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lunedì 28 aprile 2014

BOSKOV E VILANOVA: IL LATO UMANO DEL CALCIO

                                       Boskov, signore di un calcio che non c'è più

Vuja, Tito e un vuoto grande così. Giorni tristi per il calcio: perché quando muore chi il football lo ha sempre vissuto con umanità, civiltà, lealtà e discrezione, muore una parte di  noi che ci ostiniamo ancora a credere in un pallone a misura d'uomo. Giorni da conservare e ricordare in futuro, anche: da ricordare perché le morti di Vilanova prima e di Boskov poi hanno suscitato un'ondata pressoché unanime di cordoglio e di rimpianto. Doveroso, certo, ma non era affatto scontato, in un mondo che vive troppo spesso di rivalità acide, inimicizie, rancori a lunga durata e persino odio strisciante. E invece, fra mille veleni, polemiche vuote e sterili, allenatori e giocatori incapaci di accettare critiche, evidentemente non abbiamo perso la capacità di apprezzare chi questo pazzo sport lo sa interpretare con lo spirito giusto, senza mai trascendere. E questi due fuoriclasse della panchina, pur così differenti l'uno dall'altro, hanno lasciato dietro di loro solo rispetto e affetto, solo ricordi positivi, e non certo per i risultati (eccellenti) di cui hanno costellato le rispettive carriere. 
LONTANI EPPURE VICINI - In apparenza diversi come il giorno e la notte, Vuja e Tito. Lo slavo era allenatore di stampo tradizionale, scevro da sofismi tattici, uno di quelli che "il giocatore viene prima degli schemi"; e uomo spiritoso, allegro, capace di approcciarsi con leggerezza a un ambiente e a una professione che solo leggerezza richiederebbero, altro che il clima opprimente e perennemente teso del calcio del Duemila. Dall'altra parte Tito, prototipo del trainer moderno, artefice, da ottima spalla di Pep Guardiola, del Barcellona del tiki taka, uno di quei team destinati a restare nella leggenda pallonara; e fuori dal campo persona sobria, pacata, mai sopra le righe. Lontani per linea tecnica e per carattere, eppure vicini per l'aura di umanità, di semplicità che li circondava. Due professionisti che sapevano dare il giusto peso alle cose, che non andavano al calcio come si va alla guerra. 
DESTINO INGIUSTO - La scomparsa di Vilanova è stata un trauma vero, per il sottoscritto. Morire così giovani è profondamente ingiusto, e ancor più ingiusto è lottare strenuamente contro un male subdolo, sottoporsi a terapie sfiancanti e ricavarne risultati in apparenza incoraggianti, per poi precipitare in puntuali ricadute. Uno stillicidio di speranze fugaci e di immediate disillusioni, una crudeltà vera. Tito ha vissuto il suo calvario con la stessa, olimpica serenità che infondeva nel suo lavoro: fra un ricovero e un altro, fra una terapia e un'altra, ha voluto rimanere attaccato al suo ambiente, continuare a guidare i suoi blaugrana, fin quando le forze glielo hanno consentito. E' normale, è un disperato tentativo di rimanere attaccati alla normalità quotidiana, perché se si pensa solo alla propria malattia si rischia di impazzire: lo so, ci sono parzialmente passato, anche se in maniera molto più soft, diciamo "di striscio". Ma anche la scelta di mollare tutto per dedicarsi alfine solo alle cure, per quanto ovvia e naturale, ha rappresentato un messaggio di enorme impatto: sì, riversare anima e corpo nel lavoro è importante, ma ad un certo punto l'attaccamento alla professione, anche alla più bella e remunerativa, deve scomparire, lasciando il passo alle vere priorità dell'esistenza: cercare di salvaguardare la propria salute, di salvarsi per se stessi, per la famiglia, per i figli. Priorità che andrebbero rispettate sempre, ma quando si è in buona salute non ci si pensa, e le infinitesimali problematiche del lavoro ci sembrano ostacoli insormontabili e guai irrisolvibili, ci sembrano la fine di tutto. 

                                     Vilanova, un tragico destino vissuto con dignità

QUELLA CENA DI TANTI ANNI FA - Per Boskov il discorso è un po' diverso. Superati gli ottant'anni, purtroppo, occorre essere sempre pronti al peggio, giorno dopo giorno: la salute diventa spesso precaria e altalenante. Ciò non toglie che la scomparsa di zio Vuja lasci dietro di sé un magone grande così, ma la tristezza è attenuata da dolci ricordi e dalla consapevolezza che l'uomo ha avuto una vita piena e ricca di soddisfazioni. Piccola digressione personale: con l'ex trainer condivisi, poco più di dieci anni fa, una cena di lavoro, ai tempi in cui ero ancora giornalista "vero", collaboratore di una testata locale. Un Boskov un po' diverso, nella circostanza, dall'immagine che i media ne avevano ormai da tempo fornito: gentile ma non "caciarone" (forse però non era molto a suo agio, quella sera non erano presenti molti uomini di calcio), ma capace in pochi secondi di "ringalluzzire" una tavolata un po' spenta, un po' troppo ingessata, con un paio di battute fulminanti e un gustosissimo aneddoto. Ma questo è colore giornalistico: la realtà parla di un coach pratico e vincente, capace di tenere in mano gruppi di giocatori dalle personalità debordanti e di dotarli di un gioco lineare ed efficace, e al contempo spettacolare. 
L'EPOPEA DORIA E IL RISPETTO DEI GENOANI - Vissi in diretta l'epopea della sua super Sampdoria: per noi genoani non erano anni facili, ma debbo dire, in assoluta onestà, di non aver mai masticato troppo amaro vedendo i blucerchiati che vincevano e gli spelacchiati grifoncini che arrancavano: un po' di invidia sì, penso sia normale quando le traiettorie agonistiche della squadra rivale sono così distanti e così pregne di successi. Ma era una signora squadra, quella Samp, che riuscì ad emergere in un contesto di elevatissima qualità, di equilibrio livellato verso l'alto (altro che la mediocre Serie A di oggi...); era uno splendido gruppo di giovani e talentuosissimi virgulti italiani, giunti infine a maturazione per la soddisfazione della società di Mantovani senior ma anche del calcio azzurro, che delle qualità dei vari Vialli, Mancini, Vierchowod, Pagliuca e Lombardo usufruì con buonissimi risultati. Su tutti, con aria paciosa, vigilava Boskov, capace di non oltrepassare mai i limiti del buon gusto anche quando era coinvolto nelle più classiche polemiche calcistico - giornalistiche. Rispettato da tutti, e in linea di massima anche dai genoani, per la sua signorilità: se si pensa che la sua battuta più "acida" nei confronti dei rossoblù fu un ironico riferimento alle qualità pedatorie dell'uruguaiano Perdomo, paragonato al suo cane, si può ben capire come all'epoca, nella Genova calcistica, si respirasse aria tutto sommato fresca, impregnata di goliardia e voglia di sdrammatizzare, anche quando si rivaleggiava fra le due sponde. Del resto erano gli anni di Vujadin, di Scoglio e di Bagnoli: personalità diverse, ma gente che sapeva cosa volesse dire esser "uomini di sport".  

sabato 26 aprile 2014

"CENTOCINQUANTA LA GALLINA CANTA": L'UMORISMO ARGUTO E SURREALE DI ACHILLE CAMPANILE AL TKC TEATRO DELLA GIOVENTU'

                                Attori della TKC alle prese con le prove di uno spettacolo

La filosofia è quella di sempre: innovare, rischiando e spiazzando. Portare ventate d'aria fresca nel mondo teatrale genovese e italiano, anche attraverso scelte artistiche coraggiose e fuori dagli schemi. Il TKC Teatro della Gioventù insiste lungo il solco tracciato, e fa bene, perché finora i risultati gli han dato ragione. L'ultimo "azzardo" si chiama Achille Campanile: fautore di una comicità raffinata, di un umorismo surreale e impastato di genio, il poliedrico autore approda sul palcoscenico di via Cesarea con "Centocinquanta la gallina canta". Il nuovo allestimento firmato The Kitchen Company terrà banco per quasi due mesi: anteprime da oggi al 2 maggio, repliche dal 3 maggio al 22 giugno. 
GENIO SNOBBATO - Scelta ardita e coraggiosa, si diceva. Campanile è infatti il primo autore italiano ad essere messo in scena dalla giovane compagnia di Massimo Chiesa ed Eleonora D'Urso, che ha fin qui brillato per aver fornito agli spettatori genovesi una vasta panoramica sui più brillanti esponenti del teatro internazionale I due direttori artistici, si sa, non amano le cose scontate e hanno optato per un autore nostrano che si può considerare fra i più "ostici" da rappresentare, per due motivi: in primis, quella di Campanile non è assolutamente una comicità da cabaret, da "una battuta e via", da one shot in stile Zelig; tutt'altro: è arguzia finissima, umorismo in punta di fioretto, giocato spesso e volentieri sulle parole e sulla miriade di combinazioni, doppi sensi, molteplici interpretazioni che è in grado di offrire la ricchissima lingua italiana. Il secondo motivo è che questo fuoriclasse del Novecento (drammaturgo, sceneggiatore, giornalista e quant'altro) in Italia non è mai stato valorizzato come avrebbe meritato il suo talento: poco o nulla di lui è stato proposto a livello cinematografico e teatrale, e conseguentemente è poco conosciuto dal grande pubblico, in particolare da quello giovane. 
"Rendiamo giustizia ad Achille Campanile e alla sua arte sublime - dichiara Massimo Chiesa - Uno straordinario autore tout court, non solo in senso comico. Sono curioso di vedere quali saranno le reazioni del pubblico:  credo che non ci si annoierà, ma c'è la possibilità che gli spettatori si divertano...  a scoppio ritardato, perché le battute non sono sempre dirette e immediate. E' anche uno stile un po' folle, nonsense: dovessi fare un paragone, penserei a certe pellicole americane demenziali, tipo "L'aereo più pazzo del mondo", solo che in quel caso l'effetto esilarante si sprigiona dall'azione, mentre con Campanile la risata è conseguenza dell'uso delle parole, della nostra lingua". L'allestimento della TKC è composto da molti pezzi del teatro di Campanile, un'autentica "summa" in cui troveremo "28 tragedie in due battute", "Delitto a Villa Roung", "Il Festival della canzone napoletana", "Visita di condoglianze", "L'acqua minerale", "Guerra", "Accenti d'amore" e "Centocinquanta la gallina canta". 
TKC A FORZA SEDICI - L'esperimento Campanile è la sedicesima tappa del percorso artistico del nuovo Teatro della Gioventù di Genova: sedici spettacoli prodotti e recitati 738 volte, per un'affluenza di oltre 121mila spettatori. Non male: "E a fine dicembre 2014 - sottolinea Chiesa - le piéces rappresentate saranno 22: in pratica, in tre anni avremo fatto ciò che molti teatri fanno in sei - sette anni. Oltretutto quella del TKC, tengo sempre a sottolinearlo, è una sala usatissima, sfruttatissima: ci fermiamo in pratica solo ad agosto, siamo in scena per undici mesi e il teatro vive anche al di là dello spettacolo, grazie al suo bistrot aperto tutti giorni dalle 17. Continuiamo a rappresentare un'esperienza pressoché unica nel panorama nazionale: diamo lavoro ai giovani e produciamo cultura, perché la ripartenza del Paese, dopo questa terribile crisi, dev'essere anche culturale, alla faccia di chi, tempo fa, asserì che con la cultura non si mangia. Falso: la cultura si mangia, anzi va divorata, e fa mangiare, perché crea occupazione e alla fine lo Stato può pure guadagnarci". 
LO SPETTACOLO - "Centocinquanta la gallina canta" si avvale della regia di Massimo Chiesa: in scena, accanto ad Eleonora D'Urso, i "veterani" TKC Daria D'Aloia, Giovanni Prosperi e Marco Zanutto, insieme a Daniele Aureli, Elisabetta Becattini, Marisa Grimaldo, Ivano La Rosa, Davide Paciolla, Luca Sannino; ci sono anche Filippo Tabbi, Sara Vitale e, al pianoforte, Michele Savino. Per prezzi e orari è possibile contattare il botteghino del teatro allo 010-8981177, consultare il sito www.tkcteatrodellagioventu.it o scrivere alla e-mail info@tkcteatrodellagioventu.it. 
Da sottolineare che nella giornata del 1°maggio sono in programma, a soli 5 euro, repliche speciali dello spettacolo alle ore 16 e alle ore 21.

venerdì 25 aprile 2014

FESTIVAL DI SANREMO E CARLO CONTI: FINALMENTE SPOSI! NUOVO CORSO PER IL 2015


Sanremo - Carlo Conti: contatto! Sembrerebbe dunque giunto il momento del fatidico "sì", dopo anni di corteggiamento da parte del Festivalone e di cortesi ma risoluti dinieghi dell'abbronzatissimo anchorman toscano. L'investitura ufficiale è arrivata ieri: il direttore di Rai Uno, Giancarlo Leone, ha dichiarato di aver chiesto a Conti la stesura di un progetto per l'edizione 2015 della rassegna canora. 
IL PROMESSO SPOSO - Il "Sanremo sì - Sanremo no" del deus ex machina dell'Eredità e de "I migliori anni" è stato un tormentone il cui lieto fine, però, non era così scontato: anzi, la sensazione, ad un certo punto, era che il più incrollabile "promesso sposo" della kermesse rivierasca sarebbe rimasto tale in eterno. Troppi tentennamenti, troppi rinvii, troppi "per il momento no, vedremo in futuro...". Parliamoci chiaro: i treni passavano e Conti non vi saliva mai. Non solo per colpa sua, certo: perché se lui sembrava non sentirsi mai pienamente all'altezza di un compito assai improbo, l'ente televisivo di Stato non aveva mai dato l'impressione di voler investire con decisione su di lui: il suo nome veniva periodicamente fuori, ma poi si preferiva sistematicamente percorrere strade più eclatanti, più glamour: puntando sui grandi mattatori catodici, da Fazio a Bonolis, piuttosto che su "mediani" di qualità ed esperienza, su infaticabili "uomini azienda" come l'ex DJ. 
CAMBIARE STRADA - Bene, ora il dado è tratto. Innanzitutto, cambiare si doveva: eppure, Fabio Fazio non pareva disposto a mollare facilmente la presa. Forse, anzi sicuramente, erano solo dichiarazioni di facciata, ma nelle prime puntate di "Che tempo che fa" andate in onda subito dopo la conclusione di Sanremo 2014, alcune sue mezze frasi fecero intuire un desiderio non troppo velato di rimanere in sella. Chiaramente, non poteva andare così: troppo tormentato, troppo controverso l'ultimo Festival per azzardare un tris. Un Sanremo concepito e scritto male (checché ne dica Michele Serra, uno degli autori, che ha difeso la sua "creatura" con toni eccessivamente collerici e ineleganti in un articolo su Vanity Fair), e tradotto ancor peggio sul palco, sul piano meramente spettacolare; discreto, pur senza attingere vette sublimi, su quello della proposta musicale, che però ha ricevuto un accoglienza tutto sommato freddina (non fallimentare, attenzione) sul mercato discografico: ne ho parlato in questo post, pochi giorni fa. 
Poi, per quanto mi riguarda, il "Sanremo made in Fazio" si è ufficialmente concluso quando, sempre nella sua trasmissione cult, durante l'intervista "tutta miele" rilasciata a Massimo Gramellini ventiquattr'ore dopo la fine della gara, dichiarò che la scelta degli ospiti era stata frutto, essenzialmente, del suo gusto personale (queste le parole precise: "Voglio dire perché non ho chiamato Justin Bieber: perché essendo parte della direzione artistica, la direzione artistica sceglie la musica che vuole portare lì: a me Justin Bieber non piace e piace Cat Stevens, fine... Mi piace Nutini, mi piace Rufus, mi piace Stromae... La direzione artistica fa delle scelte: rivendico la qualità di quelle scelte, sennò è inutile andare a fare ciò che uno si aspetta..."). 
FAZIO E LA LITURGIA VIOLATA - Ecco, è mio parere, ma io conto zero, che non sia assolutamente questo il criterio ideale per organizzare degnamente un Festival di Sanremo: Sanremo non è né "Che tempo che fa" né "Vieni via con me", non è una trasmissione come tante, un prodotto in cui il conduttore - direttore artistico può imprimere a chiare lettere la sua impronta di stile e di gusto, facendone  l'unico filo conduttore. No, il Festivalone è qualcosa di molto più grande, un complesso apparato spettacolare da maneggiare con cura, una vera e propria istituzione con un'anima, un'essenza codificata negli anni, per quanto soggetta a modifiche: l'ultimo arrivato (in senso cronologico, non certo come talento) fra i "patron", per autorevole che sia, non può pretendere di stravolgerla e di plasmarla a propria immagine e somiglianza. Sanremo è un patrimonio che va, prima di tutto, amato, e quindi rispettato da chi lo fa: lo spirito di cui si diceva, il suo canovaccio standard, può essere corretto, migliorato, ma non stravolto: altrimenti diventa un'altra cosa, e l'edizione di quest'anno è parsa troppo spesso "altra cosa" dal  Sanremo vero e proprio. 
Il Festival della canzone italiana, l'ho scritto un'infinità di volte su Note d'azzurro, ha un'anima leggera, pop, glamour, direi "scanzonata", e mi si perdoni il gioco di parole: lo dimostra il fatto, del resto, che alla lunga chi sta resistendo nelle classifiche di vendita e di download è proprio il gruppetto degli artisti di impatto più immediato, portatori delle proposte più orecchiabili, più radiofoniche, le Arisa e i Renga, gli Hunt, le Ferreri e le Noemi. Una volta preso atto di questo status ineliminabile (perché se si elimina la leggerezza, muore il Festival), attorno ci si può lavorare, arricchendo il cast e la linea artistica con proposte meno scontate e un tantino più elitarie, con pennellate di originalità, nel segno di una ecumenicità che tenga conto del più ampio spettro di proposte musicali, di generi, di target. 
PIU' MUSICA, PIU' CANTANTI - Ecco ciò che si chiede a Conti, in attesa di sapere chi lo affiancherà nel gruppo autoriale come esperto musicale (chi sarà, insomma, il Mauro Pagani della situazione): rinnovamento nel segno della continuità, apertura alle novità senza mai perdere di vista la tradizione sanremese. Il tutto, ovviamente, con un occhio di riguardo alla musica, che deve riconquistare in toto la centralità, senza troppi intermezzi che saranno anche di buona levatura spettacolare e financo culturale, ma che col palco dell'Ariston c'entrano poco. In questa direzione dovrebbe andare anche un innalzamento della quota di partecipanti nelle due categorie, quota ridotta, nelle ultime edizioni, veramente ai minimi termini, con particolare riferimento agli esordienti. 
GLI ALTRI PADRONI DI CASA - Carlo Conti, in questo senso, dovrebbe essere una garanzia, come buon conoscitore del mondo musical - canzonettistico (ha avuto anche il merito e il coraggio, non dimentichiamolo, di rispolverare il marchio "Canzonissima", sebbene all'interno de "I migliori anni"): forse, limitatamente a questo campo, è davvero il più attendibile erede di Baudo, il primo, dopo i numerosi "regni" sanremesi del Pippo nazionale, in grado di garantire un festival rigoroso, ossia pienamente rispettoso del ruolo da protagonisti che i cantanti in concorso e le loro proposte debbono mantenere. Sul piano della gestione del palco e dello show il discorso sarà diverso e più complicato, per due motivi: il primo è che, negli ultimi anni, il nostro "presentatore incaricato" pare essersi adagiato su una conduzione "col pilota automatico", da buon impiegato della tv ma senza guizzi particolari, senza alzate d'ingegno, forse perché si è troppo strettamente  legato a due format che ormai si ripetono stancamente da anni. 
Ma l'ostacolo più arduo da aggirare, che prescinde dalla brillantezza dell'anchorman, sarà quello di creare un'idea nuova e spiazzante di conduzione, ossia l'elemento sul quale, da un certo momento in poi, la Rai ha puntato per caratterizzare ogni singola edizione della kermesse. Secondo questo criterio, avviato forse con le prime due esperienze faziane nel 1999 e nel 2000, ma con avvisaglie nelle incursioni di Bongiorno ('97) e Vianello ('98), la presentazione deve essere uno spettacolo nello spettacolo, e in questo senso i collaboratori di Conti andranno scelti con particolare cura. Butto lì dei nomi, che, nel caso, toccherà alla Rai e alla direzione artistica mixare: Virginia Raffaele, Geppi Cucciari, Elio, Miriam Leone, Chiara Francini: talenti diversi che, se amalgamati per benino, possono dar vita a cocktail stuzzicanti e vivaci. Anche in questo senso dovrà esserci, però, una correzione di rotta rispetto al recente passato: presentazione brillante sì, ma senza oscurare la gara e i suoi protagonisti, senza prendersi il centro della scena. Forse, chissà, la sfida ancor più audace sarebbe quella di tornare a una presentazione vecchio stile, con presentatori tradizionali: Conti e, che so, Milly Carlucci. Vedremo. 

mercoledì 23 aprile 2014

LETTERA APERTA AL GENOA CFC


Spettabile Genoa CFC 1893, dirigenti, staff tecnico e calciatori tutti,

vi do una notizia che, forse, spiazzerà molti di voi, ma è confermata da svariate fonti, autorevoli e non: il campionato italiano di calcio "Divisione nazionale Serie A" si articola in 38 giornate di gare. Sì, lo so, è un brodo allungato e annacquato, quasi sempre sciapo, spesso indigeribile: ma così stanno le cose e, finché chi di dovere non imporrà il fondamentale snellimento del torneo col ritorno alle 18 squadre, occorre adeguarsi e comportarsi di conseguenza. No, ve lo dico perché, a giudicare dal comportamento tenuto in campo nell'ultimo mese, sembrate non esserne consapevoli. 
Perdonatemi l'ironia (inconsistente, lo so: non sono mai stato un arguto umorista) ma quando ci vuole ci vuole. Perché avete staccato la spina, questa è la verità, e gli "spettacoli" da voi offerti in partita lo stanno dimostrando in maniera inoppugnabile. Si badi bene, ci può stare, nel calcio, di inanellare delle serie negative; ci può stare soprattutto per realtà di medio livello come quella di cui voi siete i portabandiera, per squadre le cui risorse di classe sono molto limitate (anche se per il Genoa, come vedremo, è vero solo in parte) e che quindi non possono mantenere un rendimento costantemente elevato per dieci mesi consecutivi. Ci sta tutto, insomma, ma ciò che offende è il modo: cali di concentrazione, ripetuti black out mentali nei momenti decisivi, approccio "ultraleggero" alle partite, superficialità nell'affrontare anche le figure di gioco più elementari, personalità all'acqua di rose, "garra" inesistente. 
QUALE SALVEZZA? - "D'accordo", potreste ribattermi, "ma nei mesi precedenti abbiamo marciato a ritmi sostenuti, sfoderato intensità agonistica, mostrato scampoli di gioco piacevole e ottenuto risultati che ci hanno consentito di guadagnare con largo anticipo la salvezza, ciò che ci si chiedeva". No, un momento, vi sfugge forse un particolare: la salvezza non è ancora stata raggiunta. Sì, lo so, i miracoli nel football non esistono o quantomeno sono assai rari, e le squadre sul fondo non otterranno mai, tutte insieme contemporaneamente, i risultati che servirebbero per mettere loro al sicuro e inguaiare voi. Ma resta il fatto che, a quattro turni dalla fine, la sicurezza matematica della permanenza in categoria non l'avete ancora conquistata, non siete nemmeno pervenuti alla fatidica quota 40.
Non è un dettaglio da poco: il classico "svacco" finale di tante compagini, triste caratteristica dei tornei a 20, avviene solitamente quando l'obiettivo minimo è stato centrato "realmente", non "virtualmente". Ma voi no, voi siete il Genoa e volete differenziarvi anche in questo. Col risultato che state riuscendo ad avvelenare una stagione che aveva tutti i crismi per essere finalmente tranquilla, dopo due anni di patimenti. Non molto di più chiedeva il tifoso genoano medio: un pizzico di serenità, qualche delusione in meno e soprattutto rispetto, totale e assoluto. 
RISPETTO - Sì, rispetto è la parola chiave, senza scomodare la "professionalità", che è un concetto molto più complesso e ampio e sulla quale non mi permetto di eccepire. Rispetto per il proprio lavoro e, soprattutto, per la passione (e gli sforzi economici) di chi settimanalmente vi segue: allo stadio, in tv o persino con la cara vecchia radio, poco importa. Rispetto, per un calciatore, vuol dire dare il massimo delle proprie possibilità, atletiche ma soprattutto mentali, fino al termine degli impegni agonistici ufficiali, e non mollare i pappafichi con due mesi di anticipo. Se le partite da giocare sono 38, non se ne possono giocare "davvero" solo 30 per poi sposare una sterile accademia e allentare le redini dell'attenzione. Dico questo perché la stanchezza, gli infortuni di uomini chiave, il logorio psicofisico non bastano a giustificare, ad esempio, sconfitte rocambolesche come quelle con Chievo, Torino e Cagliari, o come quella, sciagurata, con l'Hellas: tutte partite ampiamente alla portata, tutte sistematicamente gettate alle ortiche. Non le giustificano perché, fra un capitombolo e un altro, avete piazzato anche prove di assoluto spessore, ad esempio le gare, pur sfortunate, con Juventus e Milan. 
E' questo che fa arrabbiare chi vi ama senza essere ricambiato: se si sfoderano prestazioni di così alto livello, ancorché non confortate dai risultati, significa che la stoffa c'è, il materiale, per quanto non eccezionale, è buono, talmente buono da consentire qualcosa di più di un crollo verticale come quello a cui stiamo assistendo impotenti. Sì, perché anche il discorso salvezza (non ancora raggiunta, lo ripeto) lascia il tempo che trova: una squadra che annovera nelle sue file tre potenziali nazionali azzurri (Perin, Antonelli, Gilardino), due giovani promesse nostrane (Bertolacci e Sturaro), nazionali stranieri e vecchi mestieranti che in categoria hanno sempre fatto il loro, beh, aveva il dovere di dare qualcosa di più.

                               Antonelli: uno dei tanti buoni giocatori della rosa genoana

ALZARE IL TIRO - Il tifoso genoano medio si è purtroppo abituato, quasi assuefatto, alla mediocrità e alla modestia di chi troppo spesso ha vestito la casacca rossoblù. Vi si è talmente abituato da credere che voi non siate poi tanto diversi da tanti mezzi giocatori avvicendatisi nel tempo in quel di Pegli: scarsi quelli, scarsi voialtri. E finisce col ripetersi come un mantra, per autoconvincersi, che "la salvezza c'è, di più non si può fare, quindi va bene così e anzi, è già un mezzo miracolo". E invece no, la rosa è da parte sinistra, massimo undicesimo - dodicesimo posto. Questo, quantomeno, sul piano del talento. Come "testa", evidentemente, non è la stessa cosa. Comunque, anche ammesso che abbiate considerato la salvezza come dato acquisito, perché abbassare la guardia? Perché non cercare di dare altre piccolissime soddisfazioni ai tifosi e a un ambiente di nuovo depresso e frustrato, dopo la breve felice parentesi dell'era Milito? Un piazzamento un tantino più prestigioso di un quindicesimo - sedicesimo posto, magari il tentativo di inseguire la zona delle teste di serie di Coppa Italia, o il primato cittadino a cui tutti, anche se in molti minimizzano, tengono follemente. 
IL GENOA NON E' UNA PROVINCIALE - Forse non ve ne rendete conto, ma la colpa è, certo, di chi non si è impegnato al massimo per farvelo capire: il Genoa non è un club come gli altri: è un simbolo. Sì, capisco, lo dicono tutte le tifoserie di tutte le squadre del globo terracqueo: la differenza è che questo è il club che ha, di fatto, "fondato" il football in Italia, è un pilastro, il più antico e più solido, dell'esistenza stessa del nostro calcio, è onusto di gloria, ancorché un po' impolverata. Quali altre società possono vantare radici, storia e palmarés simili? A fronte di tutto ciò, nessuno vi chiedeva ovviamente di dare l'assalto al decimo scudetto o a un piazzamento europeo,  ma di chiudere questa stagione  rimanendo sempre "sul pezzo" sì: era, ed è, sacrosanto pretenderlo. Giocare qui non è come giocare a Bergamo o a Verona, con tutto il rispetto: se non vi sentite psicologicamente pronti a onorare una maglia fra le più pesanti, se proprio non ne comprendete il significato, se credete di giocare per una provinciale come tante altre, beh, ragazzi, miei,  nessuno vi trattiene, tanto un ingaggio, grazie ai vostri procuratori, lo troverete sempre. 
CHIUDERE CON DIGNITA' - Sapete cosa si dice in città? Che perderete anche le ultime quattro gare, che avete la sconfitta scritta in faccia. Il sottoscritto, nell'ultimo post a voi dedicato, aveva affermato che fare esperimenti tecnico - tattici in vista del prossimo campionato non ha molto senso, nelle ultime giornate. Ecco, ora invece un significato a quest'ultimo mese di attività lo si potrebbe trovare: lottare e giocar bene, possibilmente facendo punti, non per cercare la conferma in rossoblù (il mercato rimescola le carte, sempre, a prescindere da quello che è stato il rendimento in campo durante la stagione) ma per dimostrare di essere calciatori completi, calciatori da Serie A: perché i calciatori di Serie A, quelli veri, non staccano la spina alla 30esima giornata, se hanno raggiunto un traguardo ne cercano subito un altro, e nello sport è facilissimo trovare nuovi stimoli e motivazioni. 
Tre anni fa, un Genoa anch'esso già salvo in anticipo chiuse il torneo dignitosamente, battendo tutte le aspiranti alla salvezza, nel segno di una rispettabile "par condicio" calcistica; voi fra qualche settimana vi troverete a dover affrontare, in rapida successione, Bologna e Sassuolo, che si stanno contendendo l'ultimo posto disponibile per sfuggire al precipizio. Ecco, battetele tutte e due, ne avete le risorse, e state pur tranquilli che nessuno avrà la faccia tosta di crocifiggervi perché, pur senza obiettivi reali di classifica, vi siete impegnati alla morte contro compagini che si giocavano la sopravvivenza sportiva. Fatelo, perché chiudere un campionato con otto k.o. di seguito o giù di lì, ve lo dico chiaro, cancellerebbe quanto di buono fatto fino a marzo: significherebbe ripartire da zero o quasi, fra mille incognite, nell'agosto prossimo. Significherebbe veder nascere nuovi dubbi anche sulla guida tecnica, perché nessun allenatore, nemmeno il più amato dalla piazza, nemmeno il più stimato dal presidente, può pensare di passare indenne attraverso due mesi di figure barbine. Un paio di vittorie e qualche punto in più di qui a maggio non cambieranno la storia del Grifone, certo; ma ne salvaguarderebbero l'immagine di ritrovata solidità e credibilità che si era raggiunta quest'anno, dopo i triboli e il navigare a vista del passato recente. Pensateci, tutti.

Con stima. 

sabato 19 aprile 2014

SANREMO 2014 NELLE CLASSIFICHE DI VENDITA: TRIONFA IL TRIO ARISA - RENGA - ROCCO HUNT

                                  Arisa; dalle charts una conferma all'exploit sanremese

Chi ha vinto e chi ha perso, davvero, a Sanremo 2014? La domanda non è per nulla peregrina, e fa riferimento ai risultati commerciali del festivalone, ossia ai riscontri ottenuti dalle varie proposte... rivierasche nelle classifiche di vendita e di download. Trascorsi quasi due mesi dalla fine della kermesse, è tempo di tracciare un bilancio: in mancanza di dati numerici concreti (che darebbero la misura effettiva del successo o buco nell'acqua della produzione lanciata all'Ariston) non possiamo che far riferimento alle posizioni in hit parade nude e crude, registrate scrupolosamente settimana dopo settimana, fondandoci soprattutto sui dati della FIMI e, in seconda battuta, di iTunes. 
IN TRE SOPRA TUTTI - Chi ha fatto il pieno, dunque, nei negozi di dischi reali e digitali? Scorrendo le chart, emergono tre nomi, nitidamente, su tutti gli altri: Arisa, Rocco Hunt e Francesco Renga. In pratica, una sostanziale conferma dei verdetti delle giurie sanremesi: i due trionfatori di categoria e colui che, nella sezione Big, sembrava destinato a tagliare per primo il traguardo, trovandosi invece addirittura scaraventato giù da un podio che, probabilmente, lui stesso considerava poco meno che scontato. Nessuna sorpresa, dunque: stando ai resoconti della FIMI, dai giorni del Festival a oggi il singolo "Controvento" è risultato costantemente il più scaricato, fra quelli sanremesi, primo in classifica assoluto nelle prime due settimane e sempre fra i primi dieci fino a quindici giorni fa. Fra gli album, "Se vedo te" della deliziosa cantante lucano - genovese si è issato fino al terzo posto, e solo nell'ultima classifica disponibile è uscito dalla top 20, scendendo fino alla 27esima posizione. Un esito comunque lusinghiero, se si guarda ad altre uscite post festival, ma torneremo più avanti su questo tasto dolente... 
RENGA E HUNT A SCOPPIO RITARDATO - Gli album di Renga ("Tempo reale") e Rocco Hunt ("'A verità") sono usciti in ritardo rispetto al termine della kermesse, ma evidentemente gli appassionati hanno avuto la pazienza di aspettare: parlando sempre di dati FIMI, il cd dell'ex Timoria è balzato subito in testa (intendiamo sempre il primo posto assoluto, non solo limitatamente ai prodotti festivalieri) per poi scendere al terzo, ed è tuttora fra i primi dieci; exploit immediato anche per il giovane rapper (all'acqua di rose) campano: ingresso in classifica e subito gradino più alto del podio per due settimane, attualmente terza posizione. Entrambi i cantanti,  riguardo ai download, sono sempre stati i più immediati inseguitori di Arisa, pur senza mai riuscire ad agguantarla.
Più equilibrato il quadro fornito da iTunes (fonti: Soundsblog e Musicroom), con Hunt in linea di massima meno forte su entrambi i fronti (singoli e album), Renga da subito in testa fra i singoli (a Sanremo ancora in corso) per poi cedere il passo a "Controvento", rimasta in top ten fino a fine marzo, mentre fra gli album non c'è mai stato un vero duello fra la vincitrice effettiva e quello mancato, visto che fra i due si sono inseriti la raccolta "Sanremo 2014" e "Made in London" di Noemi, che nei primi giorni dopo la pubblicazione ha addirittura conquistato una effimera medaglia d'oro in questa graduatoria. 
BENE LA COMPILATION, MA POI... - Il riferimento all'album della rossa cantante romana (da me recensito una quindicina di giorni fa) e alla tradizionale compilation coi brani della rassegna canora ci consente di allargare il discorso a un fronte più ampio, per tentare di capire cos'abbia lasciato, questo quarto Sanremo made in Fazio, sul piano commerciale, oltre ai tre mattatori di cui sopra. Il panorama, diciamolo subito, non è dei più confortanti. Lusinghiero, questo sì, il riscontro della raccolta, che per ben quattro settimane ha occupato la prima posizione nella speciale graduatoria FIMI ed è tuttora in top ten, difendendosi discretamente anche in iTunes (che però mette le compilation assieme agli altri album, senza distinzioni).
Se invece l'analisi va a toccare i singoli artisti, solo in due hanno tenuto ostinatamente il mercato: proprio Noemi, che per FIMI ha iniziato in quarta posizione, è rimasta tre settimane in top 20 per poi scendere, e Giusy Ferreri, il cui disco "L'attesa" è uscito oltre un mese dopo Sanremo (come nel caso di Rocco Hunt) e si è subito piazzato nelle prime posizioni (quarto al 30 marzo) per poi perdere rapidamente quota: exploit brevi, ma comunque meglio di quanto siano riusciti a combinare gli altri "sanremaschi", per i quali la presenza nelle hit parade ha assunto i tristi connotati di una toccata e fuga.

                                               Rocco Hunt: bene in hit parade

FUOCHI DI PAGLIA - Le primissime settimane avevano fatto ben sperare: le chart erano state invase dai dischi lanciati e promossi in terra ligure. Dietro ai cantanti citati, per la FIMI ecco subito Francesco Sarcina in 16esima posizione e Giuliano Palma in 20esima, poi a seguire Rubino, la nuova proposta Zibba, De Andrè Jr, la Ruggiero, il "reprobo" Sinigallia (squalificato nella gara canora, lo ricorderete), Frankie Hi NRG e i Perturbazione, tutti entro i primi quaranta, oltre i quali ha per me poco senso segnalare i piazzamenti, in un mercato già di per sé fortemente asfittico come quello italiano. Gli stessi nomi, con in più Ron e Gualazzi, nell'analoga graduatoria iTunes. Ma, come detto, è stato un fuoco di paglia: quasi tutti i citati sono ben presto scivolati oltre la top 20 e ancora più giù.
CONSIDERAZIONI FINALI - Cosa si può dedurre, come conclusione generale, da questa ridda di numeri e di piazzamenti? In ordine sparso: 1) Fazio e Pagani hanno voglia a portare avanti la loro idea di un Sanremo diverso, per certi aspetti, anzi per molti aspetti, assolutamente sacrosanta, ma l'anima del Festivalone è essenzialmente pop, glamour, e non è un caso che a spuntarla in classifica siano stati proprio gli artisti portatori di proposte più leggere, orecchiabili, radiofoniche. 2) Le buone affermazioni del trio Arisa - Renga - Hunt e la discreta tenuta di Noemi e Giusy Ferreri non sono però, secondo me, paragonabili agli ottimi exploit fatti registrare l'anno scorso da Marco Mengoni, per mesi e mesi mattatore delle classifiche, e da Max, Gazzè, che grazie a Sanremo 2013 ebbe un clamoroso ritorno di fiamma di popolarità. Accostabile a quei boom forse solo il buon esito di Rocco Hunt, che tuttavia dovrà essere valutato sul lungo periodo ma che, già fin da ora, pone il rapper con la faccia da bambino in una posizione da futuro "big" sanremese. Però, ecco, se televisivamente e qualitativamente Sanremo 2014 ha segnato vistosamente il passo rispetto all'edizione di dodici mesi prima, le hit parade non hanno potuto che certificare questo stato di difficoltà.
IL CICLO DI VITA - 3) C'è un problema che si ripete tale e quale ormai da diversi anni, all'indomani della kermesse ligure: eccetto pochi nomi, per conteggiare i quali bastano e avanzano le dita di una mano, gli altri dischi "made in Sanremo" hanno un ciclo di vita brevissimo, nelle charts: entrano, magari anche in posizioni ragguardevoli, ma poi, come abbiamo visto, precipitano rapidamente e scompaiono dagli schermi. Su questo punto i futuri organizzatori del Festival e le case discografiche dovranno interrogarsi, io al momento non trovo risposte esaustive. Dall'Ariston, anche in questi ultimi avventurati anni, sono uscite spesso proposte di pregio, eppure queste proposte durano lo spazio di un mattino e vengono rapidamente scavalcate da altri prodotti che, con poche eccezioni, non le valgono sul piano della qualità: possono forse contare su più efficaci canali promozionali? Oppure la matrice sanremese rappresenta un assurdo handicap legato a luoghi comuni che dovrebbero essere superati, visto che la gara ligure si è ormai "attualizzata", proponendo cast in buona misura al passo coi tempi e variegati, nonché esplorando generi diversi e affiancando veterani di spicco ad emergenti di assoluto interesse? 

domenica 13 aprile 2014

IL GENOA CHE LAVORA PER IL FUTURO E AFFONDA NEL PRESENTE: COSI' IL GRIFONE E' DI NUOVO UN REBUS

                                                 Gilardino: altro gol inutile

Virtualmente salvi, certo. E' vero che la sicurezza matematica non c'è ancora, ma la classifica sanno leggerla tutti, così come l'andamento lento di chi sta sul fondo. Insomma, bene, bravi, bis, ma, cari ragazzi del Genoa Cfc, la vita, anzi il campionato, continua. Eppure non sembrerebbe, perché il Grifone non c'è più. Sotto la patina di proclami bellicosi e ottimisti da parte dei giocatori (durante la settimana e lontano dal campo, preferibilmente in occasione di fiere, feste e/o manifestazioni assortite, o meglio ancora via Twitter...), sotto l'ingannevole velo di autocompiacimento per le incoraggianti prestazioni sfoderate contro grandi (Juventus) o ex grandi (Milan), c'è una cruda realtà fatta di cinque sconfitte nelle ultime sette gare, di tre k.o. consecutivi nelle ultime uscite, e di un finale di gara da... radiazione dall'albo del calcio, nella sciagurata trasferta in casa del Torino. 
REBUS - Il ruolino di marcia recente dovrebbe già essere sufficiente a gettare acqua sul fuoco dei fin troppo facili entusiasmi. In realtà il Genoa è di nuovo un rebus. Un rebus diverso da quello, amarissimo e indigesto, delle ultime stagioni, vissute nel segno della modestia tecnica e sul filo del precipizio, ma pur sempre un mistero. Scrivo a caldo, dopo l'assurda sconfitta dell'Olimpico torinese. Assurda ma non sorprendente, per chi conosce bene pregi e difetti rossoblù; non si contano, infatti, i punti persi quest'anno dalla squadra di Gasperini negli ultimissimi minuti di gioco, quando non in pieno recupero: prima di oggi ci sono state la punizione in extremis di Pirlo, il rigore in extremis di Paloschi e, andando a ritroso, le prodezze in extremis dell'Atalantino De Luca e del cagliaritano Sau: vittorie o pareggi che, nel giro di pochi secondi, gli ultimi a disposizione degli avversari, si sono trasformati in cocenti sconfitte. 
Basterebbe questo a delineare un chiarissimo problema di tenuta mentale della squadra, che non è quasi mai in grado di gestire un vantaggio minimo o comunque una situazione di favore; non è in grado di far girare la palla, di tenere ritmi bassi, di spezzare il gioco, di stringere le maglie difensive, oppure di continuare ad aggredire gli avversari, di pressarli per tenerli lontani dall'area; non è in grado, alle corte, di mantenere fino in fondo quel pizzico di concentrazione necessaria a non passare, nel giro di un minuto, da uno 0-1 a un 2-1: quella solidità mentale che qualsiasi compagine di Serie A, anche la più rabberciata, dovrebbe avere. Come sia stato possibile consentire a Immobile e a Cerci, fino a quel momento inconsistenti, di arrivare al tiro con tale irrisoria facilità nei concitati istanti finali, rimarrà un mistero ben poco gaudioso.  Non è questione di fortuna: le partite durano 90 minuti più recupero e vanno giocate fino in fondo, segnare negli ultimi secondi vale esattamente quanto farlo al 13', al 27' o al 73'. 
TRAGICOMICO - Cose da Genoa, dicono i tifosi. Balle: sono, semplicemente, cose da squadre immature, modeste, lacunose. Però pensavo di non doverle più vedere, certe scene tragicomiche. C'è un precedente che solo chi è dotato di memoria di ferro può ricordare: un Treviso - Genoa, in Serie B, torneo 1997/98: liguri  che arrivano in vantaggio di un gol al novantesimo e che, al termine dei tre minuti di recupero, si ritrovano scavalcati e sconfitti con lo stesso punteggio di poche ore fa. Ma quello era un  Genoa in gravi ambasce, il Genoa che Spinelli aveva ceduto a Gianni Scerni, avviandone un quinquennio da incubo sul piano calcistico e finanziario. Quello di oggi è un club discretamente solido (checché ne dicano i profeti di sventura in servizio permanente effettivo sui giornali, personaggi che si atteggiano ad esperti economisti senza avere la necessaria competenza specifica), con una rosa di giocatori di buon livello, alcuni addirittura nazionali, altri che nelle  varie rappresentative ci sono stati nel passato, altri ancora che vantano curricula di tutto rispetto. Eppure, l'approccio è troppo spesso troppo soft, accademico, privo di "garra", come si dice in Sudamerica. 

                           Immobile: lontano da Genova si è riscoperto bomber inesorabile

QUALE SUPREMAZIA CITTADINA? - Hai voglia a cianciare di supremazia cittadina: questa squadra è riuscita nell'impresa di farsi recuperare dalla Samp la bellezza di nove punti, a far data dall'esordio di Mihajilovic sulla panchina blucerchiata. Nulla è compromesso, ma il trend a questo punto pare purtroppo ben definito. La squadra non reagisce, poche storie, e manca di concretezza, di cattiveria: quando gioca bene spesso e volentieri perde, quando gioca male perde sempre e comunque. Sul Genoa in versione Gasperini mi sono più volte espresso in termini lusinghieri, il blog me ne è testimone: ma nell'ultimo post sull'argomento, dopo l'ingiusto capitombolo con la Juventus, avevo anche ammonito che un futuro di buon livello non può essere edificato sulle "gloriose sconfitte", che per crescere occorre mantenere intensità agonistica e di gioco, trovare cattiveria e pragmatismo anche nelle partite in apparenza più abbordabili. Mentalità da squadra adulta, in sintesi, e ovviamente risultati, perché, non è un mistero, vincere aiuta a vincere, crea entusiasmo e convinzione; altrimenti, concludevo, il radioso futuro vagheggiato dai tifosi è destinato a rimanere una mera ipotesi, e nulla più. 
IMMATURI - Ecco, al momento le cose non hanno preso una piega diversa da quella temuta. Il Genoa, domenica dopo domenica, si sta confermando squadra immatura, incostante, inaffidabile, troppo preda di sbalzi di umore e di vuoti di memoria, di ripetuti black out agonistici, per poter ambire a un salto di qualità. Dopo alcune prove positive, si affloscia come un soufflé mal cotto, si adagia su inesistenti allori. Può darsi che, in questo senso, Gasperini e la società stiano avendo le risposte che desideravano: si lavora per il futuro, è il leit motiv di queste ultime settimane. Il tecnico, si è scritto, userà le ultime gare della stagione per mettere alla prova tutti gli elementi della rosa, anche quelli che han giocato meno, per vedere chi meriterà la conferma e chi no. Sarà. Fosse davvero così, gli esiti fin qui emersi non sono incoraggianti: senza i lungodegenti Antonini, Matuzalem e Kucka, senza le prodezze sotto porta di Gilardino e quelle fra i pali di Perin, questo è un team che pare davvero in balìa degli eventi, leggerino tatticamente e caratterialmente, nel quale i tanti giovani promettenti non trovano adeguato sostegno in veterani fuori giri (su tutti Burdisso, accolto come un dio e fin qui autentica delusione del mercato invernale: altro che nazionale argentina...). 
PRESENTE E FUTURO - Ma poi, ha senso sperimentare a campionato in corso, col rischio di smarrire coesione, linearità tattica e consistenza qualitativa, collezionando figure barbine? Il Grifone aveva già destato indignazione per l'orrendo secondo tempo del Bentegodi con l'Hellas, ma oggi ha toccato il fondo, avendo evidentemente creduto che il gol di Gila rappresentasse il triplice fischio dell'arbitro. Tutto questo sarebbe accettabile se fosse la garanzia dell'esistenza di un vero progetto per il 2014/2015: ma è lecito attendersi una cosa del genere, da una società che negli anni ha avuto proprio negli stravolgimenti di mercato il suo tratto distintivo?
E' pur vero che a partire dall'estate scorsa qualcosa è cambiato, pare esserci una strategia un po' più lineare, una volontà di costruire qualcosa di più solido e duraturo, e Gasperini sembra davvero voglia farsi garante di un discorso a lunga scadenza, ma nel calcio di oggi, soprattutto per realtà medio piccole come quella genovese, parlare di giocatori sotto esame per il futuro, dire "vediamo come gioca questo, e se va bene ce lo teniamo" non ha molto senso: i calciatori vanno e vengono quasi a loro piacimento, basta un procuratore un po' insistente o una società un po' più danarosa che bussa alla porta, ogni stagione occorre ricominciare quasi daccapo. Questo vale a maggior ragione per i campioni: che senso avrebbe, ad esempio, pensare di costruire qualcosa attorno a Perin e a Gilardino (sperando caldamente che restino, sia chiaro), quando nemmeno la Juve è sicura di poter trattenere Pogba e Vidal?  Tutto questo, sorvolando sul fatto che non è comunque dalle gare di fine stagione, senza grossi traguardi in palio, che è possibile valutare la reale caratura di un pedatore. 
Insomma, sia nelle stanze societarie, sia in panca, sia in campo, questo finale di stagione andava, anzi, va gestito diversamente, con più realismo e minore "strabismo", nel senso che non credo sia impossibile tenere un occhio alle esigenze di prospettiva e un altro occhio a quelle immediate. Il campionato va onorato fino in fondo. Non ci sono più stimoli? Allibisco. Tre anni fa era bastato poco: a salvezza raggiunta, Preziosi chiese di battere tutte le squadre in lotta per non retrocedere (Brescia, Lecce e Samp), in modo tale da non creare sospetti o anche solo dubbi sull'impegno dei rossoblù, e i ragazzi di Ballardini eseguirono, diligentemente. Quest'anno il piccolo derby cittadino non basta, come motivazione? 

venerdì 11 aprile 2014

RECENSIONI DISCOGRAFICHE: "MADE IN LONDON", L'EASY LISTENING DI NOEMI


Se il rinnovamento e il rilancio della musica italiana passano anche da una riscoperta della semplicità, intesa soprattutto come orecchiabilità delle proposte, di questo rinnovamento Noemi può essere a buon diritto considerata come una delle più convincenti e lineari portabandiera. Il suo album post Sanremo "Made in London" è il manifesto di una certa nouvelle vague in parte ancora grezza, da smussare in diversi angoli, eppure già emblematica della strada che dovrebbe intraprendere la canzone nostrana. La rossa cantante romana ha ormai sposato una linea artistica ben precisa: del resto lo si era già intuito un paio di anni fa, quando sul palco dell'Ariston lanciò "Sono solo parole", ossia il classico motivo tormentone dal ritornello martellante, per quanto ammantato di una veste discretamente sofisticata, una di quelle canzoni che ti si piazzano in testa e ci rimangono anche a distanza di anni. 
"Made in London" prosegue nel solco di quella felice hit del 2012. Con più consapevolezza compositiva, almeno in parte, di certo con maggior ricchezza negli arrangiamenti, ma il tratto distintivo è quello. Easy listening rielaborato in chiave contemporanea, pezzi da classifica senza pretese intellettualoidi. C'è bisogno di vera musica leggera, di cantabilità, e Noemi ci prova, in questo disco, spesso con risultati apprezzabili. Durante l'ultimo Sanremo avevo scritto di "Bagnati dal sole", il brano con cui era giunta in finale alla rassegna rivierasca: struttura essenziale e anomala per le nostre abitudini, strofa brevissima e ritornello lungo, invasivo, accattivante. Ecco, era l'esaltazione all'ennesima potenza del pop da primo ascolto, di ciò che si può comunque ritrovare in larga parte delle tracce del nuovo cd, che non a caso si apre "col botto", ossia con due brani, "Acciaio", e "Sempre in viaggio", dalle devastanti potenzialità radiofoniche: non a caso il primo venne scelto come anteprima scaricabile per lanciare il disco, e il secondo può senz'altro diventare il singolo della stagione calda.
La full immersion londinese alla base della nascita di quest'album, in tutta sincerità, non ha portato novità sconvolgenti, se non, appunto, una più marcata aderenza ai canoni stilistici che caratterizzano molti dei grandi successi internazionali d'oggidì: in particolare, massiccio, onnipresente, è il ricorso ai cori "trascina platea", di quelli costruiti apposta per creare coinvolgimento collettivo nei momenti caldi dei live. Una internazionalizzazione che però non significa negazione delle radici musicali italiche: la citata Noemi di "Sono solo parole" fa ancora capolino, soprattutto in brani come " Se tu fossi qui" e "Alba": più tradizionalmente melodico il primo, che sarebbe stato adatto per un Festival di Sanremo da affrontare senza rischi e senza pretese "sperimentalistiche", più etereo e rarefatto il secondo, nel quale oltretutto Veronica cerca di esplorare nuovi orizzonti vocali, toccando registri più soffusi. Atmosfere vagamente retrò possono ritrovarsi anche in "Passenger", esperimento in lingua inglese dall'arrangiamento scarno, di natura prettamente orchestrale, mentre le potenzialità soul - jazz - funky della cantante emergono appieno in "Don't get me wrong", la traccia più... saporita, per ritmo e sonorità, dell'intero album. Qualche episodio meno convincente nella seconda parte del disco, dove, a parte la già menzionata "Alba", riemerge dall'anonimato sanremese "Un uomo è un albero", dalla costruzione non banale. 
In tutte le tracce, anche in quelle meno riuscite, emerge il pregio di aver trovato la formula per l'impatto immediato. La voce calda di Noemi mantiene intatto il suo fascino, ma la sensazione è che non sia stata ancora utilizzata al 100 per 100 delle sfumature, mentre c'è senz'altro da lavorare sui testi, decisamente poco elaborati, tanto da dare, a volte, la sensazione di avere secondaria importanza rispetto all'impianto musicale, quasi fungessero da semplice riempitivo: non si pretendono elucubrazioni tipiche di certo pretenzioso cantautorato, ma qualcosa di meglio di versi come "non vuoi sentirti fragile, non vuoi sentirti mai" (ma che significa, oltretutto, "non vuoi sentirti mai?) dovrebbe essere alla portata. Resta un album da chart,  e resta la convinzione che l'esplosione di artiste come Noemi (o come Mengoni, ma qui si sta parlando della "rossa" Veronica) da sola basti a legittimare l'esistenza dei tanto discussi talent show. 

mercoledì 2 aprile 2014

GIASS: PROGRAMMA VECCHIO CHE, OGNI TANTO, FA BUON BRODO. L'IMMUTABILE RICCI DI SEMPRE


Certo non si può dire che "Giass" sia una trasmissione che divide pubblico e critica. L'uno e l'altra, infatti, l'hanno già bocciata a stragrande maggioranza: gli esiti dell'Auditel e buonissima parte delle recensioni parlano chiaro, in proposito. Non mi va di unirmi al coro del "dalli a Ricci", e non certo per il gusto di fare il bastian contrario: semplicemente, e al di là di quella che sarà la  sorte di questo nuovo prodotto televisivo (cancellazione per bassi ascolti?), non mi è parso così terribile come in molti l'hanno disegnato. Un programma dalle aspirazioni comico - satiriche che riesce a strapparmi qualche sorriso (non parliamo di risate, per carità), per quanto mi riguarda merita già un pizzico di benevolenza "a prescindere", ma guardiamo oltre. 
VECCHI SCHEMI - Il problema dell'accoglienza fredda, quando non acida, riservata a "Giass" va analizzato innanzitutto in una duplice prospettiva: ciò che il pubblico si aspetta da una trasmissione, e come questa trasmissione viene presentata da chi l'ha creata e dall'emittente che la propone. Il primo errore nel concepimento e nella gestione dell'operazione "Giass" sta proprio in quest'ultimo punto: se n'è sbandierata ai quattro venti mediatici la carica innovativa di format moderno e politicamente scorretto, quando invece si tratta di un prodotto sostanzialmente vecchio: vecchio nella scrittura, nella scelta delle tematiche, nel cast, nelle scalette. Non vi è nulla di innovativo, né si può dire che la satira proposta sia particolarmente spiazzante, né cattiva e urticante come altri, su altre emittenti, riescono a fare con minor grancassa pubblicitaria (avete mai visto la sequenza finale di vignette di Makkox a Gazebo, Rai Tre a tardissima ora? Spartana, eppure caustica e incisiva). 
RICCI IMMUTABILE - In "Giass" c'è tutto Antonio Ricci, c'è il "solito" Antonio Ricci. Il quale, anche se non lo ammetterà mai, non inventa alcunché di nuovo dalla fine degli anni Ottanta, da Odiens e Striscia la notizia. Gli stilemi narrativi, la filosofia di fondo, la costruzione delle sue "creature" sono da allora più o meno sempre le stesse, con le ovvie, ma minime, variazioni dovute alla diversa natura dei vari programmi (varietà, contenitore comico, tg satirico...).  Non si parla, ovviamente, solo delle risate registrate, che del resto venivano usate dalle sitcom americane, per sottolineare battute ritenute particolarmente meritevoli, ben prima che l'autore ligure le portasse in Italia ai tempi del Drive In. La satira è sviluppata secondo le medesime modalità di Striscia: ossia senza affondare particolarmente i colpi, se non in rare eccezioni (la Ferilli - Raffaele divorata dal tarlo della mancata convocazione alla notte degli Oscar, o anche le "eccellenze contadine" italiane con Pietro Pacciani e Michele Misseri in primo piano: perfidia ai confini col cattivo gusto, il che è però caratteristica di tanta altra satira...). Quando si superano i limiti del politicamente corretto, accade solo grazie a qualche guizzo di Luca e Paolo, la cui canzone sui marò, per dire, è molto più tagliente di quanto possa sembrare a un primo ascolto. 
LUCA, PAOLO E VIRGINIA - Ecco, Luca e Paolo: sono loro l'autentico valore aggiunto, sono loro che consentono a Giass di assumere vesti un po' più fresche, di attenuare il sapore di deja vu. Anche da parte dei due genovesi poche novità (il successo pop riscritto in chiave ironica venne già lanciato qualche anno fa a Sanremo, con "Ti sputtanerò" dedicata a Berlusconi e a Fini), ma aggrapparsi a "modalità operative" già collaudate non è una colpa: tengono il palco con disinvoltura, la conduzione è sufficientemente spigliata, non ci sono passaggi a vuoto e la battuta buona per ogni circostanza è sempre lì, pronta a sbocciare. E poi la finta fiction "I Parioloni" è davvero una piccola perla, dissacrante al punto giusto, amaramente divertente. Continua, semmai, ad essere troppo ridotto lo spazio riservato a Virginia Raffaele (anche a Striscia fu una toccata e fuga), una che avrebbe le idee e il talento per sparigliare davvero le carte dello spettacolo: godibili le "cartoline" in esterno nei panni dei suoi personaggi più gettonati (ieri, a parte la Ferilli, il ritorno di Ornella Vanoni), ma la sua verve ne risulta un po' limitata. 

                                        Virginia Raffaele, sempre poco sfruttata
     
SATIRA MORBIDA - C'è molto Ricci e c'è molto di "Striscia", dicevo: e poiché l'uno e l'altra sono in calo di popolarità da anni, risulta fin troppo ovvio che Giass fosse atteso coi fucili spianati e con uno scetticismo preventivo. Ho spesso trovato le critiche a Ricci pretestuose. Esempio: satira troppo all'acqua di rose, soprattutto nei confronti dei politici e soprattutto nei confronti dei politici vicini al "padrone di casa". A parte che le accuse di... dispar condicio sono prive di fondamento (per un Berlusconi "lisciato" con parodie tipo "Cavaliere mascarato" c'era il D'Alema del fu-fu, per dire: morbide entrambe, ma parità perfetta) ma è più o meno da vent'anni che le sue trasmissioni hanno questo tratto stilistico: quello di non infilzare ma solo di punzecchiare, quello di fare una comicità da cassetta, da "un morso e via", fast food, più di stampo "zelighiano" che non da Avanzi o Pippo Chennedy. 
La verità è che Giass, nonostante tutto, regge bene l'impatto con lo schermo: detto dei due presentatori e di Virginia, il ritmo generale è buono, qualche sorriso arriva, l'idea della gara fra macro-regioni offre momenti di stanca ma anche qualche spunto degno di nota: ad esempio la proposta di video divertenti creati da utenti di You Tube (spettacolare quello dei "gay ingenui" con Cecchi Paone). C'è qualche cascame di troppo ripreso da Striscia, ma se, ad esempio, serve a rilanciare la galleria del parentame illustre che alberga in Rai, delle varie figliolanze berlingueriane e augiasiane, beh, ben venga comunque, perché certe cose non vanno mai dimenticate. 
CARUSO E LUOTTO, CHE TRISTEZZA - La vena comica è presente, pur fra alti e bassi, grazie ai volti noti del cabaret fininvestiano. Ha fatto tenerezza il ritorno di Gaspare senza il povero Zuzzurro: lo sketch di ieri era quello che era (mediocre assai, diciamolo pure) ma era comunque importante rompere il ghiaccio e intraprendere un nuovo percorso, cominciare a reinventarsi per andare avanti dopo la perdita del compagno artistico di una vita. Non è dunque detto che "vecchio" e "già visto" siano forzatamente caratteristiche negative, però non bisogna esagerare: con tutto il rispetto, Pino Caruso ed Andy Luotto sono davvero fuori tempo massimo, il primo legato a una comicità talmente in punta di spillo da risultare demodé, costruita per uno spettatore assai meno pretenzioso di quello attuale, il secondo perché, semplicemente, non fa ridere, e deve la sua fin troppo prolungata fama alla luce riflessa di Renzo Arbore, che ha avuto il merito (o demerito?) di creare dal nulla tante carriere superiori ai meriti. 
Le cose davvero poco digeribili di Giass sono, a ben vedere, marginali rispetto alla struttura del programma: il martellante battage che, sera dopo sera, porta avanti "Striscia la notizia" (ho sempre odiato queste sinergie fra trasmissioni, a maggior ragione insopportabili quando l'autore è il medesimo e quindi si fa autopromozione) e l'inutile ricorso al televoto per la gara nord - centro - sud, una "disfida" la cui funzione poteva esaurirsi tranquillamente nelle due ore di messa in onda, senza appendici telefoniche lungo la settimana (ma poi, seriamente, quanti saranno gli italiani che comporranno il numero per votare?).