Così su Facebook diedi il primo sommario annuncio del crollo del ponte
Ricordo tutto di quel giorno, ora per ora, minuto per minuto. Ricordo un inizio di mattinata fatto di ragionamenti e pensieri frivoli, di quelli che ci si può concedere alla vigilia di un qualsiasi Ferragosto se non si hanno problemi personali gravi, seri, impellenti. Ricordo l'allerta arancione, certo; le luci accese in casa come se fosse una serata autunnale, la pioggia scrosciante, il diluvio su Genova: non certo una novità (anzi...), con annessa paura di eventi alluvionali a cui abbiamo fatto una dolente abitudine. Ricordo la telefonata di mio fratello, all'insolito orario di mezzogiorno, per comunicare a me e ai miei genitori che stava bene, cioè quella che sembrava un'inutile e bizzarra precisazione. "In che senso stai bene, scusa? Che significa?". Lo scoprii nel giro di pochi secondi: mio fratello si reca spesso a lavorare presso un'azienda che ha sede in Valpolcevera (e in passato sono andato diverse volte con lui, per dargli una mano). Anche quella sciagurata mattina del 14 agosto 2018 era passato rapidamente da lì, per poi spostarsi presso un altro ufficio in una zona limitrofa. Era crollato un ponte autostradale, ci disse, e noi non sapevamo ancora nulla: bastò accendere la tv, sintonizzarsi su un'emittente locale, per trovarsi di fronte a quanto di più vicino all'Apocalisse abbia mai visto in vita mia, quantomeno a così poca distanza fisica da me.
L'ASSURDO DIVENTA REALTÀ - In verità, i contorni esatti della tragedia non erano ancora ben chiari nella mia testa: abitando dall'altra parte di Genova, non avevo quella confidenza col "ponte di Brooklyn" che invece fa parte del bagaglio umano di tanti miei concittadini. Certo l'ho percorso un po' di volte, sia sopra che sotto, senza però che tali transiti rimanessero scolpiti nella memoria, legati a episodi particolarmente significativi della mia vita. Scrissi su Facebook un post in cui annunciavo semplicemente che era "crollato un ponte a Genova". Inizialmente avevo pensato a un cavalcavia, memore di quanto era accaduto qualche anno prima a Lecco. Erano, del resto, momenti convulsi, e quella "cosa" pareva talmente assurda, surreale, fantascientifica, da non riuscire ad ammettere che fosse seriamente avvenuta. Un viadotto autostradale che crolla? Una delle più importanti arterie del Paese che si sbriciola all'improvviso? Suvvia, siamo seri...
DOLORE CONTINUO - Invece è successo, ed è passato quasi un anno. 365 giorni, nessuno dei quali è andato via senza che io abbia rivolto un pensiero, anche solo per pochi minuti, a quel disastro e, soprattutto, alle 43 vite spezzate. Uno degli choc più grandi e violenti che abbia mai vissuto, una ferita che credo non si rimarginerà mai, e se è così per me, posso solo intuire il tormento in cui, da allora, si dibattono parenti e amici delle vittime. Il fatto è che, come ho ripetuto spesso in questo periodo, su quel ponte c'eravamo proprio tutti, e ognuno di noi poteva subire identico, tremendo destino: poteva davvero capitare a chiunque. È stato un anno triste, sì: un anno di dolore dapprima lancinante, poi sommesso eppur continuo, un anno in cui ogni attimo di effimera gioia è stato smorzato dal ricordo sempre nitido di quella giornata infernale; è stato anche un anno di riflessione, un anno in cui, proprio in seguito a questa vicenda, ho avuto ancor più chiare le priorità dell'esistenza. Intendiamoci, non che non le avessi già ben presenti, ma la tragedia così vicina alla mia casa e ai miei affetti ha rafforzato in me certi concetti, i valori che contano davvero, le cose tutto sommato trascurabili e quelle per cui vale la pena battersi, arrabbiarsi, combattere.
Questa foto e quelle che seguono sono state scattate da me e mio fratello nei mesi successivi al crollo
Questa foto e quelle che seguono sono state scattate da me e mio fratello nei mesi successivi al crollo
IL "DOPO" - Tante cose sono accadute, in questi mesi: ciò che rimaneva del vecchio viadotto è stato in parte smontato, in parte fatto saltare in aria la mattina del 28 giugno scorso; molti abitanti della zona sulla quale si ergeva la mastodontica e fragile struttura sono stati costretti a lasciare le loro case, sfollati come dopo un terremoto, come dopo un bombardamento aereo, perché quel 14 agosto 2018, per Genova, fu davvero come una giornata di guerra, con tutte le conseguenze del caso destinate a protrarsi a lungo. Mese dopo mese si sono susseguiti gli studi, le analisi, gli approfondimenti più o meno tecnici su ciò che potrebbe aver scatenato il disastro, alle 11.36 di un anno fa; si sono moltiplicati i reperti video, i primi del tutto inconcludenti, poi alcuni estremamente significativi, fino a quello cruciale dell'azienda Ferrometal da poco desecretato, che ha mostrato in tutta la sua crudezza la dinamica del crollo lasciando comunque diversi interrogativi insoluti. Si sono susseguite anche le dichiarazioni a vanvera di tanti politici, uno soprattutto, distintosi per aver cominciato a fare bieca campagna elettorale fin dal giorno dopo: un personaggio che non merita nemmeno di essere nominato, e che spero venga presto inghiottito dall'oblìo che merita. Siamo ancora in attesa della revoca della concessione autostradale, a parer mio sacrosanta in quanto atto eticamente doveroso in attesa che vengano chiarite giuridicamente le colpe, ma la crisi politica ha rallentato il tutto. Si è anche cominciato a costruire il nuovo ponte, nel frattempo, ed è giusto così, perché la città, la popolazione, l'economia, la viabilità hanno bisogno di una nuova ed efficiente infrastruttura al più presto, così come è stato giusto spazzare via senza pietà il vecchio ponte menomato, simbolo e causa di lutto e di morte.
PENSARE ALLE VITTIME - Già, il lutto: tante cose sono state dette e fatte, in questi 365 giorni, ma, sensazione personale, delle persone rimaste uccise ci si è occupati troppo poco. Un po' come delle vittime del terrorismo brigatista anni '70 e '80, mentre i responsabili di tanto sangue, i brigatisti stessi, scrivono libri, articoli di giornale, e tengono conferenze. Va bene il rispetto per il dolore, che però non deve sconfinare nell'indifferenza. 43 persone, giovani, meno giovani, persino bambini, gente che andava o tornava dal lavoro, in viaggio verso le ferie, cancellate nel giro di pochi secondi, nella maniera più crudele possibile, e senza colpa alcuna da parte loro. Nessuna imprudenza alla guida, nessun sorpasso azzardato o eccesso di velocità, ma una strada che ti crolla sotto le ruote, un pauroso volo di cinquanta metri assieme alle macerie, e poi solo lacrime, tante lacrime, che ancora oggi continua a versare chi amava e conosceva quella povera gente. Ebbene: ora che il vecchio Morandi non c'è più, ora che il nuovo sta cominciando a vedere timidamente la luce, a un anno esatto dai fatti occorre cambiare ottica nel modo di approcciarsi a questa storica ecatombe. Le istituzioni, soprattutto quelle locali, pur fra molti incidenti di percorso hanno mostrato il sollecito attivismo che si chiedeva loro (in particolare il sindaco Marco Bucci merita un plauso incondizionato), i cantieri lavorano a pieno ritmo. I ricordi, le commemorazioni future dovranno avere un nuovo caposaldo: lottare per onorare la memoria di chi non c'è più e per rendere loro giustizia.
PENSARE ALLE VITTIME - Già, il lutto: tante cose sono state dette e fatte, in questi 365 giorni, ma, sensazione personale, delle persone rimaste uccise ci si è occupati troppo poco. Un po' come delle vittime del terrorismo brigatista anni '70 e '80, mentre i responsabili di tanto sangue, i brigatisti stessi, scrivono libri, articoli di giornale, e tengono conferenze. Va bene il rispetto per il dolore, che però non deve sconfinare nell'indifferenza. 43 persone, giovani, meno giovani, persino bambini, gente che andava o tornava dal lavoro, in viaggio verso le ferie, cancellate nel giro di pochi secondi, nella maniera più crudele possibile, e senza colpa alcuna da parte loro. Nessuna imprudenza alla guida, nessun sorpasso azzardato o eccesso di velocità, ma una strada che ti crolla sotto le ruote, un pauroso volo di cinquanta metri assieme alle macerie, e poi solo lacrime, tante lacrime, che ancora oggi continua a versare chi amava e conosceva quella povera gente. Ebbene: ora che il vecchio Morandi non c'è più, ora che il nuovo sta cominciando a vedere timidamente la luce, a un anno esatto dai fatti occorre cambiare ottica nel modo di approcciarsi a questa storica ecatombe. Le istituzioni, soprattutto quelle locali, pur fra molti incidenti di percorso hanno mostrato il sollecito attivismo che si chiedeva loro (in particolare il sindaco Marco Bucci merita un plauso incondizionato), i cantieri lavorano a pieno ritmo. I ricordi, le commemorazioni future dovranno avere un nuovo caposaldo: lottare per onorare la memoria di chi non c'è più e per rendere loro giustizia.
CONDANNE E GALERA, SE QUESTO È ANCORA UN PAESE SERIO - I tribunali non ci restituiranno le vite di chi se ne è andato, ma dovranno mettere dei paletti ben precisi: sancire responsabilità individuali e collettive (leggasi aziende e istituzioni), erogare condanne esemplari, mandare qualcuno in galera, se occorre. Il Ponte Morandi era un malato terminale. Se c'è chi non ha vigilato, o chi l'ha fatto in maniera troppo "morbida", se c'è chi non è intervenuto nei tempi e nei modi giusti per salvare il colosso in decadenza, beh, dovrà risponderne e pagare di conseguenza, sempre se questo Paese mantiene un minimo di dignità. Solo così la catastrofe di Ferragosto non rimarrà un'inutile strage: Genova riavrà un ponte più sicuro anche se forse meno bello (i ponti devono consentire viaggi e trasporti salvaguardando la vita degli esseri umani, la perfezione estetica viene dopo, molto dopo), ma dovrà essere un'altra la vera eredità del 14 agosto 2018: una nazione che lavora con efficienza e che mette al primo posto l'incolumità fisica dei suoi cittadini.
I NOMI DELLE VITTIME - Chiudo dunque ricordando i nomi di chi, 365 giorni fa, è stato strappato alla vita in una piovosa mattinata genovese: Giovanni Battiloro, Matteo Bertonati, Gerardo Esposito e Antonio Stanzione, i quattro ragazzi di Torre del Greco; Luigi Matti Altadonna; Elisa Bozzo (che su Facebook si firmava anche "La Ely"); i giovani fidanzatini Stella Boccia e Carlos Trujillo; un'altra coppia con un avvenire insieme davanti, Marta Danisi e Alberto Fanfani; Juan Carlos Pastenes, Nora Rivera Castillo e Juan Figueroa; i camionisti Gennaro Sarnataro (che fino a pochi minuti prima del decesso scherzava sui social), Vincenzo Licata, Marian Rosca e Anatoli Malai; Marjus Djerri ed Edi Bokrina, colleghi di lavoro come Mirko Vicini e Bruno Casagrande, morti nell'isola ecologica Amiu collocata sotto il ponte, assieme ad Alessandro Campora; Andrea Cerulli della Culmv; i quattro francesini con i dread, Nathan Gusman, Axel Nèmati Alizee Place, Melissa Artus Bastit e William Pouzadoux; i coniugi Alessandro Robotti e Giovanna Bottaro; Claudia Possetti e Andrea Vittone con i figli della donna Manuele e Camilla; e ancora Giorgio Donaggio, Henry Diaz e Angela Zerilli, Francesco Bello, Dawna Munroe e Cristian Cecala con la piccola Crystal, Roberto Robbiano ed Ersilia Piccinino col figlioletto Samuele, la vittima più giovane coi suoi otto anni. A loro, da parte mia, la promessa che non cesserò di interessarmi a questa tragedia, e ne seguirò nei limiti del possibile gli sviluppi investigativi e giudiziari.
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