L'immagine che apparve sugli schermi di tutto il mondo al momento della distruzione del Challenger
LA TRAGEDIA - Intorno ai 70 secondi di volo, dal controllo missione a terra giunse un invito perentorio: "Challenger, go at throttle up": si trattava in realtà di un comando di routine, che in pratica sollecitava il pilota "a dare gas", ad accelerare. La risposta del comandante Scobee fu immediata e positiva: "Roger, go at throttle up". Ancora pochi istanti: al secondo di volo numero 73, sugli schermi di Houston e in tv apparve quella che sembrò un'enorme deflagrazione: il Challenger venne avvolto da una nuvola di fiamme e fumo, dai quali furono visti allontanarsi, seguendo una traiettoria casuale e impazzita, i due Solid Rocket Booster. In apposite tribune, poste a debita distanza dalla rampa di lancio, avevano preso posto diversi spettatori, fra cui molti bambini, nonché i genitori e il marito della McAuliffe: impietriti a fissare il cielo, non percepirono immediatamente la gravità dell'accaduto, anche perché dal centro di controllo, tramite altoparlante, venne diffuso un comunicato tragicamente surreale, che attribuiva all'incidente contorni indefiniti: "Stiamo seguendo con molta attenzione lo sviluppo della situazione, evidentemente si è verificato un serio malfunzionamento", seguito a breve distanza da una aggiunta ancor più inquietante: "Non abbiamo collegamenti", ossia dal "traghetto" cosmico non giungevano più comunicazioni di alcun tipo. Di lì a poco la realtà si palesò: "Il veicolo è esploso", la voce impersonale dell'altoparlante risuonò nuovamente, e ci fu spazio solo per le lacrime e per le prime, immancabili polemiche.
COSA ACCADDE - Quale fu la causa del disastro? Non sono un esperto del ramo, e spiegare mi è difficile. Vedrò di essere il più sintetico possibile: tutto ebbe origine dal razzo Solid Rocket Booster di destra. I due SRB, per inciso, non erano costruiti come blocchi unici: erano formati da più segmenti montati fra di loro, uno sopra l'altro, e ciascuna delle giunzioni fra i vari segmenti era saldata da due O-ring, anelli di guarnizione in materiale gommoso. Ebbene, nell'SRB destro, gli O-ring posti a giuntare i due segmenti inferiori del razzo non assolsero il loro compito: le bassissime temperature della notte che precedette il lancio (si andò sotto lo zero e la rampa si ricoprì di ghiaccio) resero rigidi gli anelli, che invece dovevano mantenere un'ampia elasticità per contenere il carburante all'interno del vettore.
La funzione sigillante dei due O-ring venne dunque meno, e già sulla rampa di lancio iniziò una piccola perdita di combustibile, evidenziata da uno sbuffo di fumo che però la telecamera principale, quella che fornì le immagini per le dirette tv, non evidenziò, essendo direzionata sul lato opposto del veicolo. Durante il volo, la perdita divenne più consistente (immagini riprese da altre telecamere mostrarono chiaramente una fiamma fuoriuscire dal razzo, e assumere via via un aspetto più definito e notevoli dimensioni), fin quando andò a intaccare l'enorme serbatoio centrale.
Negli stessi momenti (ricordiamo che stiamo parlando di eventi succedutisi a rapidità vorticosa, nell'arco di poche decine di secondi), la perdita danneggiò irrimediabilmente anche il giunto inferiore di collegamento del razzo di destra al grande serbatoio, razzo che dunque si distaccò nella parte bassa e cominciò a muoversi, finché la punta andò a colpire l'External Tank, che ebbe un cedimento completo facendo fuoriuscire vapori incandescenti di idrogeno e ossigeno: si venne a creare una situazione di estrema instabilità strutturale e di volo, e alla fine l'Orbiter fu schiantato dall'enorme pressione delle forze aerodinamiche a cui si era trovato esposto una volta perso il regolare assetto.
L'INCREDIBILE DESTINO DELLA MAESTRINA SPAZIALE - Questo a grandi linee, ma per chi volesse approfondire e avere le idee più chiare ci sono diversi siti specializzati sul web che illustrano i fatti, e c'è anche il report stilato dalla Commissione d'inchiesta formata subito dopo, la Rogers Commission. Ma al di là dei dettagli prettamente tecnici, in questa triste vicenda fu assolutamente preminente l'aspetto umano. Il dolore per la perdita dei sette membri dell'equipaggio fu planetario, e certo viene un magone enorme pensando al tremendo destino della maestrina McAuliffe: la più grande sciagura, fino a quel momento, nella storia dell'esplorazione spaziale si verificò proprio quando, a bordo della navetta, salì per la prima volta una comune cittadina, che lasciò un marito e due figli piccoli. Troppo presto, troppa fretta di bruciare le tappe in un percorso irto di ostacoli e di incognite, di far apparire normale e alla portata di tutti una cosa che ancora non poteva esserlo. Da quel momento, i viaggi cosmici tornarono ad essere, giustamente, appannaggio esclusivo di professionisti del settore, ma ormai la tragedia si era compiuta.
DUBBI SULLA MORTE - Inizialmente tutti si convinsero, o forse si illusero per umana pietas, che la morte dei sette sventurati fosse stata immediata: del resto, si pensava, come si può sopravvivere a una esplosione in apparenza così devastante? Purtroppo le cose, pare, non andarono così. Al momento della disintegrazione del veicolo, la cabina dell'equipaggio si distaccò dal corpo del Challenger. Attenzione, si distaccò violentemente, in conseguenza dell'evento disastroso, e non per un meccanismo automatico di salvataggio che consentiva di "eiettare" il compartimento, meccanismo che sullo Shuttle non esisteva.
Fotogrammi analizzati successivamente mostrarono dunque la cabina fuoriuscire dalla nuvola di fuoco e vapore e precipitare verso l'Oceano, sul fondo del quale fu ritrovata poche settimane dopo, con i resti degli astronauti ancora all'interno. Secondo la relazione conclusiva stilata da un'apposita commissione medica, le cause della morte dei sette non si potevano stabilire con certezza, ma c'erano alcuni elementi particolarmente inquietanti, per non dire terrificanti, anche se tutti esposti in termini di probabilità: innanzitutto le violente scosse a cui l'alloggiamento dell'equipaggio fu sottoposto nella fase iniziale della sciagura non furono, verosimilmente, sufficienti né a determinare la morte dei sette, né a cagionare loro gravi ferite. Fu ritenuto possibile, ma non certo, che l'equipaggio avesse perso conoscenza durante la caduta a precipizio verso il mare (durata poco meno di tre minuti), a causa di una probabile depressurizzazione del comparto causata dalla precedente disintegrazione del colosso volante.
ESTREMI TENTATIVI - In ogni caso, alcuni di loro erano quasi sicuramente vivi e coscienti almeno nei primi secondi dopo il distacco della cabina dal veicolo: durante le operazioni di recupero del relitto, infatti, si scoprì che erano state attivate tre delle riserve d'aria (non ossigeno) a disposizione degli astronauti in caso di emergenza, riserve che potevano essere messe in azione solo manualmente, su diretto intervento umano. Rimane solo da sperare che, pur se vivi fino alla fine, lo stato di coscienza sia per loro rapidamente venuto meno, perlomeno prima del tremendo impatto, a folle velocità, con la superficie dell'oceano, al quale, questo è certo, nessuno avrebbe potuto sopravvivere. L'ultima frase registrata all'interno del Challenger prima del disastro fu un'espressione di sorpresa e sconcerto da parte del pilota Smith, un semplice "Uh, oh" che non ci è dato sapere con che tono venne pronunciato, e che poteva voler dire molte cose: una reazione agli improvvisi scossoni che stavano forse agitando la navetta, o all'accecante bagliore che attraversò i finestrini, oppure lo stupore di fronte agli indicatori di bordo, tutto a un tratto impazziti.
BARBARA E L'EREDITA' DI CHRISTA - Rimane da parlare della "backup teacher", la riserva di Christa McAuliffe, ossia Barbara Morgan. Assistette dal vivo al tragico volo, passando dalla gioia allo sgomento nel giro di pochi secondi. Anni dopo tornò nella famiglia della Nasa, e diventò una vera e propria astronauta. Nel 2007 partecipò a una missione dell'Endeavour, durante la quale raccolse idealmente il testimone passatole oltre vent'anni prima dalla sfortunata collega, tenendo alcune lezioni direttamente dallo spazio, come avrebbe dovuto fare Christa.
Dopo lo shock del Challenger, l'esplorazione spaziale umana riprese nel 1988 e non si fermò più: ci fu un altro tragico incidente, con l'esplosione del Columbia in fase di rientro nel febbraio 2003 e la perdita di un altro equipaggio (cinque uomini e due donne, come nell'86), e ci sono stati, certo, anche progressi, miglioramenti della sicurezza, stazioni spaziali, passeggiate nel cosmo e astronauti italiani, fino alla popolarissima Samantha Cristoforetti, mentre lo Shuttle è andato in pensione solo da poco tempo, nel 2011. Ma quella fredda mattinata americana di trent'anni fa, oltre a cancellare le vite di sette persone, segnò indiscutibilmente la fine dell'età dell'innocenza, per chi ancora guardava ai viaggi stellari con romanticismo, credendo che nessuna meta fosse preclusa alla tecnologia umana. (2 - FINE).
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