Poche storie: Checco Zalone ci sa fare. Le considerazioni sociologiche e le analisi filosofiche lette in queste settimane a proposito del travolgente successo di "Quo vado?", sbanca - botteghini già entrato negli almanacchi della cinematografia, possono tranquillamente lasciare spazio a quest'unico, lapalissiano dato oggettivo. Ci sa fare, Checco, perché è semplicemente il miglior talento comico emerso in Italia dall'inizio del secolo in corso. Talento vuol dire anche poliedricità, che per un comico significa saper centrare l'obiettivo del far ridere operando su "palcoscenici" tra loro radicalmente diversi, come possono essere la televisione e il cinema: direi che quasi nessuno, negli ultimi quindici - venti anni, vi sia riuscito come lui. Soprattutto, il percorso dal piccolo schermo al teatro o al mondo di celluloide ha impietosamente messo a nudo i limiti artistici di molti cabarettisti, troppo frettolosamente issati al ruolo di fuoriclasse a tutto tondo. Di nomi ne sono stati fatti anche qui su "Note d'azzurro", in passato: inutile tornarci sopra, sarebbe un'inutile crudeltà.
La classe di Zalone, invece, risalta ancor di più dopo ogni sua avventura cinematografica. In fondo, i capisaldi di una buona commedia leggera non sono molti, per quanto difficili da realizzare: capacità di portare allegria ma anche qualche spunto di riflessione, eliminare i tempi morti, la cadute di tono, e limitare al massimo le strizzatine d'occhio al repertorio più becero e trash, perché, senza ipocrisia e falso perbenismo, qualche piccola volgarità qua e là può anche starci, ma il troppo stroppia. Elementi che in "Quo vado?" (regia di Gennaro Nunziante) sono presenti in quantità persino insperata. Checco riesce a elevare all'ennesima potenza i pregi già evidenziati dal precedente "Sole a catinelle": la tensione comica non cala praticamente mai, ma senza sguaiataggine, senza il gusto della battuta fine a se stessa. C'è una sceneggiatura solida, un messaggio da portare avanti, sviluppare, "sfruculiare". C'è il legame con la realtà attuale, vista con occhi allegri e scanzonati, ma anche amaramente disincantati: c'è la capacità di sorridere sulle distorsioni della società moderna senza però buttare tutto in vacca, e anzi inducendo a pensare. C'è intelligenza, insomma, e scusate se è poco.
Zalone maneggia con leggerezza ma ottima padronanza argomenti "pesanti", sostanziosi, ispidi e infidi: e coglie nel segno. La disoccupazione in età non più verdissima in "Sole a catinelle", mentre nell'ultima produzione le tematiche sono più di una, c'è tanta "ciccia", direbbero a Roma: non solo il mito tricolore del posto fisso, attorno al quale ruota tutto, ma anche mentalità retriva, discriminazioni, lacune culturali del popolo italiano messe in relazione alla maggiore apertura di altre nazioni (nella fattispecie, la Norvegia). E ridere con garbo e gusto di tali "buchi neri" della nostra società civile è il modo migliore per smontarli, per metterne a nudo la negatività.
Non è solo comicità, a ben vedere: è ironia tagliente, diciamo pure satira. Satira "mascherata", meno diretta di quella, ad esempio, di Maurizio Crozza, ma ugualmente efficace. Satira all'italiana, certo, non corrosiva come certi picchi d'oltrefrontiera, ma con una sua dignità. Ho citato Crozza perché, con Zalone, è attualmente il miglior esponente su piazza di questo genere artistico. Mettere in ridicolo uno spaccato d'Italia per condannarlo e spingerci (non insegnarci, per carità: solo spingerci) ad essere un po' migliori; è, in fondo, quello che faceva anche il Paolo Villaggio di Fantozzi, anche se in maniera più grezza e caricaturale; e pensando a quel precedente il rischio, per Checco, è uno solo: finire col ripetersi fino allo sfinimento, in una stanca parodia di se stesso. Ma non credo farà questa fine: Luca Medici è un attento osservatore e lettore delle miserie del presente, che riesce a sintetizzare e trasformare in celluloide con freschezza ed efficacia. E la recente rinuncia all'ospitata sanremese dimostra che sa anche gestire bene la sua popolarità: dietro la scusa della presenza pagata con soldi pubblici (il Festivalone, credo, si autofinanzia abbondantemente attraverso una marea di prestigiosi sponsor) c'è probabilmente il desiderio di non sovraesporsi.
Detto tutto questo, si è già spiegato come il successo di "Quo vado?" voli più alto di tante amenità lette ultimamente, come la fin troppo capillare presenza della pellicola nella sale della Penisola (nessuno punta pistole alle tempie degli italiani per costringerli ad andare al cinema a vedere un dato prodotto, e nel periodo delle feste natalizie le alternative tutto sommato non mancavano). Sul film in sé, poco altro da aggiungere: la figura di Zalone è assolutamente centrale, è quella del classico mattatore, ma, come un Maradona che veniva esaltato da un Napoli di altissimo livello tecnico, "Quo vado" funziona perché, oltre a un'impalcatura narrativa solida, attorno al deus ex machina c'è un cast azzeccato, dalla giovane e dolce Eleonora Giovanardi (la partner Valeria) alla statuaria, angolosa e pur affascinante Sonia Bergamasco (la terribile dirigente ministeriale Sironi); è il trio delle meraviglie che rende quasi pleonastico il cameo di Lino Banfi: con tutto il rispetto per il veterano pugliese, la sua presenza non porta alcun valore aggiunto. Su una cosa occorre esser netti, in chiusura: anche solo accostare le produzioni di Zalone alla serie infinita dei cinepanettoni significa avere le idee ben poco chiare. Non è possibile alcun paragone: sono proprio due generi cinematografici diversi, e non parlo solo di qualità, ma dell'essenza stessa delle opere, del modo di concepirle e strutturarle.
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