Spagna di nuovo sul tetto d'Europa
All’ultimo tuffo, i nodi sono impietosamente venuti al
pettine. Del resto, due anni di duro e buon lavoro non potevano bastare a colmare un gap, quello fra
calcio italiano e calcio spagnolo, formatosi in un arco di tempo ben più lungo, direi a partire dal 2004, dapprima
silenziosamente, quasi impercettibilmente, poi in maniera sempre più netta e fragorosa. Fragorosa come il 4 a 0 che ha chiuso, nostro malgrado, l'Europeo polacco - ucraino. Il 2004, si diceva: l'anno in cui Luis Aragonès prese
in mano le redini della Nazionale spagnola, fino a quel momento il grande bluff
del football mondiale, l’eterna incompiuta, sempre candidata a cogliere i più
prestigiosi allori e sempre costretta a tornare a casa con le pive nel sacco e
la coda fra le gambe.
DA ARAGONES A DEL BOSQUE - Il buon vecchio Luis tracciò il solco: dovette passare
attraverso le forche caudine dell’ennesima brutta figura, al Mondiale 2006, ma
a Berlino e dintorni c’era già, nel bozzolo, la squadra che di lì a poco
avrebbe fatto parlare di sé il mondo intero. Aragonès chiuse il suo ciclo col trionfo
europeo di Vienna 2008, lasciando la panchina a Del Bosque, che ha completato
il passaggio di questa Selecciòn dalla leggenda al mito, all’Olimpo degli Dei
del pallone, come avevo scritto qualche post fa.
Due titoli continentali e uno
mondiale in cinque anni: nessuno era mai arrivato a tanto, fino ad ora, e
chissà quanto tempo dovrà passare prima che qualcuno possa imitare Xavi e
compagni. Negli anni Trenta, la splendida Nazionale azzurra di Vittorio Pozzo
riuscì a realizzare qualcosa del genere: dal 1934 al 1938, due Coppe del Mondo
consecutive, inframezzate da una Coppa Internazionale (sorta di antenata in formato
ridotto dell’Europeo) e da un torneo olimpico di calcio (a cui all’epoca veniva data, se non pari
importanza, di certo pari dignità rispetto ai Mondiali).
IN FINALE PASSEGGIANDO - Forse ci hanno presi in giro, le Furie Rosse. Contro Francia
e Portogallo, il loro tiki taka era parso arrugginito, a tratti involuto,
addirittura sterile. La Spagna è arrivata in finale quasi passeggiando:
raramente, prima dell’atto conclusivo, ha fatto girare i motori a pieno regime,
forse solo nella prima partita, quando,
trovatasi sotto contro l’Italia, ha dovuto forzare i ritmi per non cominciare
il torneo con un capitombolo. Da allora, è stato un trotterellare, quasi un
rotolare per inerzia verso il traguardo, nella consapevolezza di una
superiorità sul resto del lotto delle partecipanti che, gara dopo gara, nello spogliatoio iberico prendeva sempre più corpo. Quasi un allenamento contro l’imbarazzante Eire
trapattoniana, il minimo sindacale con croati, francesi e portoghesi. Certo, in
semifinale il rischio è stato grosso: bastava un Portogallo meno sulle sue e
più in grado di assecondare gli estri di Cristiano Ronaldo, e bastava anche un
pizzico di sfortuna in più nella giostra finale dei penalty.
Consapevoli di aver forzato troppo la mano alla buona sorte,
gli uomini di Del Bosque hanno pensato che il tempo del “traccheggio” fosse
finito. Eccoli, dunque, sul campo di Kiev, sciorinare il meglio del loro
repertorio. La finalissima contro l’Italia è stata forse una delle espressioni
più alte del leggendario ciclo quinquennale iberico: la sintesi ideale fra la
Spagna bella, scintillante, vezzosa di Euro 2008 e quella oltremodo pragmatica
di Sudafrica 2010. Ieri sera, Iniesta e compagni hanno lucidato e messo in
bella mostra l’argenteria del loro gioco avvolgente e dell’infinita classe racchiusa nei loro piedi;
hanno indossato il vestito buono per l’occasione che valeva davvero, dopo
essersi concessi con molta parsimonia nella fase d’approccio.
UNA SQUADRA DA SOGNO - Abbiamo visto all'opera la vera Selecciòn del mito: una squadra che fa
correre il pallone irretendo e sfiancando gli avversari, con una manovra
sincronizzata al secondo e perfetta al millimetro, una copertura capillare del
terreno di gioco, una sublime capacità di gettarsi negli spazi che il “nemico”
alfine le concede dopo un lungo lavoro ai fianchi. Ma come per l’Olanda degli anni
Settanta, che seppe valorizzare al massimo il suo “calcio totale” perché era
zeppa di fenomeni, il tiki taka giallorosso funziona perché a giocarlo sono calciatori che danno del tu
alla palla, talenti dal palleggio privo di sbavature, impeccabili nel tocco, nel
controllo, nei passaggi. E tutti, non solo i “cervelli” Xavi, Iniesta e Xabi
Alonso, dalla visione di gioco geometrica. Quando poi a tutto ciò si aggiunge
anche un pizzico di dinamismo in più, ecco che per chi sta loro davanti è notte
fonda.
Siamo sinceri: dopo il primo gol, non c’è mai stata la sensazione
che i nostri potessero in qualche modo rimettere in carreggiata la gara. Fabregas,
letteralmente indiavolato, ha sottoposto la nostra difesa a ripetute, tremende
sollecitazioni, Silva è tornato ai livelli delle sue prime apparizioni sul
grande palcoscenico internazionale (non a caso i due hanno confezionato in comproprietà la prima segnatura); e Jordy Alba, l'ultimo arrivato, è già uno dei laterali mancini più impetuosi e affidabili del globo (stupendo, per tempismo nell'inserimento e rapidità di esecuzione, il gol del 2 a 0).
Spiace dirlo, ma era dai tempi della finale
mondiale del ’98 tra Francia e Brasile che non si vedeva, nell’atto conclusivo
di un grande torneo, una tale disparità di forze in campo. Il momento migliore per noi,
l’avvio della ripresa, ha fruttato solo due opportunità mancate da Di Natale,
la prima di testa su cross di Abate, la seconda con un sinistro su Casillas in
uscita. Poiché il sottoscritto non ha mai fatto mancare attestati di stima e di
fiducia a questa nostra Nazionale (l’archivio del blog è una testimonianza
inoppugnabile), oggi non ho scrupoli di coscienza e non sento il “dovere morale”
di dover dire “grazie lo stesso”.
All'Italia è mancato l'acuto finale
DOPO LA GERMANIA, SPINA STACCATA - Il bilancio di Euro 2012, per noi, è largamente positivo,
perché siamo secondi in Europa dopo essere stati venticinquesimi, o ventiseiesimi, nel mondo, appena due anni fa. E perché abbiamo dato una immagine di gioco nuova, fresca, propositiva, facendo emozionare e divertire anche gli spettatori neutrali. E tuttavia, mai, per nessuna ragione, una finale può essere affrontata
come l’hanno affrontata i nostri: totalmente sbagliato l’approccio e la
gestione, prima e in corso d’opera.
La
sensazione è che il nostro Europeo si sia virtualmente chiuso giovedì, con il
trionfo sulla Germania. Un'impresa troppo grande, una delle più belle nella storia del nostro calcio, per realizzare la quale si era dovuto dare fondo a tutto il bagaglio delle nostre risorse. Dopo, è stata solo una lunga celebrazione dei nostri
rinnovati fasti, fra tanto riposo, poco allenamento, lettere del Presidente della
Repubblica e dubbi del tecnico sul proprio futuro. Sembrava quasi che, a quel punto,
dopo aver superato il colosso germanico nulla potesse impedirci di cogliere il
massimo alloro, che sarebbe arrivato in automatico. Ma il calcio non è fatto di
ineluttabilità, di corsi e ricorsi storici, di leggi dei grandi numeri.
CONDIZIONE FISICA - Imbarazzanti le condizioni fisiche dei nostri: e questa, perdonatemi,
non può essere solo sfortuna. Così come il discorso degli stage non concessi durante la stagione
c’entra poco, in questo contesto: la Nazionale il suo ritiro preparatorio l’ha fatto, ma
qualcosa nella gestione atletica e medica degli uomini deve essere andata
storta. Le energie mentali possono
bastare a sostenere un ultimo sforzo se quelle fisiche sono in riserva ma non
al lumicino: ieri, invece, i nostri erano svuotati, completamente, nel corpo e
nello spirito, al punto di rischiare una lezione ben più severa.
La luce si era
spenta anche per Prandelli: che ha mandato in campo senza alcuna ragione
plausibile Chiellini, reduce da due infortuni ravvicinati, ormai disabituato a
giocare con continuità in un ruolo nel quale Balzaretti aveva fatto il suo alla
grande; ha richiamato in panca Cassano che era stato fra i meno peggio nella
prima frazione (problemi al ginocchio? Ritorna il discorso fatto prima sulla condizione atletica e sanitaria generale, e comunque se
sta male non lo fai nemmeno giocare...); ha tolto Montolivo, anche lui fra i più
propositivi, pure come incontrista (dal milanista e dall’ex fiorentino, ricordiamolo, le uniche conclusioni
pericolose della prima frazione, due tiri a lunga gittata respinti da Casillas).
Per Chiellini, è il solito errore che sembra scritto nel dna dei tecnici
azzurri: non si rinuncia mai ai grandi nomi del gruppo, anche quando questi
sono fisicamente a terra, perché si pensa che la loro personalità, la loro
esperienza, possa comunque essere utile: fu così per Roby Baggio nel ’94, per
Del Piero nel ’98 e nel 2000, per Cannavaro nel 2010. I nostri cittì stanno
sempre aggrappati ai loro miti, ai totem dello spogliatoio, anche quando non dovrebbero, e ne ricavano
sistematicamente cocenti delusioni: impareranno mai la lezione? Ho i miei
dubbi. Benedetto Lippi, che nel 2006 utilizzò quasi tutti i gli uomini a disposizione evitando di fossilizzarsi sui soliti 15-16...
RIMPIANTI E FUTURO - I rimpianti sono tanti: la Spagna è forte, fortissima, ma
noi stessi, meno di un mese fa, abbiamo dimostrato che non è inavvicinabile. Rimango
convinto che un’Italia in condizioni decenti se la sarebbe giocata ben
diversamente. Diciamo anche che il fatto di
aver dovuto subito affrontare la “più bella”, nell'ouverture di Danzica, ci ha costretti a tenere fin dall'inizio dei
ritmi elevati, ulteriormente accentuati nelle sfide a eliminazione con
Inghilterra e Germania, che hanno comunque marchiato a fuoco questo torneo,
regalando i momenti più intensi, ricchi di pathos e ben giocati di Euro 2012.
Ecco,
si riparta da qui: da questa nuova Italia, coraggiosa, aggressiva, desiderosa di produrre gioco e gol, almeno fin quando le energie gliel’hanno consentito. Un’Italia che può ancora farci
sognare, ma a certe condizioni: che rimanga Prandelli, affinché non si ripeta
il traumatico abbandono di Zoff nel 2000, dal quale derivò un quadriennio di
disgrazie azzurre; occorre poi rassodare e rimpolpare tecnicamente la rosa, dando subito
spazio ai giovani emersi a fatica, fra A e B, nell’ultima stagione, magari seguendo
un percorso inverso rispetto a quello logico e consolidato, ossia cominciando a
farli giocare in azzurro in modo da “stimolarne” l’utilizzo nei club, quasi una provocazione; da migliorare, inoltre, l'impostazione globale della preparazione della Nazionale, ma questo rientra in un quadro complessivo di
riassetto e riorganizzazione del Club Italia, dal quale non si potrà
prescindere più, in alcun modo: altrimenti, l’argento di Kiev resterà un fatto isolato.
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