantanti la fondamentale ribalta ligure. Avevo anche auspicato si superasse la... soglia psicologica di 26 big, come detto numero massimo di ammessi nella storia della kermesse toccato in precedenza solo nell'88, ma mi rendo conto che, per esigenze televisive, non si possa andare oltre certi limiti, se non correndo il rischio di allungare il brodo e di creare uno sgradevole effetto ammucchiata. Ma, insomma, tutto è stato fatto per rendere Sanremo 2021 "open": dopodiché, se le domande di partecipazione sono oltre 300, bisogna avere anche il buon gusto di accettare una esclusione che, mai come questa volta, rientrava ampiamente nel calcolo delle probabilità. 

MORGAN E GLI OSPITI EVITABILI - Qualche annotazione a margine: giustizia è fatta per Bugo, che già a febbraio aveva presentato un pezzo interessante, a cavallo fra vintage e contemporaneità, e che potrà agire liberamente senza l'ombra insopportabile di Morgan, il quale ieri, in apertura di serata, è stato giustamente "cazziato" e liquidato da Amadeus dopo le affermazioni a proposito della sua esclusione dai Campioni. Ricordiamo che l'ex Bluvertigo, nonostante l'imbarazzante sceneggiata di Sanremo 2020, era stato ripescato inconcepibilmente dallo stesso direttore artistico, che lo aveva inserito nella giuria di Ama Sanremo. Ma il discorso è più complesso e riguarda non solo il Festival, non solo "Ama", non solo la Rai, ma tutto il sistema comunicativo italiano, soprattutto televisivo: ci sono personaggi inqualificabili che, ormai è noto, ovunque vadano fanno "casino" e mandano tutto a carte quarantotto. Uno di questi è proprio Morgan, ma in altro ambito potrei citare Sgarbi, ad esempio: perché continuare ad invitarli, a dare loro importanti tribune mediatiche, a consentire loro addirittura la promozione delle rispettive attività? Se lo si fa, poi è persino inutile inalberarsi e prendere provvedimenti disciplinari. Vorrei rassicurare la Rai: il pubblico italiano può tranquillamente fare a meno di Morgan, Sgarbi e compagnia sbraitante. Per sempre. 

IL TRAMONTO DI RED - Considerazioni che ci riportano anche al caso Red Ronnie, quello che non parla mai di Sanremo ma che, pochi giorni fa, ha spoilerato una presunta lista di Big dalla quale mancavano otto nomi e nella quale era presente Leo Gassman, mentre gli altri erano grosso modo personaggi più volte citati dai mezzi di comunicazione, quindi sai che scoop. E soprattutto c'era Achille Lauro, annunciato pomposamente come probabile vincitore del Festival e che, invece, non è manco in gara. Una figuraccia epocale, dopo la quale ci si andrebbe a nascondere per il resto dei propri giorni, se fossimo in un Paese normale, ma ahimé non lo siamo. Resta il gesto antipatico, sgradevole, di voler  bruciare l'annuncio di Amadeus e una prima serata Rai, quella Rai che fino a qualche tempo fa dava spesso e volentieri ospitalità a Ronnie, nella tribuna domenicale di Mattina in famiglia, giusto per ricollegarsi a quanto detto su Morgan e Sgarbi. 

NUOVE PROPOSTE - Flash sui giovani: spiace per l'esclusione di Hu, contemporanea e originale anche se frenata da un modo di cantare imperfetto e con una pronuncia troppo spiccatamente adolescenziale, nonché con pesanti inflessioni dialettali. Era comunque una proposta interessante così come lo scricciolo Galea, rimasta esclusa già nella fase eliminatoria. Per il resto, i verdetti sono stati equi: Folcast e Davide Shorty portano avanti con coraggio generi non più tanto praticati dalla gioventù italiana, oscillando fra jazz, soul, rhythm and blues, Gaudiano ha un testo intenso, forte, crudo, sostenuto da una struttura melodica in linea col cantautorato moderno, la sua "Polvere da sparo" può essere una delle canzoni top di Sanremo 2021. Avincola sfodera un certo spirito ingenuo e naif ma al contempo furbetto, con un'orecchiabilità che poggia però su di un testo abbastanza insolito. Al passo coi tempi la canzone di Wrongonyou, uno che ha idee chiare e capacità di scrittura nonché un brano di buona cantabilità, più classicheggiante e "sanremese" Greta Zuccoli, da riascoltare i due di Area Sanremo, Elena Faggi e i gemelli Dellai. Si parte (forse) il 2 marzo. 

giovedì 10 dicembre 2020

PABLITO PER SEMPRE. ADDIO A ROSSI, FUORICLASSE VERO, MITO GENERAZIONALE, SIMBOLO ETERNO DI UN PAESE E DEL SUO CALCIO

                 Pablito con la Coppa del Mondo a Madrid, e dedica per i lettori del Guerin Sportivo

Pablito Rossi, il suo mito, l'epopea dell'Italia '82, io li ho scoperti e amati in differita. In quell'estate "spagnola" ero un bimbo di otto anni che seguiva il pallone solo distrattamente, aveva altri interessi, anche se si rendeva perfettamente conto che attorno a lui stava accadendo qualcosa di grosso, di importante, di gioioso, una festa collettiva che riempiva di allegria le case e le strade. Ma la cosa finì lì. Anni dopo, quando ho cominciato ad appassionarmi di calcio, ho anche voluto costruirmi una conoscenza profonda della storia di questo sport, e il punto di partenza, il caposaldo dei miei "studi", non poté che essere la vicenda, per certi versi incredibile, del terzo Mondiale azzurro. Fu così che iniziai a viaggiare fra le mille sfaccettature di quell'impresa: non solo capolavoro tecnico e agonistico, ma evento che incise profondamente nella storia sociale e culturale del nostro Paese. La banda Bearzot restituì a un popolo la voglia di sorridere, di fare gruppo e comunità, di ritrovarsi insieme per condividere passioni sane e genuine, dopo lustri gonfi di tristezza, di tensione, di terrore quotidiano. Il segreto dell'immortalità del nostro Mundial '82, dei suoi protagonisti, è in fondo tutto qui: nel fatto di trascendere le questioni di campo, di non essere stato un trionfo esclusivamente sportivo, come tanti precedenti e successivi, tutti belli, tutti indimenticabili, ma probabilmente nessuno così legato a filo doppio alla storia "seria" della nazione Italia. 

Per chi, al contrario di me, lo visse con consapevolezza e maturità, quell'82 fu probabilmente uno degli anni più belli di sempre. Questo 2020, invece, sembra proprio il peggiore anno della nostra vita, quantomeno di chi è nato a partire dalle decadi dei Sessanta - Settanta. Una sciagura inconcepibile si è abbattuta sull'umanità, seminando morte e angoscia, e a far da triste, beffardo corollario una ininterrotta sequela di lutti per la scomparsa di figure popolari e universalmente apprezzate. Ultimo della lista, il nostro caro Paolo. Leggendo la notizia nel cuore della notte, sono rimasto a lungo inebetito di fronte allo schermo del pc: si può essere addolorati e amareggiati anche per la perdita di una persona che non era né parente, né amico, né conoscente, se questa persona è stata comunque il simbolo di una parte importante della nostra vita, di un amore come quello per il calcio, di un'epoca felice che oggi sembra a distanza siderale dall'inferno che stiamo attraversando. A maggior ragione posso capire quanto dolore stia provando chi le imprese di Barcellona e Madrid, e ancor prima di Baires '78, le ha viste e vissute pienamente, avendo l'età giusta per godersele. 

La frase più ricorrente, nei post che compaiono in queste ore sulla mia bacheca Facebook, è: "Se ne è andato un pezzo della mia giovinezza". E' proprio così, e in fondo lo è anche per me. I nostri eroi calcistici degli anni Ottanta - Novanta stanno invecchiando, com'è nella natura delle cose, alcuni purtroppo sono anche malati, ma noi ancora non siamo pronti, non possiamo, non vogliamo nemmeno concepire l'idea che uno di loro se ne vada via, soprattutto se la scomparsa avviene così presto, troppo presto, e quasi all'improvviso, inattesa, come un fulmine a ciel sereno. Io non sapevo che Rossi stesse lottando contro il cancro, fino a poche settimane fa lo si vedeva sugli schermi Rai a commentare calcio italiano e internazionale. Per questo lo shock è stato ancora più profondo, violento. 

L'unica consolazione, ora, è parlare del Rossi calciatore. Tutto, è ovvio, ruota attorno a Italia - Brasile 3-2, per me la vera partita del ventesimo secolo, più di Italia - Germania '70 perché, anche nel suo andamento fatto di emozioni fortissime, con quel ripetuto botta e risposta e l'altalena nel punteggio, fu gara che si sviluppò secondo una propria logica, una razionalità, senza momenti di totale follia, anarchia e imperfezione tecnica come invece accadde all'Azteca. Ma la leggenda di Pablito non è racchiusa solo in quel pomeriggio del Sarrià e nei due che seguirono, al Nou Camp con la Polonia e a Madrid coi soliti tedeschi. Rossi calciatore è stato piedi buoni e classe purissima, è stato soprattutto un nuovo modo di concepire il gioco d'attacco. La Nazionale di Bearzot segnava il passo, prima del Mundial argentino: era diventata fiacca e prevedibile. Il Vecio mise dentro Paolino, non ancora Pablito, e quell'inserimento rivoluzionò totalmente il quadro offensivo della nostra squadra. La sua intelligenza tattica si sposò alla perfezione con quella più matura di Bettega, la sua vitalità movimentò la nostra prima linea aprendo varchi, suggerendo passaggi, creando spazi dal nulla, moltiplicando le soluzioni di inserimento e tiro, assistendo i compagni. E poi, ovviamente, c'era la sua dote principale, quella di risolutore mortifero nei sedici metri finali: il guizzo da opportunista, la giocata d'anticipo, il tocco maligno, la capacità di essere sempre al posto giusto nel momento giusto: e i gol fioccavano copiosi. Uno scricciolo la cui prolificità aveva già trasformato il Lanerossi Vicenza in provinciale di lusso, in lizza, per pochi fantastici mesi, addirittura per lo scudetto. 

Dopo il Mundial '78 che lo rivelò alla grande ribalta planetaria, ci furono molte amarezze: sul campo, con lo stesso Vicenza e col Perugia, e fuori, per via di un coinvolgimento nel calcioscandalo dell'80  a proposito del quale Paolo sempre si proclamò innocente. Nel frattempo passato alla Juve, fece in tempo a dare un piccolo contributo alla conquista del ventesimo scudetto, pochi mesi prima del "suo mitico mondiale", parafrasando l'autobiografia uscita qualche anno fa. Il mito di Rossi venne costruito in una settimana, dal 5 all'11 luglio 1982. Pare assurdo dirlo, ma per certi versi è stato anche un peccato: perché Paolo aveva le stimmate del fuoriclasse. Checché se ne dica, e già mi è capitato di leggerlo in queste ore, non era affatto un calciatore normale che raggiunse il top unicamente grazie all'impegno e all'applicazione. Era un talento sopra la media, tanto che la stampa dell'epoca lo considerava l'unico vero campionissimo prodotto da quella generazione di "pedatori" italiani, il solo in grado di tenere la rappresentativa azzurra ai vertici mondiali, di trasformare la truppa di Bearzot da buona squadra a grande squadra. 

Di certo fu un fuoriclasse d'attacco, per le doti che ho elencato prima: centravanti moderno che nacque come ala, e del vecchio ruolo mantenne fiammate, velocità, intuizioni, imprevedibilità; uomo capace di annusare nell'aria l'impresa e di siglare gol pesantissimi, quelli che servivano per entrare negli albi d'oro. Senza i gravi infortuni che lo minarono a più riprese portandolo infine al ritiro a soli 31 anni, senza i due anni di stop per il calcioscommesse, senza avventure infelici come quella di Perugia, come l'ultima stagione bianconera, come il fugace passaggio nel Milan pre-berlusconiano, quale Pablito racconteremmo oggi? Probabilmente un calciatore ugualmente epocale, ma non indissolubilmente legato a una sola estate da leone. Oggi parleremmo di un Rossi grandissimo per continuità ai massimi livelli, di certo con qualche alloro in più in bacheca, magari con un contributo ancor più sostanzioso alla Nazionale, con l'Euro '80 regolarmente disputato e col suo terzo Mondiale, nel 1986, giocato da protagonista e non vissuto da malinconico spettatore in viaggio premio. Sì, sembra incredibile, eppure perfino una carriera straordinaria come quella del numero 20 dell'Italia '82 può lasciare ampio spazio ai rimpianti. Ma forse conta poco, nel momento in cui esci dalla dimensione sportiva per diventare eroe di un Paese, simbolo nazionale ai quattro angoli del mondo, sinonimo di Italia vincente contro ostacoli apparentemente insormontabili. Nei cinque continenti, per tutti, solo e sempre "Paolorossi", e tanto basta.