L'equipaggio del Challenger: la seconda in alto da sinistra è Christa Mc Auliffe
Questa volta parliamo di un argomento un po' distante dai temi classici di Note d'Azzurro. Il fatto è che quando si è ragazzini, se in famiglia c'è la tv accesa sul telegiornale e magari c'è anche l'abitudine di dare un'occhiata ai quotidiani, capita di vedere o leggere la cronaca di eventi tremendi, molto più grandi della nostra età, di cui magari ci riesce difficile percepire appieno l'enormità, ma che comunque lasciano dentro di noi un senso di profondo smarrimento. Giusto il 28 gennaio di trent'anni fa mi imbattei in uno di questi traumatici accadimenti, di quelli che scuotono l'opinione pubblica a livello mondiale, di quelli talmente clamorosi, nella loro tragicità, da imprimersi nella memoria e rimanere incisi per sempre nell'animo di chi c'era: la sciagura dello Shuttle Challenger, con la morte dei sette membri dell'equipaggio.
Le navicelle Shuttle, capolavori tecnologici della Nasa (l'agenzia spaziale americana), sembravano ormai vascelli celesti invincibili, inaffondabili. Nelle sue quattro versioni, dal primo Columbia ai successivi Challenger, Discovery e Atlantis (il veicolo Endeavour si sarebbe aggiunto alla "famiglia" solo nel 1992), il "traghetto cosmico" solcava i cieli, e le orbite attorno alla Terra, fin dal 1981.
Questa volta parliamo di un argomento un po' distante dai temi classici di Note d'Azzurro. Il fatto è che quando si è ragazzini, se in famiglia c'è la tv accesa sul telegiornale e magari c'è anche l'abitudine di dare un'occhiata ai quotidiani, capita di vedere o leggere la cronaca di eventi tremendi, molto più grandi della nostra età, di cui magari ci riesce difficile percepire appieno l'enormità, ma che comunque lasciano dentro di noi un senso di profondo smarrimento. Giusto il 28 gennaio di trent'anni fa mi imbattei in uno di questi traumatici accadimenti, di quelli che scuotono l'opinione pubblica a livello mondiale, di quelli talmente clamorosi, nella loro tragicità, da imprimersi nella memoria e rimanere incisi per sempre nell'animo di chi c'era: la sciagura dello Shuttle Challenger, con la morte dei sette membri dell'equipaggio.
Le navicelle Shuttle, capolavori tecnologici della Nasa (l'agenzia spaziale americana), sembravano ormai vascelli celesti invincibili, inaffondabili. Nelle sue quattro versioni, dal primo Columbia ai successivi Challenger, Discovery e Atlantis (il veicolo Endeavour si sarebbe aggiunto alla "famiglia" solo nel 1992), il "traghetto cosmico" solcava i cieli, e le orbite attorno alla Terra, fin dal 1981.
LO SHUTTLE PATRIMONIO MONDIALE - Ho ricordi molto nitidi di come, anche in Italia, il progetto Shuttle veniva vissuto, e non solo perché mio fratello era ai tempi un appassionato di astronomia e argomenti correlati, e in quanto tale non si perdeva un lancio di questo colosso cosmico: già, perché le immagini dei decolli, almeno nei primi anni, venivano a volte trasmesse in diretta dalla Rai, dal che si può facilmente comprendere come la corsa alla conquista dello spazio fosse, probabilmente più di oggi (ma è solo una sensazione personale) qualcosa di estremamente sentito in buona parte del mondo, una tensione condivisa verso la necessità di superare i nostri angusti confini terrestri. In fondo, dall'approdo sulla Luna non erano passati nemmeno vent'anni, e i margini di progresso, in tale campo, sembravano enormi, infiniti. Che poi, parlare di "conquista dello spazio" è semplicistico, faciloneria di pessimo stampo giornalistico: le missioni degli Shuttle avevano finalità prettamente scientifiche, dalla messa in funzione di satelliti e sonde a ricerche ed esperimenti di laboratorio.
IL COSMO PER TUTTI - All'alba del 1986, i lanci di queste vere e proprie astronavi sembravano quasi diventati routine: nel solo anno solare precedente, erano state portate a compimento ben nove missioni. Fu forse un eccesso di confidenza, dunque, a far pensare che ormai l'esplorazione spaziale non dovesse più rimanere "una faccenda per pochi eletti", che fosse giunto il momento di spedire in orbita, accanto agli astronauti professionisti, anche dei privati cittadini, dei civili. Leggendo alcuni giornali d'epoca, ho scoperto che persino autentici vip, come il re dei telegiornalisti Walter Cronkite e l'attrice Jane Fonda, si erano messi in lista d'attesa per salire come "passeggeri" sul traghetto stellare. Ma l'allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, fu categorico: il primo americano non astronauta a vivere quella insolita avventura doveva essere un insegnante, in modo da stimolare l'interesse delle nuove generazioni verso lo studio delle scienze in generale, e in particolare delle tecnologie più avanzate connesse con la scoperta del cosmo.
CHRISTA E BARBARA - Venne dunque lanciato il concorso "Teacher in space", furono in oltre 11mila a partecipare, e dalla accuratissima fase di selezione emerse, nell'estate del 1985, il nome di Christa McAuliffe, una giovane professoressa di una scuola di Concord, nel New Hampshire; accanto a lei, fu scelta una "backup teacher", un'insegnante di riserva, che sarebbe partita in caso di forfait della vincitrice: si trattava di Barbara Morgan, che ritroveremo alla fine di questo nostro racconto.
CHRISTA E BARBARA - Venne dunque lanciato il concorso "Teacher in space", furono in oltre 11mila a partecipare, e dalla accuratissima fase di selezione emerse, nell'estate del 1985, il nome di Christa McAuliffe, una giovane professoressa di una scuola di Concord, nel New Hampshire; accanto a lei, fu scelta una "backup teacher", un'insegnante di riserva, che sarebbe partita in caso di forfait della vincitrice: si trattava di Barbara Morgan, che ritroveremo alla fine di questo nostro racconto.
Gli ultimi mesi dell'85 e il gennaio dell'86 furono durissimi, per Christa e Barbara, che dovettero sottoporsi a uno sfiancante addestramento, perché entrare a far parte di un equipaggio spaziale non è cosa da prendere alla leggera. Ma, soprattutto per Christa, furono anche mesi di travolgente popolarità, di esposizione mediatica ai massimi livelli: fra interviste, trasmissioni speciali in tv, servizi fotografici, tutta l'America si innamorò del suo sorriso, del suo dinamismo, del suo entusiasmo, del suo ottimismo nell'approcciarsi ad ogni aspetto della vita. Con buona pace della "collega - rivale" Barbara, mai e poi mai Christa avrebbe rinunciato a quel personale appuntamento con la storia. Lassù, avrebbe potuto tenere due straordinarie lezioni per gli studenti di tutto il globo, intitolate "La gita scolastica più bella" e "Dove siamo andati, dove stiamo andando e perché".
I DISAGI DELLA NAVETTA - La prima volta di un semplice cittadino nello spazio sarebbe stata a bordo dello Shuttle Challenger, che negli ultimi tempi, per la verità, aveva avuto un'esistenza un po' travagliata. Nel luglio 1985, anche i giornali italiani parlarono di "tragedia sfiorata": era accaduto che, nella fase iniziale di un volo, uno dei tre motori principali del veicolo era andato in panne, costringendo l'equipaggio ad operare un "Abort to orbit", ossia a proseguire la navigazione in un'orbita più bassa rispetto a quella programmata.
La missione fatidica del gennaio 1986, invece, subì diversi rinvii, principalmente a causa del freddo quasi polare che calò in quei giorni su Cape Canaveral, base di lancio in Florida. Il freddo: un elemento del quale bisognerà tenere conto, quando si parlerà di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco. Prima però alcuni dettagli tecnici, per meglio capire ciò che verrà detto da qui in poi. Il complesso dello Shuttle era fondamentalmente composto da quattro parti: la navicella vera e propria, ossia l'Orbiter, in parole assai povere una specie di "Boeing spaziale"; i due SRB, i Solid Rocket Booster, due razzi vettori laterali la cui funzione era dare alla struttura la spinta necessaria per salire, nei primi minuti successivi al decollo; e l'ET, l'External Tank, un mastodontico serbatoio centrale contenente idrogeno e ossigeno liquidi, il carburante che alimentava i tre motori della navicella propriamente detta.
La missione fatidica del gennaio 1986, invece, subì diversi rinvii, principalmente a causa del freddo quasi polare che calò in quei giorni su Cape Canaveral, base di lancio in Florida. Il freddo: un elemento del quale bisognerà tenere conto, quando si parlerà di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco. Prima però alcuni dettagli tecnici, per meglio capire ciò che verrà detto da qui in poi. Il complesso dello Shuttle era fondamentalmente composto da quattro parti: la navicella vera e propria, ossia l'Orbiter, in parole assai povere una specie di "Boeing spaziale"; i due SRB, i Solid Rocket Booster, due razzi vettori laterali la cui funzione era dare alla struttura la spinta necessaria per salire, nei primi minuti successivi al decollo; e l'ET, l'External Tank, un mastodontico serbatoio centrale contenente idrogeno e ossigeno liquidi, il carburante che alimentava i tre motori della navicella propriamente detta.
BUONA PARTENZA - Il giorno X cadde infine il 28 gennaio. In Italia, il lancio non venne trasmesso in diretta, ormai il "fascino" mediatico di queste missioni stava scemando dalle nostre parti, e sarebbe tornato in auge solo con la comparsa dei primi astronauti tricolori, dal genovese Malerba in poi. In America, si collegarono in diretta televisiva la CNN e Channel 4: i video sono tuttora rintracciabili su You Tube. L'equipaggio, oltre che dall'ormai popolarissima "maestrina", era formato da Francis Dick Scobee, Michael J. Smith, Ellison Onizuka, Judith Resnik, Ronald McNair e Gregory Jarvis. Alle 11 e 38 del mattino, dopo un ultimo rinvio di altre due ore, il Challenger si staccò dalla rampa di lancio e prese il volo: tutto pareva funzionare egregiamente, le comunicazioni fra lo Shuttle e il centro di controllo missione a Houston lo testimoniano in maniera inequivocabile; e anche a bordo, sulla base delle registrazioni recuperate settimane dopo, nessuno ebbe sentore di qualcosa di anormale, fin quasi alla fine... (1 - CONTINUA).
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