17 luglio 1994: a Pasadena, l’Italia perde ai rigori la finale mondiale col Brasile. Fermi tutti, mi si potrebbe dire: stiamo qui a celebrare una sconfitta? Non esattamente. E' frutto di una mentalità profondamente sbagliata pensare che, chi non arriva sul gradino più alto del podio di una competizione sportiva, sia un perdente sempre e comunque. A parte il fatto che c'è una bella differenza fra l'arrivare secondi, settimi o diciottesimi, ma piazzarsi fra le prime quattro in un torneo iridato (o comunque in una grande competizione internazionale) è da considerare in assoluto un risultato di grande prestigio: la Germania, per fare un esempio, ci sopravanza nella classifica assoluta "all time" di Coppa del Mondo proprio grazie ai suoi numerosi piazzamenti, nettamente superiori ai nostri, a parità di titoli vinti. E dunque, l'argento azzurro a USA '94 fu un traguardo di rilievo, che confermò la posizione di preminenza planetaria del nostro movimento calcistico in quegli splendidi anni Novanta, un'età dell'oro che oggi sembra così lontana ma che auspico non sia irripetibile, per il football made in Italy.
IL MONDIALE PIU' STRANO - Fu un Mondiale particolare, unico, curioso, drammatico. Il primo disputato in un Paese pressoché privo di tradizioni calcistiche, per cominciare. Il primo coi tre punti in palio per la vittoria. Drammatico per le condizioni ambientali scandalose, fra caldo asfissiante e umidità opprimente, in cui i calciatori furono chiamati a battersi, a rischio della loro stessa salute. Fattore quest'ultimo che, a maggior ragione oggi a mente fredda, deve indurre a valutare con benevolenza certe prestazioni sottotono da parte dei nostri rappresentanti così come di altre selezioni. Fu, infine, il Mondiale bello e maledetto di Maradona, presentatosi tirato a lucido, trascinatore di un'Argentina a trazione interiore che nelle prime due gare sembrava in grado di far saltare il banco, e poi messo fuori causa da un controllo antidoping, con susseguente, sollecita eliminazione della Selecciòn da parte della brillantissima Romania di Hagi, Raducioiu, Petrescu e Munteanu.
LA GRIGLIA DI PARTENZA - Sul piano strettamente tecnico, a parte la citata Argentina che in verità non godeva di molta considerazione alla vigilia, avendo stentato penosamente per conquistare il pass (Australia battuta di misura nello spareggio), la griglia di partenza delle favorite vedeva nelle prime file le tre grandi classiche, ossia Germania (campione in carica), Italia e Brasile, e la Colombia unanimemente accreditata come probabile sorpresa dopo lo 0-5 inflitto nelle eliminatorie a Batistuta e compagni. Scivolò fra le outsider l'Olanda, sempre valida ma priva del lungodegente Van Basten e di un Gullit reduce da una stagione super con la Sampdoria, mentre c'era attesa attorno alla Norvegia, giustiziera dell'Inghilterra nelle qualificazioni, alla rivoluzionata Spagna poco bella e molto concreta di Javier Clemente, e alla Nigeria tutte stelle (Amokachi, Amunike, Yekini, Finidi, Okocha...) che pareva in grado di poter finalmente realizzare il sogno di una squadra africana nelle semifinali. Partivano nelle retrovie Svezia e Bulgaria, nonostante il merito di aver estromesso la Francia: sarebbero invece entrambe giunte fino in fondo.
ITALIA RICCA DI TALENTO, SENZA MANCIO MA CON SUPER BAGGIO - L'Italia era l'Italia di Arrigo Sacchi, in sella dall'autunno 1991. Sull'onda lunga del suo Milan spettacoloso e pigliatutto, i tifosi attendevano una Nazionale in grado di ripercorrere suppergiù le stesse orme, anche grazie a un serbatoio di giocatori assai ampio e di grandissima qualità, nulla a che vedere col ristretto bacino in cui può pescare oggi il pur abile Mancini. Proprio il Bobby gol sampdoriano chiuse con la selezione poco prima del Mondiale, dopo una grigia prova in amichevole coi tedeschi, mentre il suo ex gemello del gol Vialli, pur riprendendosi in extremis da un grave infortunio che gli aveva fatto saltare larghissima parte della stagione, non riusci a convincere il cittì a portarlo negli States. Era comunque una selezione "tutte stelle": basti pensare a Pagliuca, Maldini e Baresi in retroguardia, Albertini e Donadoni in mezzo al campo, e poi lui, il Pallone d'oro in carica, Roby Baggio da Caldogno, pronosticato come possibile uomo del Mondiale in stile Maradona '86. Le cose non andranno proprio così ma... quasi. Altri elementi di grande affidamento erano Costacurta, che aveva superato gli impacci delle prime uscite in azzurro, il terzino destro Benarrivo, splendido stantuffo sulla fascia, il mediano Dino Baggio, mortifero nelle sue incursioni in avanti di testa e di piede, Nick Berti, anche lui risorto dalle ceneri di un infortunio e protagonista di un finale sprint con l'Inter, e il redivivo Massaro, che dai tempi di Bearzot non vedeva più la rappresentativa, detto "Provvidenza" per aver tolto più di una volta le castagne dal fuoco al Milan con gol puntualissimi e decisivi.
PERCORSO ACCIDENTATO - Il cammino della truppa di Sacchi verso l’atto conclusivo fu accidentato, sofferto, non privo di momenti fortunati ma anche di agguati della cattiva sorte bellamente superati. Passammo il primo turno tramite ripescaggio rientrando fra le quattro migliori terze, aiutati dalla formula allora in vigore: costò cara la sconfitta all'esordio con l'Eire, poi al successo sulla Norvegia riuscimmo a far seguire solo un pari col Messico, in un girone equilibratissimo in cui tutte le squadre finirono a quota quattro. Negli ottavi, pur giocando mediocremente, ci salvammo all’ultimo tuffo da un’immeritata sconfitta con la Nigeria, trovatasi in vantaggio su insolito errore difensivo del grande Maldini e poi regolata nei supplementari (e nonostante un’assurda espulsione inflitta a Zola), il tutto con la firma di un Roby Baggio fin lì deludentissimo e improvvisamente risorto dalle proprie ceneri come il Pablito di Spagna '82.
POCO BEL GIOCO - Facemmo poi fuori la Spagna grazie all’asse vincente “baggesco” Dino – Roberto, con coda di polemiche per via di una gomitata di Tassotti a Luis Enrique in piena area italiana nel finale, non sanzionata dall’arbitro sul campo ma poi punita dalla Fifa con una lunga squalifica al difensore del Milan, che chiuse lì la sua esperienza in azzurro anche perché non più di primo pelo. In generale, nel nostro percorso di bel gioco se ne vide poco: contro la Norvegia fino all’espulsione di Pagliuca e alla conseguente sostituzione del Codino (con inevitabile assalto polemico della critica a Sacchi), poi fu vittoria di cuore e di orgoglio; nel primo tempo con gli iberici, prima di una ripresa in trincea; e nei primi 45 minuti della semifinale con la Bulgaria, quando la Nazionale sacchiana toccò il suo apice spettacolare così come lo toccò Baggino, splendido trascinatore e autore della doppietta decisiva. Una partita, quest'ultima, che si poteva vincere con scarto ampio e che invece provocò qualche brivido nella seconda frazione, con un 2-1 che comunque premiò la compagine più meritevole.
FORMAZIONE TIPO... O QUASI - La gestione azzurra di Arrigo Sacchi è rimasta nella storia soprattutto per il gran numero di giocatori convocati e utilizzati e il conseguente, continuo mutare delle formazioni. A Usa ’94, strada facendo, la nostra Nazionale aveva tuttavia trovato un’inquadratura di massima, con Tassotti (o Mussi), Costacurta, Maldini e Benarrivo schierati davanti a Pagliuca (che per due partite e mezzo aveva lasciato il posto a Marchegiani, a causa della citata espulsione coi norvegesi), nonché Apolloni efficacissimo difensore aggiunto, capace di ritagliarsi molti spiccioli di gloria nell'avventura americana; a centrocampo Dino Baggio, Berti, Albertini e Donadoni, con Conte prima alternativa, qualche apparizione di Evani, e Signori spesso sacrificato lontano dalla porta (una delle principali contestazioni mosse al CT); attacco con Roby Baggio e Casiraghi o Massaro, con pochi sprazzi per Zola.
Qualche episodio fortunato, dicevamo, come il fallo non sanzionato di Tassotti su Luis Enrique o un possibile rigore per la Bulgaria in semifinale, ma anche tanta scalogna, vedasi la lesione del menisco che tolse quasi subito di mezzo Baresi, leader carismatico della difesa e della squadra, l’espulsione incredibile di Zola con la Nigeria, per finire con l’infortunio del Divin Codino in semifinale, che lo costrinse a disputare la sfida conclusiva a scartamento ridotto; e andrebbe anche citato, come già accennato, il contesto climatico proibitivo in cui l’Italia si trovò quasi sempre a dover giocare, arrivando quasi “cotta” al confronto con un Brasile più fresco. Per il team di Carlos Alberto Parreira, percorso senza grossi patemi: vinto il primo girone su Russia, Camerun e Svezia, più di una difficoltà a smontare il dispositivo difensivo statunitense negli ottavi, fino al diagonale vincente di Bebeto, sfida combattutissima nei quarti con l'Olanda, che rimontò con Jonk e Berkamp le reti del duo Romario - Bebeto, prima che l'ex Genoa Branco decidesse la contesa con una punizione delle sue. In semifinale, di nuovo la Svezia, lungo assalto risolto dall'immancabile acuto dell'asso Romario.
FINALE NOIOSA - La finalissima del “Rose Bowl”, davanti a circa 100mila spettatori, fu senz’altro una delle meno spettacolari di sempre. L’Italia recuperò a tempo di record Kaiser Franz, che sostituì lo squalificato Costacurta. Nel quadro di un incontro bloccatissimo sul piano tattico, fu prevalentemente la Seleçao a fare la partita, ma le occasioni per passare non ci mancarono, e capitarono sui piedi di Massaro e del "menomato" Roby Baggio (due volte). Colossali opportunità anche per Romario, Bebeto e Mauro Silva, sul cui tiro Pagliuca si fece sfuggire il pallone che terminò sul palo, baciato poi con gratitudine dal portiere blucerchiato in procinto di passare all'Inter. Finì 0-0, soluzione ai rigori per la prima volta nella storia delle finali iridate: dei nostri a segno solo Evani e Albertini, mentre gli errori di Baresi, Massaro e Baggino diedero agli auriverdes il quarto titolo, che venne dedicato ad Ayrton Senna, tragicamente scomparso a Imola poco più di due mesi prima. Per il calcio italiano, un "argento" che fa comunque curriculum.