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martedì 30 dicembre 2014

NOTE D'AZZURRO: BILANCIO AGRODOLCE DEL 2014


Meno di ventiquattr'ore a San Silvestro, ed è dunque giunto anche per il blog il momento del consuntivo annuale, che traccerò con la schiettezza di sempre. Del resto, non è mia abitudine vantare successi inesistenti, casomai mi piace gioire dei piccolissimi traguardi raggiunti con tempo, fatica e pazienza, e che in quasi tre anni e mezzo di cammino non sono mancati, tutto sommato. Il mio obiettivo più realista, per questo 2014 che se ne va, era tenere "Note d'azzurro" sugli stessi livelli dei dodici mesi precedenti, e il post che pubblicai nel dicembre scorso me ne è testimone; il sogno, talmente scontato da non dover nemmeno essere sottolineato, era quello di crescere e ampliare il cosiddetto "bacino d'utenza" di questo spazio semi - giornalistico. 
DIFENDERE LE POSIZIONI - Ecco, in tutta franchezza: se il primo traguardo è stato sostanzialmente raggiunto, pur se con una lieve tendenza al ribasso, il sogno di cui sopra è rimasto, per l'appunto, un sogno. Da gennaio ad oggi, il blog ha registrato circa 25mila visite, grosso modo quanto aveva messo insieme nel 2013 (per la verità leggermente meno, ma si tratta comunque di una oscillazione di scarso rilievo). Mi accontento perché di questi tempi è già tanto "tenere il mercato", stabilizzarsi, conservare uno zoccolo duro di aficionados e non rimetterci troppo nella forbice fra nuovi lettori e defezioni: in fondo, e dovrei ripetermelo più spesso, questo è solo uno spazio amatoriale, per quanto curato con scrupolo, amore, attenzione. Gli dedico il tempo che posso, e negli ultimi due mesi sono forse stato un po' meno assiduo, ma quando arriva un po' di lavoro in più (lavoro vero), pur se provvisorio, il tempo che rimane per le passioni cala enormemente, a meno di decidere di non dormire più (e già io a letto ci sto proprio lo stretto indispensabile...). A tal proposito, debbo scusarmi anche con i vari amici blogger ai quali negli ultimi tempi ho riservato meno attenzioni di un tempo, per i medesimi motivi: conto di rifarmi nei prossimi mesi. 
SANREMO E MONDIALI - Le suddette cifre un po' mi hanno stupito, perché una prima analisi aveva rivelato in realtà tendenze assai positive: i post sul Festival di Sanremo son stati gettonatissimi anche quest'anno, e l'evento traino del 2014, il Mondiale di calcio, pareva in effetti aver davvero spinto il blog, registrando un afflusso di lettori quasi commovente, anche grazie all'appoggio datomi dall'amico Ruggero, che mi ha concesso di pubblicare i miei pezzi sulla pagina Facebook del Guerin Sportivo. 
TRE POST IN TOP TEN, MA... - Evidentemente, sono venute meno altre fonti di pubblico: un po' deludenti i risultati delle recensioni cinematografiche, pochi exploit per quelle teatrali, come sempre a corrente alternata il seguito dei post calcistici extra Mondiali, pur se nel complesso discreto. Si è forse un po' esaurita la spinta di pezzi cult come quelli dedicati al defunto sito Pagine 70 (pezzi che però continuano comunque ad attrarre utenti), ma è anche vero che ben tre degli articoli di quest'anno sono entrati nella top ten dei più letti di sempre su NdA: la recensione alla piéce teatrale di Ambra Angiolini, il toto - cast dedicato al prossimo Sanremo e, cosa che non mi aspettavo, la celebrazione del ritorno in A del Palermo. Certo, occorrerebbero analisi più approfondite  dei flussi di visitatori, e decisamente non ho il tempo di farlo; forse, più semplicemente, blog come il mio oltre un certo livello non possono salire, anche se l'ambizione di alzare un po' l'asticella rimane. Del resto io vado avanti solo con le mie idee e le mie opinioni, e con pochissimi mezzi per fare promozione: ma preferisco così piuttosto che riempire la mia home page con gigantografie di ragazze discinte o con link a siti di scommesse online, roba che assicura boom di visite anche a blog e portali caratterizzati dal vuoto spinto, in fatto di contenuti. 
IL SOGNO DI UN RAGAZZINO - Pensiamo agli aspetti positivi. L'evento clou dell'anno, come detto, è stato Brasile 2014. Quando inaugurai il blog, nella lontana estate del 2011, mi posi fra gli obiettivi quello di accompagnare per mano la nostra Nazionale fino alla Coppa del Mondo, e  poi narrare day by day la kermesse iridata, come avevo sempre sognato fin da ragazzo. Beh, il mio sogno era in realtà quello di poterlo fare da giornalista inviato sul posto, e verosimilmente non lo potrò mai realizzare; l'ho fatto da blogger, ed è stato bello comunque, perché nella vita, a 40 anni, bisogna cominciare ad accontentarsi....  
Per un mese un post al giorno, a volte due: analisi di squadre e partite, critiche a volte feroci, soprattutto nei confronti degli spompatissimi azzurri, ma anche i giusti peana a una Germania che avevo intuito grandissima fin dalla gara del debutto; approfondimenti tattici nei limiti, preferendo una visione più nazionalpopolare e meno tecnicistica della manifestazione, linea editoriale che è stata comunque apprezzata. In genere non mi lascio andare ad autocelebrazioni, ma in quelle quattro settimane piene di football penso di aver fatto un buonissimo lavoro, e ne sono orgoglioso: mi inorgoglisce meno l'aver intuito, addirittura fin dall'estate precedente (brutta amichevole persa con l'Argentina) la pessima china che stava prendendo la squadra di Prandelli, senza poi lasciarmi troppo incantare dall'illusorio debutto vincente con l'Inghilterra, ma è inutile riaprire ferite ancora dolorose. 
DAL MONDIALE '34 A... LOCKE - I miei personalissimi pezzi "top" del 2014? Il dossier in due parti sui Mondiali del 1934 resterà a lungo un mio vanto, così come la lettera aperta a Balotelli, la presa di posizione contro l'ascesa dell'impresentabile Tavecchio ai vertici federali, le puntuali analisi delle partite dell'Italia e l'ancor più puntuale registrazione delle varie fasi di declino del nostro movimento calcistico; della sequela di post su Sanremo e World Cup ho già detto. Gli articoli più amari? L'addio a Boskov e Vilanova, scomparsi quasi in contemporanea, e lo sfogo dopo l'alluvione dell'ottobre scorso, doloroso ma necessario. Il gioiello nascosto? La recensione di "Locke" che ha avuto scarso seguito come limitato è stato il successo di quel film, a parer mio un capolavoro che avrebbe meritato molto di più. 
LA TV DEL DOLORE - Mi accorgo che, col passare dei mesi, ho parlato sempre meno di tv, ma che volete che vi dica? Il tubo catodico è stato fonte di continue delusioni: il 60esimo compleanno Rai festeggiato in tono minore, poche novità degne di nota, trasmissioni di livello sempre più basso: ad esempio, nei giorni scorsi avrei voluto scrivere dell'inguardabile "Storie vere" di Uno Mattina, che fornisce una ribalta nazionale a gente che dice di dialogare con gli angeli, e sovente non rinuncia alla dose quotidiana di orrori assortiti, fra omicidi e scomparse: ma ho lasciato perdere, per una volta la rabbia rischiava di prevalere sulla lucidità critica, e poi certi prodotti meritano solo l'oblio. Di certo è un programma di cui la Rai di un tempo avrebbe fatto a meno senza rimpianti 
Più in generale, è una tv sempre più immersa nelle lacrime, sempre più concentrata sulle tragedie, oltre ogni limite sopportabile: fino a pochi anni fa, mia madre si lamentava del fatto che sul piccolo schermo ci fosse troppo calcio. Oggi, per chi non può permettersi Sky e Premium, di pallone ce n'è invece pochissimo, mentre è in atto un'overdose di fatti di sangue, violenze, stupri, cadaveri occultati, bambini massacrati: fatti analizzati andando ben oltre il diritto di cronaca, con la ricerca e l'esposizione al pubblico di particolari truculenti o privatissimi che nulla aggiungono al racconto delle vicende. In sintesi: una tv che merita davvero il minimo di attenzione, ma cercherò comunque di dedicarmici di più nel 2015. 
IL FUTURO - A proposito dell'anno nuovo, dirò il meno possibile: azzardato e controproducente sarebbe far previsioni sul numero di visite. Spero solo di avere sempre un po' di tempo da dedicare a questa mia creatura. Guardando al futuro degli argomenti "forti" del blog, auspico tre cose: un Genoa che mantenga almeno in parte le abbacinanti promesse di questi primi mesi di campionato, perché ce lo meritiamo, noi grifoncini, dopo anni vissuti fra illusioni e puntualissime docce fredde; un calcio italiano che sappia liberarsi del bluff Tavecchio e riesca a trattenere un Conte sempre più scontento, per poi affidarsi a uomini che abbiano davvero il coraggio di far piazza pulita e gettare nuove fondamenta per un carrozzone allo sfascio completo; dulcis in fundo, un Sanremo di nuovo glamour, leggero, più digeribile dell'ultimo, con una spruzzatina di baudesco nazionalpopolare e con una manciata di canzoni che rimangano. Buon anno a tutti da Note d'azzurro. 

lunedì 29 dicembre 2014

RECENSIONI DAL TEATRO: "IL CLAN DELLE DIVORZIATE"


La stralunata, la bomba sexy e la mascolina. Tre donne profondamente diverse fra di loro, ma accomunate dalla necessità di dover aprire un nuovo capitolo, affrontando il trauma del ritorno alla vita da single. Sono Lucia Vasini, Jessica Polsky e.... Stefano Chiodaroli, e formano "Il clan delle divorziate", lo spettacolo griffato Alil Vardar in scena nel periodo natalizio al teatro San Babila di Milano. Con tre matrimoni falliti alle spalle e un appartamento da condividere "obtorto collo", le ragazze scoprono strada facendo, fra abitudini agli antipodi, conflitti, contrasti caratteriali, più affinità di quanto loro stesse si aspettassero, e soprattutto il desiderio, dapprima malcelato e poi sempre più prorompente, di vivere nuove avventure di coppia, di ritrovare l'anima gemella. La piéce è un crescendo di umorismo e divertimento, che raramente trascende nella volgarità: forse non "una risata ogni 30 secondi", come con insistenza sottolineano i messaggi promozionali della commedia in giro per il web, ma sicuramente si ride con continuità, soprattutto in una seconda parte a tratti scoppiettante. 
"Il clan delle divorziate" è l'occasione per riscoprire e apprezzare appieno le doti sceniche di tre artisti che poco spazio hanno trovato in altri ambiti. Penso soprattutto a Lucia Vasini, la cui maschera svagata, svampita e insicura richiede tempi comici che forse mal si adattano a contesti più "mordi e fuggi" come il cinema e soprattutto la tv (dove negli anni scorsi è stata brillante spalla di Enrico Bertolino, in una trasmissione peraltro messa in onda a tarda ora), ma che sul palco di un teatro trova adeguata valorizzazione: una recitazione magari a tratti un po' ansiogena, ma che riesce alfine a cogliere l'obiettivo, integrandosi alla perfezione in un ensemble che, sotto la patina ridanciana, nasconde le debolezze, le insicurezze e le nevrosi di donne alle prese con un passaggio delicato delle loro esistenze. 
Poi c'è Jessica Polsky, sempre in forma, bellissima e straripante nonostante non sia più una fanciulla alle prime armi, con quell'accento americano che ricorda un po' tante soubrette dei tempi andati (come Heather Parisi) e fa subito breccia in noi spettatori italiani in fondo un po' provincialotti, sensibili come siamo al fascino della ragazza di fuorivia: per lei poche glorie televisive, eppure oltre al fisico e alla sensualità c'è anche un talento recitativo di grana buona e privo di incertezze. Infine, il Chiodaroli en travesti, "donnone" su di giri, un fascio di nervi in grado di dare vita, quasi da solo, ad alcuni dei momenti più surreali, e per questo esilaranti, dello spettacolo: senz'altro più convincente in queste vesti che in quelle di taluni personaggi caricaturali (ricordate il panettiere?) ad uso e consumo di sitcom e show delle emittenti private. 
La somma delle tre, come detto, produce un mix esplosivo di stramberie, situazioni equivoche, battute salaci. Un'opera godibile, che velatamente smonta il "mito" della gioia di essere single: la compulsiva ricerca, tramite annunci su una rivista, di nuovi appuntamenti galanti è la fase più divertente dello spettacolo, ma anche quella che mette maggiormente a nudo la fragilità e il senso di incompiutezza delle tre protagoniste, arrivando persino a portare alla luce i tratti di femminilità dell'insospettabile Chiodaroli. Insomma, una doppia lettura, ridanciana e riflessiva, che accresce il valore dell'opera anche al di là del suo potenziale comico. Il marchio di fabbrica resta però il sorriso sulle labbra anche per le situazioni più "agrodolci": la chiosa finale, affidata alla lingua tagliente del suddetto "donnone", lo dimostrerà agli spettatori inequivocabilmente. 

martedì 23 dicembre 2014

SUPERCOPPA AL NAPOLI: DAL "FREDDO" DI DOHA UN MESSAGGIO DI SPERANZA PER IL CALCIO ITALIANO

                                            Higuain, protagonista assoluto in Qatar

L'annus horribilis del calcio italiano si è concluso con un messaggio di tiepida speranza, giunto fin dal lontano Qatar. Certo, la Supercoppa Tim, vinta ieri sera dal Napoli al culmine di una lunghissima sequenza di calci di rigore, non è propriamente un trofeo in cima alla lista dei desideri di calciatori, allenatori, dirigenti e tifosi (anche se, per questi ultimi, qualche dubbio viene, visti i caroselli per le strade partenopee...). Ma è una competizione che ha una sua discreta dignità, soprattutto tecnica, anche se non è mai completamente decollata: dal 1989 a oggi ha dovuto subire cambi di sede, di formula (una volta si giocava in casa della vincitrice dello scudetto) e di periodo dell'anno in cui viene disputata (ha "assaggiato" praticamente tutte le quattro stagioni). Talmente negletta da essere ormai considerata roba da esportazione: ospitarla in Italia non conviene più, meglio monetizzare con i petrodollari di un ricchissimo emirato, con l'auspicio che l'evento funga anche, un minimo (ma proprio un minimo), come volano promozionale per il nostro football ultra - decadente. 
GELO - Un intento, quest'ultimo, riuscito solo a metà: la cornice in cui si è disputata la gara è stata da apoteosi della tristezza. Nemmeno 15mila spettatori e vuoti sugli spalti del piccolo impianto di Doha, pubblico che definire freddo è un eufemismo: saranno anche stadi dotati di tutti i comfort (persino l'aria condizionata), ma pensare che fra meno di otto anni il Mondiale potrebbe disputarsi in strutture così poco ricettive e in un'atmosfera così rarefatta immalinconisce enormemente: continuo a sperare in un cambio di sede (i tempi organizzativi ci sarebbero), ma so che si tratta di una pia illusione. L'operazione export può invece considerarsi riuscita sul piano meramente calcistico: Juventus - Napoli è stata una bella sfida, dai risvolti incoraggianti, nel senso che se almeno la metà delle partite della nostra scalcinata Serie A offrisse il medesimo livello qualitativo, beh, allora potremmo dire che non tutto è perduto, che ci sono ancora margini per una ripresa del movimento in tempi sufficientemente brevi. 
BUONI CONTENUTI TECNICI - Al di là della vivacità mostrata dalle due contendenti, dei ritmi quasi sempre sufficientemente alti, dell'altalena di emozioni, a lasciare buone sensazioni sono stati soprattutto i contenuti tecnici del confronto: torinesi e campani hanno sciorinato buona proprietà di palleggio e discreta ispirazione nell'impostazione di manovre efficaci, con una buona percentuale di precisione. Certo, non sono mancati gli svarioni: il pasticcio difensivo che ha dato il là al primo gol di Tevez è stato, per dire, da manuale dell'anticalcio, un black out ampiamente in linea, del resto, col trend non propriamente esaltante della terza linea azzurra in questa prima metà di stagione. Errori che, più in generale, vanno messi in conto in un momento involutivo del pallone tricolore, ma per una volta gli aspetti positivi sono stati, mi è parso, nettamente preponderanti: un piccolo circolo virtuoso che ha coinvolto anche il pool arbitrale, protagonista di una prova senza sbavature: ci voleva, dopo certi orrori recenti, in primis l'imperdonabile Banti che, in Genoa - Roma, ha fornito un saggio esemplare di come non si debba dirigere una partita, per quantità e qualità di errori decisivi e totale disagio nel gestire con autorevolezza una situazione calda ma non caldissima. 
PRODEZZE INDIVIDUALI - Torniamo a Doha: un match piacevole, si diceva, che nessuna delle due squadre avrebbe meritato di perdere, ed è stato giusto che a decidere sia stata la crudele giostra dei rigori di spareggio (lotteria inattendibile, non mi stancherò mai di ripeterlo). Prima, c'erano state fasi di gioco alterne, ora la Juve ora il Napoli a dominare, occasioni da gol e grandi prodezze individuali: quella migliore non si è concretizzata (il delizioso tocco di Higuain andato a infrangersi sul palo), ma di assoluto rilievo è stata anche la parata di istinto di Buffon sullo stesso Pipita, nei supplementari, poco prima che l'argentino siglasse il 2 a 2 con una rete da opportunista vero, rubando il tempo ai difensori bianconeri e cogliendo l'attimo come il Pablito Rossi '82. Detto delle prodezze di Rafael, in partita e soprattutto sui penalty finali, Callejon ha sbagliato molto (anche un gol clamoroso a tu per tu col portiere) ma è parso sempre nel vivo del gioco e capace di tenere sul chi vive la retroguardia della Signora; nelle file dei campioni d'Italia, oltre a un Tevez indiavolato, Pirlo ha giostrato da par suo finché è stato in campo mentre è parso un po' in ombra Vidal, lento a entrare in partita, utile come recupera - palloni ma assai meno esplosivo e incisivo di come lo ricordavamo. 
TEATRO INADEGUATO - Tutto sommato, però, più che i dettagli della partita conta il quadro complessivo. Rimarrà negli archivi uno spettacolo più che decoroso, senza isterismi  e senza condizionamenti delle "giacchette gialle": lontanissimo il ricordo della precedente Juve - Napoli di Supercoppa, nel 2012, altra bella gara rovinata da un arbitraggio da matita blu; lontano anche il ricordo della penultima finale di Coppa Italia, quel Lazio - Roma dal gioco modesto e continuamente spezzettato, fotografia spietata della nostra decadenza. Insomma, una piccola strenna, un minuscolo ma solido mattoncino da cui ripartire per riconquistare competitività e credibilità: ed è stato un peccato che un tale concentrato di emozioni e buon football sia andato in scena in un teatro di provincia, anzi, della periferia dell'impero calcistico. Le esigenze del portafoglio, certo: ma il calcio italiano l'appeal lo ritroverà non solo migliorando le proprie espressioni di gioco, ma riportando il pubblico nostrano negli stadi della penisola, stadi possibilmente nuovi, ammodernati, senza più lacci e lacciuoli per il tifo sano e senza più la feccia degli estremisti da curva. Utopie pre natalizie? 

lunedì 15 dicembre 2014

FESTIVAL DI SANREMO 2015, ECCO I BIG: I RITORNI DI RAF E NEK E I "NON CANTANTI" DI CUI SI POTEVA FARE A MENO

                                             Raf: ritorno all'Ariston dopo 24 anni

Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo alla notizia che Suor Cristina (pardon, Sister Cristina, non sia mai...) non aveva presentato alcuna richiesta di partecipazione al Festival di Sanremo, ed ecco una serie di brividi freddi percorrere la schiena, dopo aver udito i nomi di Platinette  e dei Soliti Idioti fra i convocati da Carlo Conti per la kermesse di febbraio. Si è così concretizzato il rischio che avevo paventato pochi giorni fa, ossia che l'allargamento del cast fosse anche un modo per aprire le porte a proposte di scarso spessore musicale ma di consistente appeal televisivo (e "social").
 Sopravviveremo, e del resto la forzatissima presenza del Coruzzi, che in passato aveva già tentato la carta rivierasca, dovrebbe beneficiare del tocco di classe di Grazia Di Michele, un ritorno inatteso e gradito sul palco dell'Ariston a ventidue anni (ebbene sì) dall'ultima partecipazione, quella del sensuale e fascinoso duetto con Rossana Casale in "Gli amori diversi"; e bisognerà poi vedere se il nostro si presenterà effettivamente nella sua più celebre versione en travesti o piuttosto "al naturale". Vada come vada, anche questi corpi estranei, in fondo, si inseriscono nel solco del ritorno alla tradizione che le prime mosse del direttore artistico avevano già reso evidente: i "non cantanti" in gara furono per alcuni anni un classico del Festivalone, anche se poche volte tali incursioni beneficiarono di effettivo successo: le partecipazioni di Sabani, Laurito, o ancor prima di Beruschi, rappresentarono più che altro simpatici diversivi acchiappa - audience e nulla più: il solo Francesco Salvi azzeccò un filone che per un po' di tempo gli diede non poche soddisfazioni, tanto che ad un certo punto si era messo a sfornare LP come un vero professionista della canzone.
FINALMENTE RAF E NEK - Per il resto, è un cast senza grossi sconvolgimenti, rispetto a ciò che avevo anticipato col mio post sui "papabili" pubblicato a fine novembre. Blindatissima da mesi la partecipazione dei Dear Jack, boyband fenomeno del momento che non mancherà di convogliare davanti alla tv e per le strade di Sanremo migliaia di giovanissime fans, non era difficile da prevedere il ritorno, dopo due anni, di Annalisa, Chiara e Malika Ayane, e dopo tre di Nina Zilli. I nomi di Irene Grandi, Anna Tatangelo e Marco Masini erano gettonatissimi, la rentrée  di Nek sulla bocca di molti, casomai posso "vantarmi" di aver preconizzato, forse unico in Italia, la presenza di Raf, decisosi a rompere un silenzio festivaliero di ventiquattro anni, mentre non sono certamente spiazzanti i ripescaggi di Alex Britti e Gianluca Grignani, che hanno assoluto bisogno di dare una riverniciata a una fama ultimamente un po' scolorita. E non poteva mancare il piccolo drappello rap: la commissione ha premiato Nesli, che rimase scottato dalla bocciatura di un paio di anni fa, e Moreno, altro nome più che mai à la page, per quanto discutibile nel modo di porsi e nei contenuti di certi suoi pezzi: basterebbero forse il solo genovese e i citati Dear Jack per assicurare a Sanremo 2015 il trionfo assoluto presso il pubblico in più verde età. 
FRAGOLA, SCELTA A RISCHIO - Qualche nome a sorpresa c'è, ma non tale da far gridare al miracolo: casomai si possono avanzare leciti dubbi sulla qualifica di Big attribuita a  Bianca Atzei (esclusa dodici mesi fa, quando si presentò in coppia con Britti), la quale non può vantare nemmeno un curriculum prettamente sanremese come altri ragazzi emergenti inseriti in passato nel gruppo dei "campioni" (pensiamo a Renzo Rubino l'anno scorso), mentre per Lorenzo Fragola rischierei di ripetere un discorso già fatto più volte: passare direttamente dalla vittoria a X Factor alla categoria regina del Festival continua a non convincermi. E' stata una mossa che ha funzionato davvero, nel senso più pieno della parola (popolarità duratura, dischi venduti, concerti sold out), solo con Marco Mengoni,, non a  caso il talento più puro espresso nell'ultimo lustro dal panorama talent nostrano; per Nathalie, il salto si rivelò troppo grande, al punto di risultare insostenibile, mentre Chiara Galiazzo è artista ancora in fase di crescita; rimango convinto che l'ingresso tra i veri big debba avvenire, in linea di massima, in maniera più graduale. 
LARA, STRANIERA "IN SOLITARIA" - Il "reclutamento" dei ragazzini del Volo è un tributo alla platea sanremese più tradizionale, anche se va tenuto nel debito conto il successo di pubblico che questo ensemble riesce a registrare da diversi anni in tutto il mondo. C'era infine il punto interrogativo legato ai nomi stranieri: alla fine ne è stato scelto solo uno, quella Lara Fabian nota in Italia (ma nemmeno tanto) più che altro per una lontana collaborazione con Gigi D'Alessio; è comunque una novità di peso, perché da tempo immemore, forse dal Luis Miguel del 1985, un artista di fuorivia non prendeva parte al Sanremo in solitaria: nel nuovo secolo i vari Morris Albert, Noa, Youssou N'Dour e Lola Ponce erano sempre stati in concorso in coppia  o in trio con colleghi nostrani.  

                                       Con Lara Fabian tornano gli stranieri in gara

VETERANI PIU'... FRESCHI - E' un cast ecumenico ma non troppo, e in questo senso non del tutto "baudiano": si è preferito, cioè, andare sul sicuro, sullo strettamente commerciale, piuttosto che ampliare al massimo lo spettro delle tendenze musicali. Intendiamoci, i nomi per soddisfare diverse fasce di pubblico non mancano: ci sono, l'abbiam visto, i figli dei talent che nel frattempo hanno imparato a camminar da soli, pur con diverse gradazioni di successo; ci sono invece i ragazzini "sfornati di fresco" dalle medesime trasmissioni, e la cui celebrità alle stelle, effimera o meno che sia, va cavalcata senza remore; c'è il rap e ci sono i "classici". Ecco, per quest'ultima categoria va fatta una riflessione: il salto generazionale può dirsi ormai completo, il tempo dei reduci dei Sessanta e dei Settanta pare definitivamente trascorso (segnali incoraggianti, in questo senso, erano già arrivati nelle ultime tre edizioni): i nomi di Patty Pravo e Loredana Bertè, circolati massicciamente nei giorni scorsi, sono fortunatamente rimasti lettera morta, e Fausto Leali ha avuto modo di adontarsi per il rifiuto oppostogli da Carlo Conti: lui e le altre se ne faranno una ragione, così come me la son fatta io. Si è puntato invece su veterani più... freschi, su Masini e su Grignani, sulla Grandi, su Raf e sulla Di Michele: questi ultimi due sono i più "anziani" artisticamente del cast, e fa un po' effetto rimarcarlo, a me che in pratica ne ho visto nascere il successo. 
VIVAIO TRASCURATO - Però, come detto, c'è qualche vuoto. Stona fortemente la scarsa considerazione nei confronti dei più recenti prodotti del vivaio sanremese, il cui vessillo è tenuto alto solo da Malika e Nina Zilli; ad esempio Antonio Maggio, vincitore due anni fa, non ha più avuto una chance. Il serbatoio locale meriterebbe una maggior valorizzazione, anche perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, il futuro di Sanremo e della musica italiana passa anche da lì, non solo dai talent. Altra lacuna: gli indipendenti rampanti sono rimasti al palo, è stata riempita da altri la casella occupata nelle ultime edizioni dai vari Perturbazione, Riccardo Sinigallia, Marta sui Tubi. Peccato.
 FESTIVAL MAINSTREAM ED EQUILIBRATO - Ancora: è mancato il coraggio di pescare fra gli artisti un po' più di nicchia, per quanto comunque di fama: io avevo parlato di Teresa De Sio ed Eduardo De Crescenzo, oppure di Alice, ma poteva starci anche un Cammariere, il cui nome era stato esplicitamente fatto da qualcuno. Insomma, un Sanremo molto "mainstream", deciso a puntare a una occupazione finalmente massiccia e prolungata delle classifiche di vendita e di download. Di certo è un cast che promette una battaglia equilibrata: a meno che Raf non tiri fuori il pezzone epocale, o che i Dear Jack non sbaraglino il campo forti di un sostegno popolare oceanico, dire chi possa giungere primo al traguardo è impresa assai ardua, ed è senz'altro un punto  a vantaggio della godibilità dello show.
SANREMO "TIRA" ANCORA - Infine, una considerazione di carattere generale: le canzoni presentate al vaglio della commissione sono state 186 (parliamo sempre della categoria Big, per i giovani la quantità sale esponenzialmente). Tante, decisamente: il Festival è denigrato, osteggiato, ferocemente criticato da più parti, persino dall'interno dell'ambiente musicale. Eppure, serve come il pane a centinaia di artisti: giovani all'inseguimento della consacrazione, personaggi sulla cresta dell'onda in cerca di ulteriori conferme, onesti professionisti di classe media che necessitano di visibilità, "anziani" bramosi di un rilancio. Non comprenderne l'utilità è grave; ancor più grave sarebbe perderlo, visto che ogni anno spunta fuori chi ne chiede l'abolizione: la musica di casa nostra, già in crisi e privata di una così formidabile vetrina, andrebbe definitivamente incontro a un declino inarrestabile. 

venerdì 12 dicembre 2014

VERSO SANREMO 2015: CONTI PORTA A VENTI I BIG IN GARA, E' UN RITORNO ALL'ANTICO

                                Carlo Conti: il suo Festival torna nell'alveo della tradizione

La prima mossa di Carlo Conti sullo scacchiere di Sanremo è vincente. Dopo anni di cast striminziti, i Big in concorso salgono da sedici a venti. Una quota partecipanti così elevata non si vedeva dai tempi della "gestione Pippo Baudo", e non è affatto casuale, come vedremo, il richiamo a quel capitolo tutto sommato glorioso della storia del Festival. "Note d'azzurro", ossia il sottoscritto, non può che essere soddisfatto della novità, già nell'aria da alcuni giorni ma che non era attesa in tali proporzioni (si parlava infatti di un innalzamento a diciotto concorrenti nella categoria regina): la mia posizione in merito traspare, grosso modo, dal novanta per cento dei post che ho dedicato alla tenzone rivierasca dal 2011 ad oggi. Anni, si diceva, caratterizzati da cast ridotti al lumicino: appena quattordici posti a disposizione per i cosiddetti "campioni", nelle ultime quattro edizioni. 
POCHI CANTANTI, TROPPI EXTRA - Una gara in scala ridotta, con effetti negativi evidenti soprattutto quando il meccanismo delle eliminazioni conduceva alla finalissima un drappello davvero sparuto di artisti: una decina, col risultato che il resto del gala conclusivo veniva in qualche maniera riempito con ospitate improponibili, spesso avulse dal contesto prettamente canoro dell'evento, o con comparsate promozionali di personaggi Rai. Era un piccolo grande tradimento dell'essenza stessa della rassegna sanremese, la cui funzione è, da sempre, quella di vetrina delle migliori novità proposte dal panorama musicale leggero nostrano, quando l'inverno volge al termine e la primavera incombe: e il tradimento avveniva proprio in un periodo di acuta crisi del mercato discografico italiano, che per superare il momento difficile avrebbe avuto bisogno anche (non solo) di kermesse col format del Festivalone di un tempo, quello in cui si concedeva spazio a un numero assai ampio di cantanti. 
BAUDO E RAVERA - I tempi di Baudo, come sottolineato in apertura. Ma anche gli anni Ottanta di Gianni Ravera, anni di un Sanremo vincente e rigoroso, che non "deragliava mai", che era ancora gara di canzoni assai più che show televisivo tout court. Proprio negli anni gestiti dal patron forse più celebre, l'innalzamento della quota partecipanti era una piacevole tradizione della vigilia: i big ammessi alla gara risultavano sempre più numerosi di quelli che l'organizzazione aveva inizialmente annunciato. Il record, in tal senso, venne stabilito nel 1982: da otto che dovevano essere quasi raddoppiarono, divenendo quattordici. Per l'elevato numero di proposte e per lo spessore qualitativo delle stesse, si premurava di far sapere chi aveva operato la selezione dei brani; per soddisfare gli appetiti di qualche casa discografica in più o per ottenere in cambio ospiti stranieri di prestigio, ribattevano certi giornalisti maligni: quale che fosse il motivo, alla fine i vantaggi per la musica di casa nostra risultavano indubbi, perché salire sul palco dell'Ariston significava accrescere esponenzialmente o rinverdire la propria popolarità, entrare nel giro promozionale delle trasmissioni tv e delle radio, garantirsi buone vendite di dischi o, nella peggiore delle ipotesi, un bel bottino di serate live. 
SOSTEGNO ALLA DISCOGRAFIA ITALIANA - Vantaggi che oggi assumono valore anche maggiore, addirittura "vitale", alla luce della difficile congiuntura di mercato. Incredibile che ci si arrivi solo oggi. "E' un modo per sostenere e promuovere ancora di più la musica italiana", ha spiegato Carlo Conti, che è riuscito a smuovere acque da troppo tempo stagnanti e che ha mostrato coraggio non indifferente. Perché con questa modifica regolamentare Sanremo torna all'antico, a una riscoperta delle radici che però è stata sempre rigettata, nell'ultimo lustro, per paura dell'Auditel: è convinzione dei padroni del vapore televisivo che il pubblico del Duemila non apprezzi più le gare canore "all'antica", mal sopporta di vedere sul piccolo schermo una mera successione di cantanti. Ma forse è solo questione di abitudine, perché il telespettatore medio prende quel che gli si dà, non si spiegherebbe altrimenti il successo pluriennale fatto registrare da certe inguardabili trasmissioni trash. Del resto, le risultanze in termini di audience dell'edizione 2014 hanno  lanciato un segnale opposto: se c'è qualcosa di difficile da tollerare è un Sanremo pieno di corpi estranei, di sovrastrutture spettacolari superflue e di dubbia presa, con gli artisti in gara costretti troppo spesso a cedere le luci della ribalta, che invece all'Ariston spetterebbero loro di diritto, sempre. 
GIOVANI IN PRIME TIME - Il nuovo direttore artistico ha forzato il blocco e si richiama alla tradizione baudiana, soprattutto: perché, se Ravera aveva il vantaggio di operare in un'epoca in cui le competizioni canzonettistiche "a struttura classica" non erano considerate di difficile digeribilità, Baudo riuscì invece a conservare la centralità della gara in un Sanremo già contaminato con gli stilemi del varietà generalista, già contenitore in cui veniva immesso di tutto e di più. E' dunque con quel modo di concepire il Festivalone che la gestione Conti va idealmente a saldarsi: nel medesimo contesto si inserisce l'altra grande novità delle ultime ore, il ritorno delle Nuove Proposte a un orario di esibizione più consono: da troppo tempo relegate a notte fonda, quest'anno avranno addirittura l'onore del prime time.
Per quel poco che può valere, altra "vittoria" di Note d'Azzurro, che su questo tasto ha pigiato fino allo sfinimento. Ma è più che altro, questa come quella dei venti Big, una vittoria della ragionevolezza: se il vivaio di Sanremo è fondamentale per il futuro della rassegna e della musica italiana nel suo complesso, che senso aveva maltrattarlo con mortificanti collocazioni in scaletta, quasi fosse un fastidio, una pratica da sbrigare in tutta fretta per lasciar posto all'attore americano, al ballerino, al declamatore di poesie o all'esperto d'arte? 
I DUBBI - Poi, per carità, non è tutto oro quel che luce. Una prima rapida analisi dei brani dei giovani, ad esempio, non mi ha trasmesso sensazioni di entusiasmo, ma mi riprometto di tornare sull'argomento dopo una serie di ulteriori ascolti. E, tornando ai big, bene per i "venti", ma oltre al contenitore più capiente occorre ora un contenuto gradevole: guai, ad esempio, se l'allargamento venisse sfruttato per buttare nel calderone proposte di scarso appeal musicale e utili solo per catturare la platea televisiva.
Se dobbiamo basarci sui nomi circolati in questi giorni, e su quelli comunque più papabili per la corsa a un posto nel cast (si legga, in proposito, quanto da me scritto nell'articolo della settimana scorsa), potrebbe venir fuori un listone tutt'altro che malvagio; e se da un lato ci sono due - tre candidature che mi fanno rabbrividire (in senso negativo), dall'altro è probabile che spuntino in extremis altrettanti personaggi di cui nessun "previsore" aveva parlato, come è tradizione: l'anno passato, addirittura, una buona metà dei concorrenti Campioni spiazzò del tutto gli esperti, risultando assolutamente inattesa. Ma di questo parleremo prestissimo, diciamo fra un paio di giorni. Va infine detto che, permanendo nel regolamento la formula ad eliminazione, mette persino un po' di tristezza pensare che solo quattro Big su venti non arriveranno alla finale: a questo punto, sarebbe stato più giusto promuoverli in blocco, ma non si poteva rinunciare totalmente al pathos delle "qualificazioni", che in passato ha sempre fatto notevole presa sul pubblico. 

lunedì 8 dicembre 2014

DOPO GENOA - MILAN: COMUNQUE VADA, QUESTO GRIFO NON E' UN BLUFF


Il Genoa della prima domenica dicembrina è stato un crogiolo di emozioni. Non solo, non tanto per il terzo posto consolidato al termine di una delle sfide più difficili di questo primo scorcio di torneo: in fondo, dai rossoblù all'Inter ballano dieci squadre in dieci punti, e siamo solo alla quattordicesima giornata; tutto può ancora succedere, continuare su questo trend come ridimensionarsi e perdere quota. Emozionante, più che altro, è stato sentire un Ferraris che, finalmente compatto ("ricompattato" da Gasperini col famoso sfogo post Empoli di due mesi fa, si può dire?), negli ultimi minuti del match ha sostenuto incessantemente la squadra di casa, quasi "proteggendola" dagli spuntati tentativi di rimonta del Milan; lo dice uno che, come il sottoscritto, è lontano anni luce dalla "cultura di gradinata", dalle sciocchezze del tipo "i tifosi sono il dodicesimo uomo in campo", ma quel che è giusto è giusto, ed è gratificante sottolinearlo soprattutto in un periodo in cui, nelle nostre desolate lande, di stadi pieni e caldi se ne trovano ben pochi. 
Emozionante è stato, soprattutto, vedere un Genoa adulto e maturo. Dopo stagioni di navigazione a vista, di rischi assurdi, di squadre assemblate in maniera approssimativa, di via vai nello spogliatoio, di condottieri non all'altezza (De Canio, Liverani) o in chiara parabola discendente (Marino, Malesani), il répechage di Gasperini, poco più di un anno fa, è coinciso col ritorno a una gestione più rigorosa, razionale, di prospettiva. 
PROGETTO SOLIDO - Il vate di Grugliasco ha riportato il gusto del gioco, la voglia di costruire qualcosa di importante e duraturo, di modellare gradualmente, senza assilli e senza pressioni, una squadra con un'anima, capace di puntare al successo non solo sull'onda dell'agonismo e della generosità, ma percorrendo strade tattiche ben precise, lavorando attorno a un progetto tecnico incentrato sulla brillantezza, sul "tenere pallino", sull'aggressività. La "summa" di questo lavoro, iniziato da Gasperson nell'ottobre 2013, è stata la gara capolavoro col Diavolo: ritmo, gioco d'iniziativa, rapidità, controllo pressoché totale della partita, automatismi oliati per un undici in cui tutti sanno sempre cosa fare; e ancora, predisposizione al sacrificio da parte di tutti e buona intercambialità di uomini, con un gruppo di almeno 15 - 16 titolari effettivi. 
OROLOGIO SVIZZERO - Il dubbio che sia stato il team rossonero a fare il Genoa più grande di quanto in effetti sia è comprensibile, ma tutto sommato fuori luogo: il Milan da alcune stagioni indossa vesti più dimesse del solito, ma rimane una compagine di buona grana, quantomeno dalla cintola in su, che ha i mezzi, se non per lottare per lo scudetto, sicuramente per centrare un piazzamento europeo. E ieri, a Marassi, ha tutto sommato fatto una figura dignitosa, mostrando buona intraprendenza nella fase iniziale (e chissà cosa sarebbe accaduto, se Menez fosse stato più freddo davanti a Perin...) e lottando con furia financo sopra le righe in ogni zona del campo.
Ma bisogna avere l'onestà di riconoscere che, in questo momento, il Grifo è un meccanismo di precisione, un orologio che non perde un colpo, sostenuto da una buona dose di classe pura (magari non da Champions League, ma nemmeno da quart'ultimo posto come qualche "grande saggio" del giornalismo aveva vaticinato ad agosto), da una forma fisica straripante, da un canovaccio strategico funzionale e dalla fiducia indotta dai risultati positivi in serie. Perché vincere aiuta a vincere, del resto lo avevo scritto anche la scorsa primavera, dopo l'esaltazione seguita alla grossa prestazione offerta contro la Juventus, vanificata da una delle tante prodezze di Pirlo su punizione: le "sconfitte gloriose", questo fu il mio pensiero in sintesi, raramente sono il viatico di successi e trionfi. E così fu, in effetti: quella performance di alto livello non scaturì dal nulla, si vedeva che il buon materiale su cui lavorare non mancava, ma il progetto era ancora in sboccio, e il prosieguo del torneo, caratterizzato da capitomboli in serie, dimostrò che c'era ancora da migliorare sotto diversi aspetti. 
NUCLEO ITALIANO - Nel frattempo il Genoa è cresciuto, è oggi una squadra fatta e finita: migliorabile, certo, ma con una precisa identità di gioco e valori individuali di tutto rispetto. E' una compagine molto "italiana", il che mai come in questo momento deve essere considerato un titolo di merito, quasi un punto d'onore, anche se in molti, stranamente, se ne stanno accorgendo solo ora: eppure già quest'estate erano in rosa i vari Perin, Marchese, Antonini, Antonelli, Bertolacci, Sturaro, Matri, Greco, Rosi, Izzo, Mandragora, ma si preferiva, per evidente pigrizia mentale, tranciare giudizi irridenti sull'ennesimo "vortice di mercato", anche in questo caso facendo finta di non vedere che, a fronte dei numerosi arrivi, per la prima volta da molti anni  a questa parte si era deciso di puntare sul consolidamento di un gruppo storico che potesse dare continuità al progetto e compattezza allo spogliatoio: oltre a molti degli italiani sopra citati, sono rimasti anche Burdisso, De Maio, Kucka, Fetfatzidis, per dire.

                                  Bertolacci: sempre più prezioso per la manovra rossoblù

I GIOVANI E PEROTTI - C'è stato poi il naturale completamento di discorsi aperti nella stagione scorsa, una crescita dei singoli e del gruppo, e ci sono state, certo, fondamentali migliorie: i "tourbillon" di mercato non sempre sono fuffa, se portano in dote elementi come il colosso difensivo Roncaglia, l'utile Greco, punte affidabili come Matri e Pinilla e un "quasi" fuoriclasse, dico il folletto Perotti, che ieri pomeriggio, con le sue eleganti ed efficaci veroniche, ha fatto girare la testa a tutti i milanisti. E' un Genoa, anche, che non ha paura di dare fiducia ai giovani e giovanissimi del vivaio nostrano, anche in questo caso mosca bianca, assieme a pochi altri club (Cagliari, Atalanta, Empoli, Sassuolo, Sampdoria): l'anno scorso Sturaro, ovviamente subito "catturato" dalla Juve, quest'anno Mandragora lanciato da Gasp proprio nel delicatissimo match coi campioni d'Italia, dal quale è uscito come uno dei migliori in campo, e a seguire il difensore Izzo, attento, preciso, senza sbavature. 
QUALCOSA RESTERA' - Italianità, gioventù, qualche piede buono: basterebbe questo per capire che no, il Genoa non è un bluff. E' un team che ha sostanza tecnica, idee, vivacità. Poi, chiaro, questo vuol dire tutto e niente: domenica a Marassi è attesa la Roma, che magari ridimensionerà le ambizioni dei liguri. Tuttavia, al di là delle piccole crisi (che arriveranno), dei ko inevitabili, dei cali di forma, qualcosa resterà: il campionato del Grifone non è frutto di casualità, di partite fortunate, di calendari favorevoli: è costruito su basi solide come quelle sopra descritte, e del resto quattro o cinque azzurri o azzurrabili (Perin, Antonelli, Bertolacci, Sturaro, Matri) sono la solare evidenza della bontà del lavoro svolto a Pegli. Sarà fondamentale, quello sì, non rompere il giocattolo a gennaio e, soprattutto, mantenere il profilo basso: credersi troppo forti è la più breve scorciatoia verso le delusioni, e in questo senso vanno lette le dichiarazioni di Preziosi, tese a buttare acqua sul fuoco degli entusiasmi. Se poi gli squadroni metropolitani in crisi, le grandi multinazionali della nostra Serie A senza più "identità di patria", torneranno a fare il loro dovere, cioè quello di competere per i primi cinque - sei posti, allora tutto tornerà semplicemente normale. Ma Antonelli e compagni un segno lo hanno già lasciato.