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giovedì 10 dicembre 2020

PABLITO PER SEMPRE. ADDIO A ROSSI, FUORICLASSE VERO, MITO GENERAZIONALE, SIMBOLO ETERNO DI UN PAESE E DEL SUO CALCIO

                 Pablito con la Coppa del Mondo a Madrid, e dedica per i lettori del Guerin Sportivo

Pablito Rossi, il suo mito, l'epopea dell'Italia '82, io li ho scoperti e amati in differita. In quell'estate "spagnola" ero un bimbo di otto anni che seguiva il pallone solo distrattamente, aveva altri interessi, anche se si rendeva perfettamente conto che attorno a lui stava accadendo qualcosa di grosso, di importante, di gioioso, una festa collettiva che riempiva di allegria le case e le strade. Ma la cosa finì lì. Anni dopo, quando ho cominciato ad appassionarmi di calcio, ho anche voluto costruirmi una conoscenza profonda della storia di questo sport, e il punto di partenza, il caposaldo dei miei "studi", non poté che essere la vicenda, per certi versi incredibile, del terzo Mondiale azzurro. Fu così che iniziai a viaggiare fra le mille sfaccettature di quell'impresa: non solo capolavoro tecnico e agonistico, ma evento che incise profondamente nella storia sociale e culturale del nostro Paese. La banda Bearzot restituì a un popolo la voglia di sorridere, di fare gruppo e comunità, di ritrovarsi insieme per condividere passioni sane e genuine, dopo lustri gonfi di tristezza, di tensione, di terrore quotidiano. Il segreto dell'immortalità del nostro Mundial '82, dei suoi protagonisti, è in fondo tutto qui: nel fatto di trascendere le questioni di campo, di non essere stato un trionfo esclusivamente sportivo, come tanti precedenti e successivi, tutti belli, tutti indimenticabili, ma probabilmente nessuno così legato a filo doppio alla storia "seria" della nazione Italia. 

Per chi, al contrario di me, lo visse con consapevolezza e maturità, quell'82 fu probabilmente uno degli anni più belli di sempre. Questo 2020, invece, sembra proprio il peggiore anno della nostra vita, quantomeno di chi è nato a partire dalle decadi dei Sessanta - Settanta. Una sciagura inconcepibile si è abbattuta sull'umanità, seminando morte e angoscia, e a far da triste, beffardo corollario una ininterrotta sequela di lutti per la scomparsa di figure popolari e universalmente apprezzate. Ultimo della lista, il nostro caro Paolo. Leggendo la notizia nel cuore della notte, sono rimasto a lungo inebetito di fronte allo schermo del pc: si può essere addolorati e amareggiati anche per la perdita di una persona che non era né parente, né amico, né conoscente, se questa persona è stata comunque il simbolo di una parte importante della nostra vita, di un amore come quello per il calcio, di un'epoca felice che oggi sembra a distanza siderale dall'inferno che stiamo attraversando. A maggior ragione posso capire quanto dolore stia provando chi le imprese di Barcellona e Madrid, e ancor prima di Baires '78, le ha viste e vissute pienamente, avendo l'età giusta per godersele. 

La frase più ricorrente, nei post che compaiono in queste ore sulla mia bacheca Facebook, è: "Se ne è andato un pezzo della mia giovinezza". E' proprio così, e in fondo lo è anche per me. I nostri eroi calcistici degli anni Ottanta - Novanta stanno invecchiando, com'è nella natura delle cose, alcuni purtroppo sono anche malati, ma noi ancora non siamo pronti, non possiamo, non vogliamo nemmeno concepire l'idea che uno di loro se ne vada via, soprattutto se la scomparsa avviene così presto, troppo presto, e quasi all'improvviso, inattesa, come un fulmine a ciel sereno. Io non sapevo che Rossi stesse lottando contro il cancro, fino a poche settimane fa lo si vedeva sugli schermi Rai a commentare calcio italiano e internazionale. Per questo lo shock è stato ancora più profondo, violento. 

L'unica consolazione, ora, è parlare del Rossi calciatore. Tutto, è ovvio, ruota attorno a Italia - Brasile 3-2, per me la vera partita del ventesimo secolo, più di Italia - Germania '70 perché, anche nel suo andamento fatto di emozioni fortissime, con quel ripetuto botta e risposta e l'altalena nel punteggio, fu gara che si sviluppò secondo una propria logica, una razionalità, senza momenti di totale follia, anarchia e imperfezione tecnica come invece accadde all'Azteca. Ma la leggenda di Pablito non è racchiusa solo in quel pomeriggio del Sarrià e nei due che seguirono, al Nou Camp con la Polonia e a Madrid coi soliti tedeschi. Rossi calciatore è stato piedi buoni e classe purissima, è stato soprattutto un nuovo modo di concepire il gioco d'attacco. La Nazionale di Bearzot segnava il passo, prima del Mundial argentino: era diventata fiacca e prevedibile. Il Vecio mise dentro Paolino, non ancora Pablito, e quell'inserimento rivoluzionò totalmente il quadro offensivo della nostra squadra. La sua intelligenza tattica si sposò alla perfezione con quella più matura di Bettega, la sua vitalità movimentò la nostra prima linea aprendo varchi, suggerendo passaggi, creando spazi dal nulla, moltiplicando le soluzioni di inserimento e tiro, assistendo i compagni. E poi, ovviamente, c'era la sua dote principale, quella di risolutore mortifero nei sedici metri finali: il guizzo da opportunista, la giocata d'anticipo, il tocco maligno, la capacità di essere sempre al posto giusto nel momento giusto: e i gol fioccavano copiosi. Uno scricciolo la cui prolificità aveva già trasformato il Lanerossi Vicenza in provinciale di lusso, in lizza, per pochi fantastici mesi, addirittura per lo scudetto. 

Dopo il Mundial '78 che lo rivelò alla grande ribalta planetaria, ci furono molte amarezze: sul campo, con lo stesso Vicenza e col Perugia, e fuori, per via di un coinvolgimento nel calcioscandalo dell'80  a proposito del quale Paolo sempre si proclamò innocente. Nel frattempo passato alla Juve, fece in tempo a dare un piccolo contributo alla conquista del ventesimo scudetto, pochi mesi prima del "suo mitico mondiale", parafrasando l'autobiografia uscita qualche anno fa. Il mito di Rossi venne costruito in una settimana, dal 5 all'11 luglio 1982. Pare assurdo dirlo, ma per certi versi è stato anche un peccato: perché Paolo aveva le stimmate del fuoriclasse. Checché se ne dica, e già mi è capitato di leggerlo in queste ore, non era affatto un calciatore normale che raggiunse il top unicamente grazie all'impegno e all'applicazione. Era un talento sopra la media, tanto che la stampa dell'epoca lo considerava l'unico vero campionissimo prodotto da quella generazione di "pedatori" italiani, il solo in grado di tenere la rappresentativa azzurra ai vertici mondiali, di trasformare la truppa di Bearzot da buona squadra a grande squadra. 

Di certo fu un fuoriclasse d'attacco, per le doti che ho elencato prima: centravanti moderno che nacque come ala, e del vecchio ruolo mantenne fiammate, velocità, intuizioni, imprevedibilità; uomo capace di annusare nell'aria l'impresa e di siglare gol pesantissimi, quelli che servivano per entrare negli albi d'oro. Senza i gravi infortuni che lo minarono a più riprese portandolo infine al ritiro a soli 31 anni, senza i due anni di stop per il calcioscommesse, senza avventure infelici come quella di Perugia, come l'ultima stagione bianconera, come il fugace passaggio nel Milan pre-berlusconiano, quale Pablito racconteremmo oggi? Probabilmente un calciatore ugualmente epocale, ma non indissolubilmente legato a una sola estate da leone. Oggi parleremmo di un Rossi grandissimo per continuità ai massimi livelli, di certo con qualche alloro in più in bacheca, magari con un contributo ancor più sostanzioso alla Nazionale, con l'Euro '80 regolarmente disputato e col suo terzo Mondiale, nel 1986, giocato da protagonista e non vissuto da malinconico spettatore in viaggio premio. Sì, sembra incredibile, eppure perfino una carriera straordinaria come quella del numero 20 dell'Italia '82 può lasciare ampio spazio ai rimpianti. Ma forse conta poco, nel momento in cui esci dalla dimensione sportiva per diventare eroe di un Paese, simbolo nazionale ai quattro angoli del mondo, sinonimo di Italia vincente contro ostacoli apparentemente insormontabili. Nei cinque continenti, per tutti, solo e sempre "Paolorossi", e tanto basta.

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