CONTRO L'URSS, MENOMATI E VINCENTI - Per le semifinali furono stabiliti i seguenti accoppiamenti: Italia - URSS a Napoli, Inghilterra - Jugoslavia a Firenze. Con i sovietici i nostri avevano un duplice conto aperto: da loro erano stati eliminati negli ottavi dell'Europeo '64, con loro avevano perso una delle partite giocate nella Coppa del Mondo inglese due anni prima. Il 5 giugno, al San Paolo, era una giornata piovosa, e l'avversario parve subito una montagna troppo alta da scalare, per gli azzurri, non tanto per la superiore esperienza ed organizzazione russa, quanto per delle gravi avversità che piombarono sui padroni di casa: la più importante, l'immediata rinuncia a Rivera, fulcro della manovra offensiva. Vittima di uno stiramento nei primi minuti di gioco, venne spostato all'ala, come si usava all'epoca, e non potè lavorare che pochi palloni. Sottoposto alle cure della panchina, ebbe una lieve ripresa nella fase iniziale della seconda frazione, ma poi l'infortunio si riacutizzò e il golden boy scivolò di fatto fuori dalla partita. Eppure, le palle-gol non mancarono per andare in vantaggio: Prati in più occasioni, Facchetti e Mazzola sfiorarono il bersaglio. Nei momenti di più acuta sofferenza, funzionò con efficacia la diga di difesa e centrocampo, e soprattutto funzionò alla grande Zoff, autore di magnifiche parate. Si andò ai supplementari, un'altra tegola per l'Italia con l'infortunio allo stopper Bercellino, ma in chiusura l'occasione più grande per noi: da Prati a Domenghini, gran destro dalla distanza e palo pieno. Come si usava all'epoca, in caso di prolungata parità fu il sorteggio a stabilire chi dovesse passare il turno: la monetina venne lanciata negli spogliatoi, e disse Italia.
FORTUNA? SI', MA NEANCHE TANTA... - Principalmente su questo episodio si regge la leggenda di un trionfo fortunato, anzi fortunoso, per la nostra Nazionale in quell'Europeo. In realtà, come abbiamo visto, la sorte non era stata troppo benigna con gli azzurri, frapponendo diversi ostacoli fra essi e la coppa, fin dal durissimo quarto di finale in Bulgaria. La rocambolesca qualificazione alla finale fu un premio all'irriducibilità di una squadra costretta a giocare 120 minuti tecnicamente menomata. Se di fortuna vogliamo proprio parlare (fortuna che del resto è componente fondamentale di larga parte dei trionfi sportivi, persino per quello del Mundial 1982, bisogna ammetterlo onestamente), essa può senz'altro riferirsi alla finalissima, in programma l'8 giugno a Roma, contro la Jugoslavia, che si era sorprendentemente ma meritatamente sbarazzata dell'Inghilterra di Alf Ramsey.
DOMINIO JUGOSLAVO - Quel sabato di fine primavera fu una grande giornata di calcio, nella Capitale: l'organizzazione del torneo aveva stabilito di far disputare le due finali, per il bronzo e per l'oro, nello stesso stadio Olimpico, una di seguito all'altra. Nella sfida fra deluse gli inglesi prevalsero sull'URSS. Fu l'antipasto pomeridiano allo spettacolo serale: davanti a oltre 80mila spettatori, azzurri e plavi diedero vita a una sfida durissima, che vide i primi nettamente in soggezione per lunghi tratti del match. Per sopperire all'assenza dell'infortunato Rivera, Valcareggi optò per una formazione "di gregari", con un centrocampo affidato al podismo e alla grinta di Ferrini e Lodetti e col solo Juliano a cercar di portare idee in fase di costruzione. In tal modo, nella zona di mezzo, gli ospiti assunsero subito il comando delle operazioni, spezzando in due tronconi l'undici italiano. La superiorità di manovra della squadra allenata dall'ex nazionale Mitic sfociò, in chiusura di primo tempo, nel gol di Dzajic, una delle ali più quotate del calcio europeo dell'epoca; la reazione dei nostri fu immediata e portò a una traversa di Domenghini, su calcio di punizione. Le occasioni furono diverse, da una parte e dall'altra, ma il gioco sembrò sempre saldamente nelle mani degli slavi, che però non riuscirono a chiudere il match e vennero puniti nella fase finale della ripresa... da chi? Proprio da Domenghini e da una delle sue bombe su tiro piazzato. I supplementari non sortirono effetto alcuno, la sensazione netta, nelle file azzurre, fu di averla scampata bella.
VALCAREGGI RIMODELLA LA SQUADRA - Per la finalissima, il regolamento prevedeva la ripetizione della partita in caso di parità dopo il primo match; solo in seguito a un ulteriore risultato nullo, sarebbe entrato in scena il sorteggio come per la semifinale napoletana. Qui Valcareggi dimostrò di essere un tecnico avveduto e maturo: preso atto del fallimento tattico registrato nella prima gara, cambiò volto alla formazione, incrementò il tasso qualitativo nel settore di mezzo togliendo Ferrini e Lodetti e inserendo il geometrico De Sisti e Mazzola nelle vesti di mezzala, con Rosato incaricato di... sgobbare per loro, mentre in prima linea venne finalmente fatto spazio a Riva; in un quadro del genere, anche Anastasi, che nella prima finale aveva... patito la solitudine in avanti, trovò nuovo brio.
ITALIA BRILLANTE - La finale - bis si giocò la sera di lunedì 10 giugno: l'Olimpico non fece registrare il pienone di due giorni prima, ma gli oltre 40mila sugli spalti offrirono comunque un colpo d'occhio di tutto rispetto. Scese in campo un'Italia nuova, più compatta, organizzata e fresca, grazie ai cinque nuovi elementi (i citati Rosato, Mazzola, De Sisti, Riva, e in più Salvadore), mentre il cittì slavo cambiò un solo giocatore, non sappiamo se per eccessiva fiducia nella formazione base o per mancanza di valide alternative. In ogni caso, i nostri si impadronirono subito del pallino del gioco e passarono sollecitamente in vantaggio con Gigi Riva, in sospetta posizione di offside (ma osservando oggi l'azione, sembra che il bomber del Cagliari parta in linea con l'ultimo difensore). Si continuò a giocare bene e arrivò il meritato raddoppio, una perla di Anastasi, controllo al volo al limite dell'area e botta di destro nell'angolino basso, roba da stropicciarsi gli occhi.
DAL 1934 AL 1968, NEL SEGNO DI POZZO - Fu un'ipoteca sul trionfo, perché all'epoca l'arte difensiva italiana era una cosa seria, cosicché davanti a Zoff l'operazione di contenimento riuscì mirabilmente, di fronte a un avversario che, nella ripresa, tentò disperatamente di riaprire la gara, mentre col classico contropiede i nostri sfiorarono in alcune circostanze il terzo gol. Il resto è leggenda: la fiaccolata degli spettatori dell'Olimpico che illuminò la notte romana al fischio finale, capitan Facchetti che alzò al cielo il trofeo, il primo, lo ripetiamo, del calcio azzurro nel dopoguerra. Era il 10 giugno, un segno del destino: lo stesso giorno in cui, nel 1934, sempre a Roma, l'Italia di Vittorio Pozzo conquistò il primo titolo mondiale (lo rievocai sul blog con due articoli, qui e qui). E Pozzo, ormai anziano, era in tribuna, quella sera del '68: fece in tempo a veder risorgere la Nazionale ai livelli che le competevano, e pochi mesi dopo lasciò serenamente questo mondo. Un segno del destino fu anche la presenza in campo, spesso da protagonista, di Zoff, che con altri compagni riporterà in Italia la Coppa del Mondo 14 anni dopo, da capitano: simbolo di un nuovo ciclo felice appena apertosi, per il football tricolore.
Quei ragazzi del '68 non erano un bluff, la vittoria, come abbiamo visto, fu solo in parte figlia di qualche episodio fortunato: la squadra, con pochi ritocchi, confermerà la propria validità due anni dopo, in Messico, sul più impegnativo palcoscenico che ci sia, quello della Coppa Rimet, giungendo seconda dietro il super Brasile. Ricordare l'unico titolo continentale azzurro oggi, a pochi giorni dall'inizio della kermesse iridata, può sembrare senza senso, ma non lo è: perché quella coppa non può restare per sempre solitaria in bacheca, e il nostro neo CT Mancini l'ha sottolineato: vuole vincere l'Europeo. Oggi sembra una sfida impossibile, ma perché non sognarlo? In due stagioni cambiano tante cose, e l'Italia è pur sempre, anche in periodo di crisi, una delle capitali del calcio mondiale. Coraggio! (2 - FINE)
Quei ragazzi del '68 non erano un bluff, la vittoria, come abbiamo visto, fu solo in parte figlia di qualche episodio fortunato: la squadra, con pochi ritocchi, confermerà la propria validità due anni dopo, in Messico, sul più impegnativo palcoscenico che ci sia, quello della Coppa Rimet, giungendo seconda dietro il super Brasile. Ricordare l'unico titolo continentale azzurro oggi, a pochi giorni dall'inizio della kermesse iridata, può sembrare senza senso, ma non lo è: perché quella coppa non può restare per sempre solitaria in bacheca, e il nostro neo CT Mancini l'ha sottolineato: vuole vincere l'Europeo. Oggi sembra una sfida impossibile, ma perché non sognarlo? In due stagioni cambiano tante cose, e l'Italia è pur sempre, anche in periodo di crisi, una delle capitali del calcio mondiale. Coraggio! (2 - FINE)
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