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lunedì 29 settembre 2014

VERSO SANREMO 2015: IL REGOLAMENTO C'E', IL FESTIVAL NON ANCORA. MA QUALE RESTAURAZIONE?


                            Carlo Conti: è stato pubblicato oggi il regolamento del suo Festival

Il regolamento c'è, il "Sanremo" non ancora. La pubblicazione delle "tavole della legge" della più popolare rassegna canora, rese note in mattinata, non ha sollevato il velo di mistero che continua ad avvolgere il Festivalone prossimo venturo, il 65esimo della serie, targato Carlo Conti. A una prima lettura, è un regolamento "finto nuovo": ci sono tante piccole modifiche, ma nessuna talmente eclatante da far prevedere uno stravolgimento della struttura stessa della kermesse; ci sono alcune idee ripescate dal passato recente e altre da quello un po' più remoto, ma non certo le più coraggiose, quelle in grado di segnare una netta inversione di tendenza rispetto al generale andazzo dell'ultimo quinquennio, con tutti i suoi pro (tanti) e contro (pochi). 
RINNOVAMENTO DI FACCIATA - Insomma, il primo mattoncino nella costruzione dell'edificio "Sanremo 2015" (che si svolgerà dal 10 al 14 febbraio prossimi) non depone propriamente a favore dello slancio organizzativo di Conti: che ha denunciato scarsa fantasia e ha preferito non rischiare, muovendosi in direzione di un sostanziale "rinnovamento nella continuità", espressione abusata in tanti campi, da quello sportivo a quello politico, e che sovente nasconde solo una realtà immutabile "rinfrescata" con rattoppi esteriori. Nulla di male, per carità: su questo blog ho tante volte scritto che il Festival di Sanremo deve sapersi adeguare ai tempi senza però rinnegare la sua identità storica e i capisaldi, regolamentari e di costruzione dello spettacolo, che ne hanno decretato il successo attraverso i decenni: la filosofia di base fatta di uno spirito un po' nazionalpopolare, leggero, glamour, e poi l'impianto competitivo che non piacerà a molti cantanti ed è odiato da quasi tutti i critici, ma che rappresenta la quintessenza di questo adorabile e incrollabile carrozzone musical - televisivo. 
PASSAGGIO BUROCRATICO - E poi, parliamoci chiaro, la stesura del regolamento è più che altro un passaggio burocratico che fornisce agli addetti ai lavori (artisti e loro entourage) i paletti entro i quali muoversi: come sarà davvero il Sanremo di Conti lo potremo intuire solo da dicembre in poi, prima con la scelta dei cantanti in gara e poi con l'allestimento del cartellone degli ospiti, che darà un'idea del clima generale e della "linea editoriale" che indirizzerà lo show. Prima, sono solo discorsi al vento: Baudo, con regolamenti ingessati e "tradizionalisti", ispirati cioè alla formula lanciata anni prima dal suo "maestro sanremese" Gianni Ravera, ha costruito dei Festival tutto sommato godibilissimi; certi presunti portatori di ventate di novità, penso a Panariello e soprattutto all'ultimo Fazio, sono andati alla deriva con insopportabili edizioni sovradimensionate, appesantite e indigeribili. 
NESSUNA RESTAURAZIONE - Leggo di una "restaurazione" in atto: ma il ritorno al brano unico in gara per ciascuno dei big non è restaurazione, è semplicemente il ripristino di un meccanismo elementare di gara che è da sempre parte vitale del DNA della kermesse: il corpo estraneo erano, semmai, le due canzoni a testa. Esaurito nel 2013 l'effetto novità, l'esperimento ha mostrato la corda: scarsamente funzionale alla vitalità del concorso, altro non era che una stanca appendice, con ridottissimo appeal televisivo, della fase di selezione dei pezzi; in questi ultimi due anni, il Festival vero è sempre iniziato nella serata del giovedì, con i Big in lizza con la sola proposta sopravvissuta alla prima selezione. 
Allo stesso modo, non si può certo parlare di restaurazione per il ritorno dell'eliminazione anche nella categoria regina (fatto peraltro già noto da mesi), visto che, per diversi lustri, a partire dagli anni Ottanta, un'altra delle caratteristiche salienti della kermesse è stata quella di portare in finale, in massa, tutti gli artisti "campioni" (uniche eccezioni, le edizioni 1992 e 1993). L'eliminazione è invece un'eredità di una gestione recente, quella duplice di Gianmarco Mazzi (2005 - 2006 e 2009 - 2012), ma è tutto sommato all'acqua di rose, un giusto compromesso fra la "voglia di sangue" del pubblico e il desiderio dei cantanti di non essere esposti a umiliazioni (come se perdere una competizione canora fosse una vergogna, poi...): saranno solo quattro su sedici i Big non ammessi alla finalissima, e comunque tutti arriveranno alla serata del venerdì, quando scatteranno le uniche esclusioni. 
SEMPRE POCHI I CANTANTI IN GARA - A proposito di Big: saranno sedici, come detto, soltanto due in più rispetto ai classici quattordici delle quattro precedenti edizioni, mentre rimangono sempre otto i Giovani. No, in questo senso Carlo Conti non si è decisamente sprecato: un significativo aumento dei partecipanti nelle due categorie, Note d'azzurro lo sottolinea da anni, sarebbe fondamentale per aumentare l'effetto vetrina del Festival, dando visibilità a più artisti e respiro al nostro asfittico mercato discografico, oltre a garantire la copertura di un più ampio spettro di generi musicali. Senza dimenticare che, negli ultimi anni, il numero di aspiranti all'Ariston è sempre stato assai elevato, con conseguente infoltimento della schiera dei musi lunghi a selezioni concluse: che male farebbero anche solo due posti in più per ogni sezione, arrivando rispettivamente a diciotto e a dieci concorrenti? Meno cantanti vuol dire anche più spazio per riempitivi superflui e di scarsa consistenza artistica, lo abbiamo tristemente imparato negli ultimi anni. 
Considerazioni che valgono a maggior ragione per le Nuove proposte, categoria davvero ridotta al lumicino: che Conti si prenda almeno l'impegno di non ghettizzarla come hanno fatto molti dei suoi predecessori, dando invece a questi ragazzi una ribalta all'altezza, con collocazioni orarie consone: l'ideale sarebbe ripercorrere le orme di un antico patron, Adriano Aragozzini, che faceva esibire, nelle prime serate, un veterano e un esordiente in alternanza: una forma di scaletta "democratica" e rispettosa delle esigenze di giovani desiderosi di mostrarsi a una platea sconfinata. 
Anche il meccanismo di gara studiato per loro è fortemente penalizzante: le sfide uno contro l'altro a eliminazione diretta (sul modello di Sanremo '77, ma pure utilizzate qualche anno fa da Morandi) sono forche caudine senza appello, mentre in una gara canora ogni proposta dovrebbe essere messa a confronto con tutte le altre: così, accoppiamenti infelici rischiano di mandare subito fuori pista opere di spessore e spingere avanti prodotti più modesti. E' una situazione in cui l'elemento competitivo, come detto fondamentale per la riuscita del Festival, assume un peso eccessivo, andando a fare aggio sulle valutazioni più prettamente artistiche. 
RITORNANO I DEMOSCOPICI! - L'altra "grande" novità è il ritorno in pompa magna della "famigerata" giuria demoscopica, oggetto nel passato di strali spesso giustificatissimi per via di scelte e votazioni incomprensibili, a volte prive di qualsivoglia significato tecnico; va anche detto che le altre giurie utilizzate negli anni non si sono propriamente coperte di gloria, in questo senso: sul televoto è meglio stendere un pietoso velo, ma anche i vari gruppi di giurati "di qualità" (quest'anno si chiamano "esperti") hanno sovente fatto inorridire per le loro valutazioni, per tacere dei personaggi che spesso sono stati inseriti in questi "comitati di saggi" senza vantare titoli rilevanti in fatto di competenze musicali. Ad ogni modo, per quanto mi riguarda, sono dettagli secondari: le classifiche artisticamente attendibili, a Sanremo, storicamente rappresentano delle eccezioni. Enormemente più frequenti sono le graduatorie "bislacche": in questo senso, ho sempre visto le giurie sanremesi come un mezzo per aumentare il chiacchiericcio polemico attorno alla rassegna e nulla più, e va detto che l'obiettivo è stato sempre centrato in pieno. 
Da segnalare, infine, il rilievo dato nel regolamento all'evento Eurovision Song Contest come manifestazione legata da un fil rouge a quella rivierasca: una legittimazione che completa il percorso iniziato nel 2011, col rientro dell'Italia (apripista fu Gualazzi) nell'arengo canoro internazionale dopo un'assenza di tredici anni (dal '97: gli ultimi erano stati i Jalisse); ebbene, quest'anno il vincitore assoluto di Sanremo avrà "facoltà" di prender parte all'Eurofestival, nel senso che non sarà obbligato a farlo, ma nel caso manifestasse la propria disponibilità rappresenterà la "prima scelta". 
IL REQUISITO DELL'INEDITO - Il resto, come detto, è solo un'imbiancata alle pareti. Identici i criteri di ammissione nelle due categorie, confermata la "serata evento" (il giovedì), quest'anno dedicata all'esecuzione, da parte dei sedici Big, di cover di grandi evergreen della musica italiana e internazionale. Da elogiare, questo sì, il mantenimento del requisito dell'inedito (anche se da qualche anno il regolamento parla, con una interpretazione più estensiva, di "canzoni nuove"), in tempi in cui moltissimi lo considerano fuori tempo: sbagliano, perché una delle maggiori attrattive del Festivalone è da sempre il lancio, in contemporanea, di venti - trenta brani "appena sfornati", nuovi in assoluto, mai ascoltati prima. E' già tanto che, da qualche edizione a questa parte, si sia allentata la stretta per quanto riguarda i Giovani, i cui pezzi vengono messi online con alcune settimane di anticipo sul sito della Rai; ma per i Big l'obbligo rimane, giustamente, rigorosissimo. Questo è quanto, ed è inutile dilungarsi, perché rischiano di essere parole scritte sulla sabbia: sono i nomi a fare uno spettacolo, ancor di più uno spettacolo come il Festival. Solo quando saranno noti si potrà dire se il Sanremo di Conti avrà lo sguardo rivolto al futuro, al passato o, come sarebbe più giusto, in una terra di mezzo in cui c'è posto per tradizione e contemporaneità. 

martedì 16 settembre 2014

LE MIE RECENSIONI: "SI ALZA IL VENTO" DEL MAESTRO HAYAO MIYAZAKI


Hayao Miyazaki è arte e poesia allo stato puro. Lo si sapeva da tempo, e l'ultima sua creatura, "Si alza il vento", lo certifica definitivamente, consegnando alla storia dell'animazione un capolavoro realizzato in punta di matita, quasi sottovoce, lieve e soffuso anche nel tratteggiare le tonalità narrative più aspre. Il film ha chiuso oggi la sua breve avventura italiana: quattro giorni nelle sale, troppo pochi per.... diffondere adeguatamente nel nostro Paese il verbo di un autore fra i più geniali a cavallo fra Novecento e Duemila.  
SOGNO E SEMPLICITA' - Miyazaki è l'anima semplice, naif e sognatrice della variopinta galassia dei cartoni giapponesi, sia in forma seriale per tv che nella dimensione cinematografica. "Conan il ragazzo del futuro" (per inciso, uno degli anime che più hanno segnato la mia vita emotivamente e culturalmente) va considerato un punto di riferimento obbligato quando si parla del poliedrico fondatore dello Studio Ghibli, e già in quel gioiellino anni Settanta comparivano tematiche e leit motiv che avrebbero poi caratterizzato quasi costantemente l'opera del maestro: l'esaltazione della natura, senza però nasconderne le minacce per l'uomo, il ripudio della guerra e delle mostruose derive a cui può portare un massivo sviluppo della tecnologia, e poi i sentimenti più genuini, l'amore e l'amicizia, vissuti con candore e pienezza fino in fondo.
AMORE E GUERRA - Tutti elementi che si ritrovano in "Si alza il vento", la storia di Jiro, un ragazzino giapponese appassionato di aviazione, che vive idealizzando la figura del progettista di aerei Giovanni Battista Caproni, viaggiatore, quest'ultimo, sulle ali di una dimensione sognante che permea integralmente il film; il ragazzo è in costante simbiosi onirica col suo personale mito italiano: Caproni lo ispira, lo indirizza e lo sostiene, rendendolo partecipe dei suoi progetti a volte realistici, a volte visionari.
Jiro col tempo si realizzerà professionalmente, affermandosi proprio nel settore dell'ingegneria aeronautica (verrà assunto dalla Mitsubishi), conoscerà l'amore nella fragile figura di Naoko, già incrociata in gioventù durante un viaggio in treno proprio nel giorno in cui un terremoto devastò Tokyo. E sarà un amore intenso e dolcissimo, minato dalla grave malattia di lei. L'amarezza e la malinconia prenderanno così gradatamente il sopravvento, perché, alla fine, anche l'entusiasmo riversato da Jiro nel lavoro è servito solo ad alimentare indirettamente gli impeti guerrafondai del suo Paese, che utilizzerà su larga scala gli aerei da lui progettati nelle azioni belliche del secondo conflitto mondiale. 
NATURA E TECNOLOGIA - Una summa del Miyazaki pensiero, si diceva. Il contrasto natura - tecnologia: la giovinezza di Jiro e la sua storia d'amore con Naoko sono avvolte da ambienti puri e incontaminati: la campagna, interminabili distese di verde, e il "vento" del titolo che sottolinea, col suo periodico levarsi, i momenti più significativi della loro vicenda, gli incontri e le separazioni, come un magico orologio del cielo, senza lancette, senza ingranaggi, eppure preciso al secondo. Di contro, il lavoro del ragazzo è quanto di più "moderno" e industriale potesse essere concepito all'epoca, negli anni fra le due grandi guerre. Una dicotomia non priva di spigoli aguzzi: la natura può essere anche matrigna, vedasi il terrificante terremoto di cui si è detto, che richiama alla mente i frequenti maremoti della citata storia di Conan; ed è in chiaroscuro, direi persino ambigua, la "missione" professionale del protagonista: che ama il volo, la tecnologia dell'aviazione, gli aerei da combattimento, vive la sua avventura con spirito positivista, all'ingenuo inseguimento del progresso, ma in cuor suo sa benissimo che le sue creazioni non potranno avere, alla lunga, che un solo, triste impiego. Jiro non ha fatto altro che assecondare il suo istinto, la sua passione di ragazzino, il suo talento innato, il genio ingegneristico. Non poteva e non voleva fare altrimenti, probabilmente, ma a volte percorrere la propria strada, coltivare le proprie propensioni, significa addentrarsi in un cammino pieno di sofferenza, che riserva spine dolorose, angoli bui, e spacca l'animo in due, come nel suo caso. E' la vita, e forse non si può fare altrimenti. 
GUERRA E PACIFISMO - Del resto il ripudio della guerra, altro punto fermo della filosofia del maestro, nelle sue opere mai è disgiunto dall'inevitabilità di doversi confrontare appieno con lo stesso mostro bellico. Accade in "Si alza il vento" come in "Conan", ove i protagonisti lottano per creare un mondo in cui regni la pace, ma per farlo devono immergersi fino agli occhi nelle più cupe atmosfere da battaglia, scontrandosi con reduci di antichi eserciti armati fino ai denti, districandosi fra torture, rapimenti e colossali fortezze volanti (il "Gigante", di cui in questo film compare una quasi - copia, un aereo ad esso molto somigliante, soprattutto nelle enormi ali). Ma mentre nella serie di quasi quarant'anni fa questo contrasto era infine risolto positivamente, qui rimane sospeso in una terra di mezzo che, in definitiva, imprigiona il protagonista in un involucro di incompiutezza e insoddisfazione.
Il sollievo non può che arrivare dall'amore, delicato e pulito, fatto di piccoli gesti teneramente adolescenziali ma anche di grandi dimostrazioni di un affetto maturo e radicato, come da tradizione miyazakiana. Devozione reciproca, fra Jiro e Naoko, con toni, linguaggi e comportamenti lontanissimi dalla nostra epoca. Un amore amaro ma favolistico, destinato all'infinito, più forte della tubercolosi della ragazza,
GRANDE STORIA E QUOTIDIANITA' - Poesia e levità, ma anche tormento e inquietudine di fronte alle tensioni di anni carichi di presagi nefasti, poi concretizzatisi. C'è un mondo in armi sullo sfondo, c'è il nazismo, il tutto ritratto con pennellate rarefatte, ma sono ombre che si percepiscono ben presenti e concrete. C'è la voglia, la necessità di una vita pura, alimentata da genuini entusiasmi, che deve però convivere con gli aspetti peggiori della quotidianità. C'è l'anima di Miyazaki, insomma, in tutte le sue sfaccettature. C'è il suo tratto immutabile, riconoscibile e non inquinato dalla moderna computer grafica, impreziosito da dialoghi ricercati ed eleganti, a tratti barocchi, ma comunque alla portata di tutti. C'è, infine, la speranza in un ripensamento del maestro: che questo non sia, davvero, il suo canto del cigno artistico.  

lunedì 15 settembre 2014

LE MIE RECENSIONI: "I MERCENARI 3 - THE EXPENDABLES 3"


Il limite di certe pellicole "seriali" è che, una volta scoperto il "trucco" narrativo che ne tiene in piedi l'impalcatura, alla lunga scadono in una stanca e banale ritualità, mentre vengono sovente a mancare imprevedibilità e mordente. Il "trucco", nella saga dei Mercenari ormai giunta al terzo capitolo, è essenzialmente rappresentato dalla lettura vagamente ironica, dalla smitizzazione dei tipici stilemi degli action movie anni Ottanta - Novanta, i film degli eroi nerboruti in lotta per il bene con metodi assai spicci, delle sparatorie, delle gragnuole di bombe e dei morti ammazzati senza soluzione di continuità. Un'ironia evidente nell'esagerazione di tali stilemi, accentuati oltre ogni limite fino a diventare caricatura; e dunque, nella fattispecie, un florilegio impressionante di muscoli, uccisioni in quantità industriali e sopravvivenze miracolose, con i "buoni" che escono pressoché indenni da sparatorie, esplosioni devastanti, repentini crolli di edifici. Tutto ok, ma l'operazione "ti smonto il mito" aveva già raggiunto l'acme con la seconda uscita di due anni or sono.
Ne "I Mercenari 3" quella lettura disincantata, quel voler sdrammatizzare quasi auto - canzonandosi, rimangono un po' troppo sullo sfondo, in secondo piano. Il punto di vista umoristico è pur sempre presente, ma depotenziato e più sfumato rispetto alla... seconda puntata. Sembra quasi si voglia tornare a prendersi sul serio, come accadeva nell'epoca d'oro di questi action all'americana un po' troppo sopra le righe. C'è più drammaticità ma, venti - trent'anni dopo, appare artefatta e fuori luogo. L'esasperazione delle scene di violenza si è attenuata, i picchi trash sublimati nella battuta cult "riposa in pezzi!", pronunciata da Stallone nel secondo capitolo dopo aver letteralmente ridotto a brandelli un avversario a forza di mitragliate, non vengono più toccati. Mi è parso persino di ravvisare un po' di pudore nella rappresentazione della morte: meno sangue, meno ferite, meno voyeurismo nelle inquadrature dei cadaveri, il che sarebbe nobilissimo e apprezzabile per i thriller seri, non per questo "all stars" in cellulosa rudemente rievocativo dei bei tempi che furono. 
Fra uno Sly fin troppo compreso nella sua parte come se fosse nell'85 durante le riprese di "Cobra", e uno Wesley Snipes che tenta di fare il brillantone riuscendoci però solo in parte, a tenere in piedi il film è un Antonio Banderas in stato di grazia. Il suo personaggio è l'unico che abbia colto alla perfezione lo spirito degli "Expendables" nella sua totalità: logorroico e un po' folle, col cervello minato dalle troppe brutture a cui ha assistito in missioni precedenti, eppure profondamente umano, tiene alto il morale della truppa e ammorbidisce le fasi più cruente col suo umorismo. Un po' il James Bond della situazione, con la battuta sempre in canna, anche se certo in stile lontanissimo dall'algido "british" del celebre agente. Il resto del cast è inferiore alle attese: se la cava Harrison Ford in veste dirigenziale ma spericolato al punto giusto da pilotare acrobaticamente elicotteri, inconsistente Schwarzenegger, troppo poco lo spazio riservato allo statuario Dolph Lundgren, mentre il gruppo di "nuove proposte" mercenarie è una trovata che mette un pizzico di sale nella trama, ma con personaggi banalotti che non bucano più di tanto lo schermo.
La morale è forse vagamente retrograda: sì, largo ai giovani, che però sono un pochino imbranati, si danno arie da padroni assoluti delle nuove diavolerie tecnologiche ma si fanno mettere nel sacco come pivelli dal cattivo di turno, un dignitoso Mel Gibson, tanto che alla fine devono intervenire i vecchi fusti a risolvere i guai. Come dire: finché si può, sempre meglio affidarsi all'ancien régime, teorema che farebbe la felicità della classe dirigente italiana... I venti minuti finali, ritmati e godibili, riscattano in parte l'opera, tra l'assurdità di un'intero esercito sterminato da una banda di una decina di guerriglieri (i "nostri eroi") e la tesissima sfida finale, con tanto di semi - citazione stalloniana in stile "qui la legge finisce e comincio io" (sempre da "Cobra"). Ma Sly, creatore di questa saga, deve fare attenzione: allungare ancora il brodo con un quarto capitolo potrebbe risultare esiziale, Rocky e Rambo dovrebbero averlo insegnato. 

mercoledì 10 settembre 2014

LA NUOVA ITALIA E' IMMOBILE - ZAZA, COME VIALLI E MANCINI DELL'86. E L'UNDER 21 VA, ALLA FACCIA DEGLI STRANIERI

                                              Zaza: in Norvegia primo gol azzurro

Da Vialli - Mancini a Immobile - Zaza. Non si tratta di un incauto accostamento, non è mia volontà avventurarmi in un paragone al momento (al momento...) improponibile. Si parla, semplicemente, di corsi e ricorsi storici. Nel 1986, i gemelli del gol sampdoriani erano i virgulti più rampanti di una scintillante nouvelle vague calcistica italiana, sbocciata in una splendida Under 21 e gradualmente trapiantata nella Nazionale maggiore da Azeglio Vicini, per ricostruire la squadra dopo il naufragio del Mundial messicano. Oggi, dopo un ancor più grave fallimento iridato, Antonio Conte tira fuori dal cilindro un'estemporanea coppia d'attacco, inventata quasi dal nulla in pochi giorni di ritiro: due ragazzi ai quali è stata affidata in prima battuta una difficile risalita, e che si stanno facendo carico del gravoso compito con prontezza, maturità, efficacia. 
FURORE ZAZA - Sì, questa nuova - vecchia Azzurra (nuova nello spirito e nelle idee di gioco, tendente al vecchio nell'organico) si rispecchia soprattutto nei furori offensivi di Ciro e Simone. Più il secondo del primo, a giudicare dalle prime due uscite del Club Italia: se nel vernissage barese con l'Olanda entrambi avevano fatto ammattire la difesa dei Tulipani terzi nel mondo, ieri a Oslo è stato soprattutto il puntero del Sassuolo a dare un preciso indirizzo alla partita: si è inventato un gol quasi dal nulla, gravando poi come un incubo sulla legnosa retroguardia di casa, sempre pronto a cambiare passo e a scattare in profondità, e quando l'ha fatto per poco non trovava il secondo centro personale, con un tiro schiantatosi sulla traversa. Tornando all'impegnativo accostamento iniziale, uno Zaza più incisivo e decisivo, in queste sue prime apparizioni azzurre, del Vialli che, all'epoca, impiegò parecchie partite prima di rompere il ghiaccio e trovare il gol liberatorio. 
STELLE DI BASSA CLASSIFICA - Altri tempi e altra storia, certo. Tempi da rimpiangere acutamente, in cui le squadre italiane erano piene di giocatori di casa nostra, si potevano allestire due Nazionali non molto distanti fra loro per competitività (qualcuno ricorderà, in quel periodo, la splendida Olimpica di Zoff, con Tacconi, Tassotti, Cravero, Romano, Carnevale e Virdis), e i giovani non faticavano a trovare spazio. Oggi, invece, i migliori prodotti del vivaio sono costretti a una lunghissima gavetta in squadre di media - bassa serie A, quando va bene, oppure a intristirsi nelle categorie inferiori. Già detto e ridetto su queste pagine, ne ho quasi la nausea: però è un fatto che il prode Zaza, come il suo compagno di club Berardi, i loro primi scampoli di gloria li stiano trovando in una compagine certo organizzata e di buoni mezzi finanziari, ma lontana dai vertici del nostro calcio. Mentre Immobile, dal canto suo, dopo una stagione da capocannoniere ha dovuto addirittura lasciare la penisola. Ciro e Simone rappresentano una condanna inappellabile per chi muove i fili del nostro movimento: sotto di loro altra "benzina verde" è in ebollizione, ma non è lottando in eterno per la salvezza o per la promozione in A che i nostri emergenti matureranno l'esperienza necessaria a far la differenza agli alti livelli. 
CONCRETEZZA - In Norvegia si è vista un'Italia meno brillante rispetto al folgorante esordio pugliese, ma era ampiamente prevedibile. Siamo all'inizio di un percorso e di lavoro ce n'è in abbondanza, ma conforta, se non altro, la concretezza dimostrata nel saper difendere e arrotondare il risultato, laddove l'ultima Nazionale prandelliana aveva totalmente smarrito la capacita di tesorizzare le reti segnate. Certo non tutto è filato liscio: al di là di quei dieci minuti di sofferenza nella parte iniziale della ripresa, con difensori che hanno mostrato qualche sbavatura di troppo una volta messi sotto pressione (ma sappiamo benissimo che, sul piano della qualità del "materiale umano", i nostri più gravi problemi sono proprio in retroguardia), mi è parso che tatticamente esistano ancora diversi intoppi. 
CENTROCAMPO IGNORATO - Alcune strade di gioco non sono ancora sufficientemente battute, nella costruzione ci si affida troppo alla terza linea: Bonucci è bravissimo ad appoggiare l'azione offensiva sia in fase di lavorazione che di finalizzazione (lo dimostra la perentoria inzuccata del 2 a 0), ma l'impostazione non deve assolutamente gravare sulle sue spalle. A Oslo i centrocampisti hanno avuto scarsissimo peso nella tessitura della manovra: De Rossi ha fatto legna e poco più, Giaccherini si è mosso molto ma ha vanificato alcune azioni promettenti con una certa approssimazione di tocco, mentre ben altra presenza nel vivo del gioco ci si aspetta da Florenzi, parzialmente riscattatosi solo nel finale con un paio di pericolose incursioni in area. Tuttavia, nel complesso i nostri hanno tenuto il campo con discreta disinvoltura e rischiando davvero il minimo sindacale. Gli scandinavi non sono più una grande squadra, forse lo diventeranno lavorando sui giovani della loro Under (lassù, in questo senso, il coraggio non manca, anche se di alternative ne hanno ben poche), però da quelle parti abbiam sempre sofferto, anche schierando Nazionali più competitive e "scafate" di questa. L'ottimismo è d'obbligo. 
DUE PAROLE SULL'UNDER 21 - Un anno fa, più o meno di questi tempi, la nuova Under 21 faticosamente messa insieme dal neo CT Di Biagio prendeva un'imbarcata dal Belgio, che già all'epoca era la nazione calcisticamente più alla moda, sulla bocca di tutti, esempio di valorizzazione intelligente del vivaio; gli spauriti giovanotti della nostra rappresentativa parevano invece allo sbando, intrappolati nella loro insuperabile modestia tecnica, aggravata dalla mancanza di minutaggio e di esperienza "di campo".  Poche settimane dopo, con una formazione più razionale e meno raccogliticcia, gli azzurrini consumavano la prima vendetta andando a imporsi a Genk contro i reclamizzatissimi Diavoletti rossi. E in questi ultimi cinque giorni, prima con la rimonta sulla Serbia e infine con la goleada inflitta a Cipro, hanno conquistato il primo posto nel loro raggruppamento, qualificandosi per il barrage di ottobre come testa di serie. Mi piace scrivere adesso queste cose, a prescindere da quello che sarà il risultato del playoff: la nostra scuola calcistica è talmente solida da riuscire a produrre talentini anche in una congiuntura così sfavorevole: Zappacosta e Rugani, Bianchetti e Battocchio, Sturaro e Bernardeschi, Belotti e Berardi meriterebbero tutta la fiducia e la pazienza possibile, e invece annaspano in una palude di esterofilia irragionevole. Chi ha consentito che la nostra Serie A diventasse una indigeribile accozzaglia di multinazionali del pallone, un giorno dovrà essere chiamato a rispondere di questo scempio: possibilmente venendo escluso a vita da ogni consesso calcistico. 

venerdì 5 settembre 2014

LA NUOVA ITALIA DI CONTE: CON L'OLANDA UN SUCCESSO CHE VALE. SORPRESA: GLI AZZURRI SANNO ANCORA GIOCARE A CALCIO

                                         Immobile: ha aperto le marcature a Bari

La notizia più clamorosa giunta ieri sera dal San Nicola di Bari? Gli italiani sanno ancora giocare a pallone. Una piacevole riscoperta, dopo due partite mondiali, quelle con Costa Rica e Uruguay, da bollino rosso per la pochezza (direi anzi nullità) delle prestazioni, e dopo due stagioni in cui la Nazionale ha troppo spesso balbettato un calcio timido, mediocre, impreciso. Aggiungiamoci le granitiche certezze sparse a piene mani da troppi sedicenti esperti, secondo i quali i giovani di casa nostra non trovano più spazio nei nostri club semplicemente perché gli stranieri sono più forti. Lo si è visto poche ore fa, in effetti, quanto scarsi siano quei pedatori senza arte né parte che rispondono ai nomi di Immobile e Zaza, protagonisti di una serie di assolo e di duetti da poesia del football: la loro è stata, tutto sommato, la risposta più efficace, e sicuramente più elegante delle sonore pernacchie che meriterebbero certi soloni. 
RIVOLUZIONE CONCETTUALE - E già: ci voleva proprio, una ripartenza così. Ne aveva bisogno il Club Italia, ne avevamo bisogno tutti noi che, a vario titolo, gravitiamo attorno al movimento calcistico tricolore: nulla di che, intendiamoci, perché gli impegni con i tre punti in palio devono ancora arrivare, ma una iniezione di fiducia sostanziosa, e la rassicurazione sul fatto che non tutto sia perduto, che il serbatoio azzurro conserva ancora delle risorse di qualità a cui attingere. Il cambio di rotta portato da Antonio Conte è stato più che altro concettuale: il listone dei convocati, la formazione stessa scesa in campo poche ore fa, strizzavano palesemente l'occhio al disastroso gruppo che aveva lasciato il Brasile fra sacrosanti improperi di pubblico e critica. 
Ma sono cambiati spirito, idea di gioco, approccio alla gara: la plastica dimostrazione di come possa incidere profondamente, a volte, un avvicendamento alla guida tecnica. Un nuovo allenatore può davvero causare sconvolgimenti in positivo: ricompattare uno spogliatoio diviso, restituire motivazioni a giocatori che parevano già appagati, togliere certezze ad altri che credevano di aver diritto al posto per meriti acquisiti nel passato, individuare nuove soluzioni tattiche in grado di aumentare il potenziale di un team che si credeva avesse già toccato l'apice del rendimento. In pochi giorni, l'ex trainer della Juve ha quantomeno gettato basi credibili per questa rivoluzione.
SUCCESSO VERO - Il successo sull'Olanda è un successo che vale: perché i Tulipani, a parte Vlaar e Robben, si sono presentati con la formazione che ha centrato la medaglia di bronzo Mundial, e perché il 2 a 0 è maturato quando ancora le due compagini erano in parità numerica. Sappiamo ancora giocare a pallone, si diceva in apertura: dopo aver ammirato alcuni scambi in velocità e di prima dalla trequarti in su, tutti effettuati, quasi sempre, con proprietà di palleggio e precisione millimetrica, vien davvero da pensare che l'ultimo anno e mezzo di gestione prandelliana sia meritevole di entrare in un qualche trattato di psicologia applicata al calcio: non ce li siamo sognati, certi momenti di gioco sconfortanti, nei quali i nostri baldi rappresentanti manifestavano impacci imbarazzanti nella gestione della palla, controlli e passaggi imprecisi, incapacità di saltare l'uomo, lacune gravissime nei fondamentali. Certo, i problemi ci sono, ma l'impressione è che quando è il progetto complessivo a non funzionare, chi scende in campo dia davvero il peggio di sé, anche al di là dei propri oggettivi limiti. 
AGGRESSIVI E VELOCI A TUTTO CAMPO - La prestazione barese è stata una chiara indicazione di ciò che potrebbe essere la nuova Italia: una squadra aggressiva (e la nostra lo è stata finché la condizione fisica l'ha sostenuta), capace di attaccare a pieno organico (visti i difensori spesso in posizione avanzata, per partecipare attivamente alla costruzione), coraggiosa in certe situazioni di gioco, agile e mobile, capace di manovrare con rapidità per tagliar fori la difesa avversaria. Tutto troppo bene, ma il banco di prova, per quanto amichevole, era di assoluto valore, e certe indicazioni non possono essere fallaci. De Rossi, a parte l'impeccabile trasformazione del rigore, è stato il califfo della zona di mezzo, efficacissimo nelle due fasi, Bonucci è tornato a fare ciò che le sue qualità gli consentono: difendere e far ripartire l'azione con proprietà, dando il là all'impostazione, e non è un caso che il gol di Immobile sia nato da un suo lungo e preciso lancio. Ranocchia e Astori  tempisti e concentrati, con poche sbavature, mentre Darmian e De Sciglio, che ad occhio e croce dovrebbero essere titolari nel ruolo per diverso tempo, devono migliorare come continuità di spinta ma quasi sempre si son fatti trovare pronti se chiamati in causa in proiezione offensiva. E la coppia d'attacco ha regalato momenti di calcio oggettivamente squisito: peccato per Zaza, che avrebbe meritato la soddisfazione personale del gol, negatagli da Cilessen e da un eccesso di confidenza nel chiudere quel meraviglioso contropiede condotto assieme allo scugnizzo del Borussia Dortmund. 
INSERIRE ALTRI GIOVANI - In Norvegia già la musica sarà diversa, quantomeno per ritmi e intensità di gioco che i nostri saranno chiamati a sostenere: ma iniziare in siffatta maniera il nuovo percorso può risultare fondamentale, accresce la fiducia e la voglia di far bene. Poi, certo, il futuro dovrà forzatamente far leva su un maggior numero di nomi nuovi: non è con Quagliarella e Giovinco, tanto per dire, che potremo approdare a Euro 2016, e gente come Florenzi, Verratti, Destro ed El Shaarawy dovranno assolutamente trovare spazio, mentre in retroguardia si spera in un rilancio di Ogbonna; gli altri giovani (che ci sono, come avevo eloquentemente evidenziato in questo post dei tempi del Mundial) dovranno essere messi in condizione di giocare il più possibile nei club, ma su questo punto la mia fiducia è relativa, e allora ritorno su un mio vecchio pallino: il CT dovrebbe "forzare" la mano in tal senso, dando spazio nelle sue convocazioni anche a ragazzi che trovano pochi spiragli in campionato. Come fece Prandelli dopo Euro 2012, con le chiamate di Perin e De Sciglio. Ma ci sarà tempo per discuterne. La nuova Italia c'è, sembra esserci: un'Olanda quasi titolare non si batte mai per caso. 

martedì 2 settembre 2014

LE PAGELLE DEL CALCIOMERCATO - SECONDA PARTE: DAL MILAN AL VERONA

                                               Saviola, colpaccio dell'Hellas

MILAN - Il vero colpo potrebbe essere Pippo Inzaghi, mentalità vincente, profilo basso, giusto approccio a una realtà complessa e frustrata da anni di insuccessi. Per il resto, mercato che non sempre ha seguito logiche tecniche individuabili. Si è lasciato partire Balotelli (sulla gestione del caso mi sono già ampiamente espresso in questo post) sostituendolo con un Torres che da tempo ha perso lo smalto dei primi, formidabili anni di exploit internazionali, anche se per far bene in un contesto dimesso come la Serie A basta anche l'ultima, sbiadita versione del niño. Si è inseguito un Biabany che non è da grande squadra, e una volta sfumato ci si è buttati a pesce su Bonaventura, ottima scelta, elemento in grado di dare alla manovra offensiva un notevole quid di imprevedibilità, però si è lasciato andare Cristante, uno dei centrocampisti più interessanti della nouvelle vague di casa nostra. Ne risulta comunque un equilibrato mix fra italiani e stranieri: in attesa del fondamentale recupero di Montolivo, si punta con decisione su De Sciglio, Poli ed un El Shaarawy che vuole riprendere la sua vertiginosa ascesa, bruscamente interrotta un anno fa, mentre Diego Lopez fra i pali, Alex dietro e Menez sulla trequarti sono acquisti magari non di primissimo piano, ma in grado di portare un certo miglioramento alla caratura complessiva dei quadri rossoneri. 
NAPOLI - Stranieri, solo stranieri, fortissimamente stranieri. Ma mezze figure, in rapporto alle ambizioni partenopee, mentre il povero e spaurito Insigne si sente sempre più solo e incompreso e De Laurentiis sembra più intento a disfare che a costruire. Un mercato all'insegna dell'attendismo ha prodotto l'uscita immediata dalla Champions, rovinosa sotto diversi aspetti, se ne sono andati elementi magari non fenomenali ma di sicura utilità come Behrami, Dzemaili e Pandev, mentre risulta inspiegabile la rinuncia a Reina, andato a scaldar la panchina al Bayern. Dei nuovi arrivi, nessuno sposta sensibilmente gli equilibri e incrementa il valore della rosa: Koulibaly e De Guzman non sono dei campioni. Rimane un buon Napoli, aggrappato soprattutto al ritorno in forze di Maggio, al "cervello" di Jorginho e alla solita, pimpante banda di incursori (Hamsik, Callejon, Mertens), oltre che al cacciatore di gol Higuain, ma il divario con le primissime della classe non è stato colmato, anzi...
PALERMO - Non è stata una campagna acquisti esaltante. Troppe scommesse esotiche e movimenti di scarso rilievo sul fronte interno. Meglio aggrapparsi agli eroi che hanno fatto il vuoto in Serie B: Sorrentino e Munoz, Daprelà e Morganella, Vazquez e Dybala, il bomberino Belotti e quel Bolzoni che vuole finalmente dimostrarsi califfo della zona nevralgica anche nella massima categoria. Mantovani e Rigoni sono degnissimi professionisti ma non aggiungono granché, Bamba e Makienok degli emeriti sconosciuti, mentre è partito Hernandez che poteva essere un notevole asso da calare sul tavolo della lotta per la sopravvivenza. La sensazione  è che i tempi del Palermo scheggia impazzita della A siano lontani. 
PARMA - Il pasticciaccio UEFA è stato una mazzata, avendo di fatto vanificato il lavoro di un anno intero. Difficile rialzarsi, e in effetti il mercato ne ha risentito pesantemente. Se pensiamo che il vero colpo è stato trattenere Biabany, inspiegabilmente salito al rango di oggetto del desiderio milanista nell'ultimo giorno di mercato, le prospettive non sono allegre. Gravissima la perdita di Parolo, meno drammatica quella di Amauri, importanti le conferme di Mirante, Acquah e dei nazionali Paletta e Cassano, che in azzurro hanno trapanato l'acqua ma che nel contesto di casa rappresentano discrete garanzie, Poi tante, troppe scommesse: gli eterni incompiuti Santacroce e De Ceglie, Belfodil reduce dalla doppia fallimentare esperienza di Inter e Livorno, un Lodi enormemente ridimensionato dopo la brutta parentesi genoana. Ci si aggrappa al realismo e all'arguzia di Donadoni. Basterà? 
ROMA - Partenza alla grande, con due arrivi che, nel depresso mercato nazionale, possono senz'altro considerarsi dei gran colpi: Astori, che a ventisette anni e mezzo è ancora considerato un "emergente" ma che nella Capitale ha l'ultima possibilità per limare i difetti del suo gioco e mostrarsi difensore affidabile come i suoi mezzi tecnici e fisici gli impongono; e Iturbe, il giocoliere che ha mandato in visibilio per un anno i tifosi del Verona. Poi il rallentamento: Ashley Cole giunge in Italia dopo aver ampiamente già dato il meglio di sé, Emanuelson è una seconda linea, mentre dietro, per supplire alla partenza di Benatia, invece di responsabilizzare Romagnoli si sono andati a pescare Manolas e Yanga - Mbiwa, oltre ad altri presunti fenomeni esteri. Comunque il potenziamento, seppur lieve, rispetto alla scorsa stagione c'è stato, il che vuol dire che questa è una Roma da scudetto. De Sanctis, De Rossi e Totti non arretrano di un millimetro, Gervinho e Pianjc sono elementi di statura mondiale, Florenzi e Destro vogliono smaltire la delusione del mancato Mundial e inserirsi stabilmente nel giro azzurro. In Curva Sud si divertiranno.

                                              Astori, rinforzo per la Roma

SAMPDORIA - L'arrivo del pittoresco Ferrero faceva presagire chissà quali sfracelli, ma colpi a sensazione non ce ne sono stati, né potevano esserci, perché non siamo di certo di fronte a un emiro dalle illimitate disponibilità finanziarie. Comunque ingressi ben mirati: Viviano dovrebbe aver risolto il problema del portiere, anche se è reduce da una lunga inattività, il citato Romagnoli, Cacciatore (impeccabile a Verona) e un Silvestre in cerca di rivincite innervano una difesa già competitiva in De Silvestri, Gastaldello e Regini: l'addio inevitabile a Mustafi dovrebbe essere ben assorbito. Nel mezzo, da verificare la tenuta di Marchionni e di Palombo, ma l'effervescenza di Obiang e Soriano dovrebbe essere una garanzia, così come, dalla trequarti in su, il movimento e la potenza di tiro di Gabbiadini e la prolificità di Eder. Attesa per Bergessio, che però deve essere opportunamente assistito. Compagine da salvezza tranquilla. 
SASSUOLO - L'anno scorso ha sofferto fin quasi alla fine solo per aver buttato due mesi, con l'incomprensibile parentesi Malesani. Protagonista nel mercato di gennaio, protagonista di questa sessione estiva: Consigli è un portiere da leccarsi i baffi, Vrsaljko e Peluso esterni bassi da media - alta classifica, Taider porta personalità e dinamismo nel mezzo, e ci sono sempre Paolo Cannavaro, Brighi, Missiroli, Berardi, Sansone e Zaza. Con un gruppo, così, puntare a salvare la ghirba pare quasi riduttivo.  
TORINO - Povero Toro, verrebbe da dire: ha perso i due principali artefici della cavalcata culminata con la rocambolesca qualificazione UEFA "a tavolino", i nazionali Immobile e Cerci, e a sostituirli sono arrivati Amauri e Quagliarella. La differenza balza agli occhi: l'italo - brasiliano non ha mai brillato né per continuità né per grande prolificità, il napoletano ha iniziato col piede giusto ma, nel complesso, il paragone con i due illustri predecessori è improponibile. C'è però ancora Darmian, fra i più positivi della disastrosa spedizione azzurra in Brasile, è arrivato Molinaro che ha fatto bene, a Parma, nella stagione del ritorno in Italia, bravo a coprire e a inserirsi in avanti, mentre merita fiducia Benassi, tempra, cervello e buone intuizioni in avanti. Le sicurezze sono Padelli (ma la chiamata in Nazionale mi sembra un premio eccessivo), Glik, Moretti ed El Kaddouri.  Se Ventura vuole, come si spera, tenere fede al doppio impegno, ripetere l'ultimo campionato sarà dura, ma l'Europa deve essere onorata. Per lo spirito granata e per il ranking italico... 
UDINESE - Il solito porto di mare, la solita infornata di stranieri sconosciuti e sul cui valore solo il tempo potrà dire qualcosa. Inutile persino citarli. Persi Basta e Pereyra, è entrato Thereau, attaccante da sfide salvezza che irrobustirà il reparto avanzato, aggrappato alle alterne lune di Muriel e, come ha testimioniato la prima giornata, al sempreverde Di Natale, che marcia verso quota duececento gol. Fra i pali attesi ulteriori progressi da Scuffet; Hertaux e Danilo non dovrebbero tradire, Kone è un centrocampista svelto di testa e dai micidiali inserimenti. L'incognita è in panchina: finita la lunga era Guidolin, saprà il giovin Stramaccioni mantenere intatte filosofia e tranquillità ambientale che hanno fatto la fortuna dei friulani in questi anni dorati? 
VERONA - Spiace constatare come anche l'Hellas abbia sposato la linea dell'esterofilia più spinta. Solo Toni, nella formazione titolare, dovrebbe tenere alta la bandiera del calcio italiano. Per il resto, inevitabilmente perso Iturbe, i gialloblù hanno piazzato in dirittura d'arrivo il colpo Saviola: certo, non è come averlo preso sette - otto anni fa, ma a certi livelli la differenza è ancora in grado di farla, eccome. In pratica, un furetto d'attacco che dovrebbe garantire un altro torneo più che tranquillo agli scaligeri: aggiungiamoci un altro vecchietto terribile come Marquez, dominatore della retroguardia per carisma, classe e doti agonistiche, e avremo una formazione magari non freschissima nei suoi punti cardine ma potenzialmente in grado di recitare ancora il ruolo della mina vagante. Colpi così hanno fatto passare in secondo piano gli arrivi del tuttofare Lazaros, di Brivio, di Tachtisdis e di Nené, che pure un discreto contributo dovrebbero portarlo alla causa. (2 - FINE). 

LE PAGELLE DEL CALCIOMERCATO - PRIMA PARTE: DALL'ATALANTA ALLA LAZIO

                                             Parolo: ottimo rinforzo per la Lazio

ATALANTA - Cambiamenti non di poco conto, dopo alcune stagioni all'insegna di una sostanziale stabilità e della conferma di un nucleo storico affidabile e vincente, arricchito di volta in volta da pochi e azzeccati innesti. La "Dea" ha infatti perso in extremis due colonne come Consigli e Bonaventura, e non se ne può non tener conto nel valutare un mercato in chiaroscuro: si tratta di elementi che, con una parata o un'invenzione, hanno portato in dote un notevole surplus di punti, negli anni scorsi. Partenze certo più pesanti di quella di Yepes, il quale, carta d'identità alla mano, dovrebbe aver regalato gli ultimi sprazzi ad alto livello al Mondiale brasiliano. Percassi ha però "rimpatriato" il folletto Papu Gomez, l'ideale per attivare sotto porta Denis e un Boakye che insegue il decollo. L'intramontabile Biava e Dramé significano esperienza e sostanza in retroguardia, Cigarini continuerà a tessere sapientemente la sua tela nel mezzo, mentre dovrebbero trovare spazio ragazzi di casa nostra come Zappacosta e D'Alessandro, quest'ultimo protagonista della promozione del Cesena. Soprattutto, è attesa la valorizzazione di Baselli, una delle speranze del derelitto calcio azzurro, intelligenza tattica e piedi buoni per la zona nevralgica. 
CAGLIARI - Un sentito grazie a Zeman, "mosca bianca" perché ha deciso di puntare forte su un gruppo di chiara marca italiana e prevalentemente giovane, in un torneo malato grave di "esterofollia". Colombi o Cragno in porta, Capuano e Murru in difesa, Crisetig a reggere le fila della manovra nel mezzo, Longo in avanti accanto alla bandiera Sau. E poi ci sono sempre i pilastri Rossettini, Daniele Conti e Ibarbo. Non sarà facile, anche per l'integralismo tattico del boemo che non conosce mezze misure e coltiva da sempre una sola idea di gioco, ma chi ama davvero il football tricolore, quello vero, non può che augurare ai sardi di poter festeggiare, a maggio, la permanenza nella massima categoria. 
CESENA - Fra arrivi e partenze, il quadro tecnico non sembra cambiato di molto rispetto a giugno. Il livello, cioè, è più o meno lo stesso della marcia cadetta impreziosita dalla promozione all'ultimo tuffo, ma la Serie A è tutta un'altra cosa, anche se l'avvio è stato incoraggiante. Le certezze si chiamano Cascione, eclettico centrocampista settepolmoni di incommensurabile importanza tattica, e Marilungo, che vuole dimostrare di essere un bomber valido anche per la Serie A, dove ha sempre deluso dopo i promettenti esordi in maglia Samp. Leali è un'esponente della rifiorita scuola di portieri italiani, Lucchini rinsalderà la terza linea, Renzetti approda finalmente alla categoria cui sembrava predestinato ai tempi degli esordi giovanili nel Genoa, Camporese e D'Alessandro potrebbero essere acutamente rimpianti. Sarà sofferenza fino all'ultimo. 
CHIEVO - Come l'Atalanta, cambio di strategia: mercato movimentato dopo l'immobilismo pressoché assoluto di dodici mesi fa. Anche qui, discreta fiducia ai giovani made in Italy: ci sono i vicecampioni d'Europa Under 21 Bardi (che però deve far dimenticare certe amnesie della passata stagione) e Biraghi, c'è un Bellomo dai piedi raffinati e capace di alzate d'ingegno di gran pregio ed efficacia in fase conclusiva. Altri acquisti di notevole peso: Gamberini è un difensore di qualità che ha praticamente perso un anno (a Genova) per acciacchi fisici: se recuperato appieno, è un puntello importante, così come il tuttofare Izco e come uno Schelotto che deve ancora trovare la sua autentica dimensione e adeguata continuità (nelle giornate buone, è da grande squadra), Birsa da comprimario ha fornito discreti sprazzi nel Milan. In avanti Maxi Lopez è un salto nel buio (alla Samp solo l'acuto nel derby, poi il vuoto), senza Thereau il peso della ricerca del gol rischia di finire solo sulle spalle di Paloschi, comunque ormai sufficientemente solide. Se Corini trova l'alchimia giusta, la salvezza potrebbe essere meno problematica del previsto. 
EMPOLI - Sarà tremendamente dura restare a galla, diciamolo subito, eppure, spulciando nella rosa, qualche valore autentico si trova: la difesa, ad esempio, schiera Rugani e Bianchetti, fra i pochi difensori italiani "in erba" di reale prospettiva (del secondo ricordiamo uno splendido Europeo in Israele, l'anno scorso). Nel mezzo la scommessa è Guarente, centrocampista solido e qualitativo smarritosi fra gravi problemi fisici e troppi cambi di casacca, mente Laxalt, emerso gagliardamente dalla tormentata stagione bolognese, sa già cosa voglia dire lottare al calor bianco dei bassifondi. E in prima linea ci sono pur sempre Tavano e Maccarone, che però nel tempo si sono consacrati come bomber più da B che da A. Insomma, si ballerà di brutto, ma se gli azzardi della dirigenza andranno a segno, hai visto mai...
FIORENTINA - Gli ultimi movimenti in entrata, Kurtic e Richards, sono di secondo piano, non certo ciò che ci si aspetta da una grande che aspira a un ulteriore salto di qualità. I veri acquisti sono le conferme di pezzi da novanta come Cuadrado (soprattutto) e Borja Valero, mentre il tocco in più dovrebbe essere il ritorno a pieno regime di Mario Gomez e Giuseppe Rossi, la coppia d'oro del calciomercato 2013 di fatto mai vista vista in campo, se non a sprazzi. E per Pepito le premesse sono tutt'altro che incoraggianti: bisogna forse rassegnarsi ad averlo a disposizione solo part time? Anche i viola si sono consegnati alla più deteriore esterofilia: fra troppi nomi improponibili e di dubbia utilità (e valore) segnaliamo un Marin che vuole riportare indietro le lancette e tornare elemento di spessore internazionale, il Basanta terzino di grande applicazione visto nell'Argentina del Mondiale, e poi il talento cristallino di Bernardeschi, che dovrà sgomitare parecchio per ritagliarsi un posto al sole. In estrema sintesi, nessuna crescita effettiva, il valore del roster è grosso modo lo stesso, l'assalto alla dirigenza Champions rimane un sogno legittimo ma presenterà le medesime difficoltà del torneo chiusosi a maggio.

                                              Lestienne: baby belga del Genoa

GENOA - Per la prima volta dopo anni, il Grifone si presenta ai nastri di partenza con un gruppo storico rimasto impermeabile alle lusinghe del mercato: Perin, Burdisso, De Maio, Marchese, Antonelli, Bertolacci, Sturaro (di fatto già juventino), il recuperato Kucka e un Antonini purtroppo fermo ai box garantiscono la continuità di spirito e di spogliatoio rispetto a un'ultima stagione discreta, a parte il crollo negli ultimi due mesi. Gravi le rinunce a Matuzalem, anima del centrocampo, e all'insostituibile bomber Gilardino, ma la campagna acquisti ha portato nomi di assoluto interesse, fra elementi con una buona esperienza in Serie A, stranieri temprati da battaglie in tornei esteri di primo piano e giovani, locali e di fuorivia, dai piedi educatissimi: la difesa sarà rinsaldata dal fiorentino Roncaglia, Rosi è un laterale basso dal rendimento costante, Rincon un centrocampista di granito con una lunga militanza in Bundesliga, Perotti ha classe e guizzi mentre si dice un gran bene del belga Lestienne, esterno in grado di rifinire e di segnare. Merita fiducia Ragusa, giovane di buona tecnica e molto incisivo dalla trequarti in su, mentre l'eredità di Gila è sulle spalle di Matri e Pinilla, non male, dopotutto. La salvezza non dovrebbe essere in dubbio, nonostante il terribile calendario di partenza possa creare qualche scompenso psicologico, in caso di ripetuti rovesci (il primo, immeritato, è già arrivato). 
INTER - Pare una compagine più solida, equilibrata e logica, se confrontata al cantiere aperto della stagione 2013/14. Ci sono discrete certezze in tutti i reparti: in retroguardia Handanovic sarà protetto da un Ranocchia più sicuro e continuo e da un Vidic il cui approdo in Italia mette un po' di tristezza, se si pensa che era oggetto del desiderio dei nostri club almeno dal 2005, ma che è comunque difensore inappuntabile. C'è il versatile Medel pronto a dare il massimo in copertura, senza dimenticare le discese dell'esuberante D'Ambrosio, mentre nel mezzo Hernanes può fornire un contributo eccellente nelle due fasi e Kovacic è atteso alla definitiva esplosione. In attacco è forse mancata la ciliegina sulla torta (poteva esserlo Borini): Icardi e Palacio garantiscono una discreta messe di gol, mentre Osvaldo è tuttora da ricostruire, mentre è stato frettolosamente premiato con una convocazione in Nazionale senza alcuna motivazione logica. 
JUVENTUS - Il terremoto Conte è stato destabilizzante solo in parte, perché la sensazione netta è che fosse nell'aria da tempo. Allegri si ritrova a guidare una Signora senza grossi miglioramenti rispetto all'ultimo torneo: il declinante Evra, Pereyra, Romulo e Morata spostano poco a livello interno, nulla una volta varcati i patrii confini, mentre lo zoccolo duro italiano comincia a essere minato dall'età e dagli acciacchi in Buffon, Barzagli e Pirlo. Ci si affida alle sicurezze Bonucci, Chiellini, Marchisio, Vidal e Pogba, nonché ai puntuali gol di Tevez e Llorente, ma per il definitivo salto di qualità verso la gloria europea ci vuol altro. 
LAZIO - Protagonista del mercato. E' riuscita a portare in Italia uno dei migliori difensori di Brasile 2014, l'olandese De Vrij, eppure l'impresa, clamorosa di questi tempi, non ha avuto il risalto adeguato. Centrocampo poderosamente rinforzato con l'inesauribile Basta e con il nazionale Parolo, costruttore e finalizzatore, formidabile uomo ovunque. E ci sono ancora le garanzie offerte da Lulic, Ledesma, Biglia (ringalluzzito da un Mondiale di buona grana), un Klose che setaccerà le ultime pepite dalla sua dorata carriera, e il guastatore Candreva, animato da una poderosa voglia di riscatto dopo l'amara esperienza sudamericana. L'esordio non è stato felice, ma il team di Pioli può andar lontano, sperando che il pubblico seppellisca l'ascia di guerra. (1 - CONTINUA). 

DOPO IL CALCIOMERCATO: ITALIA COLONIZZATA. FRA I GIOIELLINI AZZURRI SOLO BONAVENTURA SALE DI GRADO

                                             Bonaventura: farà grande il Milan? 

Meno male che questa doveva essere l'estate in cui porre le basi per il rilancio del vivaio nostrano. Certo, a parole, come sempre. Perché a calciomercato finalmente chiuso un elemento balza agli occhi, ben più dei colpi annunciati e mai realizzati ("Falcao non va alla Juve": ma va?) e dei pedatori d'oltrefrontiera spacciati per fenomeni: solo uno dei "ragazzi italiani", inserendo in questa categoria quei calciatori giovani o ancora relativamente giovani facenti parte del "giro azzurro", è stato oggetto di vero interesse da parte dei nostri club di vertice. Stiamo parlando di Giacomo Bonaventura, gioiellino dell'Atalanta, sulle cui tracce si è lanciato in extremis il Milan (nei giorni precedenti c'era forse stato un timido tentativo dell'Inter), abile a battere in poche ore la concorrenza del Verona. Spiace per gli orobici,  ma per "Jack" è il giusto premio: ha già dimostrato, soprattutto nell'ultima stagione, di meritare ampiamente una chance di primo livello, prolungarne ulteriormente l'anticamera in una "media" sarebbe stato delittuoso, considerato che il trequartista ha già 25 anni, non è quindi propriamente un fuoriclasse in sboccio. 
GIOVANI AI MARGINI - E già: Bonaventura, e poi il vuoto o quasi: ci sarebbe da citare Bernardeschi, al quale auguro tutto il bene possibile, ma che per il momento sembra destinato a partire dalle retrovie nella Fiorentina (felice di essere smentito, nel caso). Gli altri prodotti rampanti di casa nostra sono rimasti ai margini del mercato. La "pista Borini" attribuita all'Inter si è volatilizzata nel giro di un paio di giorni, dei 23 della rosa azzurra in Brasile il solo Parolo (comunque un ventinovenne) ha cambiato casacca restando nel nostro Paese (dal Parma alla Lazio). I tanti virgulti in cerca di affermazione si sono trovati di fronte una freddezza generalizzata: Baselli è ancora a Bergamo, Berardi e Zaza (quest'ultimo neo nazionale) trascineranno il rinforzato Sassuolo a una presumibilmente facile salvezza, Gabbiadini sarà ancora un punto di forza della Sampdoria dove però difficilmente avrà ulteriori opportunità di crescita e di miglioramento, e dove oltretutto è stato raggiunto da Alessio Romagnoli, uno dei difensori più promettenti dell'ultima covata made in Italy, giovanotto che la Roma ha pensato bene di "esiliare" proprio quando avrebbe potuto rischiare puntando (anche) su di lui per colmare il vuoto lasciato da Benatia. E meno male che il Genoa ha resistito alla corte di Bologna e Catania per Antonino Ragusa, che è arrivato a potersi giocare l'occasione della vita in Serie A e invece rischiava di essere immediatamente dirottato al piano di sotto, per un esiziale e inutile prolungamento di gavetta. 
PIENI DI STRANIERI - Mi ero ripromesso, quest'estate, di salvare sul mio pc le immagini delle home page dei quotidiani sportivi italiani, giorno per giorno, per documentare lo sconsolante andamento del mercato. Non ce l'ho fatta, lo sconforto ha preso il sopravvento, ma fidatevi: le prime pagine online erano costantemente piene di improponibili nomi stranieri che solleticavano l'appetito delle nostre grandi. Purtroppo molti di questi appetiti si sono poi tradotti in reali acquisti (o prestiti: di soldi ne girano sempre meno). 
Il quadro è allarmante: in questi mesi sono approdati nell'ex Bel Paese quasi ottanta nuovi stranieri (e parliamo solo di massima serie). Non male, se pensiamo agli alti lamenti levatisi dopo la sconfortante spedizione Mundial pilotata da Prandelli. Che ci sia da rinforzare la rosa o da coprire un buco, si punta invariabilmente sul mercato d'oltrefrontiera, il nostro vivaio e le nostre serie minori sono ormai sistematicamente ignorati. 
COMAN SI', CRISTANTE NO - Fra i club di primo piano, Napoli e Fiorentina sono avviati a superare l'Inter, quanto a esterofilia: trovare un "azzurrabile" fra le loro fila è impresa ai limiti dell'impossibile, tanto che mi viene persino da capire (ma non giustificare) il crescente nervosismo di Insigne, un concentrato di classe pura non valorizzato a dovere sotto il Vesuvio. E nelle retrovie si è adattato persino il Verona, in cui il solo italiano destinato a partire titolare sembra essere lo stagionatissimo Toni. Il tutto mentre la squadra guida del nostro scalcinato movimento, dicasi la Juventus, pur avendo in giro per la Penisola diversi talenti in rampa di lancio (il già citato Berardi, ad esempio) preferisce affidarsi a un Under 21 francese, Coman, ovviamente subito titolare alla partenza del campionato. E lo stesso Milan, "benemerito" per l'acquisto di Bonaventura, dirotta però in Portogallo un'altra grossissima speranza del nostro football, Cristante.
Questo è un altro punto dolente: i giovani stranieri sembrano sempre più pronti dei nostri. Secondo alcuni perché, semplicemente, sono più forti. Ovviamente è una favoletta, e io, scusatemi, non ci sto più: la scuola italiana è da sempre una delle più prolifiche e competitive, la differenza rispetto al passato è che c'è meno pazienza verso i nostri babies, e che soprattutto gli spazi per loro si sono drasticamente ridotti, anche nei settori giovanili. I motivi di questo ossessivo, patologico rivolgersi al mercato di fuorivia sono più economici che tecnici, è chiaro. Lo dimostra il fatto che invece, all'estero, al "prodotto italiano" ci credono ancora: hanno lasciato la compagnia Balotelli, Immobile e Cerci (povero Toro...), oltre al Cristante di cui si è appena detto. 
CI VUOLE UN ESEMPIO DA SEGUIRE - Resta il fatto che se qualcuno non comincia a dare l'esempio, in un momento oltretutto favorevolissimo per una ripartenza in grande stile dei vivai, è notte fonda, e quella che ho definito in un precedente articolo "deriva ungherese", cioè il rischio che il nostro calcio declini repentinamente e irrimediabilmente come accaduto a quello magiaro, è davvero dietro l'angolo. In tal senso, meritano il massimo sostegno squadre come Cagliari, Genoa, Sampdoria, Sassuolo, che continuano a puntare su un forte nucleo nostrano (ma anche il solito Milan, via, unica fra le big con diversi azzurri di prospettiva in rosa), mentre mi aspettavo sinceramente più coraggio dal nuovo CT Conte, magari con una convocazione spiazzante tipo quella post Euro 2012 di Prandelli, che chiamò "pivellini" come Perin e De Sciglio, a corto o all'asciutto di esperienza in Serie A. Se poi stiamo ad aspettare il neo presidente federale Tavecchio stiamo freschi: vedremo quali saranno i suoi provvedimenti salvacalcio (dei quali, a quasi un mese dall'elezione, ancora non vi è traccia nemmeno a parole): il rischio di trovarci di fronte a un simil Renzi (tante chiacchiere e zero fatti) è concreto. Vedremo.