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giovedì 28 gennaio 2016

TRENT'ANNI FA, OGGI: IL DISASTRO DELLO SHUTTLE CHALLENGER (2)

        L'immagine che apparve sugli schermi di tutto il mondo al momento della distruzione del Challenger

LA TRAGEDIA - Intorno ai 70 secondi di volo, dal controllo missione a terra giunse un invito perentorio: "Challenger, go at throttle up": si trattava in realtà di un comando di routine, che in pratica sollecitava il pilota "a dare gas", ad accelerare. La risposta del comandante Scobee fu immediata e positiva: "Roger, go at throttle up". Ancora pochi istanti: al secondo di volo numero 73, sugli schermi di Houston e in tv apparve quella che sembrò un'enorme deflagrazione: il Challenger venne avvolto da una nuvola di fiamme e fumo, dai quali furono visti allontanarsi, seguendo una traiettoria casuale e impazzita, i due Solid Rocket Booster. In apposite tribune, poste a debita distanza dalla rampa di lancio, avevano preso posto diversi spettatori, fra cui molti bambini, nonché i genitori e il marito della McAuliffe: impietriti a fissare il cielo, non percepirono immediatamente la gravità dell'accaduto, anche perché dal centro di controllo, tramite altoparlante, venne diffuso un comunicato tragicamente surreale, che attribuiva all'incidente contorni indefiniti: "Stiamo seguendo con molta attenzione lo sviluppo della situazione, evidentemente si è verificato un serio malfunzionamento", seguito a breve distanza da una aggiunta ancor più inquietante: "Non abbiamo collegamenti", ossia dal "traghetto" cosmico non giungevano più comunicazioni di alcun tipo.  Di lì a poco la realtà si palesò: "Il veicolo è esploso", la voce impersonale dell'altoparlante risuonò nuovamente, e ci fu spazio solo per le lacrime e per le prime, immancabili polemiche. 
COSA ACCADDE - Quale fu la causa del disastro? Non sono un esperto del ramo, e spiegare mi è difficile. Vedrò di essere il più sintetico possibile: tutto ebbe origine dal razzo Solid Rocket Booster di destra. I due SRB, per inciso, non erano costruiti come blocchi unici: erano formati da più segmenti montati fra di loro, uno sopra l'altro, e ciascuna delle giunzioni fra i vari segmenti era saldata da due O-ring, anelli di guarnizione in materiale gommoso. Ebbene, nell'SRB destro, gli O-ring posti a giuntare i due segmenti inferiori del razzo non assolsero il loro compito: le bassissime temperature della notte che precedette il lancio (si andò sotto lo zero e la rampa si ricoprì di ghiaccio) resero rigidi gli anelli, che invece dovevano mantenere un'ampia elasticità per contenere il carburante all'interno del vettore. 
La funzione sigillante dei due O-ring venne dunque meno, e già sulla rampa di lancio iniziò una piccola perdita di combustibile, evidenziata da uno sbuffo di fumo che però la telecamera principale, quella che fornì le immagini per le dirette tv, non evidenziò, essendo direzionata sul lato opposto del veicolo. Durante il volo, la perdita divenne più consistente (immagini riprese da altre telecamere mostrarono chiaramente una fiamma fuoriuscire dal razzo, e assumere via via un aspetto più definito e notevoli dimensioni), fin quando andò a intaccare l'enorme serbatoio centrale. 
Negli stessi momenti (ricordiamo che stiamo parlando di eventi succedutisi a rapidità vorticosa, nell'arco di poche decine di secondi), la perdita danneggiò irrimediabilmente anche il giunto inferiore di collegamento del razzo di destra al grande serbatoio, razzo che dunque si distaccò nella parte bassa e cominciò a muoversi, finché la punta andò a colpire l'External Tank, che ebbe un cedimento completo facendo fuoriuscire vapori incandescenti di idrogeno e ossigeno: si venne a creare una situazione di estrema instabilità strutturale e di volo, e alla fine l'Orbiter fu schiantato dall'enorme pressione delle forze aerodinamiche a cui si era trovato esposto una volta perso il regolare assetto. 
L'INCREDIBILE DESTINO DELLA MAESTRINA SPAZIALE - Questo a grandi linee, ma per chi volesse approfondire e avere le idee più chiare ci sono diversi siti specializzati sul web che illustrano i fatti, e c'è anche il report stilato dalla Commissione d'inchiesta formata subito dopo, la Rogers Commission. Ma al di là dei dettagli prettamente tecnici, in questa triste vicenda fu assolutamente preminente l'aspetto umano. Il dolore per la perdita dei sette membri dell'equipaggio fu planetario, e certo viene un magone enorme pensando al tremendo destino della maestrina McAuliffe: la più grande sciagura, fino a quel momento, nella storia dell'esplorazione spaziale si verificò proprio quando, a bordo della navetta, salì per la prima volta una comune cittadina, che lasciò un marito e due figli piccoli. Troppo presto, troppa fretta di bruciare le tappe in un percorso irto di ostacoli e di incognite, di far apparire normale e alla portata di tutti una cosa che ancora non poteva esserlo. Da quel momento, i viaggi cosmici tornarono ad essere, giustamente, appannaggio esclusivo di professionisti del settore, ma ormai la tragedia si era compiuta. 
DUBBI SULLA MORTE - Inizialmente tutti si convinsero, o forse si illusero per umana pietas, che la morte dei sette sventurati fosse stata immediata: del resto, si pensava, come si può sopravvivere a una esplosione in apparenza così devastante? Purtroppo le cose, pare, non andarono così. Al momento della disintegrazione del veicolo, la cabina dell'equipaggio si distaccò dal corpo del Challenger. Attenzione, si distaccò violentemente, in conseguenza dell'evento disastroso, e non per un meccanismo automatico di salvataggio che consentiva di "eiettare" il compartimento, meccanismo che sullo Shuttle non esisteva. 
Fotogrammi analizzati successivamente mostrarono dunque la cabina fuoriuscire dalla nuvola di fuoco e vapore e precipitare verso l'Oceano, sul fondo del quale fu ritrovata poche settimane dopo, con i resti degli astronauti ancora all'interno. Secondo la relazione conclusiva stilata da un'apposita commissione medica, le cause della morte dei sette non si potevano stabilire con certezza, ma c'erano alcuni elementi particolarmente inquietanti, per non dire terrificanti, anche se tutti esposti in termini di probabilità: innanzitutto le violente scosse a cui l'alloggiamento dell'equipaggio fu sottoposto nella fase iniziale della sciagura non furono, verosimilmente, sufficienti né a determinare la morte dei sette, né a cagionare loro gravi ferite. Fu ritenuto possibile, ma non certo, che l'equipaggio avesse perso conoscenza durante la caduta a precipizio verso il mare (durata poco meno di tre minuti), a causa di una probabile depressurizzazione del comparto causata dalla precedente disintegrazione del colosso volante. 
ESTREMI TENTATIVI - In ogni caso, alcuni di loro erano quasi sicuramente vivi e coscienti almeno nei primi secondi dopo il distacco della cabina dal veicolo: durante le operazioni di recupero del relitto, infatti, si scoprì che erano state attivate tre delle riserve d'aria (non ossigeno) a disposizione degli astronauti in caso di emergenza, riserve che potevano essere messe in azione solo manualmente, su diretto intervento umano. Rimane solo da sperare che, pur se vivi fino alla fine, lo stato di coscienza sia per loro rapidamente venuto meno, perlomeno prima del tremendo impatto, a folle velocità, con la superficie dell'oceano, al quale, questo è certo, nessuno avrebbe potuto sopravvivere. L'ultima frase registrata all'interno del Challenger prima del disastro fu un'espressione di sorpresa e sconcerto da parte del pilota Smith, un semplice "Uh, oh" che non ci è dato sapere con che tono venne pronunciato, e che poteva voler dire molte cose: una reazione agli improvvisi scossoni che stavano forse agitando la navetta, o all'accecante bagliore che attraversò i finestrini, oppure lo stupore di fronte agli indicatori di bordo, tutto a un tratto impazziti. 
BARBARA E L'EREDITA' DI CHRISTA - Rimane da parlare della "backup teacher", la riserva di Christa McAuliffe, ossia Barbara Morgan. Assistette dal vivo al tragico volo, passando dalla gioia allo sgomento nel giro di pochi secondi. Anni dopo tornò nella famiglia della Nasa, e diventò una vera e propria astronauta. Nel 2007 partecipò a una missione dell'Endeavour, durante la quale raccolse idealmente il testimone passatole oltre vent'anni prima dalla sfortunata collega, tenendo alcune lezioni direttamente dallo spazio, come avrebbe dovuto fare Christa.  
Dopo lo shock del Challenger, l'esplorazione spaziale umana riprese nel 1988 e non si fermò più: ci fu un altro tragico incidente, con l'esplosione del Columbia in fase di rientro nel febbraio 2003 e la perdita di un altro equipaggio (cinque uomini e due donne, come nell'86), e ci sono stati, certo, anche progressi, miglioramenti della sicurezza, stazioni spaziali, passeggiate nel cosmo e astronauti italiani, fino alla popolarissima Samantha Cristoforetti, mentre lo Shuttle è andato in pensione solo da poco tempo, nel 2011. Ma quella fredda mattinata americana di trent'anni fa, oltre a cancellare le vite di sette persone, segnò indiscutibilmente la fine dell'età dell'innocenza, per chi ancora guardava ai viaggi stellari con romanticismo, credendo che nessuna meta fosse preclusa alla tecnologia umana. (2 - FINE). 

TRENT'ANNI FA, OGGI: IL DISASTRO DELLO SHUTTLE CHALLENGER (1)

                    L'equipaggio del Challenger: la seconda in alto da sinistra è Christa Mc Auliffe

Questa volta parliamo di un argomento un po' distante dai temi classici di Note d'Azzurro. Il fatto è che quando si è ragazzini, se in famiglia c'è la tv accesa sul telegiornale e magari c'è anche l'abitudine di dare un'occhiata ai quotidiani, capita di vedere o leggere la cronaca di eventi tremendi, molto più grandi della nostra età, di cui magari ci riesce difficile percepire appieno l'enormità, ma che comunque lasciano dentro di noi un senso di profondo smarrimento. Giusto il 28 gennaio di trent'anni fa mi imbattei in uno di questi traumatici accadimenti, di quelli che scuotono l'opinione pubblica a livello mondiale, di quelli talmente clamorosi, nella loro tragicità, da imprimersi nella memoria e rimanere incisi per sempre nell'animo di chi c'era: la sciagura dello Shuttle Challenger, con la morte dei sette membri dell'equipaggio.
Le navicelle Shuttle, capolavori tecnologici della Nasa (l'agenzia spaziale americana), sembravano ormai vascelli celesti invincibili, inaffondabili. Nelle sue quattro versioni, dal primo Columbia ai successivi Challenger, Discovery e Atlantis (il veicolo Endeavour si sarebbe aggiunto alla "famiglia" solo nel 1992), il "traghetto cosmico" solcava i cieli, e le orbite attorno alla Terra, fin dal 1981. 
LO SHUTTLE PATRIMONIO MONDIALE - Ho ricordi molto nitidi di come, anche in Italia, il progetto Shuttle veniva vissuto, e non solo perché mio fratello era ai tempi un appassionato di astronomia e argomenti correlati, e in quanto tale non si perdeva un lancio di questo colosso cosmico: già, perché le immagini dei decolli, almeno nei primi anni, venivano a volte trasmesse in diretta dalla Rai, dal che si può facilmente comprendere come la corsa alla conquista dello spazio fosse, probabilmente più di oggi (ma è solo una sensazione personale) qualcosa di estremamente sentito in buona parte del mondo, una tensione condivisa verso la necessità di superare i nostri angusti confini terrestri. In fondo, dall'approdo sulla Luna non erano passati nemmeno vent'anni, e i margini di progresso, in tale campo, sembravano enormi, infiniti. Che poi, parlare di "conquista dello spazio" è semplicistico, faciloneria di pessimo stampo giornalistico: le missioni degli Shuttle avevano finalità prettamente scientifiche, dalla messa in funzione di satelliti e sonde a ricerche ed esperimenti di laboratorio. 
IL COSMO PER TUTTI - All'alba del 1986, i lanci di queste vere e proprie astronavi sembravano quasi diventati routine: nel solo  anno solare precedente, erano state portate a compimento ben nove missioni. Fu forse un eccesso di confidenza, dunque, a far pensare che ormai l'esplorazione spaziale non dovesse più rimanere "una faccenda per pochi eletti", che fosse giunto il momento di spedire in orbita, accanto agli astronauti professionisti, anche dei privati cittadini, dei civili. Leggendo alcuni giornali d'epoca, ho scoperto che persino autentici vip, come il re dei telegiornalisti Walter Cronkite e l'attrice Jane Fonda, si erano messi in lista d'attesa per salire come "passeggeri" sul traghetto stellare. Ma l'allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, fu categorico: il primo americano non astronauta a vivere quella insolita avventura doveva essere un insegnante, in modo da stimolare l'interesse delle nuove generazioni verso lo studio delle scienze in generale, e in particolare delle tecnologie più avanzate connesse con la scoperta del cosmo.
CHRISTA E BARBARA - Venne dunque lanciato il concorso "Teacher in space", furono in oltre 11mila a partecipare, e dalla accuratissima fase di selezione emerse, nell'estate del 1985, il nome di Christa McAuliffe, una giovane professoressa di una scuola di Concord, nel New Hampshire; accanto a lei, fu scelta una "backup teacher", un'insegnante di riserva, che sarebbe partita in caso di forfait della vincitrice: si trattava di Barbara Morgan, che ritroveremo alla fine di questo nostro racconto. 
Gli ultimi mesi dell'85 e il gennaio dell'86 furono durissimi, per Christa e Barbara, che dovettero sottoporsi a uno sfiancante addestramento, perché entrare a far parte di un equipaggio spaziale non è cosa da prendere alla leggera. Ma, soprattutto per Christa, furono anche mesi di travolgente popolarità, di esposizione mediatica ai massimi livelli: fra interviste, trasmissioni speciali in tv, servizi fotografici, tutta l'America si innamorò del suo sorriso, del suo dinamismo, del suo entusiasmo, del suo ottimismo nell'approcciarsi ad ogni aspetto della vita. Con buona pace della "collega - rivale" Barbara, mai e poi mai Christa avrebbe rinunciato a quel personale appuntamento con la storia. Lassù, avrebbe potuto tenere due straordinarie lezioni per gli studenti di tutto il globo, intitolate "La gita scolastica più bella" e "Dove siamo andati, dove stiamo andando e perché".
I DISAGI DELLA NAVETTA - La prima volta di un semplice cittadino nello spazio sarebbe stata a bordo dello Shuttle Challenger, che negli ultimi tempi, per la verità, aveva avuto un'esistenza un po' travagliata. Nel luglio 1985, anche i giornali italiani parlarono di "tragedia sfiorata": era accaduto che, nella fase iniziale di un volo, uno dei tre motori principali del veicolo era andato in panne, costringendo l'equipaggio ad operare un "Abort to orbit", ossia a proseguire la navigazione in un'orbita più bassa rispetto a quella programmata.
La missione fatidica del gennaio 1986, invece, subì diversi rinvii, principalmente a causa del freddo quasi polare che calò in quei giorni su Cape Canaveral, base di lancio in Florida. Il freddo: un elemento del quale bisognerà tenere conto, quando si parlerà di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco. Prima però alcuni dettagli tecnici, per meglio capire ciò che verrà detto da qui in poi. Il complesso dello Shuttle era fondamentalmente composto da quattro parti: la navicella vera e propria, ossia l'Orbiter, in parole assai povere una specie di "Boeing spaziale"; i due SRB, i Solid Rocket Booster, due razzi vettori laterali la cui funzione era dare alla struttura la spinta necessaria per salire, nei primi minuti successivi al decollo; e l'ET, l'External Tank, un mastodontico serbatoio centrale contenente idrogeno e ossigeno liquidi, il carburante che alimentava i tre motori della navicella propriamente detta. 
BUONA PARTENZA - Il giorno X cadde infine il 28 gennaio. In Italia, il lancio non venne trasmesso in diretta, ormai il "fascino" mediatico di queste missioni stava scemando dalle nostre parti, e sarebbe tornato in auge solo con la comparsa dei primi astronauti tricolori, dal genovese Malerba in poi. In America, si collegarono in diretta televisiva  la CNN e Channel 4: i video sono tuttora rintracciabili su You Tube. L'equipaggio, oltre che dall'ormai popolarissima "maestrina", era formato da Francis Dick Scobee, Michael J. Smith, Ellison Onizuka, Judith Resnik, Ronald McNair e Gregory Jarvis. Alle 11 e 38 del mattino, dopo un ultimo rinvio di altre due ore, il Challenger si staccò dalla rampa di lancio e prese il volo: tutto pareva funzionare egregiamente, le comunicazioni fra lo Shuttle e il centro di controllo missione a Houston lo testimoniano in maniera inequivocabile; e anche a bordo, sulla base delle registrazioni recuperate settimane dopo, nessuno ebbe sentore di qualcosa di anormale, fin quasi alla fine... (1 - CONTINUA).


giovedì 21 gennaio 2016

LE MIE RECENSIONI: "QUO VADO?" E IL POLIEDRICO TALENTO DI ZALONE


Poche storie: Checco Zalone ci sa fare. Le considerazioni sociologiche e le analisi filosofiche lette in queste settimane a proposito del travolgente successo di "Quo vado?", sbanca - botteghini già entrato negli almanacchi della cinematografia, possono tranquillamente lasciare spazio a quest'unico, lapalissiano dato oggettivo. Ci sa fare, Checco, perché è semplicemente il miglior talento comico emerso in Italia dall'inizio del secolo in corso. Talento vuol dire anche poliedricità, che per un comico significa saper centrare l'obiettivo del far ridere operando su "palcoscenici" tra loro radicalmente diversi, come possono essere la televisione e il cinema: direi che quasi nessuno, negli ultimi quindici - venti anni, vi sia riuscito come lui. Soprattutto, il percorso dal piccolo schermo al teatro o al mondo di celluloide ha impietosamente messo a nudo i limiti artistici di molti cabarettisti, troppo frettolosamente issati al ruolo di fuoriclasse a tutto tondo. Di nomi ne sono stati fatti anche qui su "Note d'azzurro", in passato: inutile tornarci sopra, sarebbe un'inutile crudeltà.
La classe di Zalone, invece, risalta ancor di più dopo ogni sua avventura cinematografica. In fondo, i capisaldi di una buona commedia leggera non sono molti, per quanto difficili da realizzare: capacità di portare allegria ma anche qualche spunto di riflessione, eliminare i tempi morti, la cadute di tono, e limitare al massimo le strizzatine d'occhio al repertorio più becero e trash, perché, senza ipocrisia e falso perbenismo, qualche piccola volgarità qua e là può anche starci, ma il troppo stroppia. Elementi che in "Quo vado?" (regia di Gennaro Nunziante) sono presenti in quantità persino insperata. Checco riesce a elevare all'ennesima potenza i pregi già evidenziati dal precedente "Sole a catinelle": la tensione comica non cala praticamente mai, ma senza sguaiataggine, senza il gusto della battuta fine a se stessa. C'è una sceneggiatura solida, un messaggio da portare avanti, sviluppare, "sfruculiare". C'è il legame con la realtà attuale, vista con occhi allegri e scanzonati, ma anche amaramente disincantati: c'è la capacità di sorridere sulle distorsioni della società moderna senza però buttare tutto in vacca, e anzi inducendo a pensare. C'è intelligenza, insomma, e scusate se è poco. 
Zalone maneggia con leggerezza ma ottima padronanza argomenti "pesanti", sostanziosi, ispidi e infidi: e coglie nel segno. La disoccupazione in età non più verdissima in "Sole a catinelle", mentre nell'ultima produzione le tematiche sono più di una, c'è tanta "ciccia", direbbero a Roma: non solo il mito tricolore del posto fisso, attorno al quale ruota tutto, ma anche mentalità retriva, discriminazioni,  lacune culturali del popolo italiano messe in relazione alla maggiore apertura di altre nazioni (nella fattispecie, la Norvegia). E ridere con garbo e gusto di tali "buchi neri" della nostra società civile è il modo migliore per smontarli, per metterne a nudo la negatività. 
Non è solo comicità, a ben vedere: è ironia tagliente, diciamo pure satira. Satira "mascherata", meno diretta di quella, ad esempio, di Maurizio Crozza, ma ugualmente efficace. Satira all'italiana, certo, non corrosiva come certi picchi d'oltrefrontiera, ma con una sua dignità. Ho citato Crozza perché, con Zalone, è attualmente il miglior esponente su piazza di questo genere artistico. Mettere in ridicolo uno spaccato d'Italia per condannarlo e spingerci (non insegnarci, per carità: solo spingerci) ad essere un po' migliori; è, in fondo, quello che faceva anche il Paolo Villaggio di Fantozzi, anche se in maniera più grezza e caricaturale; e pensando a quel precedente il rischio, per Checco, è uno solo: finire col ripetersi fino allo sfinimento, in una stanca parodia di se stesso. Ma non credo  farà questa fine: Luca Medici è un attento osservatore e lettore delle miserie del presente, che riesce a sintetizzare e trasformare in celluloide con freschezza ed efficacia. E la recente rinuncia all'ospitata sanremese dimostra che sa anche gestire bene la sua popolarità: dietro la scusa della presenza pagata con soldi pubblici (il Festivalone, credo, si autofinanzia abbondantemente attraverso una marea di prestigiosi sponsor) c'è probabilmente il desiderio di non sovraesporsi. 
Detto tutto questo, si è già spiegato come il successo  di "Quo vado?" voli più alto di tante amenità lette ultimamente, come la fin troppo capillare presenza della pellicola nella sale della Penisola (nessuno punta pistole alle tempie degli italiani per costringerli ad andare al cinema a vedere un dato prodotto, e nel periodo delle feste natalizie le alternative tutto sommato non mancavano). Sul film in sé, poco altro da aggiungere: la figura di Zalone è assolutamente centrale, è quella del classico mattatore, ma, come un Maradona che veniva esaltato da un Napoli di altissimo livello tecnico, "Quo vado" funziona perché, oltre a un'impalcatura narrativa solida, attorno al deus ex machina c'è un cast azzeccato, dalla giovane e dolce Eleonora Giovanardi (la partner Valeria) alla statuaria, angolosa e pur affascinante Sonia Bergamasco (la terribile dirigente ministeriale Sironi); è il trio delle meraviglie che rende quasi pleonastico il cameo di Lino Banfi: con tutto il rispetto per il veterano pugliese, la sua presenza non porta alcun valore aggiunto. Su una cosa occorre esser netti, in chiusura: anche solo accostare le produzioni di Zalone alla serie infinita dei cinepanettoni significa avere le idee ben poco chiare. Non è possibile alcun paragone: sono proprio due generi cinematografici diversi, e non parlo solo di qualità, ma dell'essenza stessa delle opere, del modo di concepirle e strutturarle.   

lunedì 18 gennaio 2016

LA FESTA PER I 40 ANNI DI "DOMENICA IN..." (ANZI NO, 39 E QUALCOSA). LO STRANO TEMPISMO DELLA RAI E UNA CELEBRAZIONE EVITABILE

                            Il 45 giri della sigla di una delle prime edizioni di "Domenica in..."

"Domenica in..." non meritava un "omaggio" simile. E vien da piangere pensando alla triste opinione che, del passato di questa trasmissione - pilastro del servizio pubblico, si saranno fatti i più giovani, assistendo allo special che Rai 1 ha dedicato, ieri pomeriggio, ai quarant'anni del popolare contenitore festivo. Tanti interrogativi, a partire dallo strano senso del tempismo che da qualche tempo alberga nei corridoi dell'ente tv di Stato. Prima le lancette dell'orologio troppo avanti in occasione del recente San Silvestro "fantozziano", ora la celebrazione dell'importante traguardo raggiunto da "Domenica in..." messa in calendario con circa nove mesi di anticipo. E sì, perché festeggiare questo compleanno a gennaio 2016 non ha senso, visto che la prima puntata del programma andò in onda nell'autunno del 1976. 
Fosse solo quello. Lo "specialone" di ieri, spiace dirlo, è stato un inno alla bassa qualità televisiva, fra approssimazioni nel racconto e infelice scelta degli ospiti. Attorno a Pippo Baudo, poco e male impiegato, una sarabanda caotica e una rappresentazione del tutto parziale di questi quattro decenni. "Domenica in..." fu, in quella cupa metà dei Settanta, in pieni anni di piombo, uno dei progetti più geniali partoriti da una Rai che era in pieno fervore creativo, lontana anni luce da quella di oggi, che troppo spesso rimastica stancamente vecchie idee ripetendole ad libitum (Vedi "Fatti vostri" et similia). Una novità semplice ma rivoluzionaria: riempire la domenica pomeriggio con una trasmissione fiume, che accompagnasse il settimanale dì di festa degli italiani dal pranzo alla cena, con leggerezza ma anche momenti di sostanza culturale, parlando di spettacolo, di cinema, di musica, di letteratura e di sport. Di tutto di più, ma sempre in perfetto equilibrio, senza cadere nella noia ma anche tenendosi lontani da picchi eccessivamente trash. 
Ebbene: cosa c'era, di tutto ciò, nell'omaggio di ieri, condotto da Paola Perego e da un Salvo Sottile del tutto fuori contesto? Solo pochi e scarsamente significativi filmati di repertorio, nella conferma di un vizio Rai che, francamente, sta cominciando a stufare: il sottoutilizzo di quell'immenso patrimonio rappresentato dalle Teche, con pillole relegate a trasmissioni come "Techetecheté" e poco altro, fra l'altro spesso gli stessi reperti proposti e riproposti all'infinito. Almeno un lustro della storia della trasmissione letteralmente saltato a piè pari: è mai possibile andare in onda, come ha fatto Sottile, introducendo Alba Parietti come prima donna presentatrice di "Domenica in.."? "Alba, abbiamo dovuto aspettare più di quindici anni per vedere una 'Domenica in...' condotta da una donna: perché?", è riuscito a chiedere alla sua ospite. Raffaella Carrà, Marisa Laurito ed Edwige Fenech, padrone di casa fra il 1986 e il 1990, sentitamente ringraziano. Quando poi le redini dei ricordi sono state sottratte al Pippo nazionale è calato il gelo: su un'ora scarsa di trasmissione, oltre quindici minuti sono stati monopolizzati dal ripescato Giucas Casella e dai suoi esperimenti, dita intrecciate e amenità varie, che erano già insopportabili all'epoca della "prima volta" e della cui riproposizione non si avvertiva francamente il bisogno. 
Ecco: guardando lo special di ventiquattr'ore fa, il simbolo dei primi quarant'anni di "Domenica in..." pare esser stato Casella, visto lo spazio dedicatogli. Chiaro che qualcosa non torni; tornano invece gli interrogativi con cui ho aperto l'articolo: io spettatore sono qui, a chiedermi il senso della messa in onda di un prodotto così mal confezionato, oltretutto con un anticipo, va ribadito, del tutto ingiustificato (perché l'età effettiva del programma, al momento, è di circa 39 anni e 4 mesi: che fretta c'era?), mentre i vertici Rai dovrebbero cominciare a porsi qualche domanda circa l'attenzione, la cura, la precisione, la passione con cui vengono allestiti certi capolavori. No, la "domenica degli italiani" non meritava un simile omaggio: e non lo meritava chi, come me, in fondo è diventato adulto anche seguendo quello che, perlomeno fino ai primi anni Novanta, è stato davvero un gioiellino di trasmissione. Proporre qualcosa di meglio, soprattutto nei giorni del martellamento pubblicitario sulle nuove modalità di pagamento del canone, sarebbe il minimo sindacale. Chiediamo troppo? 

mercoledì 6 gennaio 2016

DOPO IL DERBY, GENOA ALLO SBANDO E SENZA CERTEZZE: SQUADRA DA CAMBIARE, TRAINER IN BILICO

                                             Gasperini - Genoa: fine di un ciclo? 

Non è vero che l'unicità del Genoa sia una leggenda alimentata da sciocche convinzioni tifoidee. E' una realtà, purtroppo. E dico purtroppo perché, nel dopoguerra, tale unicità si è quasi sempre tradotta in eventi negativi, quando non sportivamente drammatici, maturati peraltro in circostanze spesso ai limiti dell'incredibile. Unico anche quest'anno il Grifo, ovviamente: unico nel mandare a carte quarantotto previsioni e analisi consolidate. In genere, un terzo di campionato dovrebbe esser sufficiente per valutare l'effettiva caratura di una squadra; dodici, tredici giornate, dopo le quali le gerarchie di classifica hanno più o meno preso forma, e si può capire chi lotterà per i più alti traguardi, chi rimarrà intruppato nel limbo della "terra di mezzo" senza alcun obiettivo concreto da inseguire, e chi sarà invece destinato a sudare sette camicie per restare a galla.
DAL GIORNO ALLA NOTTE, DOPO CARPI - C'ero cascato anch'io, perché dopo tre mesi di torneo persino la mia proverbiale prudenza nei pronostici non può che vacillare... Alla tredicesima, il Genoa aveva piegato a Marassi il forte Sassuolo con la più gagliarda delle prestazioni sin lì fornite, trovando allo scadere del recupero il gol vittoria con Pavoletti. E io avevo sottolineato il carattere "tripallico" del team di Gasperini, capace di crederci fino alla fine, di non mollare mai, di andare oltre i limiti tecnici oggettivi imposti da un mercato rivelatosi, allo stato delle cose, fallimentare. Ecco, da quel giorno è cambiato tutto: quello che sembrava scritto come un campionato anonimo, senza squilli ma senza neanche immani triboli, si è trasformato in una via crucis. Ero purtroppo stato buon profeta scrivendo a caldo, su Facebook, che la sconfitta col Carpi rappresentava una di quelle batoste i cui effetti non si esauriscono nel giro di una settimana, e che anzi avrebbe inciso in maniera pesantissima sul prosieguo del torneo rossoblù. Un capitombolo troppo grave per non essere la spia di un malessere che stava montando e che, in men che non si dica, è esploso in maniera fragorosa.. 
Quel pomeriggio, l'assurda ingenuità di Pavoletti e la sua conseguente espulsione avrebbero anche potuto non avere conseguenze, nell'immediato del match: perché si può vincere in inferiorità numerica, giocando in casa contro la penultima in classifica e matricola della Serie A, oltretutto trovandosi in vantaggio. Con quei tre punti ampiamente alla portata si sarebbe forse visto un cammino diverso invece di questo orrendo avvio di inverno, e la gravissima assenza dell'unico attaccante efficace in rosa sarebbe verosimilmente stata assorbita con meno danni. Non è accaduto, e adesso è inutile piangere sul latte versato. 
BUIO TECNICO - Certo, da quel catastrofico scivolone in poi non è arrivato nessun segnale incoraggiante, anzi. Timore reverenziale al diapason nelle due trasferte con le grandi (e passi per l'Inter, ma affrontare col braccino l'inguardabile Roma attuale...), e, in casa, due partite disastrose: perché se si prende a pallonate il Bologna dei miracoli e si perde, e se nella partita più sentita dell'anno, il derby, si gioca per davvero solo per venti minuti (perdendo ugualmente), la situazione non è da allarme rosso: è addirittura peggiore. E non tragga in inganno la tardiva e inutile reazione coi blucerchiati, una reazione di puro stampo nervoso, favorita dall'appagamento di una rivale che si considerava evidentemente già in porto: di quell'arrembante finale, da salvare solo la certezza che Lazovic non è giocatore da Serie A, e che senza Pavo è la fine. Su ciò che si è visto prima, sull'inconsistenza tattica e fisica di ogni reparto, è forse meglio tacere per carità di patria, ma chi di dovere ne dovrà tenere adeguatamente conto. Del resto, ricordiamo che questa squadra, dopo aver concesso al Carpi l'unico successo esterno del suo asfittico torneo, era riuscita nell'impresa di farsi eliminare in Coppa Italia da una compagine di due categorie inferiori: perché, al di là delle inevitabili e retoriche lodi mediatiche all'Alessandria di turno (o allo Spezia, nel caso della débacle della Roma), una qualsiasi formazione di massima serie anche solo al 40 - 50 per cento delle proprie potenzialità non deve avere alcun problema, mai e poi mai, ad imporsi su un avversario di terza serie. Diversamente, le colpe di chi è caduto sono infinitamente superiori ai meriti dei vincitori. 
IN TROPPI SOTTO IL LORO STANDARD - Troppi, troppi davvero i segnali negativi. Lo avevo scritto nella mia ultima analisi sul Genoa: le scelte in entrata del mercato estivo si stanno rivelando totalmente sballate. Siamo quasi sui livelli della campagna acquisti 2010, a parer mio, lo dico da sempre, svolta negativa della gestione Preziosi: quattro top player acquistati, Eduardo, Rafinha, Veloso e Toni, e quattro colossali delusioni (con parzialissima eccezione per il brasiliano). Questa volta, campioni non ne sono arrivati, ma da gente come Figueiras, Ansaldi, Capel, Dzemaili e Pandev era lecito aspettarsi molto, moltissimo di più, pur se per alcuni di loro il rendimento insufficiente è stato dovuto anche a sfortuna, sotto forma di gravi problemi fisici. Ma anche molti di quelli che già c'erano stanno ampiamente esprimendosi sotto tono, gente come Burdisso, De Maio, Tino Costa e, ebbene sì, anche il "divino" Perotti, che erano considerati certezze della squadra: Perin e Pavoletti, ma anche Izzo, Laxalt e Rincon han tirato la carretta fin quando è stato possibile, ma da soli non possono farcela. Leggendo questi nomi, ci si accorge che il quadro qualitativo è sì inferiore a quello del 2014/15, ma non drammatico: ciò fa ancora più rabbia e rende per molti aspetti incomprensibile (e inquietante) l'involuzione in atto. 
UNA LUCE CHE SI E' SPENTA - Al momento, il futuro non promette nulla di buono. Tutto ruota attorno alle capacità finanziarie della società, che si sanno limitate ma non si sa fino a che punto: Rigoni e Suso non bastano, la squadra ha bisogno di pesanti interventi nel cuore della difesa, sulle fasce (soprattutto a destra) e in attacco, perché allo stato dell'arte difficilmente potrà cavarsi fuori dai guai. I problemi, lo si è detto, non sono nella carenza di classe (che c'è ancora in dosi sufficienti per rimanere a galla), ma in una luce che si è spenta. La magia creatasi nello scorso campionato si è spezzata, e di questo giocatori e tecnico hanno oggettivamente poche colpe. Avevo detto che non avrei mai perdonato al joker il fattaccio della mancata licenza Uefa, e la sensazione, sette mesi dopo, è che quell'autogol abbia incrinato la credibilità del sistema Genoa e abbia tolto sicurezza a molte componenti della società: anche al buon Gasperini, che ha tutta la mia stima ma il cui sacro fuoco sembra essersi affievolito. 
DUBBIO GASP - Il suo ennesimo Genoa non ha brillantezza, spesso latita sul piano del gioco: eppure, in passato era riuscito ad ottenere risultati sensazionali anche con rose sulla carta inferiori a questa, penso al primo anno di A dopo il lungo purgatorio. Ecco, sulla questione - panchina sono onestamente molto combattuto: perché è mia convinzione che Gasperson, con una squadra adeguatamente puntellata (non rattoppata, attenzione: puntellata) potrebbe tranquillamente portare lo spelacchiato Grifone fuori dalle secche, però ciò che si percepisce dall'esterno è che al momento non abbia assolutamente il controllo, tattico e mentale, sul gruppo. Insomma, se dovessi decidere io, dopo grandi tormenti punterei ancora su di lui, ma se la società optasse per un cambio della guardia non griderei allo scandalo né mi strapperei i capelli, anche se le alternative plausibili sono al momento solo due: Guidolin e Corini. Resta il mistero di come il team da "aurea mediocritas" del primo terzo di torneo, arrampicatosi fino a quota 16 punti pur dovendo combattere con molti handicap (buchi nella rosa e infermeria piena) si sia così improvvisamente volatilizzato. Per porre rimedio ai danni fatti nell'ultimo mese ci vorrà un impegno colossale: questa corsa salvezza, ora come ora, rischia di essere difficoltosa quanto quella del Grifo raccolto da Ballardini, tre anni fa, dopo la fallimentare gestione Del Neri. Auguri. 

NOTE D'AZZURRO DAL 2015 AL 2016: AUGURI A TUTTI I LETTORI E QUALCHE BUON PROPOSITO


Per improrogabili impegni professionali sono stato costretto a saltare il tradizionale, piacevole appuntamento col "messaggio di fine anno" del blog al suo sparuto drappello di lettori. Rimedio adesso con queste pochissime righe, certo innanzitutto di essere ancora in tempo per augurare un prospero 2016 a tutti. Un bilancio del 2015 di "Note d'azzurro" è presto tracciato, e del resto non c'è molto da dire: è stato forse l'anno più difficile e tortuoso, da quando questo piccolo spazio web ha visto la luce. Si è ridotto il numero di articoli: era fisiologico rispetto al 2014, quando sulla massa di post incise pesantemente il colossale lavoro svolto durante il mese del Mondiale di calcio brasiliano. Ma il motivo del calo, chiaramente, non è stato solo questo: c'è stato per me più lavoro "vero", intendo quello che dà da mangiare, anche se nulla, purtroppo, che possa garantirmi un futuro sereno e stabilità duratura; si vive pur sempre alla giornata, insomma. E nella parte centrale dell'anno, svariate disavventure legate a problemi di salute di miei familiari, che hanno fatalmente sottratto ulteriori ore e giorni al tempo che usualmente dedicavo al blog. 
Un peccato, perché le idee e gli argomenti da sviluppare, come sempre, non mi sarebbero mancati, ma era destino e nulla ci si può fare. Meno articoli, dunque, e di conseguenza meno visite e meno lettori, ma non me ne faccio un cruccio: non ho più voglia di sciorinare, analizzare e confrontare dati, per un blog come il mio non ha molto senso, ho già detto che difficilmente si può crescere oltre determinati livelli, l'obiettivo più realistico è mantenere un proprio zoccolo duro di lettori, ma anche la "fidelizzazione", me ne sono reso conto, sul web è impresa titanica per "dilettanti" come me, senza colossi o piattaforme editoriali alle spalle, in quanto bastano poche settimane di assenza per veder ridursi un pubblico che, fino a poco tempo prima, pareva definitivamente conquistato. 
Pazienza. Nei limiti del possibile continuerò ad alimentare questo spazio, parlando dei temi che più mi sono congeniali. L'estate prossima sono in programma gli Europei di calcio in terra di Francia, e nel frattempo c'è un Genoa allo sbando, da seguire amorevolmente ma senza risparmiare scudisciate critiche, inevitabili vista l'orribile situazione in cui si è cacciato. Ci sono film, dischi e spettacoli da recensire, a Dio piacendo, e siamo ormai nell'antivigilia del Festival di Sanremo, uno dei miei noti pallini. A proposito del quale sto coltivando un progettino (ino ino) al quale tengo molto, e su cui nell'ultimo anno ho silenziosamente investito parecchio tempo in fatto di ricerca storica, di analisi di documenti e di scrittura (e questo è stato un altro dei motivi della mia minor presenza su Note d'Azzurro). Il frutto di tale lavoro dovrebbe, spero, vedere la luce entro poche settimane: di più, per il momento, non dico per scaramanzia. 
Chiudo qui, ma del resto non è il caso di andare oltre: le celebrazioni, i bilanci e i buoni propositi per il futuro alla lunga risultano stucchevoli e indigeribili. Ci vediamo presto su questi schermi, magari già nel pomeriggio. Ancora buon anno a tutti.