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domenica 26 maggio 2013

CHAMPIONS LEAGUE: BAYERN CAMPIONE IMPERFETTO, LA LEGGENDA E' ANCORA LONTANA

                                             Robben e Heynckes, eroi a Londra

Troppo banale sarebbe raccontare la finale di Champions League 2013 puntando tutto sulla favola di Robben, il fuoriclasse a metà condannato sistematicamente a fallire gli appuntamenti con le gare della vita fino a quando ieri sera, a un minuto dai supplementari, un benevolo folletto è balzato fuori dalla soffice erba del nuovo Wembley Stadium e ha accarezzato il suo piede sinistro, per un ciabattata che ha indirizzato docile il pallone nella rete dell'impietrito Weidenfeller. Un cenno era dovuto, ma, se di favole si deve parlare, personalmente preferisco quella di Jupp Heynckes, allenatore mai troppo reclamizzato ma che, più o meno silenziosamente e pur fra qualche pausa, è ai vertici del calcio europeo da almeno venticinque anni. Era già sulla panchina del Bayern (un Bayern competitivo, come quasi sempre, ma non scintillante come quello odierno) quando ancora andavo alla scuola dell'obbligo, negli anni Ottanta, e oggi, che mi sto avvicinando alla soglia dei quaranta, lui è ancora là, e come il vino è migliorato col passare dei lustri e dei decenni. 
CONCRETEZZA - Al di là di queste romanticherie e delle digressioni personali, la sfida londinese ha detto almeno un paio di cose significative. La prima: quando un'ottima squadra, potenzialmente una grande squadra, si trova a dover affrontare in partita secca una corazzata con le stimmate del team destinato a dominare per diversi anni, ha l'obbligo di sfruttare al massimo i momenti di superiorità tecnica, tattica e atletica, e di concretizzare le occasioni che riesce a costruire. Se non lo fa, la corazzata, per quanto in gravi ambasce, rimane in gara ed è pronta a riemergere, pronta ad assestare anche solo un paio di ganci al mento, ma devastanti, e portarsi a casa il trofeo. Pragmatismo e killer instinct, ci vogliono, altrimenti rimangono solo gli applausi e gli elogi. A questo pensavo, ieri sera, assistendo allo splendido primo tempo del Borussia Dortmund, a quelle violente folate offensive, allo spettacoloso Neuer, degno erede della scuola tedesca dei Maier e degli Schumacher, che si opponeva  inesausto alle bordate di Lewandowski e dell'ispiratissimo Reus, purosangue dalla falcata elegante, dal dribbling secco, prototipo del calciatore contemporaneo, rapido e scattante, fantasioso, autentico incubo per la retroguardia bavarese. 
IL "BRACCINO" DEL BAYERN - Bombardavano gli avversari, i gialli, ma senza cavare un ragno dal buco, dando respiro a un Bayern timido, frenato da blocchi psicologici che hanno radici lontane ma son duri a morire (quanto pesano le tante beffe in dirittura d'arrivo patite dal club in questa competizione!), e da giocatori come il sopra citato Robben, tanto bravi e inesorabili nelle fasi di approccio quanto, puntualmente, preda di inspiegabili "braccini" da tennista al momento di cogliere i frutti di quanto seminato in precedenza. Guardavo, e mi veniva spontaneo il paragone con un'altra finale di Coppa Campioni, giusto trent'anni fa: Amburgo contro Juventus ad Atene. Finale simile, perché anche allora c'era una compagine tutta stelle, quella bianconera Mundial, contro una buonissima squadra tedesca (però inferiore al Borussia attuale): anche allora la compagine tutta stelle girò in folle, non trovò il bandolo della matassa, con la differenza che l'avversaria fu implacabile nello snudarne i limiti psicologici e nel finalizzare, in avvio, una delle poche occasioni create (ricordate il maligno tiro di Magath che beffò Zoff?), rivelatasi alla fine decisiva. 
CALCIO D'ALTO LIVELLO - Concretezza, dunque. La differenza fra le due massime espressioni attuali del calcio teutonico è stata tutta qui, laddove si pensava che la classe superiore dei rossi, la loro maggior completezza, l'esperienza agli alti livelli, avrebbe finito con l'indirizzare chiaramente l'esito del match. Così non è stato: si è trattato di una finale equilibrata, fin quando le risorse mentali e atletiche hanno sorretto il team di Klopp; una gara che fino a dieci minuti dalla fine non si è sbilanciata né da una parte né dall'altra, con alterni momenti d supremazia e occasioni, tante occasioni, per entrambe le compagini. Una degnissima finale, una delle più godibili alle quali abbia assistito in vita mia (e seguo il calcio, grosso modo, dalla metà degli anni Ottanta...). Dicevamo del Borussia, di un Reus nuova star del calcio internazionale, ma anche di un Blaszczykowski stantuffo inesauribile sulla destra, di un Lewandowski attaccante completo e dalle innumerevoli soluzioni di tiro, di un centrocampo mobile e aggressivo che ha avuto in Bender uno degli interpreti più continui, di una difesa attenta in Subotic e miracolosa nel poco reclamizzato Weidenfeller. 
RIBERY INTRAMONTABILE - E il Bayern? Ha vinto la meno convincente delle sue partite internazionali targate 2013. Ha vinto grazie a un inappuntabile Neuer, lo si è detto, a un Mandzukic che dal brillante Euro 2012 non ha più arrestato la sua crescita, spesso nascosto nelle pieghe del match per poi spuntare fuori con acuti vincenti, a un Martinez non sempre lucido ma comunque costantemente nel vivo della zona nevralgica. Su tutti, un Thomas Muller eclettico, generoso, pungente e un Ribery sensazionale, uomo ovunque in straripante condizione fisica (come già si era intuito al Nou Camp), capace di essere decisivo nelle due fasi, di correre a coprire e poi di spingere con proprietà. 
ROBBEN MEGLIO DI... DEL PIERO - Su Robben mi son già parzialmente espresso: giustamente uomo del match, secondo i criteri delle federazioni internazionali che, per ovvie ragioni... mediatiche, più che premiare gli uomini tatticamente più importanti incoronano quelli decisivi per gol e assist. Ecco, l'olandese ha scodellato il cross per l'1 a 0 ed è andato a segnare, con un tocco sporco, il punto del trionfo. Prima, però, anche un paio di gol clamorosamente falliti, come gli era capitato già nella finale mondiale di Sudafrica 2010 e in altre sfortunate circostanze. Merita dunque l'elogio pieno, e meritava questo improvviso... assentarsi della malasorte. Di certo è stato più fortunato di Del Piero, altro... perdente di successo, un altro giocatore sublime che ha fallito tanti match "della vita" senza aver mai avuto l'occasione di ergersi, almeno una volta, a eroe unico, a mattatore assoluto, a "hombre del partido". 
PER LA LEGGENDA CI VUOL ALTRO... - Ma la finale di Wembley (a proposito, perché due volte a Londra nel giro di tre anni?), ha detto un'altra cosa importante: ci si attendeva la consacrazione del Bayern Monaco a potenziale erede dei leggendari del Barcellona (che comunque, segnatevelo, non sono ancora finiti...). La consacrazione non c'è stata, perché per essere tale doveva passare attraverso una clamorosa dimostrazione di forza, o quantomeno una prova convincente a tutto tondo. Non è avvenuto: per cominciare ad addentrarsi nella leggenda, non basta vincere una Coppa dei Campioni, e sopratutto non basta vincerla come ha fatto il team di Heynckes: che ha meritato il successo, ma lo ha raggiunto sbagliando totalmente l'approccio iniziale alla gara, venendo di fatto graziato da avversari inesperti e generosi, mancando a tratti clamorosamente nella continuità d'azione, quella con cui aveva raso al suolo Juventus prima e Barcellona poi. Un Bayern normale, tutt'altro che scintillante, persino fragile psicologicamente, però solido e comunque aiutato dagli avversari a non crollare. Concreto, ecco, come si diceva all'inizio. Degni campioni d'Europa, insomma, ma per il mito occorrono altre conferme. 

venerdì 24 maggio 2013

GENOA, BILANCIO STAGIONALE: GENNAIO SALVIFICO. BORRIELLO, PORTANOVA E BERTOLACCI I CALIFFI

                                  Borriello: da lui gol pesanti per la salvezza rossoblù

Stranezze del calcio. Al termine della sua stagione più oscura, spinosa e accidentata dal ritorno in Serie A nel 2007, una stagione costellata di momenti tecnici imbarazzanti, rari bagliori di calcio accettabile e sconfitte anche umilianti, il Genoa ha conquistato la salvezza con un turno di anticipo sulla fine del torneo, e, ciò che più stupisce, 90 minuti prima di quanto fosse riuscito a fare dodici mesi fa, quando solo il successo in extremis sul Palermo, a porte chiuse, mise in sicurezza la traballante classifica rossoblù. Posso garantire che solo pochi inguaribili ottimisti, qui sotto la Lanterna, sarebbero stati disposti a scommettere su una conclusione simile. Troppi segnali facevano pensare alla classica annata storta, di quelle in cui se giochi bene perdi o pareggi, se giochi male perdi, senza tanti giri di parole. E, poiché il Grifo di quest'anno ha giocato molto più spesso male che bene, il destino pareva segnato.
VERDETTO INECCEPIBILE - Il verdetto, però, è sostanzialmente giusto. Parlano soprattutto i numeri, che sono pietre: il Genoa ha chiuso con sei punti di vantaggio sulla terz'ultima, il Palermo, e otto sulla penultima, il Siena. Le due avversarie più irriducibili dei liguri si sono sgonfiate sul finale: quattro sconfitte consecutive per i rosanero, addirittura sei per i toscani, che ora non possono neppure più accampare l'alibi che senza i sei punti di penalizzazione a salvarsi sarebbero stati loro (alibi tirato in ballo da alcuni commentatori con un eccesso di zelo davvero sgradevole nel momento in cui le distanze fra le tre erano quasi azzerate). Come già sottolineato in altre circostanze, se una penalità era stata inflitta, era presumibilmente meritata, e storicamente accade che partire ad handicap spinga spesso la squadra sanzionata a incrementare il proprio rendimento: come dire, senza quei sei punti in meno, siamo così sicuri che il Siena avrebbe messo così tanto fieno in cascina? 
Risibili anche le lamentazioni degli sconfitti su torti arbitrali e su facilitazioni di calendario per il Genoa in dirittura d'arrivo: è vero, agli uomini di Ballardini sono toccati, nel momento decisivo, un Chievo virtualmente salvo e un Pescara in totale disarmo, oltre a un Torino col quale convergenti interessi di classifica han portato a uno scontatissimo nulla di fatto (non il massimo della sportività, l'ho scritto nel recente post dedicato al Verona a proposito del match promozione con l'Empoli, ma ribadisco che il calcio nostrano propone ben altro di cui scandalizzarsi). Le "grandi" con cui si è dovuto scontrare il Palermo nel corso del rush finale, il Genoa le aveva però incrociate prima, nel loro momento migliore, e da quegli scontri era uscito con le ossa rotte per una ostilità arbitrale palese, che raggiunse il culmine nella grottesca partita col Milan. E riguardo alla presunta morbidezza del Pescara in quel di Marassi, perfettamente in linea con quella mostrata dagli abruzzesi in tutto il loro indecoroso girone di ritorno, non è stata dissimile da quella della Sampdoria nello scontro casalingo con il team di Sannino, anzi, forse i biancazzurri hanno perfino opposto un po' di grinta in più. 
DISASTRO RIMEDIATO A GENNAIO - Una parentesi che era doverosa, giusto per sottolineare come l'esito finale della bagarre salvezza non possa, in buona sostanza, prestare il fianco a dubbi o recriminazioni di sorta da parte di chi ne è uscito perdente. Messi i puntini sulle i, veniamo alle dolenti note di casa rossoblù. Altro torneo deficitario, dopo gli inattesi patimenti dell'anno passato, e ciò è inaccettabile, perché significa che i grossolani errori commessi nel 2011/12, errori di impostazione della squadra in sede di mercato e di gestione della stessa in corso d'opera, hanno insegnato poco o nulla a chi di dovere. 
Ma... c'è un ma, di cui mi sono già occupato in un post apposito: a gennaio Preziosi e la dirigenza si sono... rimessi sulla retta via: hanno, cioè, posto rimedio ai guasti prodotti con un mercato estivo condotto all'insegna del più assoluto empirismo, facendo finalmente scelte tecniche e tattiche razionali, colmando buona parte delle lacune d'organico, innalzando il modestissimo tasso qualitativo della rosa e iniettando nell'animo spaurito e smarrito dello spogliatoio una bella dose di esperienza e personalità, quella "cazzimma" assolutamente fondamentale per non lasciarsi travolgere dai gorghi dei bassifondi. Gli arrivi di Portanova, Manfredini e Matuzalem hanno rappresentato la sintesi ideale di questa politica: gente ricca di mestiere, adusa alle corrusche battaglie della bassa Serie A, ma anche gente con cuore, polmoni e piedi discretamente educati. Questi tre giocatori sono stati fondamentali, pur con gradazioni diverse, nel raggiungimento del traguardo: per il loro rendimento, e perché la loro presenza ha stimolato una decisiva reazione in un gruppo dall'encefalogramma piatto. 
IL MISTERO CASSANI, IL RECUPERO DI FLORO E... - Dagli altri arrivi invernali, luci e ombre: Rigoni ha regalato il preziosissimo successo sulla Lazio e pochi altri sprazzi, ma di sicuro in un contesto di classifica più rassicurante avrebbe trovato maggiori spazi per esprimere il suo altalenante talento, Pisano e Nadarevic hanno confermato ciò che si sapeva, di essere cioè onesti gregari e poco altro, forse più da alta Serie B che da bassa A. Punto interrogativo per Cassani, uno dei nuovi più attesi e quotati, nel giro azzurro fino a due anni fa: da laterale basso completo ad autentico oggetto misterioso. Sono gli incerti in cui spesso si inciampa quando si deve reinventare una squadra a metà stagione, dopo averla sbagliata a luglio e agosto: l'affanno nel cercare soluzioni ad hoc porta ad accettare affari che, valutati con maggiore serenità, probabilmente non si concluderebbero. E' il caso dell'ex fiorentino, ottimo giocatore ma verosimilmente giunto a Genova in condizioni psicofisiche del tutto deficitarie, tali da non poterlo "ricostruire" in tempi brevi. E' il caso anche di Olivera, presto cancellato da un grave infortunio, e di Floro Flores, la cui ruggine agonistica accumulata in Spagna ha presentato il conto col subitaneo ko in una delle prime presenze, dopodiché la sua permanenza in rossoblù si è risolta in una lunga convalescenza servita, se non altro, a garantirgli un finale decoroso, con due gol pesanti e una buona prova in quel di Bologna. Tornando a Cassani, su di lui comunque insisterei, perché uno del suo livello una prova d'appello la merita: anche per non provare una sensazione già assaporata mille volte dai genoani, quella di vedere andar via giocatori che a Marassi sembravano degli ex, per poi apparire altrove rivitalizzati... 
I TRASCINATORI - Si è detto sopra dei tre "big" giunti a gennaio a rinvigorire spirito e sostanza tecnica del gruppo. Tre leader, così come leader lo è stato Marco Borriello, che in un contesto comunque non esaltante ha fatto probabilmente il massimo, traendo tutti i gol che poteva da una manovra particolarmente avara in fase di costruzione e di produzione di occasioni da rete. Nelle due sfide che hanno spostato gli equilibri a favore del Grifone, quelle già citate con Chievo e Pescara, lui ha lasciato il segno, e ci ha poi provato anche con l'Inter, il giorno della festa. Ecco: il bomber, Portanova, Manfredini e Matuzalem (pur con le riserve per certi suoi eccessi agonistici) sono stati fra le poche note liete della stagione, assieme a un altro veterano, quel Moretti che il suo l'ha sempre fatto, in termini di dedizione alla causa, nuova bandiera al fianco di un Marchino Rossi che ha avviato l'ovvio declino ma che, scommettiamo, con un fisico rimesso a nuovo potrebbe ancora garantire qualche partita gagliarda, la stagione prossima. 

                                   Ballardini: senza strafare, ha centrato l'obiettivo
                                    
GIOVANI, I PIU' E I MENO - Da promuovere anche due dei tre giovani su cui si appuntavano le attese: Antonelli ha riguadagnato la Nazionale, pur dovendo spesso remare controcorrente in collocazioni tattiche tutt'altro che congeniali, e Bertolacci ha lasciato via via intravedere sempre più massicciamente le sue doti di centrocampista eclettico, bravo nelle due fasi ma soprattutto abile negli inserimenti e nelle conclusioni. Ciro Immobile rappresenta invece uno dei crucci stagionali: continuo a credere che abbia un potenziale enorme, tale da poterne fare con costanza un fromboliere da doppia cifra, aveva pure iniziato bene ma poi si è lasciato travolgere dal caos tattico, dalla crisi della squadra, dalla difficile convivenza con Borriello. Ritengo che il crollo sia stato soprattutto psicologico: una volta reinserito nel contesto della Nazionale Under 21, lo scugnizzo è tornato a far vedere ciò di cui è capace, cioè a metterla dentro con una discreta varietà di soluzioni di tiro. Maturando a livello mentale, e circondato da un complesso più competitivo, potrebbe rinascere: perderlo sarebbe un peccato, eppure il suo destino sembra sia lontano da Genova... 
BALLARDINI, PRAGMATISMO SENZA SQUILLI - L'arrivo in panca di Ballardini ha dato la svolta, come due anni fa: niente fuochi d'artificio o calcio ad alto tasso qualitativo, ma solo grande pragmatismo e ordine. Nelle sue prime uscite si era persino tornato a vedere un gioco gradevole, maggiore coraggio e aggressività, poi le sconfitte, frutto più che altro di fattori esterni, contro le big Roma, Milan e Fiorentina hanno indotto a un cambio di rotta, o più probabilmente hanno insinuato paura nello spogliatoio e il germe dell'insicurezza nello staff tecnico, sia pure a livello inconscio. Così, la manovra è tornata ad essere avara, il gioco sparagnino, spesso prevedibile e raramente in grado di creare varchi offensivi efficaci; a questo, aggiungiamo certe soluzioni tattiche che hanno destato più di una perplessità: se ne è parlato prima a proposito di Antonelli, spostato in una posizione avanzata nella quale non poteva assolutamente dare il meglio di sé, e pensiamo a un centrocampo spesso acefalo, senza qualcuno capace di costruire gioco sulla trequarti, col risultato che la squadra si è spesso trovata spezzata in due tronconi e senza ispirazione autentica.
DELNERI? MA NO... - Ecco, forse sono state queste incertezze nella gestione strategica delle partite a far tentennare Preziosi, nel momento in cui si trova a dover scegliere se affidare ancora a Ballardini la panchina genoana per l'anno prossimo. Lo capiamo, il Joker: sbagliare di nuovo trainer, dopo le follie post Gasperini, sarebbe esiziale: il vortice di esoneri messo in atto da Zamparini insegna. Si valuti bene, quindi, ricordandosi però il curriculum del Balla (due salvezze a Zena, e altrove quasi sempre campionati tranquilli con qualche picco, tipo la Supercoppa con la Lazio), più che sufficiente se si vuole disegnare il futuro all'insegna di un profilo medio: i patimenti di quest'anno non li ha certi provocati il romagnolo, bensì, al di là delle sciagure di mercato, il disastroso interregno di Delneri, e il fatto che in questi giorni si parli di quest'ultimo come possibile nuovo - vecchio tecnico ha un che di allarmante e provocatorio. 
L'ex Juve e Samp ha davvero fatto terra bruciata nei pochi mesi trascorsi a Pegli, ha zavorrato verso il fondo la squadra come pochi altri allenatori italiani hanno saputo fare nella storia della Serie A, fino a far assaporare al Grifo l'onta di un momentaneo ultimo posto in classifica. Niente risultati, niente gioco, niente animus pugnandi, errori continui nell'impostare le gare prima e durante. Un bilancio horror che non può non destare il sospetto che il trainer di Aquileia abbia imboccato bruscamente la parabola discendente, un quadro nero come la pece che non può essere bilanciato dalla considerazione secondo la quale "se può lavorare fin dal ritiro estivo, e con giocatori chiesti da lui, è in grado di fare bene". Certo è che la scelta del mister 2013/14 rappresenta uno dei passaggi più delicati della storia recente del Genoa, che ora è davvero a uno spartiacque: continuare ad accontentarsi del piccolo cabotaggio o tentare di nuovo la strada intrapresa qualche anno fa, con un pizzico di ambizione a solleticare gli umori degli aficionados e a stimolare chi viene a indossare la casacca rossoblù? 

giovedì 23 maggio 2013

BILANCIO TECNICO DELLA SERIE A, PARTE PRIMA: I PROMOSSI. SPETTACOLO NAPOLI E FIORENTINA

                                          Cavani: semplicemente mostruoso

La Serie A va in archivio, e in sede di bilancio tecnico va subito detto che non tutto è stato da buttare. Nonostante le (sacrosante) grida di dolore per l'abbassamento qualitativo fatto registrare dal torneo negli ultimi anni, mi sento di poter confermare quanto scritto al giro di boa del campionato, ossia che non mi pare si siano registrati ulteriori passi indietro sul piano del livello del gioco, rispetto alle precedenti stagioni. Certo, ciò non è stato merito di tutti, anzi, forse mai come quest'anno si è assistito a una spaccatura netta, un divario abissale fra un gruzzolo di squadre che hanno prodotto calcio dignitoso quando non estremamente piacevole, e la maggioranza che invece ha dovuto fare di necessità virtù, limitandosi a una manovra scarna ed esteticamente dimenticabile, a un piccolo cabotaggio sparagnino e allo sfruttamento massimale dei loro pochi uomini dotati di classe superiore. 
FORMULA DA CAMBIARE - Si moltiplicano i dubbi sulla formula: il finale di stagione ha "regalato" una serie di partite senza alcuna rilevanza effettiva ai fini della classifica, senza "sale" agonistico, principalmente per "colpa" di un folto drappello di compagini che, avendo comunque il merito di essersi messe in sicurezza con congruo anticipo, si sono consegnate a una marcia in folle che ha fatto scadere spettacolo e interesse. Nella consapevolezza che il calcio italiano non sia quello inglese, e che quindi, per DNA più che per furbizia o disonestà, sia difficile chiedere ai giocatori di mantenere la stessa intensità di impegno una volta raggiunto il loro obiettivo, ritengo che il problema risieda nel format a 20 squadre, discutibile in tempi di vacche grasse, figuriamoci con la penuria attuale di talento. Sul tema, pare abbia finalmente battuto un colpo anche Abete: benissimo, ora che il meccanismo federale si è messo in moto, fra una decina d'anni assisteremo finalmente alla tanto agognata riduzione d'organico...
Battute a parte, basterebbe questo, non i playoff tanto desiderati da qualcuno e che, personalmente, ritengo una profonda ingiustizia sportiva, e in Serie B se ne hanno esempi tutti gli anni (da ieri sera, Livorno ed Empoli sono costrette a giocarsi l'ultimo posto in A contro squadre arrivate anni luce lontane da loro in regular season): i campionati nazionali non sono come Mondiali ed Europei che durano un mese, un torneo che si snoda lungo l'arco temporale di quattro stagioni non può  e non deve essere deciso da una serie di spareggi da consumarsi in pochi giorni.
NAPOLI - Poche squadre a onorare il bel football, dicevamo. Fra queste naturalmente i campioni della Juventus, ai quali ho già dedicato un lungo post e sui quali quindi è superfluo ritornare. Assieme ai bianconeri, un podio... allargato formato da Napoli, Fiorentina e Udinese. Che dire dello splendido team azzurro? Macchina da gioco e da punti, collettivo di straordinaria efficacia, capace di migliorare mostruosamente il bottino messo insieme nel 2011/12 nonostante la partenza di Lavezzi, che personalmente avevo intuito non essere così incisivo e determinante: i veri fuoriclasse sono altri, anche se magari l'argentino lo diverrà, un giorno... In compenso, sta sorgendo l'astro di Insigne, che ha saputo ritagliarsi momenti di splendore autentico, con una presenza viva (anche se non sempre lucidissima) nel gioco d'attacco, con assist sontuosi e colpi risolutivi sotto porta. Chiaro, manca la continuità, ma la stoffa c'è, eccome.
Su Cavani qualsiasi considerazione sarebbe superflua: uno dei bomber più prolifici degli anni Duemila, percentuali di realizzazione strabilianti, roba da Batistuta degli anni d'oro, varietà di soluzioni conclusive praticamente illimitata. Qui arrivano le dolenti note, perché il club partenopeo potrebbe perdere lui e di certo ha già perso Mazzarri. Eppure, con loro il sogno di riportare il tricolore sotto il Vesuvio non era impossibile. Cosa accadrà adesso? Semplice: se si vuole continuare su questo trend, occorre investire su un allenatore di altissimo profilo, scegliendo nel mazzo dei tanti che si sono liberati in questi giorni in Italia e all'estero, e investire i soldi ricavati dall'eventuale cessione dell'uruguagio, per cercare campioni che lo possano anche solo avvicinare in termini di classe e di resa. Osvaldo? Benissimo, ma da solo non basterebbe: tuttavia qui i discorsi si fanno del tutto aleatori, perché cambio di guida tecnica potrebbe significare cambio di filosofia di gioco, con una manovra che non punti più su di un unico sbocco offensivo ma che preveda di giungere al gol attraverso strade molteplici. Un po' come la Juve di Conte... 
FIORENTINA - La Fiorentina è stata la squadra più spettacolare e scintillante, abbinando "morbidezza" di gioco a dinamismo,  un collettivo capace di chiudere e rilanciare con pulizia e di approcciarsi alla rete avversaria con ampia varietà di schemi. Montella ha rilanciato Pasqual, Aquilani e persino un Toni che pareva al capolinea; la società ha azzeccato (bravura e fortuna) tutto ciò che poteva in sede di campagna acquisti, da Borja Valero in giù: per chiudere di netto un capitolo storico come quello che era stato scritto dai vari Gamberini, Behrami e Montolivo non basta il coraggio, ci vogliono capacità di programmare e profonda conoscenza del mercato, e a Firenze hanno dimostrato di possedere entrambe queste doti. Notazione per Liajic che, da ragazzino immaturo che era, si è trasformato in un guastatore devastante. E se Jovetic, uno dei pochi fuoriclasse d'oltrefrontiera ancora presenti in Italia, farà le valigie, per l'anno prossimo c'è un Giuseppe Rossi che darà l'anima per riconquistare un posto in Nazionale.

                                    Di Natale: fuoriclasse, anche se solo in Italia...

UDINESE - L'Udinese ci ha sorpresi ancora. Al giro di boa pareva evidente che, dopo tanti anni, l'ennesimo mercato all'insegna delle partenze eccellenti avesse infine prodotto il temuto contraccolpo sulle ambizioni friulane. Timori spazzati via da un girone di ritorno a media scudetto, o giù di lì: questa volta, però, i soliti "stranieri sconosciuti" pescati chissà dove hanno inciso meno di altri del passato. A trascinare i bianconeri è stato sopratutto il blocco italiano, lo zoccolo duro della squadra, i Domizzi e i Pinzi, quelli che restano mentre attorno tutto o quasi cambia vorticosamente. Presa nota della conferma del flessuoso Muriel dopo le promesse leccesi, Di Natale merita un discorso a parte: dopo l'ennesima stagione stratosferica, entrerà nella storia come uno dei grandi misteri del nostro football: su dimensioni da fuoriclasse d'attacco senza mezzi termini entro gli italici confini, buon giocatore o poco più, ma raramente deflagrante, quando si trova a dover recitare su ribalte internazionali. Un limite, certo, ma ad ogni buon conto avercene, di elementi così!
Rimane un cruccio: perché, dopo tanto affannarsi a inseguire il piazzamento europeo, in Coppa si fa sempre cilecca? La gestione della partecipazione all'Europa League di quest'anno è stata imperdonabile, e nessuno mi darà mai a bere che questa Udinese valesse meno di Basilea, Fenerbahce o altre squadre giunte quasi fino alla fine della competizione. E per quanto riguarda i problemi di gestione dell'impegno sui due fronti (che comunque esistono anche per le squadre degli altri Paesi, le quali però in generale l'EL la onorano), faccio presente che l'unico anno in cui i friulani fecero davvero strada, giungendo a un passo dalla semifinale del torneo, ossia nel 2009, in campionato ottennero un onorevolissimo settimo posto, senza quindi correre rischi di retrocessione...
LAZIO - Bicchiere solo mezzo pieno per la Lazio, che all'andata si era imposta come la squadra che, assieme alla Fiorentina, più di tutte riusciva ad abbinare gioco di buona fattura e risultati, anche se con minore intensità spettacolare. Quando già si pregustava l'inserimento nell'area scudetto, il crollo, per un ritorno a scartamento ridotto, con media punti buona per una salvezza tranquilla ma non troppo. Il settimo posto conclusivo, con troppe sconfitte e con il sorpasso in dirittura d'arrivo dei concittadini giallorossi, non possono essere considerati soddisfacenti in toto. Però ci sono una finale di Coppitalia da giocare e un buon cammino in Europa League, con l'eliminazione di due rappresentanti di quel calcio tedesco che, oggi, ci surclassa su quasi tutti i fronti. Tuttavia, per potenziale d'organico e capacità di produrre manovra di pregio ed efficacia il piazzamento europeo doveva essere centrato senza dover attendere l'appendice (di lusso) di domenica prossima. Di rilievo il rilancio su misure internazionali di Marchetti e di un Candreva duttile, completo e decisivo.
CATANIA E BOLOGNA OK - Al di fuori del ristretto novero delle big d'elezione, meritano la citazione altre due compagini che hanno cercato di tenere alto il nome del bel gioco, pur disponendo di mezzi limitati. Su tutte il Catania argentino, solido in difesa, ispirato nel mezzo da un Lodi che è, al momento, uno dei migliori centrocampisti italiani per saggezza tattica e inventiva, ed effervescente in avanti, in particolare con un Gomez che è ormai campione a tutto tondo e un Bergessio che ha limato certe ruvidezze ed è diventato bomber inesorabile. Elogi anche per il Bologna: riuscire a mostrare sprazzi di buon calcio nell'inferno della zona rischio non è facile, ma i felsinei hanno centrato la salvezza anticipata senza mai scendere a compromessi con tatticismi esasperati e gioco al risparmio. Certo, avendo in squadra il satanasso Diamanti (che merita una grande), il ritrovato Glilardino e centrocampisti di quantità e qualità come Kone e Taider era giusto puntare più sulla spigliatezza offensiva e sui piedi buoni che sul "fare legna", e allora non resta che recriminare su una squadra costruita... a metà, perché con un pizzico di qualità in più dietro, i rossoblù avrebbero potuto togliersi ben altre soddisfazioni. Sulla stessa linea (di rendimento e di gradevolezza estetica di gioco) si è mantenuta  a lungo l'Atalanta, poi scadimenti di forma, discontinuità, errori di mercato (Schelotto e Peluso via a gennaio: perché?) hanno complicato le cose e ingrigito la squadra.

BILANCIO TECNICO DELLA SERIE A, PARTE SECONDA: RIMANDATI E BOCCIATI. MILAN IN CHIAROSCURO, DISASTRO INTER E PESCARA


                                    Balotelli: il terzo posto del Milan è soprattutto suo

Sulla nostra immaginaria lavagna della Serie A appena conclusa, dopo i "buoni" è il momento dei "cattivi". Prima di loro, però, c'è una "terra di mezzo" ove collocare le squadre che male non hanno fatto, ma che per i più svariati motivi hanno chiuso la stagione lasciandoci un retrogusto amarognolo. E prima ancora dell'analisi delle singole compagini, fra gli aspetti controversi di natura generale vorrei inserire, e la cosa non deve sorprendere, il superamento di quota mille nel numero di gol totali realizzati in stagione (1003, per l'esattezza): un limite stratosferico che mai era stato varcato dal ritorno della massima divisone a 20 partecipanti, ossia dall'annata 2004/05.
LA QUALITA' E' UN'ALTRA COSA - Mi preme qui ribadire un concetto già espresso in passato: tanti gol non significano in automatico grande spettacolo e buon calcio. Del resto, basta osservare buona parte dei match del nostro svalutatissimo torneo per rendersene conto. Chi ama  davvero il football, non può gioire assistendo a partite da pallottoliere frutto di svarioni tattici collettivi o di errori singoli, questi ultimi dettati da carenze tecniche e di tenuta mentale. La storia non dice bugie, e racconta che il pallone nostrano era più competitivo quando si segnava meno, non perché gli attaccanti fossero più scarsi (anzi...), ma perché c'erano difensori "educati al mestiere", frutti copiosi di una scuola che era il nostro vanto e che invece negli anni Duemila si è inaridita, anche se non del tutto prosciugata. 
MILAN - Torniamo alla lavagna e alla citata terra di mezzo, nella quale non può non trovare posto il Milan. Che ha artigliato in extremis il posto per i preliminari Champions e, soprattutto, si è reso protagonista di una formidabile risalita, dai margini della zona pericolo al podio. Ma è stata una stagione fatta più di scuri che di chiari: il gioco raramente ha raggiunto vette degne di nota, i rossoneri sono stati molto operai nel cuore della manovra (anche perché di fini palleggiatori e di autentici creativi là in mezzo c'è il solo Montolivo, artefice peraltro di una eccellente stagione), e la riscossa è stata affidata, ancor più che ai tempi di Ibrahimovic, agli spunti dei campioni della prima linea. La nota lieta è che si è trattato di campioni giovani e italiani, la potenziale coppia di golden boy della Nazionale per molti anni a venire: di El Shaarawy, del suo devastante impatto sul torneo, del suo calarsi con totale disinvoltura in un ambiente complicato ed esigente come quello rossonero, scrissi già in sede di bilancio del girone di andata; nel ritorno, il Faraone è parzialmente rientrato nei ranghi, vuoi perché per un giovanotto non dev'essere facile cantare e portare la croce da solo per mezzo campionato, vuoi per l'irruzione di Balotelli che ha preteso la scena ed è diventato l'ovvia primadonna. Chi ancora ne discute la statura di campione assoluto farebbe meglio a guardare i fatti: senza i suoi guizzi da implacabile terminale offensivo, senza la sua freddezza nei momenti decisivi e dal dischetto, la Champions il Milan l'avrebbe guardata col binocolo. 
A proposito di rigori, non si può nascondere la testa sotto la sabbia di fronte alla messe di penalty che, nella seconda parte del torneo, hanno sorretto i rossoneri nei momenti difficili: penalty a volte estremamente discutibili come quelli, decisivi, con Udinese e Siena, a fronte di altri... non dati gli avversari, come i due (e forse tre) negati a Marassi al Genoa, nel grottesco match di cui parlai in questo post. Ripeto quanto già scritto allora e in precedenti circostanze: in mancanza di prove contrarie, assurdo avanzare dubbi sulla buona fede degli arbitri, ma doveroso sottolinearne sia la scarsa preparazione sia la sudditanza psicologica nei confronti delle grandi, giunta ormai a livelli inaccettabili, perché di mezzo c'è l'attendibilità tecnica del torneo. Insomma, rossoneri in... chiaroscuro: fra le note liete, da aggiungere l'esplosione di De Sciglio, versatile laterale sinistro già a suo agio in azzurro, e il citato Montolivo che finalmente è uscito dal guscio indossando i panni del califfo della fascia centrale, con personalità, sostanza, intuizioni decisive e gol pesanti. Da questi due campioni, dai due dell'attacco e dal sempre convincente Abate dovrà ripartire un Milan più italiano, ancor più "verde" e con un ulteriore iniezione di talento. 
CAGLIARI - Limitandoci alle vicende agonistiche, il campionato del Cagliari meriterebbe solo lodi sperticate. Dopo i black out prolungati della fase ascendente, dopo le voci di smobilitazione a gennaio subito rientrate, il girone di ritorno ha proposto i rossoblù in versione indiavolata: Daniele Conti è tornato a prendere per mano la squadra nei momenti delicati, Astori si è riappropriato delle sue ormai consuete misure di fondamentale pedina difensiva, Pinilla si è confermato bomber puntale ancorché poco reclamizzato, Sau ha incantato per brillantezza ed inesorabilità sotto porta e Ibarbo ha regalato accelerazioni e scatti poderosi e fruttuosi. Persino il portiere Agazzi è giunto a toccare la Nazionale, anche se, crediamo, in maniera effimera. Però il pasticciaccio Is Arenas è qualcosa che non può essere cancellato: giocare quasi l'intero campionato  davanti a spalti vuoti o semivuoti per ragioni... burocratiche, o addirittura in campi lontani trasformati in terreni casalinghi sempre e solo sul piano burocratico, è una sconfitta, una delle tante sconfitte recenti del calcio italiano. Non può, non deve esistere un football senza pubblico "dal vivo". Poi, sul modo in cui è stata gestita la situazione sul piano regolamentare sia dalla società che dagli organi istituzionali, il giudizio lo lasciamo ai posteri, ma rimane un senso di improvvisazione che non fa onore a nessuna delle parti in causa. 
ROMA - Continuo a considerare quello dei giallorossi come uno dei migliori organici allineatisi ai nastri di partenza, ecco perché il sesto posto finale non può esser considerato positivo. Oltretutto è stato centrato in rimonta, ai danni di una Lazio che ha di certo lasciato un segno più profondo nella storia positiva di questo torneo, in quanto a vivacità di manovra e a momenti di spettacolo. Zeman, che stimo, ha fatto danni, inutile negarlo. Col suo calcio portato all'eccesso, fatto di luminarie offensive non protette da adeguata copertura, e di un rapporto difficoltoso coi big di spogliatoio, ha vistosamente trapanato l'acqua. Andreazzoli ha fatto il possibile per raddrizzare la baracca, ma questa Roma è rimasta una sostanziale incompiuta, pur avendo i mezzi per poter ambire almeno a un terzo posto.

                                         Cerci: la Serie A ha trovato un campione vero
       
INTER E PESCARA, MATITA... BLU ELETTRICO - Da nerazzurri e biancazzurri le pagine più tristi di questa Serie A. Fallimento su tutta la linea per l'Inter, mai così brutta da quasi vent'anni a questa parte. La sequenza di sconfitte del girone di ritorno resterà un marchio indelebile, e i continui riferimenti di Stramaccioni ai bei tempi della vittoria sulla Juve e del quasi aggancio alla vetta sono risibili: perché quella fiammata è durata non più di due mesi, essendo stata preceduta da un altro periodo non propriamente brillante. Gli infortuni in serie, è vero: qui non c'entra il tecnico, ma va anche detto che se così tanti giocatori finiscono ko e per periodi così lunghi, non può essere solo colpa della malasorte. Rimane un interrogativo sportivamente drammatico: Mourinho o non Mourinho, il cui abbandono a triplete conquistato è per me un falso problema, come è stato possibile, da parte di professionisti strapagati, attuare un così repentino depauperamento tecnico di una rosa che si era issata sul tetto d'Italia, d'Europa e del mondo? Come è stato possibile vendere così male e comprare ancora peggio? La ricostruzione dovrà essere radicale, costerà denaro ma necessiterà anche di tanto acume in sede di scelte e di valutazioni di mercato plausibili, acume che in questi tre anni è stato usato in maniera molto parsimoniosa.
E che dire del Pescara? No, nessuna indulgenza verso la piccola realtà di provincia che, dopo tanti anni di assenza, si è ritrovata in un contesto troppo più grande di lei. Il girone di ritorno è stato uno spettacolo triste e imbarazzante, con diciassette sconfitte (!), gol incassati in quantità industriale, resa incondizionata di fronte a quasi tutti gli avversari, partite che alla fine sembravano le galoppate di allenamento infrasettimanali. La squadra non era competitiva, ma qualcosa di più di questo bottino ridotto all'osso era alla portata, giovani rampanti come Perin e Caprari e stranieri di spessore come Weiss non meritavano di affondare in una situazione simile. I dirigenti pescaresi dovranno inventarsi qualcosa di clamoroso per far dimenticare questa pagina nera come la pece, l'iscrizione al campionato di Serie A di una squadra materasso come pochissime altre volte era accaduto nella storia del girone unico (forse solo l'Ancona 2003/04 su livelli più bassi). 
SGUARDO D'ASSIEME SULLA ZONA PERICOLO - Poche annotazioni sui bassifondi. Il Toro ha ritardato fin quasi all'estremo limite una salvezza che ad un certo punto pareva scontata. Strano campionato, il suo: quando ha giocato più sulla forza e sul pragmatismo che sulla classe pura, che pure in prima linea non gli mancava, ha messo in cascina fieno decisivo; quando ha trovato anche il filo di un gioco plausibile e gradevole, con recite di grana fine anche contro molte grandi, ha cominciato a uscire dal campo con le pive nel sacco. Per sua fortuna, il vantaggio accumulato  era tale che son bastati alcuni pareggini nel finale per assestare la graduatoria. Di positivo, oltre alle già citate espressioni di gioco (le gare di ritorno contro Napoli, Juve e Milan), la consacrazione di Cerci: il calcio italiano ha trovato un campione vero, da Nazionale. Arrivato tardi alla ribalta, come Diamanti, del quale si spera possa ripercorrere in pieno le orme, senza più disperdere il suo cristallino talento.
Detto che del Genoa scriveremo a parte in questi giorni, pollice verso per il Palermo, la cui retrocessione porta a chiare lettere la firma di Zamparini. Beffardo persino il ripescaggio in extremis di Sannino, che per qualche settimana aveva riacceso una fioca luce rosanero in una stagione all'insegna dell'oscurità più totale: beffardo e controproducente sul piano societario, perché ha finito con lo sconfessare il mastodontico impegno profuso dal club in sede di mercato invernale, quando i siculi avevano dato vita, analogamente ai rivali del Genoa, a un sostanzioso potenziamento in tutti i reparti.
Bene, andate a rivedervi le formazioni delle partite giocate durante il Sannino bis, e valutate quanti dei rinforzi di gennaio, e per quanto tempo, sono stati schierati in campo. Vedrete che il mister rientrante ha preferito puntare in larga parte, salvo alcune eccezioni, sui suoi fedelissimi, sui giocatori che si era ritrovato in ritiro l'estate scorsa. La verità è che non basta giocar bene un mesetto per riscattare i disastri di un anno intero: il verdetto finale è ineccepibile, e dispiace che colpisca una delle più belle realtà "alternative" alle grandi, fra quelle emerse nell'ultimo quinquennio di A.
In chiusura, una Sampdoria modestissima quanto a espressioni tecniche, dimostrazione plastica di come un allenatore possa davvero portare un quid in più e fare impennare il rendimento di una squadra: con Rossi in panca, è arrivata una mini striscia positiva, all'inizio del girone di ritorno, durante la quale i blucerchiati hanno sfoderato una praticità di gioco, una capacità di trarre il massimo dalle non numerose occasioni create (l'apoteosi, in tale senso, nella gara con la Roma), che hanno consentito loro di portarsi fuori dalle secche. Poi, i nodi son tornati al pettine e nel finale Gastaldello e compagni han giocato col fuoco, con prestazioni di rara mollezza (in primis quella col Palermo), fallendo l'obiettivo della vendetta sul Genoa dopo la retrocessione di due anni fa, e mettendosi in sicurezza matematica solo a due turni dalla fine. Ma, nonostante i patetici peana di tanta stampa locale, l'organico era davvero lacunoso, di più era difficile fare. Quanto a Icardi, ha tutte le caratteristiche del mezzo bluff: averlo issato a nuovo fenomeno grazie a un gol regalatogli da Buffon e a una quaterna rifilata all'improponibile Pescara è persino irritante, per il lettore / spettatore neutrale. Vedremo cosa gli riserverà il futuro, ma al momento non ci sentiremmo di pronosticargli una carriera che non sia quella di un buon attaccante o poco più. 

domenica 19 maggio 2013

EUROVISION SONG CONTEST 2013, BILANCIO CONCLUSIVO: GRECI VINCITORI MORALI, MENGONI ELEGANTE ED ESSENZIALE, UNGHERIA E MALTA SUGLI SCUDI E...



Marco Mengoni sul podio degli "umani", dietro ai greci "vincitori morali". Si può partire da questa considerazione, per tracciare un bilancio dell'Eurovision Song Contest, il concorso canoro europeo che, anche in questa edizione 2013, ha mostrato il suo tallone d'Achille nell'assoluta aleatorietà, per non dire inattendibilità, del verdetto delle giurie. Strani giochi di alleanze incrociate, più che serena e corretta valutazione della qualità artistica dei pezzi e delle performance; Paesi che si donano voti a vicenda sulla scorta della viciniorità o di imprecisate affinità elettive. La geopolitica invade lo spartito, come e più di sempre (o, perlomeno, tale è l'immagine che passa all'esterno), e questo è uno dei fattori che impedisce all'Esc di assumere autentica credibilità sostanziale, al di là di quella, assodata e dimostrata dall'audience oceanica, conquistata sul piano del glamour e dell'efficacia "visiva" dello spettacolo. 
VIVA LA DANCE! - Peccato. Peccato perché quest'anno mi era parso di cogliere un leggero passo avanti, rispetto a dodici mesi fa, sul piano della proposta musicale, che poi dovrebbe essere l'unica cosa veramente importante in una rassegna del genere. Nulla che facesse davvero gridare al miracolo, in riferimento alle 26 canzoni finaliste, intendiamoci: ma un pizzico in più di varietà di stili, più coraggio, e una maggiore contemporaneità. Senza esagerare, perché questo repertorio "eurofestivaliero" continua ad essere sostanzialmente datato. La principale "musa ispiratrice" per buona parte degli autori rimane sempre la dance anni Novanta, quel genere che prima o poi anche noi italiani riscopriremo (del resto abbiamo bisogno di tempo: il mito degli Eighties è esploso dopo che per anni si è spalato fango sul quel periodo, presto verrà anche il tempo del rilancio dei Nineties e di tutto ciò che hanno proposto, non solo sul piano canzonettistico...), e penso che alla nostra Alexia siano più volte fischiate le orecchie, se per caso ieri sera si è trovata davanti alla tv ad assistere alla kermesse di Malmoe. Ma hanno fatto capolino anche certi schemi ritmici della decade Ottantiana, mentre apprendiamo con soddisfazione che, al di fuori dei nostri confini, gli elementi classici della melodia all'italiana continuano ad essere giustamente apprezzati, benché  rielaborati (il che non vuol dire migliorati) secondo canoni più in linea con il pop internazionale dei giorni nostri. 



POCHI CORAGGIOSI - Rimane un ricorso eccessivo ad atmosfere sonore epiche, solenni, in stile "Titanic", qualcosa che in Italia è stato ormai dimenticato e che invece sembra aver segnato in maniera esageratamente profonda il gusto musicale di molti Paesi del Vecchio continente. Tutti fattori che, in ogni caso, contribuiscono a un generale appiattimento del livello dei brani in gara, unitamente al ricorso sempre più massiccio alla lingua inglese da parte di una buona fetta dei partecipanti. Male, perché una gara come l'ESC dovrebbe essere prima di tutto esaltazione della diversità artistica, delle peculiarità delle singole tradizioni musicali di ogni nazione. 
Con questo spirito la manifestazione è stata interpretata soprattutto dagli ellenici Koza Mostra (con la partecipazione di Agathon Iakovidis), la cui "Alcohol is free" è stata in effetti la proposta più singolare, innovativa, spiazzante, con un sapore etnico che sa però strizzare l'occhio alla modernità senza cadere nel provincialismo o nel trash. Per questo ho parlato di loro come "vincitori" morali", e qui si ritorna al discorso iniziale: la vera classifica, opinione naturalmente personalissima, parte dai greci, ossia dal sesto posto: prima di loro, Danimarca, Azerbaigian, Ucraina, Russia e Norvegia hanno fatto il vuoto per le ragioni in precedenza esposte: una sorta di blocco "russo - scandinavo" che ha schierato brani biecamente commerciali, standardizzati, certo non brutti e in linea di massima anche orecchiabili, ma nulla che potesse far drizzare autenticamente le antenne, nessun guizzo creativo, nessuna trovata autenticamente originale. Roba destinata a cadere nel dimenticatoio nel giro di pochi mesi, a voler essere generosi. 
MENGONI... ELEGANTEMENTE "ESSENZIALE" - Dietro i greci, dunque, ecco il nostro Mengoni. Un altro che merita l'elogio pieno per più di un motivo, fra i quali il miglioramento del piazzamento di Nina Zilli nel 2012 (dal nono al settimo posto) è di certo il più trascurabile. Innanzitutto il brano, "L'essenziale", regge brillantemente al passare delle settimane, e continua ad essere un ottimo esempio di come la canzone pop italiana stia brillantemente procedendo, negli ultimi anni, a un rinnovamento dei propri stilemi compositivi che ne stanno accentuando la contemporaneità pur senza tradire le radici. Quello portato da Marco sul palco svedese resta un sound fresco, non banale, e lui l'ha impreziosito con una performance... essenziale, per l'appunto: solo la sua presenza fisica e la sua voce, in uno show che invece, quest'anno più che mai, ha visto puntare la quasi totalità dei cantanti in lizza su coreografie sopra le righe, che finivano per rubare l'occhio e per distogliere l'attenzione degli spettatori da prodotti musicali, peraltro, speso tutt'altro che eccelsi. Coreografie che in più di un'occasione sono parse più fumo che arrosto, e soprattutto pacchianamente superflue, ben lungi dall'arricchire le esibizioni degli artisti. 


BRAVI UNGHERESI, MALTESI e ROMENI - Fuggire dalla convenzioni del pop globalizzato: questo ci si attenderebbe dal caro vecchio Eurofestival, e possiamo dire che, anche quest'anno, la missione sia sostanzialmente fallita. A parte Grecia e Italia, hanno provato ad uscire dagli schemi del "già sentito e rimasticato" il bravissimo ungherese ByeAlex con "Kedvesem", una lenta e suadente ballad del tutto al passo coi tempi, il maltese Gianluca con l'allegra "Tomorrow", impreziosita da vaghe venature country, e l'incredibile controtenore romeno Cezar, che in "It's my life" ha saputo proporre una fusion di discreta fattura fra le sue potenzialità vocali liriche e i migliori cascami dance anni Ottanta  e Novanta. Ci ha ricordato un po', in certi passaggi, il nostro Giovanni Miani, che tentò un esperimento simile nella prima metà degli anni Ottanta e che, con "Me ne andrò", per poco non vinse Sanremo fra le Nuove proposte... 
OTTANTA E NOVANTA - Anni Ottanta, si diceva. C'è chi li ha "ripescati" bene, chi meno. Fra i primi indubbiamente il giovanissimo belga Roberto Bellarosa, con una "Love kills" estremamente accattivante e che suona attuale pur facendo ricorso a schemi ritmici d'antan (il refrain è forse il più orecchiabile di tutta la kermesse), fra i secondi il lituano Andrius Pojavis, la cui "Something", ancorché tutt'altro che malvagia, appare un tantino datata. Per la categoria "Ridateci i Novanta!", merita la citazione la finlandese Krista Siegfrids, che in "Marry me" ha dispensato ampie dosi di "Spice girls style", sapientemente dosato senza per questo indulgere all'imitazione pedissequa, per un prodotto brioso e di indubbio impatto. A proposito: le due proposte più interessanti del "blocco scandinavo", quella finlandese e quella svedese, sono le uniche ad essere rimaste escluse dai giochi d'alta classifica: il "padrone di casa" Robin Stjernberg, con "You", ha fornito un esempio di quanto si diceva prima, ossia una linea melodica tradizionale riveduta e corretta secondo stilemi più attuali. 


IL ROCK, BONNIE E ANOUK - C'è stato, ebbene sì, anche un po' di rock: pennellate intense nell'interessante "L'enfer et moi" della francese Amandine Bourgeois, più sostenuto, pur senza eccessi, in "Lonely planet" degli armeni Dorians. Dignitoso il ritorno di Bonnie Tyler, con un pop leggero e gradevole, perfettamente in linea col lo stile portato avanti per decenni, mentre spiazzante è risultata la performance minimalista di Anouk in "Birds" (Olanda), forse troppo sofisticata per la platea dal palato facile dell'Eurovision. Gli spagnoli "El sueno de Morfeo" avevano un "Contigo hasta el final" di grana buona, a cavallo fra tradizione e modernità, senza cedimenti al pop standard che ha banalizzato larga parte della proposta di Esc 2013, ma la voce incerta di Raquel Del Rosario (la ricordate a Sanremo 2011 con Luca Barbarossa?) non è parsa sostenere adeguatamente la canzone.  Delusione anche per la tedesca Cascada, la cui "Glorious" non brilla certo per fantasia (qualche assonanza di troppo con "Euphoria", il pezzo di Loreena che vinse l'anno scorso). 


I PRIMI DELLA CLASSE - Chiudiamo, noblesse oblige, con i primi della classe, che però non meritano molte righe. La vittoria della danese Emmelie De Forest era scontatissima, e non se ne comprende il motivo: "Only teardrops" si avvale di qualche trovatina furba (come il  sostegno fondamentale del flauto), di quelle atmosfere "epiche" di cui ho detto all'inizio e che alla lunga possono risultare eccessivamente  ridondanti, e di uno stile "Shakira" (nella vocalità e nella costruzione del ritornello) indubbiamente accattivante, ma c'era di meglio. Linea melodica senza squilli e che sa di già sentito per "Hold me" dell'azero Farid Mammadov, in linea di massima inconsistenti le proposte dell'ucraina Zlata Ognevich ("Gravity") e della russa Dina Garipova ("What if"), di certo più efficace il vivace "I feed you my love" della norvegese Margaret Berger, il più attuale, come costruzione, fra i brani da discoteca ascoltati ieri, assieme a "Solayoh" della bielorussa Alyona Lanskaya. Rimane la notazione che nel resto del mondo è ancora possibile costruire con successo spettacoli musicali per la tv con quasi 30 canzoni proposte in due ore circa. Solo in Italia la si ritiene una iattura è si  progressivamente ridotto il numero di cantanti in lizza a Sanremo. Ma, si sa, i più furbi siamo noi... 

VERONA E SASSUOLO IN SERIE A: E CON L'HELLAS RITORNA UN PEZZO DI STORIA DEL CALCIO


                                       Cacia: coi suoi gol ha riportato il Verona in A                                

Una delle giornate più emozionanti della storia recente del campionato di Serie B ci ha lasciato in eredità due favole, due di quelle vicende che contribuiscono ad alimentare il fascino transgenerazionale del football, favole di cui, oggi più che mai, il calcio nostrano ha disperatamente bisogno per riguadagnare terreno in fatto di consensi e popolarità. Del Sassuolo, della feroce battaglia di Modena col Livorno chiusa con una memorabile apoteosi, parlerò più avanti. Perché è chiaro che, sul piano prettamente storico, la copertina la merita più di tutti il Verona. L'Hellas torna in Serie A dopo undici anni, e non è un ritorno qualsiasi: è un recupero fondamentale per il nostro movimento calcistico di vertice. 
UNA "GRANDE" DI PROVINCIA - Sì, perché non può non stare nella massima divisione una società che ha saputo scrivere, quasi trent'anni fa, una pagina epica di questo sport. Uno scudetto in provincia, nel 1985, in un contesto tecnico estremamente più competitivo e qualitativo di quello che vive oggi il pallone di casa nostra. Sono fatti stranoti, ma ricordarli fa bene al cuore:  quel Verona mise in riga tutte le grandi di un campionato che, all'epoca, era davvero "il più bello del mondo", etichetta che il nostro torneo si è poi portato appresso a sproposito per tanti, troppi anni, prima di prendere atto di una realtà  che è oggi assai meno luminosa.
Non fu né un caso né una meteora, come qualche superficiale ritene oggi di dover liquidare quella conquista: fu, lo scudetto '85, il punto più alto di un progetto quasi decennale. Quel Verona prese forma all'inizio degli anni Ottanta: nella squadra che vinse il campionato cadetto 1982 c'erano già i Garella, i Tricella, i Di Gennaro, elementi che poi sarebbero stati fra i più determinanti nel trionfo tricolore. E c'era già, soprattutto, Osvaldo Bagnoli, il trainer che plasmò tatticamente e mentalmente quella compagine fino a renderla una macchina perfetta. Lavorando in serenità, senza alcuna pressione da parte di un ambiente che chiedeva solo di non vivere più pericolosamente e che, invece, si ritrovò a competere per i più alti traguardi. 
PROGETTO DECENNALE - Un percorso quasi decennale, dicevo. Già, perché non ci fu solo lo scudetto: prima e dopo, arrivarono altri risultati di assoluto prestigio: due quarti posti in campionato, due finali di Coppa Italia, partecipazioni alle coppe europee con esiti tutto sommato lusinghieri. Nulla di casuale, quindi, ma una avventura lunga e frutto di una programmazione rigorosa ed equilibrata. L'85, come detto, fu il punto più alto: il passo definitivo per alzare l'asticella e puntare al massimo traguardo fu l'arrivo di due autentici campioni di fuorivia, il tuttofare tedesco Briegel e la punta danese Elkjaer - Larsen, ma il contributo degli italiani fu sostanziale: le parate sgraziate ma efficaci di Garella, il sontuoso libero Tricella, che per eleganza e sicurezza parve, per qualche tempo, destinato a prendere il posto di Scirea in Nazionale, i guizzi offensivi del furetto Galderisi e la lucida, scarna e geometrica regia di Di Gennaro, che impreziosiva la sua operosità con tiri dalla distanza al fulmicotone. E ancora, le sgroppate mancine di Marangon, l'ordine, l'eclettismo e il fervore dei vari Volpati, Bruni, Sacchetti... 
No, non fu fortuna: questi erano elementi di valore assoluto: certo era più facile che un gruppo così potesse prendere forma in un grande club metropolitano, ma allora poteva succedere che anche lontano dal ristretto novero delle big si riuscisse a costruire qualcosa di veramente importante; il fatto che oggi non sia più possibile è uno dei "vulnus" che hanno contribuito a impoverire il nostro calcio, ma questo è un altro discorso, peraltro già più volte affrontato sul queste pagine. 
GLI ANNI DI PRANDELLI E MALESANI - Dopo la fine dell'epopea bagnoliana, il Verona è tornato altre volte in Serie A. La ricomparsa più significativa è datata 1999, e non  a caso a guidare quella riscossa fu un altro tecnico destinato a lasciare un segno profondo nel libro d'oro del football italiano: Cesare Prandelli. Dopo aver vinto il torneo cadetto, l'Hellas si regalò una stagione da protagonista in A, grazie a un girone di ritorno da favola, con le ciliegine sulla torta dei successi casalinghi su Lazio e Juventus, ossia le due squadre che quell'anno si contesero lo scudetto. Era una compagne senza stelle ma con tanti buoni giocatori, da Brocchi a Italiano, da Diana a Falsini, Da Laursen a Leonardo Colucci. L'unico campione vero era Morfeo, peraltro mai del tutto sbocciato, mentre il braccio armato fu Cammarata, attaccante di scuola juventina dal quale in molti si sarebbero aspettati una carriera ben più folgorante e che forse solo in quella stagione si espresse al massimo del proprio valore. 
Le stelle, a Verona, arrivarono effettivamente negli anni successivi, pur se ancora soltanto "in sboccio": ma i vari Camoranesi, Gilardino e Mutu non bastarono ad evitare alla squadra un nuovo periodo di sofferenza. Dopo una salvezza raggiunta solo allo spareggio, (contro la Reggina), nel 2001, la stagione seguente riservò una delle delusioni più atroci: discesa in B dopo un girone di andata che aveva visto l'Hellas discreto protagonista, fors'anche stimolato dalla presenza in categoria dei dirimpettai del Chievo che, per qualche settimana, occuparono addirittura il primo posto. Ma la fase discendente fu un disastro, e il team affidato a Malesani sprofondò lentamente ma inesorabilmente. 
RITORNO A FARI SPENTI - Su tutto ciò che accadde successivamente dalle parti dell'Arena, meglio stendere un velo pietoso, in particolare sulla troppo lunga parentesi in terza divisione. Lo scorso anno l'Hellas ha rivisto la luce della cadetteria e ha stupito tutti, sfiorando il salto doppio con una squadra senza vedettes: il grande calcio ha scoperto il valore del portiere Rafael, dei difensori Abbate e soprattutto dello splendido Maietta, leader carismatico, dei talentuosi centrocampisti Tachtsidis (subito artigliato dalla Roma) e Jorginho, della punta Juanito, di altri ancora. Su quel blocco già altamente competitivo, l'estate scorsa la società ha lavorato di cesello, innestando una serie di big per puntare con decisione al bersaglio grosso. 
I BIG PER LA SERIE A - Forse questo salto di qualità, questo diventare "squadra da battere" dopo aver viaggiato felicemente a fari spenti per una stagione intera, ha nuociuto all'Hellas sul piano dello spessore di gioco e dell'intensità, non più ai livelli del 2011/12. Però i risultati parlano da soli: i gialloblù hanno brillato per continuità e praticità, i pochi passaggi a vuoto e i periodi di crisi sono stati puntualmente rintuzzati con riscosse che hanno evidenziato la saldezza psicologica e la maturità del gruppo. E del resto ai big acquistati dalla società, ai Cacciatore, agli Agostini, ai Bacinovic, ai Martinho e ai Cacia, si chiedeva proprio questo, oltre all'ovvia iniezione di classe superiore: portare in dote alla squadra esperienza ad alti livelli e capacità di gestire i momenti delicati e di trarre il massimo da ogni situazione. Ebbene, questo Hellas l'ha fatto, magari facendo storcere un po' il naso agli esteti ma centrando l'obiettivo addirittura senza passare dall'incubo playoff, grazie a un rush finale strepitoso che ha lasciato di sasso il lanciatissimo Livorno. 

                                                 Felicità per il Sassuolo

SASSUOLO, CON UN ANNO DI RITARDO - Già, il Livorno: vittima, in extremis, della voglia matta di salire di un Sassuolo che, del resto, non ha fatto altro che cogliere un trionfo già ampiamente meritato dodici mesi fa, e sfuggito in maniera del tutto rocambolesca. Certo, gli emiliani di quest'anno mi hanno per certi versi riportato alla mente alcune avventure cadette del Genoa: come quelle del 2005 e del 2007, quando i rossoblù mostrarono gravi lacune caratteriali che impedirono loro di gestire al meglio situazioni di classifica ottimali, facendoli giungere in dirittura di arrivo col fiato grosso. 
Allo stesso modo, i neroverdi hanno rischiato di gettare alle ortiche un torneo letteralmente dominato fino a un mese fa, a causa di un inspiegabile rallentamento, ma la fiammeggiante battaglia di Modena, che ha avuto momenti di drammaticità sportiva assoluta, ne ha esaltato la capacità di soffrire e ne ha infine premiato la superiore classe e il miglior rendimento complessivo nell'arco del torneo. Calcio d'altri tempi, quello del Braglia: magari esteticamente discutibile (ma la presenza in campo di gente come Missiroli, Boakye e Berardi avrebbe giustificato ampiamente il prezzo del biglietto anche per eventuali spettatori neutrali), ma calcio arcigno, emozionante, vero, pur con qualche eccesso e qualche spigolatura dettati dall'importanza della posta in palio. Meno vero quello del Bentegodi fra Verona ed Empoli, ma personalmente non mi scandalizzerò mai di fronte a "spettacoli" simili, che ritengo pressoché inevitabili quando si trovano ad affrontarsi due squadre con interessi di graduatoria assolutamente convergenti, se non coincidenti (vedasi anche Toro - Genoa di qualche settimana fa). Non è il massimo della sportività, lo so, ma è anche vero che c'è ben altro per cui inorridire, nel nostro football. E dunque, bentornato Verona, e benvenuto (con un anno di ritardo...) Sassuolo! 

martedì 7 maggio 2013

JUVENTUS DI NUOVO LEADER DEL CALCIO ITALIANO. MA GLI SCUDETTI SON 29...

                               Esultanza juventina: un classico delle ultime due stagioni

Lo scudetto, il ventinovesimo (e già...), conquistato dalla Juventus è meritato? Solo un folle potrebbe rispondere di no, e non sarò certo io a fare il bastian contrario, per quanto su questo blog non sia sempre stato tenero nei confronti dei bianconeri (o meglio, nei confronti di un certo clima di "sudditanza psicologica arbitrale" che ne ha accompagnato, anche in questa trionfale stagione, più di una prestazione, come del resto è accaduto anche per il Milan, soprattutto nel girone di ritorno). Al di là dei numeri, la cui schiacciante evidenza già basterebbe a liquidare l'argomento, c'è molto di più. C'è una squadra che, "sul campo" (precisazione non casuale, lo vedremo dopo) si è definitivamente scrollata di dosso i fantasmi del passato recente ed è tornata ad essere la compagine guida di tutto il movimento calcistico italiano. 
JUVE AZZURRA - La Juve di oggi è la spina dorsale della Nazionale italiana, la selezione che meno di un anno fa ha conquistato l'argento europeo e che ora guarda con legittima speranza ai Mondiali brasiliani del 2014. Un blocco azzurro che, piaccia o no ai nostalgici del bel tempo che fu, ricorda molto da vicino quello che innervò, con risultati esaltanti, l'Italia di Bearzot fra il '78 e l'82. C'era in linea di massima più classe, all'epoca, forse è in parte vero: ma qualcuno è in grado di affermare che un Buffon o un Pirlo non avrebbero degnamente figurato in quella magica formazione, diventandone anzi degli autentici alfieri? O che Marchisio, per tecnica, personalità, eclettismo e doti atletiche, non abbia le potenzialità per ripercorrere le orme di un Tardelli? Sugli altri nazionali "torinesi", penso principalmente a Bonucci, Barzagli e Chiellini, si può discutere, e riconoscere che sì, certi paragoni sono effettivamente un po' azzardati (basta andare con la memoria a Cabrini e Scirea, per dire), ma non si può negare la loro efficacia, la loro affidabilità, la loro continuità di rendimento anche sul palcoscenico internazionale. 
VIVAIO NOSTRANO - Juventus squadra guida del nostro movimento, e nel senso più autentico del termine. Perché non lo è stata, ad esempio, l'Inter mattatrice dal 2007 al 2010, una multinazionale con pochi elementi prodotti dal vivaio nostrano. Il club bianconero ha scelto invece la strada di una spiccata italianità, l'unica praticabile, del resto, per cominciare a rivitalizzare un football, il nostro, che sarebbe stato destinato a rapida decadenza se le squadre di vertice avessero continuato a puntare su campioni (o presunti tali) di fuorivia, penalizzando sempre più i talenti tricolori. Ed è significativo che, su questa strada, si stia avviando anche il Milan, cui appartiene, non a caso, il secondo blocco azzurro in termini quantitativi, con i vari Abate, De Sciglio, Montolivo, Balotelli ed El Shaarawy ormai presenze fisse del gruppo plasmato da Prandelli. 
GIOCO DI INIZIATIVA - La Juve bicampione è l'immagine migliore, sul piano del gioco, di un calcio italiano che ha scelto di rinnovarsi nella continuità. Ossia di praticare un football di iniziativa, di aggressione, senza tuttavia trascurare i canoni classici della tradizione del nostro Paese, quelli di una attenzione assoluta alla fase difensiva, che invece si sta smarrendo in varie parti della penisola, vuoi per involuzione tattica, vuoi per crisi produttiva di talenti autentici nei ruoli della terza linea (lo dimostra il fatto che il nostro campionato è diventato ricchissimo di gol, da "sparagnino" che era un tempo, ma ciò non può essere considerato positivo in assoluto laddove buona parte di questi gol sono il prodotto di sesquipedali errori delle retroguardie). Anche in questo caso, il "messaggio" è partito dalla Nazionale, che dopo il disastro sudafricano si è reinventata su nuovi canoni di manovra, brillanti e coraggiosi nonché esteticamente più gradevoli, tante volte descritti ed esaltati su queste modestissime pagine. La Vecchia Signora, a partire dall'arrivo in panca di Conte, ha seguito il solco prandelliano e anzi lo ha allargato: quella del trainer pugliese è una compagine che macina gioco a mille, asfissia gli avversari e crea palle gol in serie: questo il marchio di fabbrica, anche se ultimamente tali consegne non sono state sempre rispettate alla perfezione, un po' per ovvio appannamento fisico (penso alle sfide con Palermo e, soprattutto, Milan) un po' per inferiorità nei confronti dell'avversaria, come in Champions League col Bayern. 
LA RIBALTA EUROPEA - L'eliminazione patita per mano dei tedeschi pone un quesito spinoso: perché sì, d'accordo, in Italia i bianconeri dominano e non in modo casuale o fortunato, ma fondando la loro superiorità, come si è visto, su... argomentazioni tecniche solidissime. Però il confronto con Robben e illustre compagnia è stato a tratti impietoso, con la nostra rappresentante che ha praticamente fatto solo il solletico ai debordanti oppositori. Il discorso sarebbe lungo e articolato: che il football italico di club stia perdendo costantemente posizioni in ambito europeo è evidente, e il dramma è che il tempo passa  e non si avvertono miglioramenti (anche quest'anno, come nella stagione passata, nessuna nostra squadra ha varcato lo scoglio dei quarti di finale). Dal team di Conte, però, per qualità di gioco e di interpreti (il cui valore internazionale, lo ripetiamo, è dimostrato dall'ottimo rendimento e relativi risultati in maglia azzurra), ci si sarebbe aspettati qualcosa di più, quantomeno la capacità di tenere maggiormente in equilibrio la sfida. Ma va detto che il Bayern attuale si pone su livelli stratosferici, e l'epocale passeggiata di salute contro il Barcellona euromondiale lo ha certificato. Sono convinto che la Juve attuale, temprata da questo anno di buona esperienza in Coppa, sempre più sicura dei propri mezzi e con l'aggiunta di non più di un paio di pezzi grossi dalla trequarti in su, potrebbe tranquillamente alzare l'asticella delle ambizioni. "Pezzi grossi" non significa fuoriclasse, attualmente irraggiungibili per l'asfittico mercato italiano, ma giocatori di livello in grado di incidere anche nelle competizioni internazionali: ce ne sono in giro, e si possono portare a casa senza spese folli.


29 SCUDETTI - Dicevo in apertura che, sul campo, la Signora si è liberata dei fantasmi... giuridici del passato recente, e ha messo la testa a cuocere senza vittimismi, dimostrando che la cultura del lavoro rimane la via migliore per il conseguimento dei successi più ambiti. Purtroppo non si può dire lo stesso di tutto ciò che attorno al campo juventino gira. Questo insistere sui "31 scudetti", oltre ad avere stancato, è intollerabile sul piano morale. Posso concedere che chi quei due titoli "maledetti" li vinse (calciatori e allenatore) abbia effettivamente il diritto di  continuare a sentirli propri, perché spese comunque energie fisiche e mentali enormi per centrarli (e non possono esservi dubbi... calcistici quantomeno sul secondo, quello del 2006, vinto dall'alto di una superiorità schiacciante, non dissimile da quella mostrata in questo 2012/13), ma tutte le altre componenti, tifosi e soprattutto dirigenti, che continuano ad avallare questo andazzo non hanno giustificazione alcuna, così come grida vendetta quello scudo con tre stelle e il numero 30 posto all'ingresso del nuovo impianto dopo il trionfo del 2012. 
Quasi tutte le più prestigiose società di calcio italiane, nel corso dei decenni, sono finite nel tritacarne della giustizia, a volte in maniera sacrosanta, altre volte con più di qualche dubbio, ma alla fine, magari obtorto collo, hanno accettato anche i verdetti più amari, si sono rimboccate le maniche e sono ripartite: penso al Milan del 1980, o al Genoa del 2005, ma gli esempi si sprecherebbero. Perché, dunque, insistere con questa ossessione che, oltre ad aumentare la bile del tifoso medio, non giova al clima generale del football nostrano, già sufficientemente avvelenato di suo? E perché la Federazione non prende una posizione veramente netta e risoluta, invece di regalare affabili dichiarazioni come quella del presidente Abete, che, ieri, ha affermato: "Sul numero degli scudetti, la Federazione è stata chiara anche in occasione del titolo vinto l'anno scorso". Suvvia, cosa vuol dire "è stata chiara"? Ci sono sentenze giudiziarie, ci sono revoche e annullamenti sportivi, i titoli sono 29, e da chiarire, caro Abete, non c'è proprio nulla. chi continua ad alimentare, silenziosamente o meno, questo equivoco, andrebbe duramente sanzionato: perché quando si continuano a fare orecchie da mercante alle (blande) reprimende dei vertici, solo le punizioni vere e severe (multe, squalifiche, ecc.) potrebbero portare sulla retta via. Lo potrà fare, forse, una Federazione più forte di quella attuale. La si attende da anni, anche attraverso un doloroso commissariamento, l'unico modo per sbloccare lo stallo in cui si è infilato il calcio tricolore. 

CAROSELLO RELOADED: UN RIPESCAGGIO SENZA SENSO


Il ritorno in tv di "Carosello", oltre 36 anni dopo l'ultima messa in onda (gennaio 1977), sarebbe dovuto essere, sulla carta, uno di quegli eventi destinati a segnare la storia del nostro piccolo schermo. Mi ha stupito, in proposito, la rilevanza, notevole ma tutt'altro che debordante, che tale "rinascita" ha avuto a livello mediatico. Ci si sarebbero potute riempire pagine di giornale e costruire documentari rievocativi di durata chilometrica. Il tutto sarebbe stato giustificato da un marchio il cui valore, per lo sviluppo e il percorso della nostra televisione, ha avuto un'importanza paragonabile a poche altre trasmissioni, penso a "Lascia o raddoppia" o "Canzonissima" (lasciamo stare eventi come il Festival di Sanremo o i Mondiali di calcio, il cui significato trascende quello di "programmi televisivi" tout court). 
C'è stato, forse, un po' di pudore da parte della grande stampa e dei commentatori di cose... catodiche, in previsione di ciò che questo "Carosello reloaded", al debutto ieri sera su Rai Uno prima del Commissario Montalbano, avrebbe potuto riservare. Se così è stato, devo dire che tale pudore era del tutto giustificato. Questo nuovo Carosello non ha nulla a che fare con quello che, a partire dal 1957, rivoluzionò il modo di fare tv in Italia e il mondo della pubblicità e del marketing. Al di là della consueta, orrida parolina "british" apposta accanto al vecchio nome (insopportabile davvero, questo desiderio di ostentare presunta cultura "international" per mascherare un pauroso vuoto creativo, ormai dilagante su tutte le emittenti generaliste), il problema emerso da questa prima messa in onda è più ampio della qualità intrinseca del "répechage" operato da mamma Rai. 
E già, perché c'è da chiedersi che senso abbia oggi un "Carosello" così fatto, in un palinsesto invaso a intervalli sempre più fitti da messaggi promozionali. La scena, ieri sera, è stata per certi versi surreale, con  l'atteso debutto di Carosello che propone, però, una serie (brevissima) di spot concepiti in modo tale che potevano benissimo essere inseriti in un qualsiasi altro stacco pubblicitario della giornata,  fine della trasmissione e, poco più avanti, altri "consigli per gli acquisti" che, viceversa, potevano stare benissimo dentro il nuovo Carosello. Ecco, non so se mi sono spiegato: così come è stato impostato in questa nuova versione, Carosello (reloaded) è perfettamente inutile: con spot uguali a quelli che vediamo in maniera ossessiva per 24 ore, o magari solo in versione un po' più lunga (come quello del dipendente della famosa catena di supermercati che si sveglia di notte per andare a controllare la bontà dei prodotti in vendita...). 
La sensazione è che una buona idea sia stata bruciata in partenza dalla mancanza di coraggio e di spirito innovativo. Sì, perché ritengo che, tutto sommato, la rinascita di Carosello avrebbe potuto rappresentare una buona occasione per svecchiare il mondo delle campagne pubblicitarie: per trovare nuove strade creative, per tornare alla semplicità del messaggio, mettendo da parte l'eccesso di sofisticazione e di esterofilia che da troppo tempo ha pervaso il marketing di certi settori (penso ad esempio alle automobili o ai profumi, ma non solo). 
Il vecchio Carosello fu un boom (di ascolti e, di riflesso, di vendite per le aziende che lo utilizzarono) perché veicolava messaggi immediati e non cervellotici, perché mostrò un volto inedito di grossi nomi dello spettacolo e dello sport  inserendoli in deliziosi "sketch - réclame" sostenuti da sceneggiature di grande efficacia, e perché lanciò una serie di slogan e, soprattutto, di personaggi animati (Calimero, l'Olandesina, ecc.) entrati nell'immaginario collettivo. Tutta questa non è roba vecchia, si chiama semplicemente fantasia, capacità di inventare, arte: tutte cose che funzionerebbero alla grande anche oggi, in versione riveduta e corretta, con nuovi sketch, nuovi eroi immaginari, e i volti più popolari degli anni Duemila. Invece, nulla di tutto ciò: "Carosello reloaded" è uno stanco dejavu  racchiuso oltretutto in un minutaggio ridottissimo, una pillola che, lo ripetiamo, si fatica a distinguere dal consueto bombardamento giornaliero di spot. E l'inserimento, in apertura, di una "intramuscolo" di nostalgia (ieri è toccato a Jo Condor) è ai limiti del grottesco: perché omaggiare il passato avrebbe senso in un contesto come quello sopra descritto, cioè di rinnovamento del format nella tradizione. Così, invece, è solo una captatio benevolentiae indirizzata principalmente agli spettatori più in là con gli anni: ma per solleticare i ricordi bastano "Da da da" o i dvd rievocativi venduti in edicola. 

domenica 5 maggio 2013

LE MIE RECENSIONI: "PASSIONE SINISTRA"


Destra contro Sinistra, la dicotomia che ha inasprito e avvelenato il clima politico e sociale del nostro Paese negli ultimi vent'anni, è il fil rouge lungo il quale si snodano le vicende di "Passione sinistra", commediola giovane e leggera firmata Marco Ponti, attualmente nelle sale italiane. Leggera ma non troppo, nonostante le apparenze, perché la contrapposizione, ideologica e di stili di vita, è in quest'opera qualcosa di più di un semplice sottotesto: è presente in ogni anfratto del film, condiziona e addirittura indirizza le scelte dei protagonisti. 
Pruderie di analisi politologiche? Certo che no, perché il confronto fra le due "visioni del mondo"  rimane sostanzialmente di grana grossa. Ma c'è una satira lieve, delicata, eppure chiaramente presente e incisiva. E c'è anche, questo sì, una qualche timida velleità di approfondimento sociologico. Si potrebbe quasi dire che siamo davanti alla trasposizione in celluloide del celebre divertissement di Giorgio Gaber, "Destra sinistra", appunto, canzone in cui venivano elencati oggetti e comportamenti assolutamente banali e ordinari,  classificandoli  "di destra" o "di sinistra" sulla base dei più vieti luoghi comuni. E non è un caso che proprio quel brano faccia da sigla al film, nella versione del cantante più "alla moda" del momento, il lanciatissimo Marco Mengoni. 
NON SOLO STEREOTIPI - Così', in "Passione sinistra" le due fazioni vengono disegnate secondo schemi abbastanza standard e prevedibili, il che non vuol dire banali: Nina (Valentina Lodovini) è la "progressista" tutt'altro che benestante che lotta per le fasce deboli, difende l'ambiente e mangia biologico, Giulio (Alessandro Preziosi) è il conservatore carico di quattrini, cinico fino alla crudeltà, realista, materialista. Stereotipi, forse, ma fino a un certo punto. Tipi umani come i due rappresentati nel film, piaccia o no, esistono eccome in Italia, anche se non ne rappresentano la maggioranza: ma ce ne sono di persone le cui esistenze sono in ogni secondo condizionate dal loro pensiero politico, che poi spesso va a coincidere con il censo.
Ed ecco dunque la piacevole sorpresa: un film tutto sommato poco reclamizzato, uscito quasi sottovoce, riesce ad alzare l'asticella delle proprie ambizioni, impreziosendo le consuete peripezie di vita e d'amore dei protagonisti dandone una lettura meno convenzionale e più complessa, intrecciandole con schemi ideologici e appartenenze sociali. Cosa accade, dunque, se una ragazza "di sinistra" perde la testa per un uomo "di destra"? Il tema centrale del film è questo, ed è sviluppato come sopra: con tonalità che tendono allo scanzonato e al sentimentale, certo, e che però inducono a qualche riflessione, e offrono una visione tutto sommato non troppo lontana dalla realtà dell'Italia della Seconda Repubblica. Perché insomma, alzi la mano chi non ha incrociato almeno una volta nella vita, anche solo per pochi minuti, una ragazza come Nina o un ragazzo come Giulio. E l'interrogativo che grava, come un convitato di pietra, sulle fasi decisive della liaison fra i due è assai più sottile e problematico di quanto si sarebbe indotti a pensare da un'analisi superficiale: può l'amore vincere sulle proprie convinzioni ideologiche? E si può mettere in un cantuccio la propria idea di politica, la propria visione del mondo, scendendo a compromessi con .... l'altra "fazione" o addirittura cambiando bandiera solo perché ci si è lasciati travolgere dal cuore e dai sensi? 
INCIUCIO - Come si vede, "Passione sinistra" offre tanti spunti, anche se li coniuga secondo l'unica strada realmente praticabile per quella che resta pur sempre una commedia, cioè con sguardo ironico e disincantato, ma senza rinunciare a piccole punture di spillo. E' una pellicola, diremmo, che cade come il cacio sui maccheroni in queste tristi settimane di italico inciucio. Sembra quasi che il messaggio sia: l'inciucio, il compromesso fra le due parti "in lotta", è... comune per la gente comune, si consuma tutti i giorni per amore, o per lavoro o per affari, e perché, dunque, non dovrebbe esserlo nelle alte stanze del potere? Insomma, più "sostanzioso" e meno effimero di quanto sembri, questo delizioso filmetto che alla politica irride anche nel tratteggiare la patetica figura del candidato sindaco di Roma, il giovane Splendore tutto fumo progressista e niente arrosto (ossia, vuoto pneumatico mentale e culturale riempito da una schiera di assistenti e addetti stampa, fra cui anche la povera Nina). 
EVA E GLI ALTRI - Una pellicola che scorre via senza tempi morti, proponendo momenti autenticamente esilaranti (Giulio - Preziosi che ordina un normalissimo caffè in un sofisticato bar "biologico", venendo per questo guardato con sospetto dalla cameriera, che lo scambia per un agente della Digos) e offrendo una serie di convincenti prove attoriali: per la Lodovini è forse la performance migliore della fin qui breve carriera: la sua prorompente fisicità è sempre bene in evidenza, ma questa volta la verve brillante e la carica comica fanno capolino con decisione, mentre Preziosi pare tagliato su misura per il ruolo del "destrorso" abbiente, un pochino "stronzo" ma capace di amare davvero. C'è anche una rivelazione: Eva Riccobono, che si cala con grande autoironia  nella parte della "belloccia un po' (un po' tanto...) scemotta", una... vamp svampita che però alla fine si rivela assai più profonda e acuta del previsto nel saper valutare il peso e la sostanza dei sentimenti...  Dimenticavamo: c'è anche Geppi Cucciari, che forse sarebbe dovuta essere la figura di maggior richiamo ma che si limita al piccolo cabotaggio, nelle vesti di collega e confidente della protagonista: fa il suo con dignità ma senza strafare, attendiamo di vederla all'opera in un film da mattatrice:  ad occhio e croce dovrebbe averne le doti.