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mercoledì 7 luglio 2021

EURO 2020: LA SPAGNA VINCE AI PUNTI, MA IN FINALE VA UN'ITALIA ALL'ANTICA, IN SOFFERENZA MA NON PASSIVA. PURCHE' NON DIVENTI UN'ABITUDINE... BRAVI DONNARUMMA, DI LORENZO, EMERSON E CHIESA

 I paradossi del calcio. L'ItalMancio ha cambiato radicalmente volto, obtorto collo, proprio nella serata fin qui più gloriosa della sua ancor breve parabola, la notte che la consegna a una finalissima europea assolutamente inattesa, imprevedibile, pazzesca. Ebbene sì, la nuova Azzurra, la Nazionale del palleggio preciso e raffinato, dell'iniziativa costante, della qualità anche estetica della manovra, alla fine si è dovuta snaturare totalmente. Non per disegno tattico preordinato, ripetiamo: vi è stata costretta una volta messa con le spalle al muro dalla Spagna, rivista infine, dopo un torneo fatto di chiaroscuri piuttosto netti, ai livelli di brillantezza che più le sono consoni, secondo la sua recente tradizione. 

SQUADRE GEMELLE - Ne avevo fatto cenno, in chiusura di commento al match col Belgio. L'Italia e le Furie Rosse annata 2021 sono due squadre quasi gemelle: stesso progetto di prospettiva costruito attorno ai giovani, simili nel modo di stare in campo, con valori più o meno analoghi sul piano della... dotazione di piedi buoni. Quando si trovano di fronte due compagini che fanno del possesso palla e del dominio del gioco il loro marchio di fabbrica, può benissimo accadere che, se una di esse prende il pallino, poi non lo molli più. Malauguratamente per noi, ieri sera, le redini del match se le sono prese i ragazzi terribili del galantuomo Luis Enrique, dopo un inizio illusorio in cui eravamo parsi in grado di imporre, con autorevolezza, la consueta possanza tecnica del lavoro del nostro centrocampo. 

PER LA PRIMA VOLTA "IN BARCA" - Illusione, appunto: gli iberici hanno cominciato a tessere le loro trame e non hanno più smesso. Scambi in velocità, pressing, ritmo elevato, palle recuperate a go go, rapidità di esecuzione: per la prima volta il nostro reparto di  mezzo, fiore all'occhiello di questo Club Italia, è andato completamente in barca. Era già accaduto contro il Belgio ma per periodi di tempo assai limitati, dopodiché i tre della zona nevralgica riuscivano sistematicamente a ribaltare l'inerzia e a salire in cattedra. A Wembley non ce l'hanno fatta, giostrando per almeno cento minuti su centoventi controcorrente, in grande sofferenza, tagliati fuori dai meneurs de jeu spagnoli che disegnavano traiettorie sempre precise ed efficaci. 

OCCASIONI ANCHE PER NOI - Efficaci quantomeno fino alla trequarti, perché nei sedici metri finali la musica era un po' diversa. Diciamola tutta: per volume di gioco e capacità di tenere in soggezione gli avversari, la Roja ha senz'altro vinto ai punti, ma il football ha altre regole, deo gratias. Non date retta ai sentenziatori da bar sport che già eccepiscono sulla nostra vittoria, parlando di fortuna e di trionfo immeritato: la gara di Wembley è stata molto variegata e complessa, tatticamente ricca di spunti e di non facile lettura a posteriori, al di là della evidente ma tutto sommato sterile supremazia territoriale iberica. 

Così, pur non riuscendo a dispiegare le consuete, ariose offensive fin qui sistematicamente prodotte, anche l'Italia si costruiva, con pazienza e passando attraverso lunghe fasi di trincea, le sue opportunità: nel primo tempo poteva andare a segno Barella, che ha perso l'attimo per concludere dal limite dopo bella azione sulla sinistra di Emerson e primo tentativo di Immobile andato a vuoto, e poco prima dell'intervallo proprio il sostituto di Spinazzola sfiorava la prodezza su millimetrico assist di Insigne, con un sinistro che andava a scheggiare la traversa. Nella ripresa Chiesa, già pericolosamente al tiro poco prima, siglava il momentaneo 1-0 finalizzando con un destro chirurgico un fulmineo contropiede avviato da Donnarumma e portato avanti dal "trio Pescara" Verratti, Insigne e Immobile, e poco dopo ci provava due volte Berardi, prima con un destro su imbeccata di Chiesa respinto di piede da Unai Simon, e poi con un sinistro appena dentro l'area al quale però l'esterno del Sassuolo non riusciva a dare angolazione e potenza opportune. 

SPAGNOLI PIU' PERICOLOSI, MA SULL'1-0 IL PEGGIO PAREVA PASSATO - Insomma, in soggezione sì, ma non completamente passivi. La Spagna, certo, ha mancato grossolanamente due ghiotte palle gol con Oyarzabal, una in ciascuno dei due tempi regolamentari, una botta da fuori dell'anziano Busquets ha sorvolato di poco la traversa, mentre Donnarumma ha salvato nella parte iniziale dell'incontro su un tiro da centro area di Dani Olmo ed è capitolato solo sulla bella triangolazione Olmo-Morata che ha perforato centralmente la nostra retroguardia. Quindi gli ultimi, autentici momenti di paura nel primo extratime, su una punizione bassa del solito Olmo respinta dal nostro guardiano con successiva mischia senza esito, e un tentativo di Marcos Llorente con ribattuta di Bonucci. Va anche detto che i nostri hanno incassato il pari nel momento in cui, raggiunto un vantaggio quasi improvviso, davano la netta sensazione di aver superato indenni la parte peggiore della tempesta: erano ancora sulla difensiva, questo sì, ma ripartivano e, come detto, sfioravano il bis con le citate occasioni di Berardi, che è mancato in fase di finalizzazione ma il cui ingresso è stato vitale per alzare il baricentro di una squadra che aveva troppo rinculato fin sulla propria trequarti, sotto la pressione a tratti forsennata dei rivali.  

NON SI PUO' SEMPRE DOMINARE - Un'altra Italia, insomma. Per la prima volta in tre anni, l'abbiamo vista soffrire davvero con continuità. Doveva succedere, prima o poi. Del resto, quasi nessuna rappresentativa ha mai raggiunto finali europee e mondiali impartendo a tutti, sistematicamente, lezioni di calcio, se non alcune lontane edizioni del Brasile, o compagini mito come l'Ungheria '54 e l'Olanda '74, ma stiamo parlando di eccellenze assolute e difficilmente eguagliabili. Ultimamente è di moda, soprattutto nelle cloache social, sminuire le poche, grandi affermazioni italiane in ambito calcistico di questo millennio. Dal trionfo iridato del 2006 a questa, ripetiamo, inattesa campagna continentale, tutti a eccepire su meriti e demeriti. Molti di loro sono i perennemente nostalgici, quelli per i quali esiste solo il mito intoccabile del Mundial '82. Affermazione del tutto legittima quella di 39 anni fa, intendiamoci, ma sarebbe onesto, per par condicio, andare a rivedere alcune delle partite che servirono ad arrivare alla Coppa, ad esempio quella contro l'Argentina e come venne vinta, prima di esaltare e mortificare sulla base del nulla. 

CHE NON DIVENTI UN'ABITUDINE... - Fra le critiche che venivano rivolte, fino a ieri, al Club Italia di Mancini, una riguardava tra l'altro l'incapacità di cambiare pelle, l'essere legata a un solo modulo, un solo tipo di football. Qualcuno, con supremo sprezzo del ridicolo, l'aveva detto e scritto dopo l'ottavo con l'Austria: "Visto? La prima squadra che è riuscita a neutralizzare in parte il nostro gioco ci ha quasi eliminati". Ecco, ieri sera, a Londra, la Nazionale è stata diversa e lontana da quella che, dal 2018 a oggi, si è guadagnata ammirazione incondizionata (da chi sa di calcio, ovvio) per il suo spirito, la sua aggressività, il suo dare del tu al pallone: ha preso atto dell'impossibilità di rubare il pallino alla Spagna e ha scoperto il suo lato umile, il suo cuore antico, quello della chiusura a riccio e degli sporadici ma punzecchianti sganciamenti in contropiede. 

Non è vergogna, è anzi una dote sapersi adattare a circostanze mai sperimentate prima. Da parte mia posso però aggiungere una postilla: che non diventi un'abitudine, perché per provare a centrare il traguardo massimo, domenica prossima, poi in autunno in Nations League e ai Mondiali, se ci arriveremo, occorrerà recitare al meglio il copione principale, interpretare alla perfezione la filosofia con la quale si è nati e cresciuti. Nella fattispecie, quell'attitudine di costante ed elegante iniziativa che, come già detto nei giorni scorsi, è l'unico modus operandi a sposarsi mirabilmente con le caratteristiche degli uomini del Mancio, e quindi ad esaltarle. Giocando come contro le Furie Rosse si possono vincere le battaglie, non le guerre. 

LA SERATA DIFFICILE DI VERRATTI E JORGINHO - Ma perché, dunque, non siamo riusciti a riprenderci il pallino, ieri, dopo averlo perso? Dati i giusti meriti ai frizzanti eredi di Xavi e Iniesta, da parte nostra ci sono stati un Barella e un Jorginho in serata no, forse prostrati da un Euro in cui hanno sovente cantato e portato la croce. Si è quindi fatto carico del lavoro di centrocampo soprattutto Verratti, in copertura e in costruzione, ma era troppo solo e quando sono entrati Pessina e Locatelli certi automatismi non erano più ripristinabili, ormai il quadro tattico del match era saldamente delineato. Una delle nostre migliori soluzioni offensive è stata alfine rappresentata da Emerson, che ha rimpiazzato "Spina" alla bell'e meglio per un tempo: un assist per Barella, il tiro sulla traversa di cui si è detto e, in avvio di match, un salvataggio su Oyarzabal; poi, certo, la continuità di spinta e l'appoggio all'attacco del romanista sono un'altra cosa, e la sua assenza ha avuto un certo peso nella prestazione difficoltosa dei nostri. Bonucci e Chiellini hanno spazzato e chiuso varchi da centrali old style, mentre Di Lorenzo ha confermato il suo ottimo momento con una gara di grande applicazione e la chicca dell'anticipo su Ferran Torres a pochi passi da Donnarumma. Il quale Gigio ha convinto ancora una volta, con le due parate in partita su Dani Olmo e il rigore neutralizzato a Morata nella giostra finale. Pochi interventi ma sostanziosi, come deve fare un portiere di razza.

LA GIOSTRA E LO SBERLEFFO DEL "BRASILIANO" - Già, i rigori: quella che per me rimarrà sempre una lotteria di scarsa attendibilità tecnica, e che, in sede di bilancio storico, continua a presentare per noi un saldo negativo, se è vero che dall'80 a oggi abbiamo vinto cinque volte e perso sette. Giusto che ogni tanto questa pazza giostra ci sorrida: contro la Spagna eravamo reduci da due sconfitte ai penalty, all'Euro 2008 e in Confederations 2013, stavolta abbiamo prevalso con la forza dei nervi distesi (ah, il sorriso di Chiellini al momento della scelta della porta in cui tirare...) e la consapevolezza di non aver più nulla da perdere, perché, nelle condizioni che si erano create, era stato un successo riuscire a superare senza danni i 120': partite simili, in altri tempi, altri contesti, con altri giocatori e altri trainer, le avremmo perse senza bisogno dei tiri di spareggio. 

Locatelli avrà modo di rifarsi, Bonucci, Bernardeschi e Jorginho ci hanno regalato un sogno: il tocco leggero e irridente del nostro oriundo potrebbe entrare nell'immaginario collettivo quasi al pari del famoso scavetto di Totti.  Ed è pur innegabile che sì, brava la nuova Roja, ma non si può nemmeno pretendere di arrivare in fondo a queste competizioni giocando giusto un paio di gare ad alto livello. Ricordiamo il primo turno di Koke e compagni in un girone assai semplice, due partite deludenti prima di sbloccarsi con la Slovacchia, poi la prestazione zemaniana negli ottavi a darle e prenderle con la Croazia, infine la macchina inceppata contro una Svizzera che ha lasciato campo solo in inferiorità numerica, per poi suicidarsi ai rigori. Gli azzurri hanno avuto più continuità di rendimento nell'arco del torneo, è oggettivo, e hanno festeggiato tutto sommato con merito, nella serata dedicata anche al mito incrollabile della nostra amata Raffaella, idolo latino. Passiamo oltre: ribadisco che in finale, che sia Danimarca o Inghilterra, ci vorrà l'Italia che abbiamo ammirato fino a Monaco di Baviera, quella verace, quella col gusto della manovra elaborata e al contempo ficcante, e capace di comandare. Cinque giorni dovranno essere sufficienti per recuperare energie e sicurezza. 

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