Pozzo portato in trionfo dai suoi ragazzi: l'Italia è campione del mondo per la prima volta
Ottant'anni fa, in questo stesso giorno, iniziava la leggenda iridata del calcio azzurro. Era il tardo pomeriggio del 10 giugno 1934: dopo il gustoso antipasto di quattro anni prima (la conquista della Coppa Internazionale - Svehla Pokal, antenata in scala ridotta dell'odierno Europeo), la Nazionale italiana entrava ufficialmente nel novero delle grandi potenze del pallone, conquistando per la prima volta la Coppa del Mondo, grazie al successo per 2 a 1 sulla Cecoslovacchia nella finalissima di Roma. Ottant'anni: la ricorrenza è fra le più importanti per il nostro movimento calcistico, eppure non mi pare stia avendo la risonanza che le spetterebbe di diritto. Forse è per l'imminente inizio del Mundial brasiliano, che catalizza l'attenzione dei media e del pubblico. Mi pare però di scorgere, qua e là, anche una certa riluttanza a trattare l'argomento: non nascondo di aver provato una certa amarezza, qualche giorno fa, imbattendomi in un pezzo rievocativo di Gigi Garanzini sul sito della Stampa, dal titolo emblematico: "Quel primo titolo un po' imbarazzante". Le solite cose, lette e rilette: i favori arbitrali agli azzurri padroni di casa, le cronache giornalistiche dell'epoca inattendibili e grondanti retorica, persino i sospetti (sui quali non ho mai trovato alcun riscontro veramente concreto) di ingerenze politiche in ciò che avveniva sul campo (il portiere spagnolo Zamora, uscito malconcio dal primo confronto con l'Italia, "convinto" a rinunciare alla partita di spareggio).
Ottant'anni fa, in questo stesso giorno, iniziava la leggenda iridata del calcio azzurro. Era il tardo pomeriggio del 10 giugno 1934: dopo il gustoso antipasto di quattro anni prima (la conquista della Coppa Internazionale - Svehla Pokal, antenata in scala ridotta dell'odierno Europeo), la Nazionale italiana entrava ufficialmente nel novero delle grandi potenze del pallone, conquistando per la prima volta la Coppa del Mondo, grazie al successo per 2 a 1 sulla Cecoslovacchia nella finalissima di Roma. Ottant'anni: la ricorrenza è fra le più importanti per il nostro movimento calcistico, eppure non mi pare stia avendo la risonanza che le spetterebbe di diritto. Forse è per l'imminente inizio del Mundial brasiliano, che catalizza l'attenzione dei media e del pubblico. Mi pare però di scorgere, qua e là, anche una certa riluttanza a trattare l'argomento: non nascondo di aver provato una certa amarezza, qualche giorno fa, imbattendomi in un pezzo rievocativo di Gigi Garanzini sul sito della Stampa, dal titolo emblematico: "Quel primo titolo un po' imbarazzante". Le solite cose, lette e rilette: i favori arbitrali agli azzurri padroni di casa, le cronache giornalistiche dell'epoca inattendibili e grondanti retorica, persino i sospetti (sui quali non ho mai trovato alcun riscontro veramente concreto) di ingerenze politiche in ciò che avveniva sul campo (il portiere spagnolo Zamora, uscito malconcio dal primo confronto con l'Italia, "convinto" a rinunciare alla partita di spareggio).
MONDIALI E FASCISMO - Personalmente, prima di scrivere questo mio pezzo amarcord, sono andato a rileggermi tutto quanto mi è stato possibile rintracciare su quel primo Mondiale italiano: resoconti e commenti del tempo, ma anche ricostruzioni successive. Mi sono fatto una mia idea, opinabile come tutte le idee personali. Del resto, non esistono molti altri modi per raccontare il football d'anteguerra: niente filmati, se non quelli lacunosi destinati alle sale cinematografiche, realizzati secondo criteri lontani anni luce da quelli delle odierne telecronache (quasi impossibile, da quelle immagini, avere un quadro della disposizione tattica delle squadre e della dinamica delle azioni); articoli di giornale che necessitano di una doverosa tara, perché, va sempre ricordato, erano gli anni dell'apogeo del regime fascista. Ma è mia sensazione che sulla questione "Duce - Ventennio" si sia ricamato un po' troppo, relativamente al trionfo azzurro del '34: di sicuro il fascismo usò il campionato mondiale come cassa di risonanza e strumento promozionale del Paese e, soprattutto, di chi lo governava, atteggiamento tipico di ogni dittatura. Vi riuscì perché la kermesse fu, oggettivamente, un successo clamoroso: organizzazione impeccabile, stadi modernissimi e maestosi, ottima accoglienza, e alla fine persino un bilancio finanziario in attivo.
IL RUOLO DI PADRONI DI CASA - Sul piano prettamente sportivo, le cose vanno raccontate in maniera un po' diversa. Sicuramente il fascismo vedeva nelle affermazioni degli atleti di casa, in ogni disciplina, un mezzo di esaltazione del valore fisico e spirituale del popolo italiano, e quindi dell'efficacia della propria azione governativa e financo educativa. Tuttavia, da qui a pensare a interventi diretti per indirizzare l'esito del torneo del 1934 ce ne passa. Sgombriamo subito il campo da equivoci di sorta: è innegabile che la nostra rappresentativa abbia avuto dei favori in campo, ma non furono più numerosi, e più scandalosi, di quelli di cui usufruirono altre "anfitrione" negli anni successivi, dal Cile '62 alla Corea del Sud 2002, passando per la Spagna del 1982 e, soprattutto, l'Inghilterra del '66 e l'Argentina del '78. E alcuni episodi controversi mi pare siano stati ingigantiti ad arte da certa stampa estera, soprattutto da quella spagnola, tesa a difendere i colori di casa oltre ogni evidenza: a proposito, considerare inattendibili i giornali italiani di quei giorni, a parer mio, non implica in automatico il dover prendere per oro colato quanto scritto da quelli d'oltre frontiera...
L'IMMENSO POZZO - Un'analisi dettagliata della seconda Coppa del mondo di calcio, svoltasi nel nostro Paese dal 27 maggio al 10 giugno 1934, impone di dire che il successo finale dei nostri fu nel complesso meritato, pur se sofferto. Era l'Italia di Vittorio Pozzo, un monumento del nostro football, un pluridecorato uomo di sport al quale nessuno dei nostri dirigenti calcistici succedutisi dopo la sua morte (avvenuta nel 1968) è stato in grado di dedicare uno stadio, nemmeno quando, prima di Italia '90, ne venne costruito uno nuovo a Torino, la sua città natale. Pozzo non era solo quel retore un po' trombone dipinto da qualche storico: era un profondissimo conoscitore delle cose di calcio, degli atleti, delle squadre e dei sistemi di gioco, un patrimonio di informazioni accumulate in anni di viaggi su e giù per l'Italia e per l'Europa intera.
Poi, certo, era anche uno che sapeva caricare i suoi ragazzi facendo leva sui sentimenti di patriottismo e di appartenenza, all'epoca certo più vivi di oggi: semplicemente, aveva capito prima di altri l'importanza del "fare gruppo" in certe circostanze speciali (come appunto un Mondiale). La sua Italia '34 fu, per l'appunto, un monolite umano e morale, che seppe scavalcare i duri ostacoli disseminati sul cammino verso la Coppa anche grazie alla feroce volontà e allo spirito di corpo: qualcosa di molto simile ai ragazzi di Bearzot e a quelli di Lippi su cui, molti anni dopo, si sarebbe fin troppo filosofeggiato.
Combi e Zamora si stringono la mano: manca poco all'inizio del primo Italia - Spagna
ITALIA E AUSTRIA, IL MEGLIO DELL'EPOCA - Parlando invece dei valori più prettamente tecnici e agonistici, non si scopre l'acqua calda dicendo che quell'Italia era già una delle massime espressioni calcistiche del globo. Fuori gioco l'Inghilterra (che a torto si riteneva superiore a tutti e non si degnava di partecipare ai Mondiali), in "naftalina" l'Uruguay primo campione iridato nel '30 (non prese parte al secondo torneo, forse per ripicca verso gli squadroni europei che avevano rifiutato la trasferta oltreoceano quattro anni prima, più probabilmente per la situazione caotica che l'introduzione del professionismo aveva generato in Sudamerica), il team di Pozzo se la giocava, quanto a valore complessivo, con la meravigliosa Austria del tempo, il Wunderteam plasmato da Hugo Meisl, lo squadrone di Platzer, Sesta, Bican, Schall e soprattutto Sindelar.
Era una selezione esperta, quella azzurra, che, dopo aver inanellato vittorie in serie, pochi mesi prima del Mondiale si vide inaspettatamente messa in discussione, a causa di un sonoro tonfo casalingo a Torino proprio contro gli austriaci (2-4 in Coppa Internazionale, torneo che comunque i nostri si sarebbero alla fine aggiudicati, bissando la citata vittoria del 1930). Quella nefasta gara diede tuttavia indicazioni utili a Pozzo: gli fece capire che i due leggendari terzini Rosetta e Caligaris cominciavano ad avvertire il peso degli anni e delle battaglie, e di converso portò alla luce il fiammeggiante talento dell'ala Enrique Guaita, ultimo oriundo aggregato alla compagnia e immediatamente cooptato per la manifestazione iridata.
Poi, certo, era anche uno che sapeva caricare i suoi ragazzi facendo leva sui sentimenti di patriottismo e di appartenenza, all'epoca certo più vivi di oggi: semplicemente, aveva capito prima di altri l'importanza del "fare gruppo" in certe circostanze speciali (come appunto un Mondiale). La sua Italia '34 fu, per l'appunto, un monolite umano e morale, che seppe scavalcare i duri ostacoli disseminati sul cammino verso la Coppa anche grazie alla feroce volontà e allo spirito di corpo: qualcosa di molto simile ai ragazzi di Bearzot e a quelli di Lippi su cui, molti anni dopo, si sarebbe fin troppo filosofeggiato.
ITALIA E AUSTRIA, IL MEGLIO DELL'EPOCA - Parlando invece dei valori più prettamente tecnici e agonistici, non si scopre l'acqua calda dicendo che quell'Italia era già una delle massime espressioni calcistiche del globo. Fuori gioco l'Inghilterra (che a torto si riteneva superiore a tutti e non si degnava di partecipare ai Mondiali), in "naftalina" l'Uruguay primo campione iridato nel '30 (non prese parte al secondo torneo, forse per ripicca verso gli squadroni europei che avevano rifiutato la trasferta oltreoceano quattro anni prima, più probabilmente per la situazione caotica che l'introduzione del professionismo aveva generato in Sudamerica), il team di Pozzo se la giocava, quanto a valore complessivo, con la meravigliosa Austria del tempo, il Wunderteam plasmato da Hugo Meisl, lo squadrone di Platzer, Sesta, Bican, Schall e soprattutto Sindelar.
Era una selezione esperta, quella azzurra, che, dopo aver inanellato vittorie in serie, pochi mesi prima del Mondiale si vide inaspettatamente messa in discussione, a causa di un sonoro tonfo casalingo a Torino proprio contro gli austriaci (2-4 in Coppa Internazionale, torneo che comunque i nostri si sarebbero alla fine aggiudicati, bissando la citata vittoria del 1930). Quella nefasta gara diede tuttavia indicazioni utili a Pozzo: gli fece capire che i due leggendari terzini Rosetta e Caligaris cominciavano ad avvertire il peso degli anni e delle battaglie, e di converso portò alla luce il fiammeggiante talento dell'ala Enrique Guaita, ultimo oriundo aggregato alla compagnia e immediatamente cooptato per la manifestazione iridata.
CORREZIONI ALLA SQUADRA - Scottato da quella infelice uscita, il Commissario Unico (all'epoca il trainer della Nazionale era così definito) fece qualche esperimento nella gara di qualificazione mondiale vinta senza brillare sulla modestissima Grecia (fu l'unica volta nella storia in cui una Nazionale padrona di casa dovette guadagnarsi sul campo la partecipazione alla Coppa del Mondo...): ebbe buone risposte dai due nuovi terzini, Monzeglio e Allemandi (nuovi per modo di dire, essendo già forti di una cospicua esperienza in azzurro), e anche dal giovane portiere Ceresoli, che sarebbe diventato il titolare se non si fosse gravemente infortunato durante il ritiro premondiale, favorendo il ritorno fra i pali dell'anziano Combi. Altro ripescato eccellente fu il romano Ferraris IV, che pareva avviato a un inarrestabile declino atletico e che invece Pozzo e il suo staff (di cui faceva parte Carlo Carcano, l'allenatore della leggendaria Juventus del quinquennio) ricostruirono in breve tempo, portandolo a livelli di rendimento eccezionali.
CLASSE E AGONISMO - Eccoci dunque al Mondiale, affrontato da una squadra azzurra non più di primo pelo in molti suoi elementi, e quindi chiamata all'ultima impresa. Formazione di primissimo piano, lo abbiamo detto, impastata di classe sopraffina e di ferocia agonistica, quello slancio che fece imbufalire molti commentatori esteri. A finire nel mirino fu soprattutto il nostro centromediano Luis Monti, che in effetti disputò un torneo in chiaroscuro, alternando le consuete impeccabili chiusure e rilanci ad ampia gittata a qualche intervento falloso di troppo, cosa che peraltro i nostri giornali rimarcarono doverosamente, laddove invece, secondo le riletture d'oggidì, la stampa italiana avrebbe colpevolmente nascosto molti particolari scabrosi delle partite disputate dai nostri. (1 - Continua).
CLASSE E AGONISMO - Eccoci dunque al Mondiale, affrontato da una squadra azzurra non più di primo pelo in molti suoi elementi, e quindi chiamata all'ultima impresa. Formazione di primissimo piano, lo abbiamo detto, impastata di classe sopraffina e di ferocia agonistica, quello slancio che fece imbufalire molti commentatori esteri. A finire nel mirino fu soprattutto il nostro centromediano Luis Monti, che in effetti disputò un torneo in chiaroscuro, alternando le consuete impeccabili chiusure e rilanci ad ampia gittata a qualche intervento falloso di troppo, cosa che peraltro i nostri giornali rimarcarono doverosamente, laddove invece, secondo le riletture d'oggidì, la stampa italiana avrebbe colpevolmente nascosto molti particolari scabrosi delle partite disputate dai nostri. (1 - Continua).
Nessun commento:
Posta un commento