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venerdì 29 giugno 2018

MONDIALI 2018: BILANCIO DELLA PRIMA FASE GIRONE PER GIRONE


Tempo di bilanci parziali, a Russia 2018. Il primo turno si è chiuso con un solo 0-0 (la "passeggiata" fra Francia e Danimarca, che decisamente non si sono dannate l'anima per superarsi), 122 gol per una media di circa 2,5 a partita, non male se si pensa che si è trattato soprattutto di una fase interlocutoria della kermesse. Ancora troppi dubbi gravano su buona parte delle grandi, anche se tutte hanno in un modo o nell'altro centrato il traguardo qualificazione, eccezion fatta per la Germania, la cui caduta fragorosa di fronte alla Sud Corea già eliminata resterà negli annali del football.
INUTILE GIGANTISMO - Prima dell'analisi dettagliata girone per girone, mi limito ad osservare che la FIFA continua ad allargare il campo dei partecipanti alla manifestazione (dal 2026 48 rappresentative, a meno che la riforma non venga anticipata a Qatar 2022), ma alla fine siamo sempre e comunque dove eravamo trenta o quarant'anni fa, più o meno: l'Africa è stata cancellata nonostante le prove generose del Senegal e qualche sprazzo di buon calcio mostrato dalla Nigeria; cinque rappresentanti per il Continente nero sono già fin troppe, così come altrettante per l'Asia, col solo Giappone a superare (col fiatone) le forche caudine del girone eliminatorio, mentre della Corea del Sud rimane l'animosa prova contro gli ex campioni e dell'Iran l'impresa sfiorata in quel finale all'arma bianca coi portoghesi. E che dire dei tre posti  Concacaf (Nord e Centro America)? Ce l'ha fatta il solito Messico per il rotto della cuffia, nulla da fare per i debuttanti di Panama e per la Costarica, che comprensibilmente non è riuscita a ripetere l'incredibile exploit di quattro anni fa.
Sempre brillante il Sud America, che ha perso il solo Perù ma che comunque vanta la partecipazione del 50 per cento delle sue federazioni, qualche scricchiolio per la vecchia Europa che comunque regge più che dignitosamente, avendo perso quattro delle sue quattordici rappresentanti ma anche presentato alla ribalta protagoniste inattese, come le sottovalutate Svezia e Svizzera. Voglio dire, la distribuzione dei posti alle varie confederazioni è già generosa attualmente, nei confronti dei continenti più giovani calcisticamente: perché questa esigenza di continuo gigantismo?
LE BELLE PARTITE - La pletorica fase a gironi ha offerto spettacoli di grana buona, ma pochi picchi di eccellenza, ossia gare in cui il buon rendimento delle due contendenti si è accompagnato alla presenza di valori tecnici di spessore e alla piena espressione degli stessi: diciamo Portogallo-Spagna e non ci sbagliamo, aggiungiamo Serbia-Svizzera, Germania - Svezia, Colombia-Polonia grazie ai cafeteros, Argentina-Croazia per merito di questi ultimi. Belgio e Inghilterra hanno divertito contro Panama, ma era, per l'appunto, Panama, ossia una debuttante assoluta senza grandi mezzi per ben figurare. Uruguay e Giappone sono andate avanti grazie a organizzazione e concretezza, il Messico ha staccato pericolosamente la spina nell'ultima gara dopo aver dato scacco matto ai panzer, alcune "piccole" (Marocco, Iran, Corea) hanno offerto spunti di eroismo sportivo approfittando anche della debolezza, transitoria o definitiva, degli illustri avversari, la Francia ha più nascosto che esposto i suoi giovani assi, il Brasile sta carburando ma non traduce in adeguate quantità di gol la gran mole di lavoro di costruzione, l'Argentina... Basta, il resto lo leggerete sotto. Non prima di aver sottolineato un dato: benedetta Goal Line e benedetto anche il Var, fallibile perché manovrato da esseri umani ma comunque in grado di abbassare notevolmente il numero di svarioni arbitrali e, di conseguenza, di musi lunghi e polemiche.
GIRONE A - Un gruppo soft per non far troppo penare i padroni di casa. I patiti di storia del calcio ricorderanno Francia '98, quando Les Bleus di Zidane ebbero di fatto una prima fase di allenamento, venendo opposti a Sudafrica, Arabia Saudita e Danimarca. Ebbene, medesimo trattamento per gli uomini di Cherchesov, con la stessa Arabia, l'Egitto e l'Uruguay, e i due avversari più deboli da affrontare subito per mettere in ghiaccio la qualificazione. Così è stato, e la Russia ha pur mostrato un buon gioco d'assieme, spogliatoio moralmente solido e qualche picco tecnico notevole (Cerysev, Dzjuba), per poi cedere di schianto all'Uruguay in una caduta non priva di conseguenze, visto che le ha recapitato un avversario terribile per gli ottavi, la Spagna. Quanto ai sudamericani, hanno convinto più per concretezza che per il tono estetico del gioco espresso: ma ciò che hanno raccolto lo hanno meritato, Suarez ha smaltito in fretta la delusione per i gol mancati al debutto con l'Egitto, gli altri "grandi vecchi" Godin e Cavani tengono botta egregiamente, Gimenez mostra la sicurezza dei veterani e stanno emergendo i "genovesi" Laxalt e Torreira. Una squadra che non ruba gli occhi, ma è compatta e ben coperta. Può anche andare oltre l'ottavo col Portogallo, CR7 permettendo. 
GIRONE B - Pronostici rispettati alla lettera, Spagna prima e Portogallo secondo, ma la classifica è maturata attraverso sentieri tortuosi. Soprattutto nell'ultima giornata, le due grandi hanno rischiato l'inverosimile, i lusitani addirittura un'eliminazione in extremis che non sarebbe neppure stata scandalosa, di fronte a un Iran volitivo, aggressivo e tecnicamente non disprezzabile. Delle due iberiche ho scritto in un post dopo lo scontro diretto: il team di Fernando Santos, che già a Euro 2016 aveva mostrato di avere la sua forza nell'organizzazione difensiva, nel gioco al risparmio svolto nell'attesa di stanare avversari arrembanti, in Russia pare avere ulteriormente accentuato la sua vocazione sparagnina: tanti gregari al servizio di Ronaldo, che per fortuna dei rossoverdi in questo Mondiale si è acceso assai spesso. Solo nel debutto la Spagna ha mostrato sprazzi di raffinatezza  e di efficacia all'altezza della sua età dell'oro, poi è andata in calando e ha manifestato black out preoccupanti, soprattutto contro il Marocco. Del resto, l'incredibile avvicendamento in panchina poco prima del Mondiale non poteva non lasciare qualche strascico, quantomeno psicologico, magari anche solo a livello inconscio. 
GIRONE C - Anche qui tutto come previsto, ma il Perù avrebbe meritato di più: al ritorno sulla ribalta iridata dopo ben 36 anni, ha mostrato un gioco verticale, sempre rivolto verso la porta avversaria, propositivo, ma anche eccessiva prodigalità al momento di finalizzare. La Francia ha marciato col freno a mano tirato, mostrando le sue vere potenzialità in venti minuti di grana fine con i sudamericani e per il resto "dosandosi" col bilancino: il talento è tanto, i muscoli pure, ma l'Argentina già agli ottavi era di certo un'avversaria inattesa. Danimarca al traguardo senza grossi lampi e con un pizzico di buona sorte. Piuttosto triste il match fra transalpini e nordici, che hanno giocato a ritmi ridotti e senza dannarsi l'anima in fase offensiva, per uno zero a zero utile a entrambe. 
GIRONE D - La qualificazione argentina? Per ora è solo un brodino caldo. Da vedere nel prosieguo dove arriverà la Selecciòn, che continua a non convincere, anche nella versione parzialmente rivitalizzata vista con la Nigeria. Un buon primo tempo, un gran gol di Messi, poi, dopo il pari su rigore degli africani, è salito il nervosismo, la squadra pareva paralizzata dalla paura, e sono riemerse le pecche già note: una manovra in cui il filo logico si vede solo a tratti, la mancanza di idee chiare sul piano tattico, improvvisazione in molte fasi di gioco. Ci ha dovuto pensare il "terzino" Rojo a sbrogliare la matassa, ma per quanto visto finora il team di Sampaoli non sembra destinato a percorrere un lungo cammino. Resurrezioni improvvise come quella dell'altra sera possono però scatenare balzi di rendimento impensabili.
Rimane il dubbio sulla guida tecnica; se il cittì è stato davvero esautorato, la "pace" in seno all'albiceleste non potrà durare a lungo: le autogestioni dei calciatori non hanno mai portato nulla di buono. Ora come ora scommetterei maggiormente sulla Croazia, a volte bella a vedersi, sempre estremamente pratica, con solisti capaci di giocate sontuose ma mai fini a loro stesse (Rakitic e Modric). Sulla ribalta mondiale i limiti di talento dell'Islanda sono emersi brutalmente, mentre la Nigeria, sul piano del rendimento complessivo, meritava la qualificazione quanto l'Argentina, ma nel secondo tempo dello scontro diretto ha mancato tre o quattro palle gol nitide, e a certi livelli gli sprechi si pagano. 
GIRONE E - Il Brasile dei giocolieri e dei fuochi d'artificio offensivi è un lontano ricordo. La Seleçao ormai da anni bada soprattutto al sodo, pur non trascurando le finezze stilistiche, solo che nella versione Russia 2018 ha palesato due lacune non da poco: non riesce a raccogliere in proporzione a quanto semina (vedi sfide con Svizzera e soprattutto Costarica) e non sembra sempre in totale controllo della partita. Nell'ultimo incontro, ad esempio, in vantaggio sulla Serbia al culmine di un buon primo tempo, ha poi ceduto le redini della gara agli avversari, che caricavano infuriati minacciando a più riprese Allison. Ci ha dovuto pensare un difensore, un Thiago Silva mortifero come nel 2014, a chiudere i conti e a consentire ai suoi un po' di accademia.
Si aspettava Neymar, tanto fumo e poco arrosto, teso come una corda di violino e in grado di deliziare le platee solo a risultato acquisito, ed è arrivato invece un Coutinho forma e sostanza (qualcuno in Italia dovrebbe mordersi le mani). La Svizzera è meritatamente seconda: ha mostrato di saper soffrire in trincea (Brasile) ma anche di riprendere in mano un match e capovolgerne l'esito alzando con disinvoltura il baricentro, spingendo sull'acceleratore, trovando coraggio nelle soluzioni di tiro (contro la Serbia). Kolarov e compagni troppo a corrente alternata per puntare in alto, Costarica chiude con un punto e può andar bene così: d'accordo, aveva sfiorato la semifinale quattro anni fa, ma non è una grande potenza del football in grado di garantire risultati con continuità da un mondiale a un altro. 
GIRONE F - Toh, la Svezia al primo posto! Abbiamo passato mesi a fustigarci per aver ceduto il playoff di novembre a una squadra modesta, e invece... La verità è che quella scandinava era e rimane una compagine limitata qualitativamente e tatticamente: però ha fiato, strategia essenziale e lineare, e tre o quattro elementi di classe ed esperienza (Granqvist, Claesson, Forsberg, Berg). Un'Italia meglio gestita e meglio costruita poteva superarla, non ce l'ha fatta e non ce la stava facendo nemmeno la Germania, che sui gialloblù si era imposta fra mille riserve, e il cui declino è stato snudato dalla malizia messicana prima e dal muro coreano dopo, in una di quelle partite che rimarranno pietre miliari nella storia della Coppa del Mondo. Rinnovare si deve, come scritto l'altroieri: del resto, alcuni degli ex campioni iridati sono sulla breccia da otto anni e oltre. Il Messico è partito sparato e poi ha perso giri, sognava un calendario comodo per toccare finalmente la boa dei quarti, invece il crollo coi nordici l'ha dirottato fra le braccia del Brasile. Auguri.
GIRONE G - Tutto troppo facile per Belgio e Inghilterra, che hanno tolto di mezzo la fragile opposizione tunisino - panamense senza troppi problemi, a parte le sofferenze inglesi contro gli africani (sofferenze non di gioco, quanto di difficoltà nel trovare la rete risolutiva). Sarebbe stato bello vedere le due europee giocarsi il primo posto con le formazioni titolari, come fecero Italia e Argentina nella celeberrima sfida di Baires '78, ma così non è stato, e quindi ben poche considerazioni si possono trarre dall'ultima vittoria del team di Martinez, che nelle due precedenti uscite aveva destato una grossa impressione per armoniosità di manovra, copiosa produzione di gioco offensivo e di reti, ma gli avversari erano poco più che sparring partners. Poi, che i Diavoli Rossi annoverino nelle loro file elementi dai piedi buonissimi e di vasta esperienza internazionale non lo scopriamo oggi, e hanno tutto per andare molto lontano. L'Inghilterra è squadra "a fari spenti", con poche stelle di prima grandezza (Kane su tutti) ma tanti uomini di buon talento, una formazione dal gioco piacevole e redditizio. Se supera il terribile esame colombiano, diventa autorevole candidata alla Coppa.
GIRONE H - Grosso spavento per la Colombia, sfortunata il giusto all'esordio col Giappone ma poi rimessasi brillantemente in carreggiata, come esigeva il suo enorme carico di talento, anche se nell'ultima gara ha mostrato ancora qualche impaccio di troppo. James Rodriguez non ha la continuità ai massimi livelli di Brasile 2014, ma dispensa qua e là gemme di calcio doc (perfetto il suo assist per Cuadrado nel 3-0 alla Polonia). Senegal beffato sul filo di lana dal Giappone: africani peraltro parsi al di sotto delle loro possibilità, mentre gli uomini del Sol Levante hanno davvero fatto il massimo coi mezzi a disposizione. Evento storico: per la prima volta una qualificazione, quella dei nipponici, è stata decisa dal fair play, per il minor numero di cartellini gialli a parità di tutti gli altri criteri di "spareggio". Attesissima era la Polonia, divenuta invece la più grossa delusione del torneo (Germania a parte). Involuta e prevedibile, priva di forza penetrativa, fragile in tutti i reparti, ormai specializzata in vittorie inutili ad eliminazione già consumata (accadde anche nelle precedenti esperienze del 2002 e del 2006). Gli eredi di Lato, Deyna, Boniek, Zmuda e Smolarek devono ancora nascere.

mercoledì 27 giugno 2018

MONDIALI 2018: GERMANIA ADDIO. LA COREA AFFONDA I CAMPIONI, SOLO L'OMBRA DEI MERAVIGLIOSI TRIONFATORI DI RIO


Quella volta che incappò nella sua prima vera "Corea", alla Germania (Ovest) andò decisamente meglio: dopo la sconfitta shock con l'Algeria all'esordio nel Mundial '82, riuscì ugualmente a passare il turno in maniera non troppo elegante (la famosa partita-vergogna di Gijon con l'Austria) per poi spingersi faticosamente fino alla finalissima con l'Italia. Stavolta, invece, il tonfo è senza rimedio, ed è probabilmente il più fragoroso nella gloriosissima storia della Nationalmannschaft: 0-2 coi sudcoreani, e vacanze anticipate. In primis un dato che fa riflettere: per la terza volta consecutiva, e per la quarta negli ultimi cinque Mondiali, la squadra detentrice della coppa è costretta a salutare la compagnia già dopo le tre partite del primo turno. In linea di massima, la ragione è sempre la stessa: più che l'appagamento (perché i veri campioni non si stancherebbero mai di vincere), si tratta di una questione di logorio psico-fisico per i continui impegni ad altissimo livello richiesti al nucleo dei titolarissimi, in parte anche conseguenza dello scarso coraggio mostrato dai vari cittì nel rinfrescare le squadre a loro affidate, immettendo forze nuove. Fedeltà ai veterani oltre ogni evidenza: il tranello in cui caddero, in misure diverse, Bearzot ('86) e Lemerre (2002), Lippi (2010) e Del Bosque (2014).
INUTILE RICONOSCENZA - Una storia che si ripete da lustri, una lezione che non viene mai mandata a memoria. Ma fa scalpore che sia oggi accaduto alla Germania: la Nazionale solida e irriducibile per eccellenza, quella che è sempre e comunque sul pezzo, che può anche non vincere il trofeo ma un piazzamento, in un modo o nell'altro, riesce spessissimo a metterlo nell'albo d'oro; quella squadra espressione di un movimento che, a partire dai tempi del Mondiale 2006, abbiamo sempre ammirato per l'ottimo lavoro effettuato sui vivai, per aver "costruito" in casa tanti giovani di statura internazionale che assicuravano un ricambio pressoché costante.
DAL 2014 AL 2018, UN ABISSO - Tutto ciò è andato in frantumi fra Mosca, Sochi e Kazan. I veri tedeschi, in questo torneo, non si sono mai visti, se non, in parte, all'inizio e nel secondo tempo del match con gli svedesi, del quale avevo discettato in questo articolo pochi giorni fa. Fra i campioni del mondo 2014 e questa grigia versione delle selezione teutonica c'è un abisso: dove prima spiccavano brillantezza, precisione, continuità, compattezza, concretezza, in questi giorni abbiamo visto una compagine lacunosa sotto ogni aspetto. Già avevamo sottolineato i gravi squilibri fra i reparti emersi nelle prime due gare, e anche oggi la Corea del Sud ha approfittato della quasi totale mancanza di filtro davanti alla difesa dei bianchi per avventurarsi in numerosi contropiede: le sono mancati attaccanti adeguati alla ribalta iridata (quante esitazioni nell'andare al tiro, dopo un ottimo lavoro in fase di costruzione e rifinitura!), altrimenti avrebbe potuto dare contorni ancor più nitidi alla sua impresa. 
ANCHE KROOS DELUDE. AGGRAPPATI A GOMEZ - Contro gli asiatici, i detentori hanno ruminato gioco senza costrutto, con un possesso palla fin troppo fitto ma che produceva ben pochi sbocchi offensivi; la manovra subiva continui rallentamenti, certo per la buona copertura del campo attuata dai rossi, ma anche per la scarsa ispirazione di chi avrebbe dovuto accendere la lampadina in avanti: parlo di un Ozil che pare ormai alla fine della sua parabola in rappresentativa, ma anche Kroos, salvatore della patria con la Svezia, ha avuto rare intuizioni felici. Poi le occasioni non sono mancate, è vero: Goretzka di testa, Gomez due volte, Hummels, tutti da distanza ravvicinata, tutti rintuzzati dai difensori e dal saettante portiere Jo Hyun Woo. Ma a ben altra pressione offensiva, a ben altri forcing ci aveva abituati la Mannschaft: erano, quelli di questo pomeriggio, attacchi portati senza la necessaria lucidità, senza la freddezza sotto porta che è una caratteristica storica dei tedeschi, è nel loro DNA; e che la pericolosità sia aumentata con l'ingresso in campo dell'anziano Supermario non è neppure tanto incoraggiante: se l'ex Fiorentina sa ancora essere più vivo e incisivo in area rispetto a un Timo Werner, per fare il nome di una nuova leva, ebbene Low, o chi verrà dopo di lui, qualche domanda dovrà farsela, sia sulla bontà della selezione effettuata per Russia 2018, sia sulla prontezza degli emergenti per cimenti così impegnativi. 
COME L'ITALIA IN SUDAFRICA - La disfatta teutonica ha avuto contorni simili a quella azzurra in Sudafrica, otto anni fa: anche allora le prime due uscite dell'Italia avevano destato preoccupazione, ma restò la convinzione che le poche cose buone mostrate dai nostri potessero bastare per fare punti con la Slovacchia e approdare quantomeno agli ottavi: poi sappiamo come andò. Allo stesso modo, oggi nessuno avrebbe scommesso non dico su una sconfitta, ma neppure su una mancata vittoria di Neuer e compagni, eppure... Succede che si rompa la magia di una squadra che si pensava invincibile o giù di lì, e che il tramonto avvenga in maniera lenta ma inesorabile, come per l'Italia dell'82, o repentinamente, come per questa Germania che, come spesso si usa dire in ambito calcistico, non avrebbe fatto gol neppure se avesse giocato per un'altra ora, e che sul finire è stata punita dalle stilettate di Kim Young Gwon (tocco ravvicinato sugli sviluppi di un corner, con convalida dopo revisione VAR) e di Son Heung Min, in contropiede a porta vuota, con il citato Neuer a cercare improbabile gloria in avanti. 
IL LOGORIO DEL... PALLONE MODERNO - No, non eravamo abituati alla fragilità tedesca, una fragilità tale da aver zavorrato gli ex campioni trascinandoli fino all'ultimo posto nel girone. Nella loro storia una sola uscita di scena immediata in Coppa del Mondo, prima di quella odierna: nel 1938 in Francia, nientemeno, in un ottavo a eliminazione diretta per mano della Svizzera. E' casomai interessante rilevare che questi "spodestamenti" avvengono con impressionante regolarità nel calcio del Duemila, mentre fino alla fine del secolo scorso la kermesse iridata non aveva riservato "cadute degli Dei" così sorprendenti: solo il Brasile venne subito eliminato da detentore nel '66, mentre un caso a parte rappresenta quello dell'Italia del '50, che si presentò sì nelle vesti di bicampione venendo immediatamente estromessa dalla Svezia, ma all'epoca si era alla ripresa della Coppa del Mondo dopo ben dodici anni di interruzione per via della tragedia del secondo conflitto mondiale, e per sovrappiù il nostro calcio fu gravemente menomato, tecnicamente e moralmente, dall'annientamento del Grande Torino nella sciagura di Superga, datata 1949.
Dal 2002 a oggi, come detto all'inizio, quattro volte su cinque. I calciatori di punta delle selezioni trionfatrici sono, nel quadriennio successivo (ma spesso anche prima), sottoposti  a uno stress elevatissimo, arrivando a giocare un numero esorbitante di partite stagionali: logico che il logorìo sia più rapido, rispetto a quello dei pedatori di un tempo. Il segreto lo abbiamo detto: rinnovare, rinnovare, rinnovare, conservando un ridotto drappello di vecchi fusti a far da chioccia. Rimanere legati ai grandi vecchi pareva un problema soprattutto italiano, ma trovare tracce di questa ritrosia al cambiamento nella Nazionale-panzer era proprio l'ultima cosa che potessi aspettarmi. Pazienza: una caduta così traumatica servirà ai nostri "carissimi nemici" ad essere più umili, sentirsi meno "irriducibili" e più umani (già: la trita faccenda degli irriducibili tedeschi non dovremmo più sentirla almeno per due anni, si spera...), e a individuare le cause dei problemi (non molti, ma ci sono). Loro, almeno, dovrebbero saper affrontare la contingenza negativa e uscirne rafforzati, come han sempre fatto in passato. 

sabato 23 giugno 2018

RUSSIA 2018: GERMANIA COL FIATONE, RILANCIA IL SUO MONDIALE A FIL DI SIRENA. MA PER LOW ANCORA TANTI PROBLEMI...


Il successo sulla Svezia, in extremis e fortunoso il giusto, non cancella un'impressione piuttosto nitida: mai vista la Germania così in difficoltà nella prima fase di un Mondiale. Ci sono stati momenti duri, in passato, ma perfino un ko epocale come quello con l'Algeria nell'82 (la "Corea" dei tedeschi) venne assorbito con maggior disinvoltura. Questa sera, gli uomini di Low sono stati a lungo sull'orlo del baratro: e lo sono stati contro la Svezia, una compagine di cui, ahinoi, conosciamo fin troppo bene i pochi pregi e i molti difetti. E già: mai così vicina a una clamorosa eliminazione al primo turno, la Mannschaft; l'aver superato in quel modo un'impasse quasi fatale dovrebbe darle la carica sufficiente a battere con chiaro margine la Corea del Sud e approdare agli ottavi, ma occhio, perché la situazione nel girone F è molto fluida e, ad esempio, non è da escludersi un arrivo in tre a sei punti, con l'entrata in gioco dei vari coefficienti di spareggio, differenza reti et similia. 
GERMANIA SENZA EQUILIBRIO - Dopodiché, i problemi restano e andranno risolti. Strani davvero, questi campioni del mondo: sorprendentemente impacciati quando si tratta di equilibrare fase di offesa e di difesa, ciò che era stato uno dei loro punti di forza nella vittoriosa campagna brasiliana, facendone un complesso ai limiti della perfezione. La Germania con le quattro stelle, oggi, è in grado di elaborare manovre d'attacco belle a vedersi ma anche terribilmente incisive, come di prestare ripetutamente il fianco alle sciabolate in contropiede di avversari tecnicamente appena sufficienti: la classica, e nefasta, coperta corta. In tal senso, il canovaccio del match di Sochi è stato piuttosto elementare: ci si attendeva la partenza a razzo di Kroos e compagni e c'è stata. Casomai non era prevedibile che gli scandinavi si facessero così sollecitamente schiacciare verso la propria area. In quei primi minuti, sembrava davvero la partita di un gatto contro il topo, con l'illusione che il bunker gialloblù potesse cedere in breve tempo. Ma la Germania, oltre ad aver perso la sua storica compattezza, è anche assai più prodiga in avanti di quanto lo fosse quattro anni fa (cioè molto poco, se pensiamo che contro il Brasile concretizzò quasi tutte le occasioni create), e non è riuscita a cogliere da quel fiammeggiante avvio  il frutto di un gol anche meritato. 
L'OMBRA DI UN RIGORE E UN VANTAGGIO GIUSTO - L'assedio è durato poco: con l'avanzare dei minuti, ecco quasi una replica del match col Messico, solo coi tedeschi un po' più vivi e con il rivale di turno ancor più chiuso a doppia mandata. Ma il gioco dei detentori era accompagnato da scarsa lucidità, e la loro voglia di strafare consentiva alla Svezia di galoppare attraverso spazi insperati in fase di ripartenza. Su una di queste scorribande, Berg ha probabilmente subìto fallo da rigore in area, e col senno di poi possiamo ben dire che l'episodio abbia avuto un suo peso nell'andamento del match. Il gol di Toivonen prima del riposo, delizioso (e fortunato) pallonetto a scavalcare Neuer, era in fondo un giusto premio, per una Nazionale che aveva resistito alla tempesta iniziale prendendo poi le misure ai dirimpettai e sfruttandone il quasi inesistente filtro davanti alla terza linea. 
ALLA LUNGA, I LIMITI DELLA SVEZIA - Nella ripresa, stessa prevedibile sceneggiatura, solo che questa volta l'iniziale assalto all'arma bianca consentiva a Reus di trovare, sotto misura, la rete del pari. Qui sono emersi i limiti della Svezia: che ha una sola idea di gioco, ben precisa, rigida, dalla quale non deroga mai, e poi vada come vada. Contro l'Italia, nell'autunno scorso, le era andata bene, e lo avevo scritto qui sul blog, forse l'unico sulla Penisola a parlare di risultato almeno in parte bugiardo a proposito di quello sciagurato playoff: persino quel team azzurro, così in ambasce e così male assemblato da Ventura, aveva avuto una serie notevole di palle gol per sistemare la questione a Milano, dopo aver sfiorato il pari anche a Solna (legno di Darmian) nonostante una prova assolutamente grigia e incolore.
Il giochetto stava riuscendo in maniera eccellente anche contro i... tetracampioni, ma quando si ha una squadra così povera di classe internazionale e tatticamente all'abc, il rischio è sempre dietro l'angolo: il rischio di non sapere approfittare del momento delicato di un avversario a un passo dal ko, mancando il raddoppio con Berg (testa e deviazione di Neuer), di non sfruttare adeguatamente gli spazi creati dalla superiorità numerica per l'espulsione di Boateng, e di commettere ingenuità come quel fallo sul lato sinistro dell'area all'ultimo minuto di recupero. Poteva essere una sentenza, se si dispone di tiratori come Kroos, e lo è stata. 
IRRIDUCIBILITA', FRA MERITO E FORTUNA - Certo, la Germania aveva avuto l'opportunità di passare anche prima, pensando al palo di Brandt (eccellente nelle vesti di subentrante: era andato vicino al colpaccio anche contro il Messico), alla paratona di Olsen sull'inzuccata dell'anziano Gomez a colpo sicuro, e a un erroraccio dello stesso Gomez quasi a porta vuota, ma, dal basso della sua ridotta caratura, la Svezia aveva fatto la partita perfetta, chiudendo gli spazi e tenendo costantemente in allerta i difensori avversari, fin quando le risorse fisiche l'hanno sorretta (battersi costantemente in trincea è dispendiosissimo, a gioco lungo). E torniamo al punto di partenza: parlare di successo un tantino fortunoso, visto quando e come è arrivato, non vuol dire che i vincitori abbiano rubato qualcosa. Sono stati "irriducibili", come si dice così spesso dei tedeschi e molto più raramente di altre Nazionali che pure lo meriterebbero (come dimenticare gli acidi riferimenti al "culo di Sacchi" di molti giornalisti nostrani, ai tempi in cui gli azzurri risolsero un paio di gare di USA '94 agli ultimi giri di cronometro?). 
PER LOW TANTI NODI DA SCIOGLIERE - Sarebbe stato sorprendente il contrario, del resto: che il carattere e lo spirito di reazione non manchino ai pedatori teutonici è cosa arcinota, così come è noto che il gruppo di Low possa esprimere un calcio enormemente migliore di quello visto stasera. E' stata una vittoria "di nervi", di cuore oltre l'ostacolo, ma troppi ingranaggi ancora non girano in un meccanismo che pare parzialmente inceppato: dove sono le alzate di ingegno di Thomas Mueller dalla trequarti in su, dov'è l'efficacia di Timo Werner, dove sono la continuità e il raziocinio del fenomeno Kroos nel reggere le fila della manovra? E siamo sicuri che l'estro intermittente di Ozil non possa tornare utile alla causa? La squadra ha problemi in tutti i reparti: più ballerina in difesa, meno attenta nella copertura al centro, ancora in cerca di una formula giusta per l'attacco. Ma poter affrontare questi nodi sulle ali di una vittoria, accompagnata oltretutto da un pathos al diapason, è sempre la miglior medicina. Ciò non toglie che mercoledì Germania - Sudcorea e Messico - Svezia ci regaleranno un finale thrilling, per un raggruppamento in cui, asiatici a parte, nessuno è perduto e nessuno è già al traguardo. 

venerdì 22 giugno 2018

MONDIALI 2018: ARGENTINA SULL'ORLO DEL BARATRO, MESSI PIU' VITTIMA CHE COLPEVOLE, SAMPAOLI NON ALL'ALTEZZA


Cominciamo dai freddi numeri. Scorrendo all'indietro la storia dei Mondiali, fino alla prima volta in cui venne messa in palio l'attuale Coppa FIFA (Germania 1974), un'unica squadra è riuscita ad approdare alle semifinali dopo aver conquistato un solo punto nelle prime due gare: la miglior Turchia di tutti i tempi, quella di Sudcorea - Giappone 2002. Questo per dire che per l'Argentina, dopo lo 0-3 di Niznji Novgorod, le probabilità di sfangarla non sono moltissime ma esistono, specie in un girone, dietro alla mattatrice Croazia, abbastanza equilibrato, con innumerevoli combinazioni e ipotesi di classifica finale, anche a prescindere da ciò che accadrà oggi fra Islanda e Nigeria. Non tutto è perduto, dunque, sul piano statistico e matematico; dopodiché, il campo ha mostrato una realtà ben più amara. Per la Selecciòn sarà più facile affrontare i croati che non gli islandesi, dicevano molti esperti alla vigilia: contro una compagine che non gioca un calcio difensivo, i sudamericani potranno manovrare in spazi larghi e trovare più agilmente la via della rete. 
Profezie scritte sulla sabbia. Ieri sera è andata in scena una delle versioni più dimesse di sempre della Nazionale biancoceleste. E buttare la croce addosso a Messi, pulcino bagnato, è esercizio crudele e gratuito: ormai appurato che non è un novello Maradona, cioè uno in grado di prendere per mano i compagni nei momenti più difficili e di trascinarli quasi da solo oltre l'ostacolo, onestà vuole che si getti uno sguardo anche a ciò che gli è stato costruito attorno. E qui entra in scena il buon Sampaoli, cittì dal look bizzarro e discutibile (l'ascendente sui calciatori dipende in parte anche dal modo in cui ci si pone e ci si presenta, e il responsabile di una rappresentativa così importante dovrebbe attenersi a criteri di eleganza e sobrietà antichi ma sempre validi). 
La sua Argentina è una squadra senza un'idea di gioco, e sembra aver smarrito anche quello slancio agonistico che la sorreggeva nei momenti più bui, vedasi un Mascherano ormai agli sgoccioli e non più collante tattico e caratteriale della formazione. Un undici tenuto in vita da qualche sporadica giocata dei migliori solisti: solo che chi è in grado di fornirle,  queste scosse elettriche, rimane troppo spesso ai margini. E' il caso di Higuain e Dybala: solo al loro ingresso in campo si è vista qualche trama d'attacco plausibile e insidiosa: poca roba, certo, ma con un minutaggio così ridotto, e in un contesto così precario, fare di più era difficile. L'ostracismo decretato ai due juventini è incomprensibile: sono pur sempre gli uomini di punta di un club che, negli ultimi due anni, ha ottenuto una finale di Champions sfiorando poi la semifinale nel modo che sappiamo. Prima del loro ingresso in campo, l'unica vera palla gol per i sudamericani era giunta su un pasticcio difensivo avversario, con Perez a calciare fuori praticamente a porta vuota. 
Sampaoli ha incassato una lezione di calcio non dissimile da quella che toccò al nostro Ventura nel settembre scorso al Bernabeu. La Croazia attuale somiglia molto all'Italia campione del 2006: compagine organizzata ed equilibrata, capace di difendere e di soffrire per poi sprigionare un gioco d'attacco a volte bello a vedersi, quasi sempre tremendamente efficace: facile, del resto, quando si hanno in rosa tanti piedi buoni, in primis quelli di Modric, uomo-squadra superbo (ciò che Messi non è e non sarà mai), capace di tessere gioco e di concludere con spunti individuali folgoranti. Non mi sorprenderei di trovare i biancorossi in semifinale, ma dovranno mantenere questo standard di rendimento. Ieri, sono stati facilitati da un'Argentina in profonda crisi tecnica, con un trainer che non ha ancora trovato la quadratura del cerchio tattico e che punta su uomini inadeguati alla ribalta mondiale (Caballero, Salvio, Perez, Acuna, Meza...). E che, come i suoi predecessori Pekerman e Maradona, non è riuscito a ideare una formula per valorizzare al massimo la Pulce: l'unico ad andarci molto vicino fu Sabella, che infatti nel 2014 si giovò di diversi gol e giocate decisive di Leo per portare una Selecciòn più operaia che spettacolare fino all'atto conclusivo. 

martedì 19 giugno 2018

FRANCIA 1938: OTTANT'ANNI FA IL SECONDO TITOLO MONDIALE DELL'ITALIA DEL CALCIO (2)

                           Italia e Ungheria schierate a centrocampo prima della finale di Parigi

In questa terribile atmosfera spazzata da venti di guerra sempre più violenti, con le tensioni politiche che avevano minato anche la serenità dello sport, prese dunque il via, il 4 giugno del 1938, la terza rassegna iridata della serie. L'Italia, ammessa di diritto in quanto detentrice, era la più autorevole candidata al titolo, non solo per prestigio e consistenza del palmarés ma per la continuità di rendimento ai vertici che aveva sciorinato nel quadriennio. C'è anche da dire, entrando in una valutazione tecnica della competizione, che il campo delle partecipanti era di livello qualitativamente inferiore rispetto a quello di quattro anni prima. Intendiamoci, stiamo pur sempre parlando di football di elevato spessore, ma i migliori valori del pallone anni Trenta si erano senz'altro dati convegno nel 1934 in Italia. 
DOLOROSE DEFEZIONI E VALORI EMERGENTI - Rispetto alla seconda edizione del torneo, era venuta a mancare l'Austria, per il triste motivo già detto; era fuori gioco anche la Spagna e anch'essa per una ragione tragica, la guerra civile che flagellava il Paese. Delle grandi tradizionali, oltre alla squadra azzurra, resisteva la Cecoslovacchia, che stava attraversando una complessa fase di rinnovamento ma rimaneva comunque competitiva, mentre si era alzato il potenziale dell'Ungheria, nella quale giganteggiava il fuoriclasse Sarosi, tuttofare ma principalmente grande animatore offensivo e goleador implacabile. Sempre rinunciatarie Inghilterra, Uruguay e Argentina, dal Sudamerica emergeva un Brasile sempre più credibile: la Seleçao stava completando il suo processo di crescita, che l'avrebbe presto portata ad esplodere a livelli stratosferici.
La grande incognita era la Germania: su un impianto di squadra già notevole, equilibrato e possente, aveva innestato alcuni elementi austriaci, grazie all'Anschluss hitleriano: i due blocchi si sarebbero fusi in un insieme invincibile o si sarebbero rifiutati a vicenda? C'era poi la consueta folta schiera di rappresentative della "classe media", compagini buone ma non eccelse, in grado di offrire l'exploit di un giorno ma non di imporsi sulla lunga distanza, su tutte la Svizzera, la Francia, il cui movimento calcistico era esso pure in espansione e nella circostanza poteva avvalersi dell'indubbia incidenza del fattore campo, e la Norvegia che aveva brillato all'Olimpiade '36, eliminando i padroni di casa tedeschi e impegnando severamente in semifinale l'Italia. 
DEBUTTO SOFFERTISSIMO - Proprio contro la Norvegia i campioni in carica esordirono, il 5 giugno a Marsiglia. E fu un esordio deludente: dopo un buon avvio coronato dal sollecito vantaggio ad opera di Ferraris II, e dopo alcune buone occasioni mancate per chiudere i conti, i nostri furono progressivamente messi in soggezione dagli avversari, complice la giornata poco felice della mediana e delle ali, Pasinati e il citato Ferraris II (gol a parte). I nordici colpirono due pali e Olivieri fu chiamato a diversi interventi risolutivi già nel primo tempo, poi, nella ripresa, i ragazzi di Pozzo sembrarono riconquistare il controllo della partita ma nella fase finale vennero raggiunti sull'1-1 da un guizzo di Brustad. In avvio di supplementari ci pensò Piola a rompere l'incubo e a promuovere l'Italia ai quarti, fra mille riserve. Opinione diffusa fu che i nostri avessero sbagliato approccio mentale alla partita, anche sull'onda di alcune amichevoli trionfalmente vinte nella fase di preparazione (6-1 al Belgio, 4-0 alla Jugoslavia). 
RISCATTO CONTRO GLI ANFITRIONI - Pozzo e i suoi meditarono sugli errori, il Commissario Unico operò tre sostituzioni, lasciando fuori il veterano Monzeglio, Pasinati e Ferraris e rimpiazzandoli con Foni, Biavati (al debutto in Nazionale A) e Colaussi, e da quel momento non ebbe più necessità di rimetter mano alla formazione. Nel quarto di finale contro la Francia padrona di casa, dopo un avvio equilibrato siglato da un gol per parte, gli italiani (quel giorno in maglia nera) presero gradatamente il comando delle operazioni, poggiando sul rigenerato centromediano Andreolo (unico oriundo della compagnia) e sulla solidissima coppia di terzini formata da Foni e Rava. Nella ripresa due acuti di Piola, a finalizzare splendide azioni manovrate, misero il sigillo alla gara e consentirono di contenere egregiamente la furente reazione dei galletti. Una partita bellissima, ben giocata da entrambe le contendenti, che gli azzurri si aggiudicarono non senza qualche patimento ma manifestando una netta supremazia di classe e di gioco nei momenti topici dell'incontro.
BRASILE SURCLASSATO - Fu nella gara coi transalpini che, di fatto, prese definitivamente forma la seconda Italia campione del Mondo. Modificato opportunamente l'undici di inizio competizione, saliti di tono alcuni elementi cardine, soprattutto i tre uomini della mediana che, all'epoca, era la zona chiave per il corretto funzionamento di tutto il meccanismo di squadra, rinfrancato il gruppo dopo i patimenti dell'avvio, la compagine azzurra lievitò a livelli di eccellenza. In semifinale, di nuovo a Marsiglia, si trovò di fronte il Brasile, che aveva avuto la meglio sulla favorita Cecoslovacchia in due durissime partite. I ragazzi della selezione sudamericana (priva del bomber Leonidas: acciaccato o tenuto a riposo, con decisione azzardata, in vista di una ipotetica finalissima?) mostrarono straripanti risorse fisiche e doti da giocolieri del pallone, peraltro piuttosto fini a loro stesse; i nostri prevalsero nettamente, sul piano tecnico e su quello tattico, per finezza di gioco e per capacità realizzative, tanto che alla fine il punteggio di 2-1 non disse tutto della superiorità di Meazza e compagni. Proprio il Balilla disputò una delle sue migliori gare in Nazionale, siglando il secondo gol su rigore (fallo ai danni di Piola) dopo che Colaussi aveva aperto le marcature con un meraviglioso tiro al volo, ma già nella prima frazione, chiusa sullo 0-0, i nostri avrebbero potuto passare con lo stesso Piola e in due circostanze con Biavati, mentre in tutti i novanta minuti Olivieri fu impegnato severamente non più di un paio di volte.
FINALE: APOGEO AZZURRO - Fu finale, dunque. Dall'altra parte del tabellone era emersa con merito l'Ungheria. Dopo il galoppo di allenamento nel primo turno con le Indie Olandesi (6-0), aveva superato la prova più difficile nei quarti, estromettendo la Svizzera che aveva clamorosamente eliminato al primo turno la deludente "grande" (?) Germania. In semifinale non c'era stata speranza per la Svezia, sepolta sotto un eloquente 5-1. L'atto conclusivo del torneo, allo stadio parigino di Colombes, si presentava piuttosto equilibrato, ma alla prova dei fatti fu una recita sublime degli uomini di Pozzo, probabilmente al loro apogeo quanto a pregevolezza di manovra e concretezza. Il primo tempo, in particolare, fu strepitoso, tanto da poter ritenere addirittura bugiardo il pur franco 3-1 con cui si andò al riposo. Segnò Colaussi, pareggiò Titkos a stretto giro di posta, poi i nostri si riportarono avanti con una rete meravigliosa, che in molti avranno avuto modo di vedere in un celebre filmato d'epoca: fittissima serie di passaggi fra Colaussi, Piola, Ferrari, Meazza e ancora Piola, e tiro risolutore di quest'ultimo. Arrivò poi il 3-1, firmato ancora dall'incontenibile Colaussi di questo torneo, e a corollario un legno colpito da Piola e altre occasioni mancate di un soffio dai vari Biavati, Ferrari e Meazza. Più equilibrata la ripresa, con gli azzurri in controllo (e altro palo, stavolta di Biavati), il miglior periodo ungherese che portò al 2-3 di Sarosi e il sigillo finale dello scatenato Piola, al quinto gol mondiale.
UN DECENNIO DI SUPERIORITA' - Poi, l'apoteosi, in chiusura di un torneo iniziato con affanno e finito con un crescendo rossiniano, ad opera di una squadra capace di impartire autentiche lezioni di calcio. Come dicevo nel post precedente, la seconda Coppa del Mondo giunse a chiudere un decennio di supremazia azzurra nel football internazionale. Dal '28 al '38, il bilancio parla di due Mondiali consecutivi, due edizioni di Coppa internazionale (progenitrice in scala ridotta del campionato europeo), un oro e un bronzo alle Olimpiadi. Inoltre, tante partire memorabili e campioni epocali lanciati nel firmamento del pallone. Il fatto, poi, che il successo parigino fu raggiunto con una rosa quasi totalmente rinnovata rispetto a quella del '34, fu la testimonianza più lampante della bontà di un vivaio eccezionalmente prolifico. A tal proposito, un'ultima annotazione importante: per l'Italia calcistica degli anni Trenta, gli oriundi erano solo un valore aggiunto, a volte importante, altre meno, ma comunque una percentuale assolutamente minoritaria al cospetto dei tanti eccelsi talenti germogliati nei giardini di casa nostra. Ricordiamo dunque la formazione vittoriosa a Colombes: Olivieri, Foni, Rava; Serantoni, Andreolo, Locatelli; Biavati, Meazza, Piola, Ferrari, Colaussi. Partecipi della grande conquista anche Monzeglio, Pasinati e Ferraris II. (2 - FINE).
La foto è tratta da "La storia illustrata della Nazionale", 1950

FRANCIA 1938: OTTANT'ANNI FA IL SECONDO TITOLO MONDIALE DELL'ITALIA DEL CALCIO (1)

                                Pozzo con la Coppa del Mondo, circondato dai suoi azzurri

Questo giugno 2018 è un mese ricco di ricorrenze fondamentali, per il calcio italiano. Ho parlato poche settimane fa dei cinquant'anni dell'unico alloro europeo azzurro, datato 1968. Ancor più importante è la celebrazione che cade giusto oggi: il 19 giugno del 1938, ottant'anni fa, la nostra Nazionale conquistava per la seconda volta consecutiva il titolo mondiale, coronando così un decennio che l'aveva vista affermarsi e consolidarsi come massima potenza del pallone planetario.
Parlare con enfasi di quei trionfi degli anni Trenta non sempre è facile, ai giorni nostri: si rischia sempre di passare per nostalgico di un'epoca che, sul fronte della grande storia, ha lasciato dietro di sé una scia di danni e lutti. Quando si ricordano le imprese di Vittorio Pozzo e dei suoi ragazzi, fin troppo spontaneo viene l'associazione mentale col Paese e col potere politico che erano rappresentati da quella squadra: ma l'Italia del '38, come quella del '34, meritano una trattazione squisitamente calcistica, perché quegli allori li raggiunsero in virtù di doti tecniche, fisiche e morali, con uno stile di gioco, una classe, un'organizzazione e uno spirito agonistico che non trovavano pari, in quegli anni. 
NEL '34, UNA VITTORIA SOFFERTA MA MERITATA - Del trionfo romano nella seconda Coppa del Mondo, sofferto ma legittimo, parlai diffusamente in due articoli che scrissi nel 2014, in occasione dell'ottantesimo compleanno di quel successo ( qui il primo, e qui il secondo). Un successo che in tanti, soprattutto a posteriori, hanno contestato e tuttora contestano, perché ritenuto inficiato da qualche favore arbitrale di troppo e forse anche dall'influsso malefico dell'immanente presenza del Duce. All'epoca spulciai giornali del tempo e testimonianze successive, passando in rassegna commenti e cronache dettagliate dei vari match: l'impressione che ne trassi fu che l'Italia si era sì giovata di alcune spintarelle da parte dei direttori di gara, ma non più numerose né più gravi di quelle di cui, in tante edizioni della rassegna iridata, hanno goduto tanti padroni di casa; ma ciò che più conta è che, per il rendimento offerto sul campo, per la superiorità di gioco più volte espressa, per il numero di occasioni-gol create, i nostri meritarono comunque la conquista finale. Ad ogni modo, per i dubbiosi più irriducibili il quadriennio successivo fornì tutte le conferme richieste e non richieste. 
I LEONI DI HIGHBURY - Non ci fu riposo, per i freschi campioni del mondo: già nel novembre del '34 furono chiamati a un'epica sfida, a Londra, all'Highbury Stadium, contro i superbi inglesi, che si tenevano prudenzialmente alla larga dalla competizione iridata. Gli azzurri persero, ma disputarono una gara unanimemente lodata per slancio caratteriale e qualità di manovra: una doppietta di Meazza consentì di risalire dallo 0-3 al 2-3, dopo che Ceresoli, portiere che aveva preso il posto del grande Combi (ritiratosi), aveva già parato un rigore, e dopo che Monti, il centromediano, era già finito ko per una frattura a un piede, lasciando i suoi in dieci. Una prova che non è esagerato definire "eroica" e che ebbe vastissima eco sulla stampa e sui pochi altri media all'epoca disponibili. 
RINNOVAMENTO GRADUALE - Da quel momento, il Commissario Unico Pozzo iniziò un rinnovamento assai graduale, ma altrettanto profondo. Va ricordato che la squadra trionfatrice del '34 era piuttosto stagionata in diversi elementi: detto di Combi, che appese le scarpette al chiodo al culmine della gloria, anche Schiavio aveva dato l'addio alla Nazionale, mentre cominciavano ad accusare il peso delle tante battaglie i vari Ferraris IV, Monti, Allemandi, Bertolini. Ma il trainer non aveva fretta: sapeva che, per un periodo limitato di tempo, i suoi "pretoriani" gli avrebbero garantito ancora un buon rendimento. Si limitò a qualche "rimescolamento di carte", col ripescaggio di atleti che già avevano fatto parte del gruppo in passato (come Montesanto, Pitto e Serantoni), all'inserimento di meteore come l'oriundo Scopelli, e al lancio di soli due ragazzi destinati a scrivere a chiare lettere il loro nome nel libro azzurro: l'ala sinistra Colaussi e il centravanti Piola. L'esordio di quest'ultimo fu entusiasmante, in linea con un carriera che sarebbe stata onusta di gloria: una doppietta al Prater di Vienna, nel marzo '35, per la prima vittoria italiana in terra d'Austria. Era un match valido per la Coppa Internazionale, trofeo già vinto dai nostri nel '30 e che verrà riconquistato pochi mesi dopo, a novembre, grazie a un 2-2 casalingo con l'Ungheria. 
IL SORPRENDENTE ALLORO OLIMPICO - Seguì una fase interlocutoria, in attesa della disputa del torneo olimpico di calcio (ma ci fu l'esordio di un'altra futura colonna, Andreolo). A Berlino '36 l'Italia, nel rispetto dei regolamenti internazionali, si presentò con una rosa definita di "goliardi", formata da calciatori - studenti che mai avevano giocato in Nazionale A e in pochi nella B (Foni e Marchini), qualcuno militante in club di serie A ma perlopiù nelle divisioni inferiori. Una  rappresentativa messa insieme in maniera un po' ardita e avventurosa, che però, affidata alla sapiente guida di Pozzo, diventò un monolite e conquistò clamorosamente la medaglia d'oro. Alcuni dei giovani artefici di quell'impresa vennero in seguito provati nella Maggiore: Piccini e Marchini non durarono a lungo, ci fu qualche apparizione di Frossi, l'eroe della finale tedesca coi suoi due gol, mentre entrarono in pianta stabile nel gruppo i terzini Foni e Rava e il mediano Locatelli. 
PASSAGGIO DI CONSEGNE FRA DUE GRUPPI "MONDIALI" - Dopo l'alloro berlinese l'innovazione divenne dunque più profonda: in breve tempo, dei campioni di Roma '34 restarono solo Monzeglio, Ferrari e il sempre grandissimo Meazza. Dopo Piola, Colaussi e Andreolo, salirono alla ribalta giovani rampanti come i tre citati olimpionici e il portierone Olivieri, che non gode forse di grande fama "storica" in rapporto ad altri celebri numeri uno, ma che è da considerare uno dei più forti estremi difensori italiani di tutti i tempi. Et voilà, quasi senza accorgersene, con mano leggera come una piuma ma estremamente ferma e sicura, Pozzo aveva "rifatto" l'Italia, congedando dignitosamente il gruppo delle prime affermazioni euromondiali e affidandosi a una nuova nidiata di ragazzi, che mostrarono subito notevole efficienza nelle sfide di alto livello, andando ad esempio a infrangere un altro tabù, la prima vittoria sul campo della Cecoslovacchia, nel 1937. 
IL DRAMMA ANSCHLUSS - Eravamo nel frattempo giunti quasi alla vigilia della terza Coppa del Mondo, la cui organizzazione venne affidata alla Francia. Ma il clima politico a livello internazionale si era deteriorato: la Germania nazista di Hitler stava cominciando a dare segni di impazienza, e nel marzo '38 procedette senz'altro alla famigerata Anschluss, assorbendo l'Austria nel Reich. Sul piano calcistico, la diretta conseguenza fu la cancellazione della Nazionale danubiana, che per oltre un decennio, a cavallo fra gli anni Venti e i Trenta, era stata una delle più forti del Vecchio Continente, tanto da venir definita Wunderteam, squadra delle meraviglie. L'addio, Sindelar e compagni lo diedero in una malinconica amichevole non ufficiale proprio coi tedeschi, giocata in un Prater gremito e chiusa con una vittoria per due reti a zero, a ulteriore e definitiva conferma di quale fosse il rapporto di forza fra le due rappresentative. L'Austria, già sicura di partecipare ai Mondiali, venne così cancellata dal tabellone, e la sua avversaria negli ottavi di finale, la Svezia, si trovò promossa al turno successivo senza scendere in campo. (1-CONTINUA).
La foto è tratta da "La storia illustrata della Nazionale", 1950

venerdì 15 giugno 2018

MONDIALE RUSSIA 2018: SUPER RONALDO SALVA IL PORTOGALLO, 3-3 STRETTO PER LA RISORTA SPAGNA


Alla prima serata di gala del Mondiale russo, i protagonisti più attesi non steccano, Portogallo e (soprattutto) Spagna onorano la ribalta più prestigiosa regalando al pubblico un 3-3 da applausi. In un torneo iridato non è scontato che ciò accada: ne ho visti tanti di match di cartello deludere largamente le aspettative, soprattutto nelle prime giornate di gara, quando la tendenza, soprattutto da parte delle grandi squadre, è quella di giocare al risparmio conservando le energie per un cammino prevedibilmente lungo. E invece, tatticismo, chi era costui? La girandola dei gol inizia quasi subito, con il rigore (generoso) conquistato e trasformato da Ronaldo, e finisce con un'altra prodezza del Fenomeno (appellativo che merita lui come lo meritava il Ronaldo precedente, quello brasiliano), quando ormai la partita sembrava aver preso decisamente la via spagnola. 
SPAGNA SUPERIORE, ISCO FUORICLASSE - Nel mezzo, tante cose da raccontare. Con una sensazione su tutte, credo destinata a rafforzarsi col passare dei giorni mondiali: la Spagna è sempre forte. O meglio, lo è di nuovo, perché nelle ultime fasi finali affrontate, Brasile 2014 ed Euro 2016, aveva sostanzialmente trapanato l'acqua, mostrando di essere alla fine di un ciclo. Ebbene, "quel" ciclo è finito, sì, ma si è rigenerato risorgendo sulle medesime radici: molti protagonisti sono scesi dal palcoscenico, ma altri veterani hanno saputo mantenere un rendimento costante e mettere la loro sapienza calcistica al servizio dei nuovi arrivati.
Quel che si definisce una rivoluzione intelligente: Roja nuova per metà e forse più, ma coi suoi totem che non rappresentano le uniche ancore di salvezza a cui aggrapparsi, perché se Sergio Ramos continua a giganteggiare in difesa e Busquets a lavorare palloni su palloni, e se Iniesta accende con più frequenza del previsto i fari della sua classe purissima ma stagionata, il vero perno della Selecciòn è uno dell'ultima covata, quell'Isco che già ci aveva fatto piangere lacrime amarissime nel settembre scorso al Bernabeu. Siamo di fronte a un fuoriclasse autentico, un costruttore e un ispiratore dal palleggio finissimo, dal tocco preciso al millimetro: strappargli la palla è pressoché impossibile, le trame offensive iberiche poggiano in larga parte su di lui, e bene è andata ai portoghesi, se questa sera non è quasi mai riuscito a liberarsi al tiro: l'unica volta che l'ha fatto, con una volée di sinistro, è stata traversa piena.... Attorno ad Isco, comunque, una squadra che sa di nuovo imporre il suo dominio assoluto sul gioco, con un giro palla fitto e avvolgente ma in grado di assumere velocità micidiale, perché accompagnato sempre dalla massima perizia. 
Una Spagna fresca e sbarazzina che ha saputo ispirare un Diego Costa fino a stasera raramente travolgente in Nazionale: se il gol dell'1-1 se l'è costruito praticamente da solo, con un'insistita azione tutta di potenza (e forse anche con un falletto), il secondo lo ha visto finalizzare sotto porta un perfetto schema su punizione battuta da David Silva. grazie anche alla torre dell'onnipresente Busquets. 
SOLO RONALDO - Poi, ha trovato il gol uno dei "gregari" della squadra (ma ce ne sono davvero, di gregari, fra le Furie Rosse?), e che gol! Una bordata al volo di destro dalla distanza, che ha mandato in Paradiso Nacho e la Spagna. Da quel momento, la gara è parsa saldamente nelle mani di Ramos e compagni, che hanno mostrato di avere un'idea di gioco e di saperla sviluppare con efficacia. Se dall'altra parte non ci fosse stato CR7, avrebbero vinto, e sarebbe stato un verdetto del tutto legittimo. Ma, per l'appunto, c'era lui, che la partita l'ha pareggiata praticamente da solo: si è procurato un rigore, diciamo così, fortemente voluto e lo ha realizzato, ha assistito impotente e arrabbiato agli errori di Guedes, che ha sprecato due contropiede favorevolissimi, poi, dopo il primo acuto di Costa, ha riportato avanti i suoi con un sinistro dal limite e con la decisiva complicità di De Gea, che in questa sua apertura mondiale ha ricordato lo Zubizzarreta di Spagna - Nigeria '98. 
MOLTO DA RIVEDERE NEL PORTOGALLO - Nella ripresa i campioni d'Europa non sono pressoché esistiti: incassato un uno - due da k.o. nella parte iniziale del tempo, sono rimasti in balìa della superiorità spagnola, non dando mai l'impressione di poter cogliere il pari, fin quando Ronaldo si è preso un fallo poco fuori area e ha azionato il suo destro malefico beffando De Gea. Ecco perché è finita pari: perché Fernando Santos ha a disposizione il cinque volte Pallone d'Oro. Siamo di fronte a una dipendenza persino più spiccata di quella che aveva l'Argentina '86 nei confronti di Maradona. Oltretutto, il Portogallo sembrava voler gestire il sollecito vantaggio con un semplice "difesa e ripartenza", ma quando i citati errori in contropiede hanno fatto saltare il piano, la squadra non è sembrata avere valide strategie alternative.
Questo per dire che il risultato finale non rispecchia la disparità di valori vista in campo, e deve destar preoccupazione in campo lusitano, perché i fenomeni possono vincere o pareggiare da soli alcune partite, ma per fare bene in un torneo ci vuole un impianto di gioco ben definito, ci vogliono un collettivo funzionante e giocatori in grado di esprimere appieno il loro potenziale: giocatori che il Portogallo ha, visto che la finale dell'Europeo francese l'ha vinta in pratica senza il suo "dio". Ma alcuni degli elementi visti stasera non sembrano avere il peso necessario per fare i titolari in un Mondiale. 

giovedì 14 giugno 2018

VERSO SANREMO 2019: SARA' ANCORA BAGLIONI IL DIRETTORE ARTISTICO, MA QUALCOSA DOVRA' CAMBIARE NELLA SCELTA DELLE CANZONI

                                        Baglioni: confermatissimo per Sanremo 2019

Anche Sanremo 2019 sarà targato Baglioni. La notizia era nell'aria da settimane, ma la conferma ufficiale è giunta oggi, per bocca del direttore generale della Rai Mario Orfeo. Dal punto di vista televisivo, il bis è una scelta ineccepibile: l'ultima edizione del Festivalone è stata un indiscutibile successo, ottenendo favori pressoché unanimi sia da parte dei telespettatori (con risultati di audience eccellenti) sia da parte della critica. E si è trattato in effetti di uno spettacolo gradevole, ben confezionato, con presentatori impeccabili (Hunziker e Favino) e con la musica italiana al centro dell'attenzione come raramente in passato, grazie ai "tre cast paralleli", come li definii sul blog: cantanti in concorso, artisti nostrani ospiti e i "duettanti" coi Big.
Il discorso cambia decisamente se spostiamo l'attenzione su quello che è stato a lungo, e che dovrebbe essere ancora oggi, l'obiettivo primario della kermesse: lanciare canzoni in grado di scalare le classifiche di vendita (e di download, da qualche anno a questa parte). 
2018: VENDITE NON ALL'ALTEZZA - Ebbene, da questo punto di vista Sanremo 2018 non ha centrato il bersaglio. Non si può parlare di fallimento su tutta la linea, ma di grossa delusione senz'altro sì: nessun album degli artisti in concorso ha al momento ottenuto la certificazione-disco di platino, traguardo conquistato soltanto dai singoli di Annalisa, di Ultimo, della coppia di vincitori Meta - Moro e della rivelazione Stato Sociale, a proposito della quale qualcuno aveva azzardato la possibilità che si concretasse un exploit in stile Gabbani, cosa che invece non è successa, anche se "Una vita in vacanza" rimane tuttora la canzone che maggiormente si ricorda, fra quelle in gara nella kermesse di febbraio. Niente platino nemmeno per la classica compilation, che pure, come al solito, ha stazionato a lungo al primo posto della classifica dedicata. 
CAST SENZA PRESA SUL MERCATO - Qualcosa non ha funzionato, insomma. Premetto che, personalmente, ritengo incomprensibile e ingiusto lo scarso successo decretato dal pubblico a molti dei prodotti rivieraschi. Riconfermo il parere espresso a caldo, subito dopo la conclusione della manifestazione: il livello della proposta musicale, con particolare riferimento ai Big, è stato più che buono. Certo, scegliendo Baglioni come direttore artistico non era difficile prevedere dove si sarebbe andati a parare: si prospettava un Festival con una buona quota di opere di taglio autoriale, più raffinate e sofisticate sul piano della ricercatezza compositiva e degli arrangiamenti, a discapito di un pop prettamente commerciale che era invece stato privilegiato dal predecessore Carlo Conti. Una scelta di campo netta, quella del cantautore romano, coraggiosa ma gravida di rischi: e in effetti, una volta reso noto il listone del partecipanti, era apparso chiaro che l'incidenza sul mercato dei pezzi sanremesi difficilmente avrebbe potuto raggiungere quote d'eccellenza. 
BUONE PROPOSTE RIMASTE AL PALO - Le proposte, lo ripeto, erano di buona grana, e spiace che gran parte del pubblico di fruitori di musica non abbia apprezzato e... acquistato le canzoni di Gazzè, del trio Vanoni - Bungaro - Pacifico, del Dalla postumo cantato dal suo pupillo Ron, per non parlare dell'audace ballata in romanesco di Barbarossa (che riprendeva e attualizzava una tradizione folkloristica di grande peso storico), del melodico inno al femminile di Nina Zilli, e dell'incalzante brano di Diodato e Roy Paci. A proposito di Diodato, c'è stato forse un errore strategico, perché il giovane cantautore si è presentato all'Ariston senza avere pronto un album di inediti che da quella vastissima platea avrebbe potuto trarre notevole linfa, e accelerarne una consacrazione che invece è ancora di là da venire. Una grande occasione perduta.
IL SUCCESSO DI ULTIMO, I KOLORS NON DECOLLANO - Spiace per questa "astensione" degli acquirenti, si diceva, ma la cosa non sorprende: a parte Gazzè, i nomi prima citati non sono da tempo, o non sono mai stati, grandi venditori di dischi, improbabile lo divenissero in questi mesi, in un mercato dominato o da campioni storici e inattaccabili (Pausini, Ferro, ecc.), o da ragazzini in buona parte usciti da "Amici" e altri talent, o da tanti, troppi esponenti della galassia hip hop, rap, trap, i cui prodotti sono spesso di qualità discutibile ma che sembrano aver trovato il registro giusto per entrare nel cuore dei ragazzi di oggi. Non è un caso che a uscire di gran lunga vincitore, sul piano commerciale, da Sanremo 2018, sia stato Ultimo, un emergente che fa pop - rap all'acqua di rose ma ha una buona scrittura e notevole presenza scenica; e non è casuale nemmeno che le uniche certificazioni platino, gira che ti rigira, le abbiano portate a casa i big più vicini all'universo giovanile, ai sound e ai testi contemporanei, ossia Meta e Moro, Annalisa e Lo Stato Sociale. Anche in questo caso si nota però una contraddizione: uno dei brani più orecchiabili e martellanti della kermesse,. "Frida" dei Kolors, ha reso largamente al di sotto delle aspettative. 
PER IL FUTURO, CAST PIU' "COMMERCIALI" E PIU' VICINI AI GIOVANI - Torniamo a bomba. Il rinnovo della fiducia a Baglioni era quasi inevitabile: il successo (successo televisivo, lo ripetiamo) della recente edizione, e il lungo travaglio dell'anno scorso prima di trovare un direttore artistico che potesse sostituire degnamente Conti, sconsigliavano la Rai di avventurarsi su strade nuove e inesplorate. Per cambiare e sperimentare c'è sempre tempo, e farlo quando non ce n'è troppo bisogno è un rischio inutile: Sanremo scoppia di salute ormai da una decina d'anni (l'unico momento di crisi è stato ai tempi del Fazio quater, 2014), in questo momento ha solo bisogno di piccoli aggiustamenti di rotta. Questo è il compito principale che attende il buon Claudio: una linea artistica che coniughi pregevolezza musicale ed easy listening, "radiofonicità" delle canzoni scelte. Si può benissimo comporre, in questo senso, un cast più equilibrato di quello messo in piedi quest'anno, cartellone che aveva, come detto, caratteristiche ben precise, tali da tenerlo lontano dal mercato. 
Aprire le porte al rap? Forse almeno un paio di caselle dovrebbero essere occupate da questi imprevedibili campioni delle chart, ma non è tanto un problema di nomi, quanto di generi canori rappresentati all'Ariston. In questo senso dovranno cambiare delle cose, ma non è detto che ci si fermi qui. L'anno scorso Baglioni fu catapultato sul ponte di comando con un certo ritardo, ebbe poco tempo per lavorare al progetto e stilò un regolamento che aveva solo un paio di novità significative rispetto a quello dell'era Conti (niente eliminazioni per nessun cantante in gara, e allungamento della durata massima dei brani). Improbabile, ma possibile che quest'anno voglia studiare qualche modifica più radicale del format del concorso, anche se la classica distinzione fra Giovani e Big ormai da tempo si sta dimostrando di gran lunga la più funzionale alla riuscita della kermesse. 
SERVE UNA DIVERSA FORMULA DI SPETTACOLO - Più probabile, e auspicabile, un cambiamento della struttura dell'evento - Sanremo: se l'anno scorso si puntò tutto sulla musica di casa nostra, quest'anno si potrebbe dare un taglio più internazionale alla rassegna; se l'anno scorso il direttore si era più volte preso la scena proponendo i suoi memorabili cavalli di battaglia, nel 2019 non sarà facile ripetere un'operazione del genere: nonostante la vastità del suo repertorio, i veri evergreen, quelli che tutti gli italiani hanno ascoltato almeno una volta nella vita, se li è "giocati" nello show di pochi mesi fa: non so se proporre canzoni pur fascinose come "Gagarin", "Solo", "Io sono qui" o "Cuore d'aliante" coinvolgerebbe ugualmente la platea. Dunque, una nuova formula di spettacolo, e possibilmente con interpreti nuovi: perché nelle settimane scorse è girata voce di una riconferma in blocco del gruppo 2018 (Baglioni - Hunziker - Savino), ma sarebbe un azzardo assoluto: in tempi recenti, è accaduto solo nel 2013 e nel 2014, col doppio Sanremo di Fazio - Littizzetto e col conseguente buco nell'acqua dell'Auditel. C'è bisogno di volti nuovi, che non sono tanti ma non mancano. Tre nomi per tutti: Amadeus, Federico Russo e Serena Rossi. 

MONDIALE 2018 AL VIA: IL RITORNO DEL PERU', LE SQUADRE PIU' "ITALIANE", L'ULTIMA OCCASIONE DELL'ARGENTINA TARGATA MESSI E ALTRE COSE DA TENERE D'OCCHIO


Oggi è una giornata amarissima per milioni d'italiani calciofili, per tutti quelli nati dopo il 1958, che fin qui non hanno mai provato il brivido nefasto di una Coppa del Mondo senza l'Italia. E sì, oggi inizia Russia 2018, e sarà dura, durissima. Non è solo una questione di orgoglio nazionale, di tifo, ma una valutazione oggettiva: perché un Mondiale che non schiera ai nastri di partenza una Nazionale che l'ha vinto per ben quattro volte, beh, è un Mondiale zoppo. Sappiamo tutti chi dobbiamo ringraziare per questo scempio evitabile, evitabilissimo, ma tant'è. Si comincerà con malinconia, poi si entrerà nell'atmosfera magica del torneo che ci farà dimenticare per qualche giorno i nostri guai, ma il magone tornerà a galla nelle fasi decisive, quelle in cui le grandi del globo si sfideranno per la massima conquista e noi saremo lì, sui divani di casa nostra, impotenti a guardare gli altri gioire o disperarsi. Perché un Mondiale si può perdere, anche malamente com'è successo agli azzurri nelle precedenti due edizioni, ma l'importante è esserci, per una questione di prestigio e perché una volta sul posto può davvero accadere di tutto: episodi fortunati, ma anche giocatori al top della forma, o exploit di squadra imprevedibili che ti proiettano oltre le più rosee aspettative; casi del genere non sono mai mancati nella nostra storia, pensiamo ad Argentina '78, ad esempio: arrivammo circondati dal più cupo pessimismo, tornammo in patria con un quarto posto impreziosito da prestazioni brillanti e dal lancio dei virgulti Cabrini e Rossi.
E' PUR SEMPRE IL MONDIALE - Basta, inutile continuare a farsi del male. Per chi è appassionato di pallone ogni giorno dell'anno e non solo ogni quattro anni, l'evento Mondiale rimane un must. E' la manifestazione sportiva più importante, assieme ai Giochi olimpici, ma più dei Giochi catalizza passione e delirio popolare in ogni angolo della Terra. E' un evento radicato nell'animo, nel tessuto sociale del pianeta, in grado di regalare momenti che rimangono eternamente scolpiti nella mente del tifoso. Per cui, da oggi fino al 15 luglio, sarà comunque un mese di partite, di polemiche, di pronostici, di discussioni attorno a prodezze, delusioni, gioco brutto o esaltante. Anche se sarebbe sufficiente il fascino intrinseco della kermesse, Russia 2018 offre comunque un'enormità di motivi tecnici validi per piazzarsi davanti al televisore e seguire  la tenzone. 
IL GIUSTO RITORNO DEL PERU' - Non mi lancio in analisi dettagliate delle 32 protagoniste, c'è chi, in edicola e sul web, in questi giorni lo sta facendo in modo esauriente. Mi limito a segnalare alcuni elementi di notevole interesse, senza alcuna pretesa di completezza. Partendo dal basso, o comunque da posizioni non nobilissime nella griglia di partenza, attendo con simpatia le prove del Perù, perché ritorna dopo una lunghissima assenza: mancava dal 1982, e quell'anno, a Vigo, incontrò l'Italia poi campione, sfiorando persino la vittoria (attaccò costantemente nel secondo tempo, si vide negare un rigore e nel finale riusci a pareggiare il gol di Conti grazie a una punizione di Diaz deviata da Collovati). In precedenza, aveva giocato da protagonista i tornei del '70 e del '78, mettendo in mostra fuoriclasse come Cubillas, Gallardo e Chumpitaz; andando ancor più indietro nel tempo, era stata una delle tredici "eroiche" rappresentative che aveva dato vita alla prima Coppa del Mondo, nel 1930 a Montevideo. Dopo l'82, l'involuzione tecnica ma anche una sciagura vera, quella dell'Alianza Lima, una delle squadre guida del Paese, i cui componenti perirono in un incidente aereo nel 1987. Ora è giunto il momento della riscossa, e chissà che Jefferson Farfan e compagni non riescano ad essere la mina vagante di un girone insidioso, che li ha piazzati con Francia, Danimarca e Australia. 
SPAGNA: TANTA QUALITA', MA IL PASTICCIO CT... - Il caso che ha animato la vigilia è stato senz'altro l'esonero del cittì spagnolo Lopetegui, a due giorni dal debutto contro il Portogallo. Capisco la rabbia del presidente federale iberico, per l'intempestivo annuncio del passaggio del trainer al Real Madrid, ma una decisione del genere rischia di destabilizzare il gruppo (che infatti aveva chiesto una conferma dell'ex portiere) mettendo a repentaglio un torneo al quale la Roja, tanto per cambiare, si presenta da favorita. Cosa potrà fare il subentrato Fernando Hierro, icona del calcio spagnolo poco vincente degli anni Novanta ma a digiuno di esperienza di panchina ad alti livelli? Si rischia l'autogestione dei giocatori, che storicamente nel calcio non porta mai buoni frutti. Si poteva forse rinviare ogni decisione a dopo la fine del Mondiale, oppure liquidare il tutto con una multa o una pubblica reprimenda. Vedremo che effetto avrà questa "rivoluzione", su una squadra più che mai intrigante, che guarda al futuro grazie agli exploit dei vari Asensio, Koke, Isco, Thiago Alcantara e l'ultimo grido Saul, ai quali faranno da chiocce Sergio Ramos, Busquets e l'immenso Iniesta: una mirabile fusione tra vecchio e nuovo potenzialmente devastante, ma che potrebbe essere depotenziata dal terremoto in panchina. 
BRASILE DI NUOVO AL TOP, GERMANIA PER IL POKERISSIMO - Grande attesa circonda il Brasile. Sai che novità, direte. Ma questa volta è un'attesa diversa: non dimentichiamoci che quattro anni fa, nel Mondiale casalingo "che non si poteva non vincere", la Seleçao fu brutalmente umiliata dalla Germania con quel 7-1 in semifinale, e chiuse con un insipido quarto posto che valeva poco più di niente. Da quei giorni e fino alla Copa America del 2015, è stato senz'altro il periodo più travagliato nella pur movimentata storia degli auriverdes. Poi, molte cose sono cambiate: è arrivato il primo, sospirato trionfo olimpico (tabù pluridecennale infranto e mini rivincita sui teutonici), è arrivata soprattutto una rinascita scandita da un girone di qualificazione prima incerto e poi trionfale, con nove vittorie consecutive che hanno fatto la differenza rispetto agli avversari. Allison, Marcelo, Neymar e Firmino sono i cardini di una squadra che, come quasi sempre, ha tutto per poter centrare il bersaglio grosso. A proposito del celebre "cappotto" di Belo Horizonte, poco da dire sulla Germania campione in carica: sempre competitiva, vincente in tutte le dieci partite del turno eliminatorio, forte di un vivaio che sta vivendo una delle sue migliori fasi storiche, lancia sulla massima ribalta i nuovi Kimmich e Timo Werner, ma più della Spagna rimane (giustamente) legata ai suoi veterani carichi di gloria, come Khedira, Kroos, Thomas Mueller e Neuer, con quest'ultimo che se la deve vedere con gli agguerritissimi concorrenti Ter Stegen e Trapp, tutta gente di vasta esperienza internazionale. Mancherà Gotze, risolutore - meteora della finale mondiale di Rio. 
GLI "ITALIANI" AL MONDIALE - Russia 2018 sarà da seguire con attenzione anche perché, se non ci sono gli azzurri, c'è comunque tanta Italia, rappresentata... per procura. Il fatto che moltissimi calciatori militanti nella nostra Serie A siano stati convocati dai vari cittì dimostra due cose, una positiva e una negativa: quella positiva è che il campionato italiano non deve essere tecnicamente ridotto male come in tanti asseriscono, se riesce ad esprimere un così gran numero di pedatori all'altezza di figurare sulla ribalta mondiale; quella negativa è che la presenza, nei nostri club, di tanti buoni - ottimi stranieri toglie giocoforza spazio ai giovani italiani, cosa che su questo blog si denuncia da anni e le cui conseguenze sul rendimento della nostra Nazionale sono sotto gli occhi di tutti. 
ARGENTINA, CROAZIA E POLONIA IN... VERSIONE AZZURRA - Ad ogni modo, per chi vorrà tifare... un po' d'Italia, consiglio di concentrare l'attenzione su Croazia (Strinic, Badelj, Perisic, Brozovic, Mandzukic, Kalinic) e sull'Argentina (Ansaldi, Biglia, Fazio, Higuain, Dybala), due Nazionali che, fra l'altro, hanno tutte le carte in regola per percorrere una lunga strada: fra i croati ci sono Modric e Rakitic al culmine della carriera, mentre quella biancoceleste è una selezione piuttosto stagionata che vedrà, con ogni probabilità, l'ultima recita iridata di campioni rimasti sostanzialmente all'asciutto di allori con la loro rappresentativa, penso a Otamendi, Mascherano, Di Maria, Aguero e soprattutto Messi. Molto italiana è anche la Polonia, candidata a possibile sorpresissima: da Szczesny a Zielinski, da Milik a Linetty, e poi ancora Cionek, Bereszynski e Kownacki; se alla nostra "colonia" aggiungiamo gli esperti Blaszczykowski e Krychowiak e il super bomber Lewandowski, ce n'è abbastanza perché la squadra di Nawalka possa mettersi sulle tracce dei grandi del '74 e dell'82.
BELGIO E FRANCIA PUNTANO IN ALTO - In un ideale ranking di aspiranti alla coppa Fifa, con le grandi di sempre Germania, Spagna, Brasile e Argentina e con "le dernier cri" Portogallo, campione europeo in carica, dovrebbero recitare un ruolo di primo piano anche Belgio e Francia. Il Belgio di Roberto Martinez presenta la sua miglior generazione di sempre, assieme a quella che fiorì negli anni Settanta e che sfornò l'ostica Nazionale grandissima protagonista da Euro '80 in poi. Ma questo gruppo è ancora più qualitativo di quello dei Millecamps, Vandereycken, Ceulemans e Vandenbergh. E' un gruppo che ha classe, talento, raffinatezza nel tocco di palla, gusto per il bel gioco e grande concretezza: con gente come Courtois, Vertonghen, De Bruyne, Hazard, Fellaini, Lukaku e Mertens non si può non essere ambiziosi. La Francia ha mirabilmente seguito l'esempio delle altre grandi d'Europa, cioè curare con amore e competenza il vivaio locale, cosa che non ha fatto l'Italia, non a caso oggi spettatrice: così è nata una "covata" di campioni in grado di rinverdire i fasti del gruppo euromondiale di Jacquet e Lemerre. Permangono dubbi sull'effettiva capacità di ... mettere il gatto nel sacco: i transalpini hanno infatti mancato l'affermazione casalinga ad Euro 2016, pur avendo giocato un torneo di tutto riposo fino alla semifinale con la Germania. Ma nel frattempo sono trascorsi due anni in cui i nazionali francesi sono diventati protagonisti in club di primissimo piano, e poi Deschamps ha pur sempre in organico un Griezmann che già nel torneo continentale aveva sfoderato gol e prestazioni da Pallone d'oro. A proposito di Pallone d'oro, un cenno anche a Cristiano Ronaldo, che ai Mondiali raramente ha brillato ma che stavolta si presenta sulla scia di stagioni memorabili col Real Madrid, e alla guida di una rappresentativa che ha rotto il suo storico digiuno di trofei due anni fa. 
IL MONDIALE DI MEDIASET - Per noi italiani, di interessante in questo Mondiale c'è anche il debutto di Mediaset, che per la prima volta si è aggiudicata i diritti per la trasmissione delle partite. Torneremo a rivedere tutte le gare in chiaro, cosa che nel nostro Paese non accadeva dal 2002, e già questa è una cosa positiva: assisteremo forse a un nuovo modo di raccontare la Coppa del Mondo, mentre di sicuro c'è l'impegno massiccio delle reti berlusconiane, con dirette, rubriche, trasmissioni di contorno non esclusivamente calcistiche. Insomma, il "pane" per gli appassionati non mancherà. Sulla qualità e sulla digeribilità di questo pane catodico, giudicheremo a cose fatte. Buon Mondiale a tutti. 

domenica 10 giugno 2018

CINQUANT'ANNI FA L'UNICO TITOLO EUROPEO DELL'ITALIA (2)



CONTRO L'URSS, MENOMATI E VINCENTI - Per le semifinali furono stabiliti i seguenti accoppiamenti: Italia - URSS a Napoli, Inghilterra - Jugoslavia a Firenze. Con i sovietici i nostri avevano un duplice conto aperto: da loro erano stati eliminati negli ottavi dell'Europeo '64, con loro avevano perso una delle partite giocate nella Coppa del Mondo inglese due anni prima. Il 5 giugno, al San Paolo, era una giornata piovosa, e l'avversario parve subito una montagna troppo alta da scalare, per gli azzurri, non tanto per la superiore esperienza ed organizzazione russa, quanto per delle gravi avversità che piombarono sui padroni di casa: la più importante, l'immediata rinuncia a Rivera, fulcro della manovra offensiva. Vittima di uno stiramento nei primi minuti di gioco, venne spostato all'ala, come si usava all'epoca, e non potè lavorare che pochi palloni. Sottoposto alle cure della panchina, ebbe una lieve ripresa nella fase iniziale della seconda frazione, ma poi l'infortunio si riacutizzò e il golden boy scivolò di fatto fuori dalla partita. Eppure, le palle-gol non mancarono per andare in vantaggio: Prati in più occasioni, Facchetti e Mazzola sfiorarono il bersaglio. Nei momenti di più acuta sofferenza, funzionò con efficacia la diga di difesa e centrocampo, e soprattutto funzionò alla grande Zoff, autore di magnifiche parate. Si andò ai supplementari, un'altra tegola per l'Italia con l'infortunio allo stopper Bercellino, ma in chiusura l'occasione più grande per noi: da Prati a Domenghini, gran destro dalla distanza e palo pieno. Come si usava all'epoca, in caso di prolungata parità fu il sorteggio a stabilire chi dovesse passare il turno: la monetina venne lanciata negli spogliatoi, e disse Italia. 
FORTUNA? SI', MA NEANCHE TANTA... - Principalmente su questo episodio si regge la leggenda di un trionfo fortunato, anzi fortunoso, per la nostra Nazionale in quell'Europeo. In realtà, come abbiamo visto, la sorte non era stata troppo benigna con gli azzurri, frapponendo diversi ostacoli fra essi e la coppa, fin dal durissimo quarto di finale in Bulgaria. La rocambolesca qualificazione alla finale fu un premio all'irriducibilità di una squadra costretta a giocare 120 minuti tecnicamente menomata. Se di fortuna vogliamo proprio parlare (fortuna che del resto è componente fondamentale di larga parte dei trionfi sportivi, persino per quello del Mundial 1982, bisogna ammetterlo onestamente), essa può senz'altro riferirsi alla finalissima, in programma l'8 giugno a Roma, contro la Jugoslavia, che si era sorprendentemente ma meritatamente sbarazzata dell'Inghilterra di Alf Ramsey. 
DOMINIO JUGOSLAVO - Quel sabato di fine primavera fu una grande giornata di calcio, nella Capitale: l'organizzazione del torneo aveva stabilito di far disputare le due finali, per il bronzo e per l'oro, nello stesso stadio Olimpico, una di seguito all'altra. Nella sfida fra deluse gli inglesi prevalsero sull'URSS. Fu l'antipasto pomeridiano allo spettacolo serale: davanti a oltre 80mila spettatori, azzurri e plavi diedero vita a una sfida durissima, che vide i primi nettamente in soggezione per lunghi tratti del match. Per sopperire all'assenza dell'infortunato Rivera, Valcareggi optò per una formazione "di gregari", con un centrocampo affidato al podismo e alla grinta di Ferrini e Lodetti e col solo Juliano a cercar di portare idee in fase di costruzione. In tal modo, nella zona di mezzo, gli ospiti assunsero subito il comando delle operazioni, spezzando in due tronconi l'undici italiano. La superiorità di manovra della squadra allenata dall'ex nazionale Mitic sfociò, in chiusura di primo tempo, nel gol di Dzajic, una delle ali più quotate del calcio europeo dell'epoca; la reazione dei nostri fu immediata e portò a una traversa di Domenghini, su calcio di punizione. Le occasioni furono diverse, da una parte e dall'altra, ma il gioco sembrò sempre saldamente nelle mani degli slavi, che però non riuscirono a chiudere il match e vennero puniti nella fase finale della ripresa... da chi? Proprio da Domenghini e da una delle sue bombe su tiro piazzato. I supplementari non sortirono effetto alcuno, la sensazione netta, nelle file azzurre, fu di averla scampata bella. 
VALCAREGGI RIMODELLA LA SQUADRA - Per la finalissima, il regolamento prevedeva la ripetizione della partita in caso di parità dopo il primo match; solo in seguito a un ulteriore risultato nullo, sarebbe entrato in scena  il sorteggio come per la semifinale napoletana. Qui Valcareggi dimostrò di essere un tecnico avveduto e maturo: preso atto del fallimento tattico registrato nella prima gara, cambiò volto alla formazione, incrementò il tasso qualitativo nel settore di mezzo togliendo Ferrini e Lodetti e inserendo il geometrico De Sisti e Mazzola nelle vesti di mezzala, con Rosato incaricato di... sgobbare per loro, mentre in prima linea venne finalmente fatto spazio a Riva; in un quadro del genere, anche Anastasi, che nella prima finale aveva... patito la solitudine in avanti, trovò nuovo brio. 
ITALIA BRILLANTE - La finale - bis si giocò la sera di lunedì 10 giugno: l'Olimpico non fece registrare il pienone di due giorni prima, ma gli oltre 40mila sugli spalti offrirono comunque un colpo d'occhio di tutto rispetto. Scese in campo un'Italia nuova, più compatta, organizzata e fresca, grazie ai cinque nuovi elementi (i citati Rosato, Mazzola, De Sisti, Riva, e in più Salvadore), mentre il cittì slavo cambiò un solo giocatore, non sappiamo se per eccessiva fiducia nella formazione base o per mancanza di valide alternative. In ogni caso, i nostri si impadronirono subito del pallino del gioco e passarono sollecitamente in vantaggio con Gigi Riva, in sospetta posizione di offside (ma osservando oggi l'azione, sembra che il bomber del Cagliari parta in linea con l'ultimo difensore). Si continuò a giocare bene e arrivò il meritato raddoppio, una perla di Anastasi, controllo al volo al limite dell'area e botta di destro nell'angolino basso, roba da stropicciarsi gli occhi. 
DAL 1934 AL 1968, NEL SEGNO DI POZZO - Fu un'ipoteca sul trionfo, perché all'epoca l'arte difensiva italiana era una cosa seria, cosicché davanti a Zoff l'operazione di contenimento riuscì mirabilmente, di fronte a un avversario che, nella ripresa, tentò disperatamente di riaprire la gara, mentre col classico contropiede i nostri sfiorarono in alcune circostanze il terzo gol. Il resto è leggenda: la fiaccolata degli spettatori dell'Olimpico che illuminò la notte romana al fischio finale, capitan Facchetti che alzò al cielo il trofeo, il primo, lo ripetiamo, del calcio azzurro nel dopoguerra. Era il 10 giugno, un segno del destino: lo stesso giorno in cui, nel 1934, sempre a Roma, l'Italia di Vittorio Pozzo conquistò il primo titolo mondiale (lo rievocai sul blog con due articoli, qui e qui). E Pozzo, ormai anziano, era in tribuna, quella sera del '68: fece in tempo a veder risorgere la Nazionale ai livelli che le competevano, e pochi mesi dopo lasciò serenamente questo mondo.  Un segno del destino fu anche la presenza in campo, spesso da protagonista, di Zoff, che con altri compagni riporterà in Italia la Coppa del Mondo 14 anni dopo, da capitano: simbolo di un nuovo ciclo felice appena apertosi, per il football tricolore.
Quei ragazzi del '68 non erano un bluff, la vittoria, come abbiamo visto, fu solo in parte figlia di qualche episodio fortunato: la squadra, con pochi ritocchi, confermerà la propria validità due anni dopo, in Messico, sul più impegnativo palcoscenico che ci sia, quello della Coppa Rimet, giungendo seconda dietro il super Brasile. Ricordare l'unico titolo continentale azzurro oggi, a pochi giorni dall'inizio della kermesse iridata, può sembrare senza senso, ma non lo è: perché quella coppa non può restare per sempre solitaria in bacheca, e il nostro neo CT Mancini l'ha sottolineato: vuole vincere l'Europeo. Oggi sembra una sfida impossibile, ma perché non sognarlo? In due stagioni cambiano tante cose, e l'Italia è pur sempre, anche in periodo di crisi, una delle capitali del calcio mondiale. Coraggio! (2 - FINE)

CINQUANT'ANNI FA L'UNICO TITOLO EUROPEO DELL'ITALIA (1)


Si celebra oggi il cinquantesimo anniversario di un evento rimasto purtroppo, e incredibilmente, un unicum nella storia del calcio azzurro. Il 10 giugno del 1968, infatti, l'Italia si laureava campione d'Europa, battendo nella finale di Roma la Jugoslavia per 2 a 0. Prima e unica volta, e ribadisco che la cosa ha dell'incredibile: perché, dimenticando per un attimo la nostra amarissima e disastrosa assenza da Russia 2018, è inconcepibile una bacheca continentale così scarna, per una rappresentativa che ha messo insieme la bellezza di quattro titoli mondiali. 
Non si può dire che quel lontano trionfo sia stato, nel tempo, scarsamente ricordato e celebrato, ma certo oggi può essere letto e analizzato sotto una luce nuova, vista la congiuntura negativa che sta attraversando il nostro calcio. Il peso specifico del titolo europeo "sessantottino" si può infatti mettere sullo stesso piano di altri due successi azzurri: la Coppa internazionale vinta nel 1930, perché fu la prima manifestazione di spessore vinta dalla nostra rappresentativa, e l'apoteosi di Madrid '82, perché interruppe un digiuno iridato di ben 44 anni, fu un volano potentissimo per la crescita del nostro movimento calcistico ed ebbe perfino un'incidenza sociale, segnando idealmente, secondo molti studiosi, l'uscita dal nero periodo del terrorismo per immettere il Paese in una breve ma intensa fase di benessere. 
LA PROFONDA CRISI DEL DOPOGUERRA - Ebbene, la vittoria di cinquant'anni fa fu una liberazione, la luce in fondo all'oscuro tunnel che il pallone tricolore aveva imboccato nel dopoguerra, dopo gli anni Trenta vissuti da dominatori assoluti in Europa e nel mondo. Ci fu l'illusione del Grande Torino, spazzato via dalla tragedia di Superga, ci furono gli stenti del conflitto che pregiudicarono la corretta crescita e maturazione fisica di una generazione di calciatori, ci furono scelte penalizzanti per la Nazionale come l'acquisto di troppi stranieri da parte dei club e la troppo disinvolta naturalizzazione soprattutto di elementi provenienti dal Sudamerica, cosicché indossarono la maglia color cielo campioni di fuorivia come Schiaffino, Ghiggia, Montuori, Altafini e Sivori, senza peraltro apportare evidenti benefici, anzi. Una selezione nazionale che, oltretutto, veniva spesso affidata ad elefantiache e macchinose commissioni tecniche, invece che alla classica figura del Commissario Unico. 
ROMA '60: RIFIORISCE LA SPERANZA - Dal 1950 al '66, l'Italia divenne una cenerentola del football internazionale: eliminata al primo turno nelle Coppe del mondo del '50 e del '54, toccò il fondo non qualificandosi nemmeno per la fase finale di Svezia '58, estromessa dall'Irlanda del Nord. I primi, timidi segnali di risveglio ci furono all'inizio degli anni Sessanta, ma in una forma del tutto inattesa, grazie alle rappresentativa olimpica messa insieme alla bell'e meglio per partecipare al torneo calcistico dei Giochi del 1960, tenutisi a Roma. Quella squadra, guidata da Gipo Viani, allineò la "meglio gioventù" di un vivaio che era, evidentemente, in netta ripresa: ne vennero chiamati a far parte validi atleti come Tumburus, Trebbi, Salvadore, Trapattoni, Ferrini, Tomeazzi, e futuri mostri sacri come Burgnich, Bulgarelli e Rivera. Nonostante lo scetticismo degli osservatori, l'Italia a cinque cerchi disputò un'ottima competizione, con la perla del successo sul Brasile per 3-1, approdò alla semifinale dove fermò sull'1 a 1 la fortissima Jugoslavia, che si impose solo per sorteggio, e perse immeritatamente anche la finale per il bronzo, cedendo di misura all'Ungheria. Ma l'impressione positiva suscitata dai nostri portabandiera fu notevole. 
LA SVOLTA DOPO LA COREA - Il momento nero del calcio nostrano stava per concludersi, ma ci furono ancora amare disillusioni, come la tempestosa esperienza del Mondiale cileno e l'umiliante resa di fronte alla Corea del Nord a Inghilterra '66: insomma, il seme era gettato, occorreva solo avere pazienza e correggere la rotta quel tanto che bastava per cogliere i frutti di un lavoro lungo e paziente. Dopo la disfatta di Middlesbrough, la Nazionale venne presa in mano da Ferruccio Valcareggi, che per quattro partite condivise la guida tecnica con Helenio Herrera, prima di rimanere da solo in sella. I ragazzi che avevano fatto naufragio Oltremanica, ossia Albertosi e Burgnich, Facchetti e Salvadore, Rosato e Bulgarelli, Rivera e Mazzola, ebbero modo di riscattarsi e dimostrarono tutto il loro valore, chi più chi meno; altri emergenti si aggiunsero al gruppo incrementandone il tasso di classe, atletico e caratteriale, in primis Domenghini e Riva. 
CARATTERE AZZURRO CONTRO LA BULGARIA - Il girone eliminatorio di Euro '68 venne vinto prevalendo su Svizzera, Romania e Cipro. All'epoca il campionato continentale funzionava assai diversamente rispetto ad oggi: solo otto squadre superavano la fase di qualificazione, dopodiché si affrontavano in quarti di finale con gare di andata e ritorno; la "fase finale", quella che da Euro 2016 prevede la partecipazione di ben 24 squadre, era limitata alle sole semifinaliste, che si ritrovavano in un singolo Paese per le sfide decisive. Dopo il sorteggio dei quarti, che ci oppose alla Bulgaria, si seppe che, in caso di nostro superamento del turno, il torneo conclusivo si sarebbe svolto proprio in Italia. 
Così avvenne, anche se prevalere sulla formazione balcanica non fu affatto facile: aveva estromesso in precedenza il Portogallo di Eusebio, terzo al Mondiale inglese, e schierava elementi di assoluto valore come Asparukov e Jakimov. Gli azzurri persero 2-3 a Sofia, in un match assai duro che vide finalmente venir fuori la personalità e la saldezza morale della nostra squadra, fino ad allora accusata spesso di essere troppo arrendevole psicologicamente quando giocava all'estero. Gli uomini di Valcareggi seppero limitare i danni, nonostante un avversario scatenato e numerosi affronti della sfortuna: due pali colpiti, Picchi infortunato che lasciò i suoi in dieci (le sostituzioni non erano ancora ammesse, se non per il portiere), Albertosi costretto anche lui al forfait in corso d'opera, essendo rimasto contuso in occasione del secondo gol bulgaro. Nel ritorno di Napoli, pur non brillando, l'Italia capovolse il risultato grazie agli acuti di Pierino Prati, testa in tuffo su traversone di Rivera, e di Domenghini con una sua classica punizione.bomba (una "costante" di questa favola azzurra: ne riparleremo più avanti). Una gara memorabile anche per un altro motivo: l'esordio assoluto di Dino Zoff, un esordio fortunato, primo capitolo di una carriera sensazionale.
LE MIGLIORI D'EUROPA SI RITROVANO IN ITALIA - Fu così semifinale, e fu ufficializzato l'onere, per il nostro paese, di ospitare le sfide decisive per il titolo. Ci avrebbero fatto compagnia la poderosa URSS del tempo (vinse il primo Europeo nel '60, fu medaglia d'argento nel '64), l'Inghilterra campione mondiale in carica, e la sorpresa Jugoslavia, che prima di travolgere la Francia nei quarti aveva eliminato la Germania Ovest, complice anche il clamoroso pari in Albania dei tedeschi. (1 - CONTINUA)