Powered By Blogger

giovedì 16 dicembre 2021

SANREMO GIOVANI 2021: UNA FORMULA PENALIZZANTE. PASSANO ROMANO, TANANAI E YUMAN, MA CHE FINE FARANNO QUESTE CANZONI?


Due interrogativi dallo spessore quasi... esistenziale: quando siamo ormai alle soglie del 2022, cosa ci si aspetta da Sanremo Giovani? E cosa ci si aspetta, più in generale, dalla musica giovane italiana? Premesso che le due cose dovrebbero coincidere ma non sempre, in passato, è stato così, negli ultimi anni in tanti, e mi ci metto pure io nel mezzo, hanno chiesto al vivaio ligure l'innovazione, il guizzo di originalità, la ricerca di nuove soluzioni sonore. Dimenticando che "musica giovane" vuol dire anche altro: belle voci, ovviamente, e soprattutto bei brani, che tali possono essere anche rifuggendo dagli stili sulla cresta dell'onda o dalla sperimentazione a tutti i costi.

FORMAT PENALIZZANTE - Ecco, l'edizione 2021 idee rivoluzionarie non ne ha lanciate, questo è sicuro. Capolavori nemmeno, ad occhio e croce, mentre aspetterei un attimo prima di valutare l'effettivo livello del pacchetto-canzoni. Perché così come è concepita oggi, la manifestazione che Pippo Baudo creò e rese fondamentale "polmone verde" del festivalone non ha molto senso. Perlomeno, un anno fa era stato concepito un format che, con tutti i suoi difetti, cercava in ogni modo di valorizzare gli artisti in concorso e i loro pezzi, mettendoli in vetrina per buona parte dell'autunno. Certo, mi si dirà, gli esiti sono stati sconfortanti: discograficamente Gaudiano e gli altri non hanno sfondato, eppure rimango convinto che lui e i suoi compagni di sventura non fossero così male, e che i problemi alla base del fallimento siano stati altri, come ad esempio il fare arrivare al Sanremo propriamente detto delle opere non inedite e quindi già vecchie di mesi, in un panorama musicale in cui il ciclo di vita delle canzoni si è drasticamente accorciato. 

CANZONI CHE SI PERDERANNO? - Quest'anno, come anche nel 2018 col Baglioni bis, si è passati all'eccesso opposto: canzoni in gara messe online poche settimane prima della serata finale, poi un solo passaggio televisivo, quello di ieri, durante il quale non è stato neppure possibile riascoltare il refrain dei dodici pezzi. In sintesi: promozione scarsa, vetrina catodica quasi azzerata per opere che rischiano di ritornare subito nel dimenticatoio, comprese le prime tre classificate, visto che i vincitori dovranno presentarsi all'Ariston con composizioni nuove di zecca, gareggiando nella stessa categoria dei Big. Un gran pasticcio, insomma, e chi parla di formula che aiuta gli emergenti lo fa con una buona dose di faccia tosta. Certo, è comodo sventolare davanti agli occhi di questi ragazzi la ghiotta opportunità di entrare dalla porta principale della rassegna e di confrontarsi ad armi pari con i colleghi più noti e affermati, ma è un boomerang, perché per una Cinquetti e un Mahmood ci sono stati Vergnaghi, Tiziana Rivale ed Einar, per dire. E comunque mandar solo due o tre nomi al Festival è mortificante per un evento che ha visto la partecipazione di oltre 700 aspiranti, senza contare quelli dell'ex Accademia.

L'UTILITA' DELLA FORMULA CLASSICA - La tradizionale categoria delle Nuove Proposte di febbraio rappresenterebbe invece una sorta di comfort zone, che eviterebbe ai "novizi" di cadere dall'alto e farsi malissimo, assumendo invece i contorni di una formativa anticamera all'eventuale, successivo ingresso nell'olimpo dei vip canterini. Nuove Proposte che fin dai primi anni Ottanta hanno costituito un fondamentale serbatoio per il ricambio generazionale del Festival e della musica italiana stessa: pensate ad esempio a cosa sarebbero stati certi festival diretti da Baudo negli anni Novanta senza la presenza della categoria dei volti nuovi; i nomi, le canzoni e la storia stanno lì a dimostrarlo, ma tant'è. 

POCA SPERIMENTAZIONE - Questo Sanremo Giovani è dunque volato via in un lampo. L'alternanza fra gli imberbi concorrenti e la passerella dei Big scelti da Amadeus ha funzionato televisivamente parlando, ma ha fagocitato i ragazzi, a ulteriore testimonianza del fatto che le due categorie devono marciare separatamente e parallelamente, e che mischiarle difficilmente aiuta gli ultimi arrivati. Dicevamo del pacchetto canzoni: nulla di rivoluzionario, poca sperimentazione, e in questo si evidenzia comunque una certa coerenza con la linea editoriale scelta dal direttore artistico per la manifestazione di febbraio, che, per l'appunto, strizzerà meno l'occhio all'insolito puntando di più sui divi pop del momento e sui grandi veterani.  

CLASSICO RIVISITATO - La buona notizia è che molti abbiano cercato di ripercorrere le orme della tradizione melodica nostrana, coniugandola ovviamente con soluzioni musicali e linguistiche moderne. Poi, chiaro, qualcuno c'è riuscito di più, altri meno: il migliore, in questo campo, è stato l'imberbe Matteo Romano, che forse segue un po' il solco vincente di Ultimo ma che sembra avere buona ispirazione. Meglio lui di Yuman, che ha addirittura vinto la kermesse con una "Mille notti" di grande intensità e forza emotiva ma, davvero, un po' troppo vecchio stampo. Si sono incamminati nella stessa direzione Destro con la malinconica "Agosto di piena estate" e Samia con "Fammi respirare", energica canzone d'amore, brani anche orecchiabili pur se un tantino leggerini. 

GLI ECCESSI DEL GIOVANILISMO - Senza_Cri ed Esseho hanno tentato di vestire pezzi tutto sommato classicheggianti con interpretazioni giovanilistiche: attenzione, però, perché al giorno d'oggi questo "giovanilismo" tende troppo spesso a coincidere con un modo di parlare strascicato e con una sequenza di vocali aperte che rendono poco comprensibile il testo, e nei due casi è un peccato, trattandosi di composizioni ben scritte, con particolare riferimento all'insolita auto-dedica di Senza_Cri. A metà del guado anche Bais con "Che fine mi fai fare", movimentata ed eseguita con grinta, ma senza particolari trovate che possano renderla resistente al passare del tempo. 

IL BRIO DI TANANAI, LA CONTEMPORANEITA' DI LITTAME' - Nella... sezione divertissement si sono iscritti Tananai e Oli?. Il primo ha fatto il colpaccio con "Esagerata", indubbiamente uno dei pezzi più contemporanei e radiofonici proposti da questa edizione, fra parlato e cantato, vivace e spigliato nel testo e nella ritmica, con in più un'immagine da bad boy sciupafemmine. Il secondo ha puntato più che altro su una trasgressione fors'anche un po' sopra le righe in "Smalto e tinta", ma comunque ha strappato un sorriso mostrando di saper stare su un palco importante con disinvoltura. Il vessillo dei canoni canzonettistici più "à la page" è stato tenuto alto da tre ragazze: Littamé con una "Cazzo avete da guardare" di ottima presa, tanto che avrebbe meritato l'accesso all'Ariston; Martina Beltrami con "Parlo di te", opera ben confezionata, indubbiamente gradevole soprattutto nel ritornello, ma priva di quel guizzo in più in grado di innalzarla ad altezze siderali; e Vittoria, la cui storia lesbo "California" non convince del tutto, indugiando in maniera tropo marcata e ostentata in certi stilemi adolescenziali interpretativi e di scrittura.

PEZZI ANCHE GRADEVOLI, MA... - Torniamo però al discorso di partenza: ora queste canzoni rischiano di perdersi, di essere abbandonate sulla strada per Sanremo, dopo pochi e superficiali ascolti che non consentono una valutazione totalmente attendibile. La sensazione è che il tasso di easy listening sia buono e che non sarebbe da escludere la discreta riuscita di parte di questi pezzi a livello di heavy rotation e di streaming, se solo potessero usufruire di ulteriore promozione, cosa di cui dubito. Sul verdetto poco da dire: come accennato, io avrei premiato Littamé, magari al posto di Yuman, mentre hanno un senso le promozioni a febbraio di Matteo Romano e Tananai. 

SI PUO' FARE A MENO DELLA GIURIA VIP - Di una cosa ad Amadeus bisogna dare atto, per questa edizione del "campionato Primavera" sanremese: avere messo per un attimo da parte il televoto e, soprattutto, aver lasciato a casa la giuria televisiva, spezzando una catena troppo lunga e dando un segnale importante a tutta la tv generalista nostrana: perché da anni non c'è show di prima serata con gara annessa che riesca a fare a meno di queste giurie vip, spesso più dannose che inutili, personaggi che spesso danno spettacolo dimenticando il loro compito specifico, tranciano giudizi discutibili e oscurano chi dovrebbero valutare (con rare eccezioni, tipo la Beatrice Venezi dell'anno scorso). Ecco, Ama ci ha detto che si può andare avanti senza di loro: si è assunto una responsabilità pesante accollandosi il 50 per cento del verdetto di ieri sera; nulla di diverso, del resto, dal modus operandi di tanti grandi patron sanremesi del passato, da Ravera a Baudo, che spesso decidevano tutto o quasi in prima persona. 

domenica 5 dicembre 2021

SANREMO 2022: AMADEUS ANNUNCIA (IN ANTICIPO) UN CAST DISCOGRAFICAMENTE FORTISSIMO. PIU' SPAZIO PER I DOMINATORI DELLE CHART E PER I VETERANI, MA LE SCELTE CORAGGIOSE NON MANCANO


Forse non sapremo mai cosa sia realmente accaduto nelle 72 ore (abbondanti) intercorse fra lo scoop molto presunto di "Chi" e l'annuncio ufficiale del cast di Sanremo '22. Forse Amadeus, vistosi messo all'angolo per la seconda volta in due anni, ha rimescolato le carte all'ultimo momento e teso una diabolica trappola al settimanale, che si è ritrovato fra le mani un'ex colpo giornalistico diventato improvvisamente una notizia incompleta e imprecisa. O forse, più semplicemente, la rivista diretta da Alfonso Signorini ha preso un granchio: capita, quando si è fin troppo sicuri di sé; nel 2020 era andata bene, ma le fonti non sono sempre quelle giuste, e allora qualche volta sarebbe meglio andarci un po' più coi piedi di piombo: vale anche per le tante testate che hanno rilanciato lo pseudo-listone di Big in maniera del tutto acritica e senza nemmeno sprecare un condizionale o un punto interrogativo. 

Problemi loro, intendiamoci. E un sentito grazie al direttore artistico che, sia pur per vie traverse, ha salvaguardato uno dei momenti chiave della liturgia sanremese, della "messa cantata", come la definiva Pippo Baudo, ossia la solenne comunicazione dei vip in lizza in Riviera. Si temeva che sarebbe stata una stanca conferma dei nomi già circolati, si è rivelata invece una sarabanda di piccoli e grandi colpi di scena. E così, alla fine, il vero colpo giornalistico la Rai se l'è confezionato in casa affidando il primo momento topico del percorso sanremese al Tg1 delle venti, che non ospitava questo rituale dai tempi della gestione Fazio-Pagani. 

MENO SPERIMENTAZIONE - Torneremo in chiusura sullo spoiler che spoiler non è stato, questione molto più seria di quanto appaia a prima vista. Ora i riflettori vanno puntati su questo cast, che offre una miriade di spunti di riflessione. C'è tanto del primo e del secondo Amadeus, ma c'è anche qualcosa di nuovo. Ci sono ancora il coraggio, la sperimentazione, la voglia di imporre sulla rete generalista per eccellenza volti poco mainstream. Ecco, ad una prima lettura del cartellone questa tendenza può apparire sempre forte, immutata rispetto alle precedenti due edizioni; personalmente la percepisco invece leggermente attenuata, ma parlo da persona che, nonostante l'età non più verdissima, ama tenersi sempre aggiornato in fatto di musica leggera, e che dunque sa che c'erano in circolazione nomi ancor più insoliti da poter mettere in pista; ma il pubblico tradizionale di Rai 1, lo spettatore legato a doppio filo alla tradizione festivaliera, difficilmente coglierà questo sottile scarto e resterà comunque spiazzato di fronte a certi personaggi. Ci sta.

GLI IMPERATORI DELLA HIT PARADE - Un pizzico, ma proprio un pizzico di sperimentazione in meno, dunque, e parlo soprattutto dell'aspetto quantitativo, per fare spazio a una quota pop potenziata nel numero e nella "sostanza" dei cantanti scelti. Amadeus cala una serie impressionante di assi, protagonisti assoluti delle classifiche recenti e attuali: il duo Mahmood-Blanco potrebbe addirittura far saltare il banco, ma ci sono due ritorni che fanno scalpore, due primedonne assolute, Elisa che ha partecipato una sola volta, una vita fa, nel 2001, ovviamente vincendo, e poi ha sempre accuratamente evitato la competizione, fino a oggi; ed Emma, che dopo il trionfo del 2012 il Festival lo ha condotto per poi presenziare come ospite, ma anche per lei era tempo di tornare a misurarsi con la classifica. E poi un altro ex vincitore come Fabrizio Moro, la regina delle hit estive Giusy Ferreri, che nell'inverno ligure non ha mai avuto troppa fortuna, anche con pezzi di grana buona come "Il mare immenso" e "Fa talmente male", il Sangiovanni del tormentone "Malibù" e circondato da tante aspettative per le originali qualità di scrittura e interpretazione che ha già fatto intravedere, due rapper assolutamente sulla cresta dell'onda come Rkomi e Aka 7even. Stiamo parlando di nomi popolarissimi e, con diverse sfumature, tutti di grande peso sul mercato discografico. Blanco, Sangiovanni e Aka 7even hanno già in bacheca una quantità abnorme di dischi di platino collezionati in pochissimo tempo: avere questi ragazzi all'Ariston significa garantirsi in partenza il successo commerciale della rassegna. 

PIU' SPAZIO AI "GRANDI VECCHI" - Con questi pezzi da novanta, mattatori delle chart, puoi anche permetterti una più vigorosa riscoperta delle origini, altra "innovazione" dell'Amadeus ter. Se nel 2020 e nel 2021 la quota vintage prevedeva una sola casella (diciamo Pavone nel primo caso, Berti nel secondo), quest'anno si è allargata a... tre e mezzo. Quattro veterani, e che veterani, diciamo pure mostri sacri: Morandi, Zanicchi e Ranieri rinverdiscono i fasti degli aspri scontri nelle Canzonissime fine Sessanta - primi Settanta (scontri invece poco sanremesi, perché a parte la Iva gli altri due, all'epoca, erano piuttosto restii a mettersi in gioco al Salone delle Feste), mentre la Rettore, fedele al suo spirito ribelle, si presenterà in una inedita coppia con la cantautrice rampante Ditonellapiaga, e fra le due, nonostante l'abisso generazionale, non mancano le cose in comune, dalle modalità espressive alle attitudini artistiche: un duo che potrebbe essere una delle sorprese del Festival. Delle capacità di Morandi di adattarsi ai tempi ben sappiamo, vedremo in quali vesti si proporranno l'Aquila di Ligonchio e un Ranieri che non poteva non tornare in concorso 25 anni dopo la sua ultima partecipazione "agonistica", nel '97 con quella "Ti parlerò d'amore" griffata Gianni Togni e Guido Morra. 

I RITORNI IMMEDIATI - Merita una riflessione anche il drappello di chi ritorna a soli dodici mesi di distanza (in questo caso, in realtà, tredici mesi, ma son dettagli). Di solito i direttori artistici di turno hanno più di una remora nel riproporre artisti già "convocati" l'anno prima, e anche in questo caso Amadeus ha cambiato linea editoriale, richiamandone ben quattro. Qualche perplessità su Noemi, che ha fatto un bel Festival '21 con l'intensa "Glicine", un bel duetto estivo con Carl Brave in "Makumba", e forse non aveva troppo bisogno di sovraesporsi ulteriormente, ma è anche vero che sta attraversando il momento migliore della carriera, quello della raggiunta maturità, e allora vuol forse battere il ferro finché è caldo, ma il brano dovrà essere veramente di grande spessore. Sacrosanta la chance offerta a Irama, dopo un Sanremo vissuto "in differita" per via della quarantena: mi rimane il dubbio che, se avesse potuto esibirsi sera per sera invece di affidare "La genesi del tuo colore" al filmato delle prove, sarebbe stato papabilissimo per la vittoria, e forse la storia di questo pazzo 2021 canoro sarebbe cambiata... 

Sensata anche la seconda volta dei Rappresentante di lista, fra i più apprezzati del drappello di volti nuovi coraggiosamente lanciati nell'ultima edizione e quindi attesi ora alla consacrazione, mentre con Achille Lauro si rischia grosso: è vero che il personaggio offre sempre spunti interessanti per tipologie di performance e versatilità creativa, ma è alla quarta partecipazione consecutiva, di cui una come ospite fisso: la sindrome del "prezzemolino", con conseguente saturazione, è dietro l'angolo. 

I NOMI INSOLITI E IL RITORNO DI BRAVI - Cosa propone il resto del "listone"? Il gradito ritorno di Michele Bravi, interprete di grande sensibilità, a lungo ai margini dopo l'exploit del 2017 per motivi personali, quelle Vibrazioni che sono ormai quasi degli habitué ma anche degli affidabili professionisti dell'easy listening, e poi i nomi più "stranianti": il cantautore indie Giovanni Truppi, Dargen D'Amico, un rapper sui generis da tempo in pista ma sempre al di fuori del circuito mainstream, e la stranissima coppia formata dal ruvido trapper Highsnob e dalla sofisticata Hu, vista l'anno scorso alle selezioni autunnali della Nuove proposte con "Occhi Niagara", in cui spiccava uno stile interpretativo simile a quello di Lauro e poco incline al rigore della dizione, caratteristica comune a molti cantanti dell'ultimissima generazione. Curioso: dallo sfortunato Sanremo Giovani 2020 è stata pescata una ragazza che non era entrata nemmeno fra gli otto finalisti scelti per l'Ariston, i vari Gaudiano, Shorty, Wrongonyou e compagnia. 

ANA MENA, IL TOCCO D'INTERNAZIONALITA' - Chi manca? Ah sì, Ana Mena. Questa dolce ragazza spagnola, presenza ormai fissa delle nostre estati canore, quasi sempre in coppia con Rocco Hunt, riporta l'internazionalità nel concorso ligure. L'ultimo straniero in gara, andando a memoria, fu Lara Fabian nel 2015, in seguito si è parlato di candidature di Amii Stewart, Dionne Warwick, Michael Bolton, non si sa quanto concrete. Sì, d'accordo, Sergio Sylvestre nel 2017, però nato, costruito e cresciuto musicalmente nel Bel Paese. Quello di Ana è un altro nome "bomba", largamente noto e di grande impatto sulle classifiche: anche lei contribuisce a fare di questo cast uno dei più qualitativi degli ultimi anni, se non il più qualitativo in assoluto. Si parla di nomi, appunto, perché poi sul piano della proposta musicale il discorso potrebbe cambiare. Personalmente, nel 2016 accolsi con notevole entusiasmo un cast che mi pareva il migliore possibile per quello che era il panorama canzonettistico italiano dell'epoca, ma alla prova dei fatti alcuni degli artisti più in voga presentarono opere inferiori alle loro potenzialità. Questo per buttare un po' di acqua sul fuoco, ma è chiaro che con un cartellone così sia più che naturale, direi doveroso, nutrire aspettative altissime, che ritengo non andranno deluse. 

SANREMO GIOVANI BRUCIATO E POSSIBILI COLPI DI SCENA IN EXTREMIS - Rimane il fatto, tornando a quanto detto in apertura, che la (parzialissima) fuga di notizie ha costretto Amadeus e Rai ad anticipare l'annuncio ufficiale dei Big (mai avvenuto a inizio dicembre, ma ricordiamo anche che il 72esimo Sanremo inizierà prestissimo, il 1° febbraio), bruciando così una delle principali attrazioni di Sanremo Giovani, quest'anno in serata unica il 15 di questo mese. Certo, ci sarà la suspense legata ai due emergenti chiamati a competere coi vip al Festival vero e proprio, ma per lo spettatore occasionale non è propriamente la stessa cosa. Potrebbe esserci un colpo di coda del presentatore dei "Soliti ignoti"? Altri due big da aggiungere alla lista resa nota ieri, oppure qualche giovane in più da promuovere? Non è impossibile, del resto il regolamento è quanto di più elastico possa esistere, e sarebbe un coup de théatre che "Ama" potrebbe giocarsi in assoluta serenità, per gusto personale, laddove nel 2020 fu quasi "costretto" ad allungare l'elenco con Tosca e Rita Pavone perché, in quel caso, "Chi" aveva azzeccato quasi tutto. Difficile che accada, certo: il direttore aveva affermato, dopo l'ultima kermesse, che 26 Big erano forse un eccesso da non ripetere, e finora ha tenuto duro su questo punto. Ma la marea di richieste giunte sulla sua scrivania e il conseguente quantitativo di musi lunghi potrebbe indurlo a una parziale correzione di rotta. Del resto in febbraio, ahimé non ci saranno più i giovani a dilatare i tempi televisivi, e gli spazi da riempire non mancheranno... 

martedì 16 novembre 2021

CLUB ITALIA: 0-0 IN NORD IRLANDA, UN INNO ALL'IMPOTENZA E ALLA STERILITA', LONTANO ANNI LUCE IL MANCIO STYLE, E LONTANO ANCHE IL QATAR. CRISI VERA, NON MOMENTO NEGATIVO

Forse, nel calcio, hanno ragione i rivoluzionari. Forse, dopo un grande trionfo internazionale, bisognerebbe davvero voltare pagina e ripartire da zero, con volti e idee nuove. Certo, non lo si può fare né lo si deve, per tutta una serie di motivi che chi conosce a fondo i meccanismi di questo sport può benissimo comprendere. Ed è a maggior ragione un'ipotesi balzana, se riferita a una Nazionale vincente eppur sostanzialmente giovane, con ancora un promettente futuro davanti. E però, al momento, il quadro è da allarme rosso e potrebbe indurre a pensieri così estremi: l'ho già dolorosamente scritto pochi giorni fa, l'ItalMancio campione continentale non c'è più, si è dissolta, o forse è rimasta inchiodata piedi e testa sul campo di Londra, a cantare, brindare e discettare di pastasciutta. 

ERA SVIZZERO IL VERO VANTAGGIO - L'orripilante post Europeo azzurro ha toccato un nuovo fondo ieri sera, in maniera persino prevedibile. Rabbia relativa, da parte mia, al termine della pallida prova di Belfast, nella consapevolezza che l'ultimo, vero bonus ce lo fossimo giocati venerdì a Roma: i playoff ce li siamo guadagnati quella sera, il risicato vantaggio numerico che ancora ci offriva la classifica era solo uno scherzo della matematica, la realtà diceva tutt'altro, ossia che l'inerzia era passata saldamente nelle mani della Svizzera, lanciatissima, col morale a mille, sicura dei propri mezzi e con un ultimo impegno casalingo più che abbordabile. Chi si aggrappava ancora alla differenza reti mentiva a se stesso, già il solo fatto che la qualificazione non dipendesse più solo dal nostro risultato ci poneva in una posizione di disagio: quello che è accaduto poi è stata solo una logica conseguenza, lo sviluppo più naturale. 

NON CI SI RICOSTRUISCE IN TRE GIORNI - Nutrivo seri dubbi, e l'avevo scritto, sul fatto che l'Italia potesse imporsi nitidamente in Nord Irlanda; per farlo, dicevo, occorreva rinfrescare la formazione e ritrovare gli antichi standard di gioco, quelli del primo triennio manciniano. Mission impossibile, in tre giorni, perché quegli standard sono quasi sistematicamente mancati, da settembre a oggi. Certo, il primo tempo aveva parzialmente illuso: notevole aggressività, un po' di velocità, ma manovra non esente da errori di tocco e di misura e, soprattutto, ancora una produzione offensiva troppo scarsa, troppo inferiore alle medie di questa gestione, perché al tirar delle somme solo Di Lorenzo con un tiro cross e Insigne, conclusione debole su assist di Berardi che l'aveva messo davanti al portiere, sono andati davvero vicini alla segnatura, e la situazione è ulteriormente peggiorata nella ripresa: nulla, a parte un sinistro di Chiesa di poco a lato e un bel diagonale dalla distanza di Emerson deviato in angolo. E anzi, se andiamo a vedere, i britannici hanno qualche motivo in più per recriminare, perché Donnarumma ha ben salvato su Saville poco dopo l'intervallo e in chiusura, nel marasma tattico in cui era precipitata l'Italia, Washington ha calciato a porta vuota trovando la fortunosa opposizione di Bonucci. 

TORNA LA STERILITA' - E' stata, in buona sostanza, una recita all'insegna dell'impotenza, un inno alla sterilità. La prima Azzurra del Mancio aveva piacevolmente stupito tutti anche perché, ponendo fine a un andazzo ormai cronico, sapeva trovare il gol con frequenza, riuscendo alfine a stanare anche avversari che facevano mucchio davanti e dentro l'area. L'ha fatto, lo ripeto per l'ultima volta, per tre anni, non solo ad Euro 2020, ma tanto è inutile cercare di tacitare chi, sfidando il pudore e l'evidenza, torna fuori in questi giorni a sottolineare la mediocrità di questo gruppo e la casualità dei suoi successi. Che sia chiaro una volta per tutte: questo gruppo non è scarso, del resto basta aver visto giocare la Nazionale una manciata di volte, anche prima dell'Europeo. Ma che lo dico a fare? 

Ebbene, quella capacità di sfinire i rivali, di lavorarli ai fianchi e poi di affondare i colpi con trame efficaci e persino pregevoli, sembra essersi dissolta. Anche a Belfast tanto possesso, tanti tentativi di costruire, ma al limitar dell'area mancava sempre qualcosa: idee, giocate individuali, visione d'insieme che permettesse di fare le più idonee scelte di passaggio e smarcamento. E anche poca precisione e poca cattiveria al tiro: perché, oltre alle sparute occasioni prima citate, Insigne un paio di volte e Barella ci sono pure arrivati alla conclusione, ma in maniera così innocua da fare solo il solletico a Peacock-Farrell. 

CRISI VERA, NON "MOMENTO NO" - Ripeto: se parlo di Italia europea prematuramente dissoltasi, non lo faccio per amarezza (che pure c'è, ed è tanta) o per gusto dell'enfasi. Si dice che sia solo un momento negativo, che a inizio primavera, per gli spareggi, staranno tutti meglio (perché dovrebbero stare meglio di adesso con circa due terzi di stagione di club sulle spalle? E perché ora sono così a terra, in quello che storicamente è uno dei periodi dell'anno migliori per il Club Italia?), ma sette partite spalmate su tre mesi, con due vittorie di scarso rilievo, una sconfitta che ci è costata la Nations League in casa e quattro pareggi equivalenti ad altrettanti ko per gli effetti nefasti che hanno prodotto, non possono essere liquidate come "un momento negativo". E' una crisi vera e propria, risolvibile, certo, ma da affrontare di petto prima che la situazione precipiti definitivamente. 

GLI ERRORI DELLA PANCHINA - Per inciso, risulta stucchevole chi ricomincia a parlare di discese dal carro dei vincitori. C'è questa fissazione della discesa e della risalita dal fantomatico carro, quando in realtà si esercita solo il sacrosanto diritto alla critica. Siccome personalmente ho la coscienza più che a posto riguardo all'avventura azzurra di Bobby Gol, allo stesso modo mi sento più che mai libero di suonare la sveglia di fronte a una palese involuzione che altri, non me, hanno colpevolmente preso sottogamba fin dai due passi falsi settembrini, l'inizio dell'incubo. Ed è giusto ribadire, visto che già l'ho scritto, quanto sia stata discutibile la gestione di questo disgraziato finale di girone. Dalle formazioni iniziali alle scelte in corso d'opera, sorvolando su episodi come quello del terzo rigore decisivo lasciato battere a Jorginho. Ieri, nell'ultimo quarto di gara, in campo c'era il caos, con una quantità abnorme di punte ed esterni offensivi che sono andati a intrupparsi nell'affollata terza linea verde, partorendo il nulla: non è certo questo il modo di aiutare Scamacca a crescere (come poteva realizzare un qualche exploit in quel contesto?), né si fa un favore a Belotti continuando a riproporlo in un momento in cui fa fatica, per questioni prettamente fisiche, anche in Serie A. Ma soprattutto, intasare lo schieramento con punte a go go è la classica mossa della disperazione di chi non riesce a trovare il bandolo della matassa, e da Mancini mi aspetto ben altro. 

POCO GENIO E IL FALLIMENTO DELL'ATTACCO LEGGERO - Nemmeno l'innesto di Cristante per Tonali è stato una genialata. Il milanista era gravato da un'ammonizione, d'accordo, ma con lui in campo il reparto di mezzo ha girato discretamente, pur se non ai livelli pre e durante Europei, mentre col romanista si è sposata una scelta muscolare che ha ulteriormente tolto linearità e imprevedibilità a una fase di impostazione già asfittica. Insomma, la sensazione è che latitino le intuizioni anche nella guida tecnica, come dimostra la cocciutaggine nell'insistere sul modulo senza punte "pesanti" che sta infilando fallimenti in serie, partita dopo partita. In questo clima crepuscolare si è intristito perfino Chiesa, poco ficcante, poco ispirato, troppo fumoso. Che sta succedendo? 

CRESCITA MENTALE MANCATA, IL FALLIMENTO PIU' GRANDE - Non crisetta ma crisi vera, ripeto: un malessere che ha radici profonde, nella testa dei giocatori, nell'impostazione tattica, nella capacità di produrre gioco, in un "manico" non più tanto sul pezzo. Ma l'aspetto più grave, la sconfitta più dolorosa, è che il trionfo continentale, ottenuto in maniera assolutamente meritata, non abbia fornito ai campioni quel'autorevolezza internazionale, quella cattiveria, quel "pelo sullo stomaco" che porta le grandi squadre a cavarsi d'impaccio nelle situazioni più intricate, a far risultato anche senza meritarlo; sono bastate le prime contrarietà per creare sofferenza psicologica, ansia da prestazione, paura di non farcela. Inaccettabile. 

I NOMI PER USCIRNE - Si è liberi di pensare che a marzo Jorginho, Insigne e Chiesa, per citare alcuni dei più deludenti nelle ultime uscite, come d'incanto possano rifiorire fino a portarci in Qatar. Personalmente penso sia meglio pararsi le spalle e fare scelte più coraggiose. E torniamo al discorso iniziale: non repulisti da rivoluzionari, ma nemmeno deleterio immobilismo. Rinnovamento nella continuità ci vuole, qualche ritocco da apportare pescando in un mazzo di carte che già sono affidabili o lo saranno presto: insistere su Tonali, lanciare Calabria e magari Dimarco, incrementare la fiducia nei confronti di Lollo Pellegrini e di Gianluca Mancini, riscoprire Zappacosta, Pessina, il fragile Sensi, Politano, dare un palcoscenico europeo a Bastoni, Castrovilli, Zaniolo, Scamacca, Kean e Raspadori. Come si vede, non si tratta di salti nel buio, ma di elementi il cui valore è ben noto a Mancini, alcuni di essi già da tempo nel giro azzurro. E, fra i "grandi vecchi", recuperare Spinazzola e Verratti, queste sì assenze pesanti, come sta pesando, piaccia o no, quella di Immobile, che ad esempio in Irlanda sarebbe servito come il pane. Una manata di bianco, una rinfrescata che servirebbe anche da stimolo per alcuni titolarissimi forse troppo sicuri del posto. 

IL SORTEGGIO NON CONTA - Ma il tempo stringe, i test match a disposizione saranno giusto un paio, a gennaio, e i playoff nuova formula sono una roulette russa. Una cosa deve essere ben chiara: non sarà un problema di sorteggio e di abbinamenti. La vera Italia targata Mancio, anche solo l'80 per cento di quella che ci ha fatto stropicciare gli occhi all'Europeo, può farcela benissimo pure contro Russia e Portogallo; l'Italia degli ultimi incontri è destinata a patire anche contro Austria (già successo a Wembley, peraltro), Ucraina, Galles e Macedonia. Il problema siamo noi, non chi ci troveremo davanti. Ripartiamo da questa consapevolezza e da un'analisi spietata dei nostri errori a cui nessuno dovrà sottrarsi, cittì in testa. Il quale, se mi è consentito, potrebbe anche evitare di sottolineare che, comunque, "Noi ai Mondiali ci andremo". A parte che certe uscite ricordano sinistramente il peggior Ventura, siamo tutti adulti e vaccinati e non abbiamo bisogno di rassicurazioni che oltretutto non rassicurano per nulla, visti gli esiti del campo. Ci vogliono fatti, perché il secondo Mondiale consecutivo mancato sarebbe la fine di "questo" calcio italiano. 

sabato 13 novembre 2021

QUALIFICAZIONI MONDIALI: ITALIA-SVIZZERA 1-1. GLI AZZURRI E MANCINI SONO RIMASTI A WEMBLEY, GESTIONE INACCETTABILE DEI MOMENTI TOPICI. URGE RINFRESCARE LA FORMAZIONE

Tradimento azzurro. Non avrei mai pensato di dover usare espressioni così forti nei confronti dell'Italia di Mancini. Non così presto almeno. Ma anche le storie più belle prima o poi finiscono. Perché la realtà dei fatti questo dice: la Nazionale europea si è dissolta in questo freddo e grigio autunno, non esiste più, ed è opportuno prenderne atto prima che sia troppo tardi. Il dopo Wembley è stato fin qui una via crucis, un viaggio doloroso attraverso tappe opache, deludenti, discutibili: tolti il 5-0 alla Lituania, che fa relativamente testo, e l'acuto col Belgio, in quella che qui ho definito poco più di un'amichevole di prestigio, abbiamo assistito al ko interno con la Spagna, contraddistinto da fasi di gioco quasi umilianti, e a tre pareggini che equivalgono ad altrettante mezze sconfitte, se è vero che hanno fatto pericolosamente impennare la strada verso il Qatar. 

Già i due passi falsi settembrini di Firenze e Basilea avevano fatto suonare chiari allarmi, che su queste pagine erano stati prontamente sottolineati ma che troppi avevano preso sottogamba. Ora, se è vero che tre indizi fanno una prova, qui di indizi ne sono stati accumulati decisamente di più, fino all'abisso di ieri sera, alla "partita dell'anno", così l'aveva pomposamente battezzata il CT (dimenticando che  le nostre partite dell'anno si sono giocate in luglio), approcciata in maniera che definisco soltanto approssimativa, per carità di patria, e che si è sviluppata sotto i nostri occhi come sappiamo. 

COME BEARZOT - La sensazione, da parte mia, è netta: il Mancini post Londra somiglia pericolosamente al Bearzot post Mundial '82. Bobby-gol è rimasto fermo a quell'impresa, la sua foga opportunamente innovatrice si è placata, la sindrome della riconoscenza e della fedeltà al gruppo storico lo hanno incatenato come accaduto al suo mitico predecessore. Non saprei spiegare in altra maniera il surreale schieramento iniziale di Roma, con un Barella uscito malconcio dal derby, con Belotti a scartamento ridotto dopo il lungo infortunio e sì e no al 30 per cento delle proprie possibilità, con un Insigne che in questa prima parte di stagione si è costantemente dimostrato poco "a fuoco" in rappresentativa. 

Non è un caso che i pochi sprazzi degni di nota, all'altezza di una compagine campione continentale, si siano manifestati all'ingresso in campo di Tonali, svettante nel reparto di mezzo, e Berardi, guizzante e propositivo. Due che dovevano essere dentro da subito, come Calabria e Raspadori, entrati a giochi ormai fatti: e se è vero che la minuscola punta del Sassuolo continua a incidere poco nei match di alto livello con la Selezione, è altresì innegabile che forse bisognerebbe puntare su di lui (o su Kean, o su Scamacca) fin dall'inizio, perché giocando pezzettini di partita risulta giocoforza più impervio l'inserimento in un meccanismo tattico comunque complesso come il nostro. E, stante la penuria drammatica di attaccanti di peso, non possiamo permetterci di vivacchiare nell'attesa della maturazione di Lucca, che promette tantissimo ma al momento è soltanto al primo anno di Serie B. 

IL POLSO DELLA SITUAZIONE - Il cittì, lo ribadisco, sembra prigioniero di un sogno, il nostro bellissimo sogno estivo. E' rimasto inchiodato sulla panchina londinese. Perché un allenatore che abbia il polso della situazione, all'89esimo minuto, o urla a squarciagola o entra in campo per strappare il pallone dalle braccia di Jorginho e affidarlo a qualcun altro, che sia Berardi, Bonucci, Chiesa o addirittura Tonali. "Si sentiva di tirarlo", quel rigore, si è detto a fine gara. Già: in genere i calciatori si sentono di fare tutto, anche l'impresentabile Barella di ieri si sentiva di restare in campo, e del resto la storia è piena di pugili che si sentivano di restare sul ring e poi sono finiti all'ospedale massacrati di pugni. Un trainer, a questi livelli, non può affidarsi mani e piedi al "sentiment" dei suoi atleti. E non mi si venga a dire, per favore, che comunque l'italobrasiliano resterà il rigorista principale della squadra. Sono convinto che così non sarà, perché le gerarchie non sono immutabili, e in tal caso potevano essere cambiate con congruo anticipo; se invece così sarà, attendo con curiosità di vedere cosa accadrà dopo un eventuale quarto penalty decisivo sbagliato. Come se dare un paio di turni di riposo sulle massime punizioni fosse un'offesa o una diminutio. 

PASSI INDIETRO RADICALI - Chiaro, poi, che l'episodio del tiro dal dischetto mandato alle stelle rappresenti solo la punta dell'iceberg, però è sintomatico di uno stato di disagio che parte dalla panchina per trasferirsi a tutta la squadra. Ed è evidente che, al ritorno in campo dopo l'indimenticabile trionfo di pochi mesi fa, il Club Italia abbia fatto passi indietro sotto ogni profilo: tecnico, tattico, atletico, e soprattutto mentale. Ritmo, brillantezza, precisione, ferocia, continuità non sono più quelli dei primi tre anni di questa gestione. Le ragioni? Onestamente non saprei. Se è vero che si è già manifestato un qualche appagamento inconscio, il tradimento sta soprattutto qui, perché l'Italia europea, al contrario di quella mundialista del 1982, non è una compagine al capolinea, sulle soglie dell'anzianità, ma, a parte pochi elementi (Bonucci e Chiellini soprattutto) ancora sostanzialmente giovane e quindi, in teoria, con la fame giusta per poter inseguire altri traguardi. Anche perché dopo l'Euro ci sarebbe il Mondiale, non proprio un torneo di dopolavoristi, e gli stimoli dovrebbero sorgere in automatico. 

RINFRESCARE LA FORMAZIONE: SI PUO' - Ma tant'è, ripeto: l'ItalMancio, l'Azzurra d'assalto che abbiamo conosciuto e apprezzato dall'autunno 2018 in poi, non c'è più. Forse è solo un momento, forse i Jorginho e gli Insigne ritroveranno l'inesorabilità di un tempo, ma al momento la cruda realtà è questa. E quando all'inizio ho detto che "è opportuno prenderne atto prima che sia troppo tardi" non mi riferivo certo a soluzioni drastiche, a repulisti vari, ci mancherebbe: Mancini è saldo in sella e merita il nostro appoggio (non incondizionato, però), la rosa da lui costruita fornisce ancora, in larga parte, buone garanzie. Semplicemente, si chiedono quei correttivi di formazione che l'attuale bacino azzurro consente: nonostante gli ultimi rovesci abbiano ridato fiato ai boccheggianti contestatori a oltranza, quelli per cui i calciatori italiani sono scarsi a prescindere (incredibile: nemmeno un meritato titolo europeo li ha tacitati), dietro ai campionissimi c'è una manciata di elementi in grado di sostituire (momentaneamente o definitivamente) certi abulici titolari senza farli troppo rimpiangere, e i nomi per il ricambio graduale, personalmente, ho cominciato a farli addirittura nel commento post Inghilterra-Italia, quindi personalmente la coscienza l'ho a posto. 

VANTAGGIO NOSTRO? SOLO SULLA CARTA - Restando all'attualità stringente, non sono indotto a ragionare sul futuro immediato con troppo ottimismo. Sarà per la rabbia che ha suscitato in me la prestazione di ieri, rabbia che, giuro, non provavo da Italia-Svezia, ma non mi sento di dar troppo credito a chi dice che abbiamo ancora il coltello dalla parte del manico, grazie ai due golletti di vantaggio nella differenza reti. I numeri dicono questo, certo, ma il campo sta dicendo altro: ossia che la squadra in vantaggio di classifica e psicologico, ossia la nostra, sta mostrando enorme disagio, come se fosse lei a dover rincorrere, mentre gli svizzeri inseguitori giocano in scioltezza e con atteggiamento positivo. Anche questo si è detto: un'Italia schiacciata dalla responsabilità di dover vincere. A parte che un'affermazione del genere è risibile, se applicata a una rappresentativa campione continentale, se fosse vero sarebbe un ulteriore tradimento, perché vorrebbe dire che Euro 2020/21 non ha dato a questo gruppo quella personalità internazionale che serve anche per tirarsi fuori dai guai nelle serate peggiori, e per vincere partite pur senza meritarlo, come quella di ieri. 

Quindi: per la classifica siamo ancora avanti noi, mentalmente la situazione in mano, piaccia o meno, l'hanno gli uomini di Yakin. Che hanno strappato due punti ai rivali freschi di gloria, hanno segnato in casa loro (anche questo potrebbe contare, alla fine), hanno evitato due sconfitte in maniera anche rocambolesca e ora si trovano di fronte a un impegno casalingo tutto sommato semplice, contro la modestissima Bulgaria che noi non siamo riusciti a piegare. E' vero, l'Italia vola a Belfast ad affrontare un team anch'esso di mediocre qualità, ma gioca in trasferta, fatto non trascurabile, e dovrebbe imporsi con un discreto scarto di reti (almeno tre, mi vien da dire) per mettersi al riparo da eventuali goleade elvetiche che purtroppo, al momento, non mi sento di escludere. 

OTTIMISMO? DI FRONTE A CERTE PRESTAZIONI... - Il punto è questo: l'Italia attuale è in grado di vincere nitidamente in Nord Irlanda? Sinceramente ho i miei dubbi. Il match di ieri non ha offerto spunti incoraggianti. Già si è detto dei momenti topici gestiti in maniera superficiale: non solo il rigore, ma anche il contropiede "infantilmente" preso, che ha poi prodotto la rete di Widmer. Ma in quel terrificante primo tempo, i rossocrociati hanno scherzato col centrocampo azzurro, facendolo quasi a fette con le loro veloci incursioni, recuperando palloni e manovrando in velocità, ciò che noi non sembriamo più in grado di fare. Sono naufragati tutti, lì in mezzo, e anche peggio sono andate le cose in avanti, con il trio di punta assente ingiustificato, non un guizzo, non una conclusione pericolosa; uniche occasioni per Barella, che non ha saputo ribadire in gol da pochi passi dopo un tiro di Jorginho smorzato da Zakaria, e per Di Lorenzo, che ha messo dentro di testa su punizione di Insigne. Schema elementare, da preistoria del calcio, utilizzato più o meno da tutti in ogni epoca, ma che ieri qualcuno ha esaltato come capolavoro covercianese. Mah...

TONALI E BERARDI SEMPRE DENTRO - Qualcosa di più si è visto nella ripresa, soprattutto, lo si è detto, dopo gli ingressi di Tonali e di Berardi, che ora come ora dovrebbero essere sempre nell'undici titolare. Un bel tiro di Insigne deviato da un difensore, sul quale Sommer si è salvato neanche lui sa come (il portiere elvetico è bravo ma, va detto, anche molto fortunato, e prima o poi la fortuna gira...), un'occasionissima per Chiesa che si è trovato nelle condizioni migliori per battere a rete ma ha orrendamente alzato sulla traversa, e poi lo sciagurato rigore che si era procurato abilmente l'ispirato Berardi. Non molto, come si vede. Dove è finita l'abbondante produzione offensiva del Club Italia? Ora i nostri manovrano e toccheggiano senza trovare sbocchi, si muovono attorno all'area avversaria senza riuscire a mettere nei sedici metri finali palloni davvero insidiosi, cincischiano, concludono poco, e mancano anche di precisione, facendo morire sul nascere costruzioni potenzialmente ricche di sviluppi. Tutto questo, senza dimenticare che gli ospiti avrebbero potuto piazzare il ko con Okafor subito dopo lo 0-1, e mandarci anticipatamente agli spareggi nel finale, con il mancato tocco in rete di Zeqiri dopo svarione di Donnarumma. 

Ecco, questo è  accaduto in una gara affrontata in buonissime condizioni di partenza, se non proprio ideali, con il destino serenamente nelle nostre mani. Dopo una prova del genere si può essere ottimisti? Insomma... Ricordiamo che, se siamo ancora primi per una strettissima incollatura, lo dobbiamo ai tre 2-0 consecutivi di inizio anno, mentre il trend recente fa tremar le vene ai polsi. L'Italia può vincere largo, lunedì, se ritrova le antiche misure di gioco: ritmo, rapidità, continuità di azione e velocità di esecuzione, precisione nei passaggi e nella battuta a rete. Ovvero, tutto quello che da settembre ad oggi non è stato quasi mai fatto. Si può cambiare pelle in tre giorni? Sì, ma solo rinfrescando la formazione. Nel momento attuale, sperare in reazioni d'orgoglio dei leoni feriti mi pare esercizio puramente fideistico, senza fondamento tecnico. 

lunedì 11 ottobre 2021

NATIONS LEAGUE: CONTRO IL BELGIO UN'ITALIA DI NUOVO VICINA ALLE SUE MIGLIORI ESPRESSIONI. GIGANTEGGIANO I TRE DI CENTROCAMPO

 L'eterna domanda senza risposte definitive: che valore tecnico ha la finalina dei tornei internazionali? Di certo dipende dalla manifestazione: per quanto riguarda la giovane Nations League, dal fascino indiscutibilmente ancora acerbo, la sfida per il bronzo vale grosso modo un po' più di un'amichevole di lusso. Poi però conta soprattutto quello che dice il campo: e lo Stadium, ieri, ha mostrato due squadre che hanno onorato l'impegno, interpretando seriamente la gara e battendosi fino alla fine per fare risultato. Ecco perché Italia-Belgio non è stata giocata invano: contro un avversario probante, qualitativo al di là delle assenze (che avevamo anche noi) e per nulla arrendevole, Mancini ha sicuramente avuto una buona parte delle risposte che cercava, al culmine di una momento azzurro sovrastato da qualche nube di troppo. 

QUASI COME AI "VECCHI TEMPI" - Era importante tornare subito a vincere, ovvio; ma era fondamentale la strada che avrebbe percorso la Nazionale per centrare l'obiettivo, e da questo punto di vista le indicazioni del pomeriggio torinese sono state confortanti anche al di là delle aspettative. Per settanta minuti si sono rivisti ampi sprazzi dell'ItalMancio, ossia dell'undici dominante tante volte ammirato negli ultimi tre anni fino ad Euro 2020. Si è sempre detto che la chiave di volta dei successi di questo ciclo stia nell'enorme mole di lavoro che il centrocampo riesce quasi costantemente a sviluppare con esiti di grande efficacia. Ebbene, ieri il nostro reparto di mezzo, riveduto e corretto rispetto a San Siro, è tornato a svettare: padronanza della manovra, abilità nelle due fasi, rapidità e precisione estrema nel tocco e nel palleggio. Sono i pilastri su cui è stata edificata la compagine campione continentale. Il fatto che, col parziale cambio degli interpreti, la sostanza non sia mutata, testimonia della bontà della generazione attualmente vestita di azzurro, ricca di classe nei piedi e di intelligenza calcistica. 

CENTROCAMPO A PIENO REGIME - Locatelli è stato un autentico califfo, sicuro, deciso, autorevole, inesorabile soprattutto nell'azione di interdizione, ma abile anche in costruzione quando ne ha avuto l'opportunità; Barella è tornato ad avvicinarsi ai suoi vertici di rendimento, con chiusure, inserimenti, assist e conclusioni: ha sfiorato il bersaglio nel primo tempo mancando di poco il bersaglio, lo ha ottenuto in avvio di ripresa con un gran destro al volo sugli sviluppi di un corner, confermandosi fra le nostre armi offensive più pericolose, soprattutto perché non sai mai quando e in che modalità piomberà in avanti per cercare di lasciare il segno. Ma personalmente, più degli altri, mi ha impressionato Lorenzo Pellegrini, "olandese" nell'accezione settantiana del termine, splendido uomo ovunque, visto a dar manforte in difesa, per poi lavorare un'infinità di palloni nel mezzo e contribuire massicciamente all'impostazione: fra le tante giocate di qualità, ottimo il lancio per Chiesa in avvio di gara, con tiro poi smorzato da un difensore. Gli è mancato il guizzo al tiro, ma è chiaro che un elemento così, in questo momento, non può essere relegato al ruolo di alternativa. 

BERARDI E CHIESA ATTIVI E ISPIRATI - Attorno a un nucleo così bene assortito, continuo e funzionale, tutta la macchina Italia ha girato a buon regime, esibendo anche pressing e frequenti spostamenti del fronte di gioco. Nel dettaglio dei singoli, si è rivisto un Di Lorenzo dal discreto slancio nelle sue proiezioni offensive, pur non accompagnato dalla necessaria precisione al cross, mentre Emerson, sull'altro versante, ha dato il meglio in copertura. Convincenti assai anche gli esterni alti, con un Berardi ispiratissimo e massicciamente presente nella nostra produzione d'attacco: per lui tante accelerazioni, un tiro che ha impegnato Courtois, un assist che ha messo Chiesa in posizione di sparo (altro salvataggio del portierone ospite) e il rigore del 2-0, pur trasformato con qualche difficoltà.

 Proprio Chiesa si è confermato la costante positiva di questo turbolento avvio di stagione azzurra: sempre nel vivo dell'azione, sempre con lo sguardo rivolto alla porta; tre volte ha cercato la conclusione nella prima frazione (un tiro fuori, un diagonale rintuzzato dalla difesa e un salvataggio del guardiano del Real Madrid), una volta ha difeso un pallone recapitatogli da Bastoni per poi mandare alla battuta Raspadori, che avrebbe fatto centro senza la provvidenziale deviazione di Castagne, e ha infine costretto Castagne al fallo da rigore; solo "Raspa" ha un po' sofferto, ma nel match di Torino gli approcci offensivi del Club Italia hanno battuto sentieri tattici diversi, come abbiamo visto, puntando più sulle corsie laterali e sugli sganciamenti di uomini dalla zona nevralgica. 

DIFESA SOLIDA E PROPOSITIVA - Incoraggianti anche le indicazioni offerte dalla terza linea: molto "alta" e propositiva fin quando il nostro undici ha tenuto pallino, con frequenti avanzamenti di Acerbi e un Bastoni sempre pronto al rilancio, poi serrata e attenta nei venti minuti finali, allorché i Diavoli Rossi hanno intensificato la loro spinta, grazie anche all'ingresso di un brillante De Bruyne; e Donnarumma è tornato ai livelli che gli competono sventando due insidiosissime conclusioni di Alderweireld. 

Il fatto che, nonostante un quadro di rendimento generale piuttosto elevato da parte degli italiani, i belgi siano stati pericolosi al punto di colpire tre legni con Saelemaekers, Batshuayi e Carrasco, è ulteriore conferma di quanto la partita sia stata presa sul serio dai numeri uno del ranking Fifa, costituendo un test di grande severità per un team, il nostro, ancora scosso dalla semifinale perduta. Il punto dell'1-2, realizzato in contropiede da De Ketelaere, ha rappresentato un giusto premio per gli uomini di Martinez, restituendo uno specchio più fedele dell'andamento del match, e tuttavia, un'analisi complessiva dei vari momenti dell'incontro, dell'atteggiamento degli azzurri nelle varie fasi tattiche, dell'efficacia delle loro trame, non può che confermare la piena legittimità di un successo sofferto, in fin dei conti, soltanto nell'ultimo quarto di gara. 

LE INDICAZIONI DEL CAMPIONATO - Una vittoria di sostanza, dunque, piena di spunti di riflessione per il Mancio. Ai rilievi positivi già qui evidenziati, aggiungiamo una lezione di fondo: in futuro andranno tenute in maggiore considerazione, rispetto a quanto fatto in questo post Europeo, le indicazioni del campionato e più in generale dell'attività dei club. Come avevo rilevato dopo la Spagna e come la finalina ha dimostrato, in questo momento gente come Locatelli e Pellegrini non può stare fuori (e senza l'infortunio avrebbe trovato spazio anche Calabria), così come è stata confermata la necessità di insistere su Bastoni, prospetto che offre assolute garanzie al di là di piccoli errori frutto dell'inesperienza. Allo stesso modo, occorre proseguire la sperimentazione di Raspadori e Kean, ancora non perfettamente inseriti nei meccanismi ma che lasciano intravedere sviluppi interessanti per un ampliamento delle soluzioni offensive della squadra. 

Di negativo, la perdita di incisività nei sedici metri finali una volta raggiunto il 2-0: dopo, sono state imbastite altre azioni potenzialmente insidiose ma che non hanno trovato sbocchi; come già detto, peraltro, in quello scorcio di match sono emerse solidità e pragmatismo di una formazione che ha saputo difendersi senza troppo affanno, certamente anche con l'aiuto di un pizzico di buona sorte (che un po' ci era mancata a Milano). Un sistema difensivo che però è saltato in occasione dell'1-2, incassato dopo errori da matita blu, ripartenza avversaria su corner a favore  e in situazione di doppio vantaggio nel punteggio, roba da far ammattire qualsiasi trainer; ma è stata l'unica autentica sbavatura (giustamente pagata) di una prestazione ampiamente soddisfacente. 

FRANCIA CON MERITO - La Nations l'ha vinta la Francia, tutto sommato con merito; in entrambe le sue prove ha mostrato grande spirito di reazione, nella finalissima è stata la prima ad accelerare dopo tanti sbadigli. Ha grandi individualità, da anni, e nella circostanza ha saputo farle fruttare, mentre la Spagna troppo a lungo è caduta nell'antico vizio del palleggio fine a se stesso, un possesso sterile che sovente non sfocia in tiri in porta. Dopo lo svantaggio ha avuto due grandi occasioni per portare la gara ai supplementari, entrambe sventate da Lloris, ma in precedenza anche i Bleus avrebbero potuto mettere dentro qualche altro pallone. Verdetto equo, dunque, anche se la selezione di Deschamps pare nel complesso meno efficiente rispetto ai tempi del Mondiale russo, sostenuta più che altro dalle eccelse qualità tecniche e dai lampi di genio dei suoi meravigliosi solisti. 

FISCHI AGLI INNI: BASTA VUOTA INDIGNAZIONE, VIA ALLE SOLUZIONI - Due parole, infine, sui fischi nostrani agli inni altrui, ricomparsi mercoledì al Meazza. In tutta onestà, il problema è ormai talmente annoso che trovo persino ozioso continuare a parlarne, e stucchevole cadere ogni volta nella retorica dell'indignazione, nel senso che la fase dell'indignazione dovrebbe essere stata superata da un pezzo, per passare oltre, alle cose concrete. Alle corte: dalle prime manifestazioni dello spregevole fenomeno sono trascorsi lustri e lustri. Le soluzioni per porvi un argine vi sono, e sono note: soluzioni di controllo e punitive sul breve periodo, soluzioni educative nel medio. Se non le si applica, come sarebbe ampiamente possibile, non si può poi sperare che di punto in bianco, da un giorno all'altro, i fischi spariscano come per incanto. 

CAMPAGNA COI CAMPIONI - Ancor prima delle suddette soluzioni radicali e culturali, la cui messa in pratica dipende dalla volontà delle istituzioni sportive e politiche nazionali e dalle agenzie educative della nostra società civile, un primo, timido passo potrebbe essere di natura pubblicitaria. Avete presenti le recenti campagne pro vaccino Covid animate da sportivi e uomini di spettacolo? Ecco, perché non fare una campagna massiccia e martellante, attraverso i media e anche con eventi "live", contro questa disgustosa dimostrazione di maleducazione, ignoranza e cafonaggine? I calciatori del Club Italia vivono un momento di grandissima popolarità grazie al trionfo di Wembley: usiamoli tutti, dunque, per mettere in piedi questa iniziativa, usiamo i loro volti e le loro parole per combattere il becerume pseudo-tifoideo. 


giovedì 7 ottobre 2021

NATIONS LEAGUE: PER L'ITALIA SCONFITTA BALORDA. NEL PRIMO TEMPO MEGLIO (A TRATTI) DELLA SEMIFINALE EUROPEA, MA IL ROSSO A BONUCCI RIPORTA IN ORBITA LA SPAGNA

 E' stata, prima di tutto, una partita balorda. O meglio, una mezza partita, conclusasi dopo 45 minuti, anzi 46. Di quell'altra "cosa" che ha preso forma sotto i nostri occhi dopo l'intervallo sarebbe forse meglio non parlare, ma lo farò comunque più avanti, per dovere di analisi. Match balordo, sì, questo Italia-Spagna: tristemente simile ad altri match squinternati che la nostra Nazionale, storicamente, tende spesso a offrirci all'indomani dei suoi grandi trionfi internazionali. I più maturi e attempati fra i lettori potranno ad esempio ricordare un'Italia-Cecoslovacchia 2-2 del novembre 1982, pochi mesi dopo la sbornia Mundial, e si era a  San Siro anche quel giorno, fra l'altro. 

RUOTA CHE GIRA - Ecco, la gara di ieri sera, limitatamente al primo tempo, ha avuto qualche punto di contatto con quella lontana sfida di qualificazione europea. Incontri in cui, dopo il magic moment in cui va tutto, ma proprio tutto, come desideriamo che vada, il vento comincia a soffiare in direzione contraria: manchi occasioni che pochi mesi prima non avresti fallito, subisci gol che prima non avresti preso, paghi a caro prezzo sbavature tecniche e tattiche alle quali prima avresti saputo porre rimedio. La triste semifinale di Nations League può sintetizzarsi così: la partita della ruota che non gira più, o meglio, che gira in senso opposto. Un episodio su tutti: pensiamo a come sarebbero andate le cose senza la sciagurata espulsione di Bonucci, una leggerezza che un capitano di lungo corso mai dovrebbe commettere e che, non a caso, non commise ad Euro 2020. 

FINO AL ROSSO, MEGLIO CHE A LONDRA - Ognuno può pensarla come vuole: io penso che contro gli iberici, in parità numerica, non sarebbe finita come è finita. Vado oltre: l'Italia del primo tempo è stata, per larghi tratti, migliore di quella della semifinale di Wembley, sul piano delle espressioni di gioco e dell'autorevolezza, perché la ricordiamo tutti la sofferenza in trincea di quei 120 minuti, vero? La cartina di tornasole sta nel fatto che la Roja ci ha messo un bel po' prima di salire in cattedra, e lo ha fatto comunque senza continuità. L'Azzurra del primo quarto d'ora, e poi quella che ha reagito allo 0-1 dopo alcuni minuti "groggy", è stata una compagine dinamica, intraprendente, coraggiosa, sufficientemente precisa nel palleggio. Lungi dall'essere perfetta, certo, altrimenti non sarebbe andata sotto per poi rimanerci; ha pagato la giornata no di uno dei suoi califfi nel mezzo, Verratti, la scarsa vena di Barella, alcuni blackout difensivi di Di Lorenzo, soprattutto, e del citato Bonucci. Ma ha creato e concluso, prima e dopo la deviazione vincente di Ferran Torres: un grande intervento di Unai Simon su staffilata di Chiesa, un colpo di testa di Di Lorenzo a lato di poco, il palo di Bernardeschi, e soprattutto il clamoroso tiro a lato di Insigne, solo davanti al portiere, dopo un perentorio contropiede di Emerson. Come si suol dire, il pari era nell'aria, sarebbe anche stato giusto e avrebbe posto le basi di una seconda frazione apertissima; poi l'espulsione dello juventino e il raddoppio firmato ancora da Torres allo scadere del recupero hanno fatto calare la tela. 

PUGNALATA - Ripeto, un Club Italia apprezzabile, pur se non irresistibile, al cospetto di una selezione che solo in parte stava riuscendo a ripetere il dominio della manovra sciorinato ai tempi del rendez vous europeo. Rispetto a luglio ci è mancato, ancora una volta, il killer instinct, problema che già aveva causato intoppi notevoli nelle qualificazioni mondiali e che non poteva non essere pagato a caro prezzo contro un avversario superiore a Svizzera e Bulgaria. Dopo, in dieci contro undici, la partita da balorda è diventata avvilente, epperò inattendibile. E' stata una pugnalata, la visione di una Nazionale per oltre mezz'ora in balia totale delle Furie, irridenti al punto da meritare una punizione che, nel finale, è arrivata solo parzialmente. Mai così in sofferenza, l'ItalMancio, neppure nelle sue prime timide apparizioni di tre anni fa. 

SALVATA LA FACCIA - Ma, lo ribadisco, è stato uno spezzone di match giocato ad armi talmente impari da poter essere valutato solo con ampio beneficio d'inventario: essere sotto di due, immeritatamente, e con l'uomo in meno, contro questa Spagna vuol dire andare incontro al martirio, e possiamo anzi dire che i ragazzi dell'ex Bobby Gol siano stati bravi a evitare il naufragio completo, di fatto rendendo inoffensivo il possesso palla di Busquets e compagni e trovando il guizzo dell'1-2, anche se di pura rabbia, sull'asse Chiesa - Pellegrini. Nel salvare la dignità ci ha messo del suo anche Donnarumma, stordito inizialmente dagli stupidi fischi del Meazza (al punto da regalare, quasi, il raddoppio con una paperissima su diagonale del redivivo Marcos Alonso), ma poi ripresosi alla grande da campione qual è, con uno splendido salvataggio sullo stesso Alonso e molte tempestive uscite. Ed è stato utile Chiellini, per ridare compattezza, reattività e morale a tutta la truppa, tanto che perfino Di Lorenzo, a lungo in difficoltà nella prima parte, si è prodotto in un bell'anticipo su Sergi Roberto a pochi passi dalla porta. 

DA CHIELLINI A BASTONI - Gli interrogativi più amari della serata milanese partono proprio da qui: se a un anno dal Mondiale (che dobbiamo comunque ancora conquistarci) siamo aggrappati al vecchio bucaniere bianconero per tappare certe falle, è forse lecito nutrire qualche dubbio quantomeno sul futuro della nostra difesa: in campo c'era Bastoni che nel complesso dei novanta minuti non ha fatto male, a parte la piccola (ma decisiva) incertezza sul primo acuto di Torres; ma da parte sua si sono viste anche qualche preziosa chiusura e una buona dose di intraprendenza, personalità nel cercare di far ripartire l'azione, e insomma, è anche da esperienze tempestose come questa che passa la maturazione internazionale dei nomi nuovi; guai, quindi, a buttare a mare l'interista.  

ERA POSSIBILE CAMBIARE L'INERZIA? - Da questa considerazione nasce il secondo interrogativo: mettere in campo una formazione più fresca e "affamata", seguendo fra l'altro l'esempio di Luis Enrique, avrebbe aperto prospettive migliori? Io credo di sì ma, come detto, fino al rosso a Bonucci la prova dei nostri, pur fra qualche smagliatura e gravata da alcuni uomini sottotono, non era stata assolutamente negativa; anche se più dei singoli era il collettivo che stava funzionando, senza picchi particolari, se non in un Emerson molto propositivo, in Jorginho che era partito col piede giusto governando ottimamente il reparto di mezzo con notevole carica agonistica, e col solito Chiesa vispo e voglioso.  Ed era possibile cambiare l'inerzia in quel secondo tempo largamente gestito dagli ospiti? Ecco, qui invece ritengo che sarebbe stato quasi impossibile: Locatelli, Kean e Pellegrini potevano forse entrare prima, ma saremmo stati pur sempre in doppio svantaggio e in inferiorità numerica, e contro questa Roja, lo si è detto, avere questi handicap vuol dire essere destinati a sconfitta sicura. 

INSEGNAMENTI - E adesso? Adesso il futuro è probabilmente della Spagna, ma può essere anche nostro (e di altre rappresentative, beninteso). Questa serata, oltre all'ovvia amarezza per aver perso la possibilità di alzare un trofeo alla nostra portata, lascia in eredità tanti insegnamenti importanti. Oddio, un paio di questi, poche proteste e gomiti bassi, un uomo dell'esperienza di Bonucci avrebbe dovuto impararli da tempo, ma tant'è. Ecco, c'è stato pure tanto nervosismo in campo, frutto forse della desuetudine alla sconfitta, e il ko sarà utile anche a questo, a saper gestire meglio le situazioni di difficoltà che inevitabilmente ci si pareranno davanti sempre più numerose, di qui in avanti. 

Altro insegnamento: insistere su uno stile, un modo di stare in campo e di aggredire le partite, che la Spagna porta avanti con convinzione da quasi due decenni e che noi abbiamo fatto nostro, in pratica, solo dal 2018; loro ce l'hanno ormai nel DNA e si vede, noi l'abbiamo acquisito e dobbiamo interiorizzarlo ancor di più, perché è vincente, e in questo senso, dopo gli iberici, i migliori d'Europa siamo sempre noi; oltretutto, quando lo facciamo bene (ed è accaduto nel 99 per cento del percorso manciniano), il nostro possesso non è mai sterile e stucchevole, tendente ad addormentare e congelare, ma attivo e propositivo. Wembley e il primo tempo di Milano, per di più, hanno dimostrato che non ci manca la duttilità tattica, la capacità di adattarci a soffrire, le poche volte che ci si trova soggiogati sul piano del governo delle operazioni (e a questa Italia, diciamolo, succede esclusivamente contro la Spagna...). In undici, nella ripresa di ieri, avremmo potuto contenere e ripartire, aiutati dai boys subentrati che hanno avuto ben poco spazio di manovra in una compagine menomata, rattrappita, ammassata sulla trequarti per arginare la giostra impostale dai visitanti. 

DOVEVA ESSERE UNA PALESTRA - Chiudo questo pezzo pieno di interrogativi con... un altro interrogativo. E' stato giusto puntare in massa sui "pretoriani" azzurri per inseguire questa Nations League? Ecco, secondo me no, e parlo della filosofia di base con cui si è affrontata la manifestazione, non già della gara di ieri sera che, l'ho scritto prima, l'undici in campo ha per 45 minuti interpretato discretamente. Ma forse questo torneo andava preso come palestra di crescita per le nostre nuove leve, non come ulteriore premio per i pluridecorati, perché il campionato e le coppe ci stanno dicendo che gente come Calabria, Locatelli e Pellegrini, in questo momento, merita la maglia più dei titolarissimi storici, più spazio meriterebbero Kean e Raspadori, più considerazione Tonali. Occhio perché, per quanto la si neghi e la si respinga a parole, la riconoscenza verso chi ti ha portato in alto rappresenta una tentazione troppo grossa, che ha piegato anche uomini tutti d'un pezzo come Bearzot e Lippi. 

martedì 28 settembre 2021

VERSO SANREMO 2022: SBAGLIATA LA SCELTA DI RIDIMENSIONARE LE NUOVE PROPOSTE. PRIMO BORSINO DEI PAPABILI


Quest'anno la marcia di avvicinamento al Festivalone sarà meno lunga del solito. Il sipario dell'Ariston si alzerà il 1° febbraio 2022, bisogna risalire al 1982 per trovare una partenza più "precoce": all'epoca, l'edizione numero 32 della rassegna prese il via il 28 gennaio. Ormai recuperata appieno la collocazione storica dell'evento (quella "marzolina" del 2021 non è stata un unicum, ma ha rappresentato comunque un'eccezione causata dalla pandemia), si può dunque cominciare a discutere del Sanremo prossimo venturo, anche perché l'estate ha portato con sé diverse novità riguardo alle "sembianze" che assumerà la manifestazione. 

GIUSTA CONFERMA PER AMA DOPO UN FESTIVAL DI SUCCESSO - Novità si fa per dire, beninteso: la prima è stata la conferma di Amadeus, che a Festival numero 71 appena concluso aveva più o meno radicalmente escluso il tris, ma tant'è: il periodo è delicato e quindi conviene andare sul sicuro. Perché è un fatto che il flop di audience dell'ultima kermesse sia stato molto più teorico che reale (e ingigantito da certa stampa), e a botta calda avevamo già spiegato il perché. Da allora, poi, sono successe cose importanti: è cioè successo che il tanto bistratto Sanremo '21 abbia partorito i vincitori dell'Eurovision, quei Maneskin che ora stanno mietendo trionfi su scala planetaria (no, non è un'esagerazione); ed è accaduto, anche, che il pacchetto canzoni di quest'ultima edizione abbia riscosso lusinghieri consensi, con un successo che si è prolungato fino alla stagione calda, consacrando nuovi personaggi e lasciando in eredità brani destinati a farsi ricordare. Sul piano della proposta musicale, dunque, era difficile fare meglio, ancor di più se si pensa alle scelte spiazzanti (per la platea mainstream) operate dal direttore artistico, e questo è stato uno dei motivi, certo non l'unico, che ha spinto la Rai a cercare la continuità, senza ulteriori salti nel buio. 

LISTONE UNICO: POLLICE VERSO - E qui siamo alla seconda novità, tra virgolette, perché come primo atto della sua terza gestione Amadeus non ha trovato nulla di meglio che ripescare la formula del Baglioni bis 2019, ossia il listone unico di concorrenti con conseguente abolizione della gara delle Nuove Proposte, che scompare nuovamente dalla rassegna di febbraio per essere relegata al solo appuntamento pre natalizio. Ecco, se devo essere sincero, non mi sembra un punto di partenza entusiasmante. Dopo un duro lavoro di rivalutazione della categoria, portato avanti nell'ultimo decennio soprattutto da Carlo Conti, con la ricollocazione in apertura delle serate e la riproposizione della selezione televisiva autunnale, i Giovani, intesi come sezione in concorso, sono tornati ad essere la pecora nera del Sanremo. Due soli dei dodici finalisti otterranno l'ammissione allo show di inizio febbraio: certo, sull'altro piatto della bilancia c'è la possibilità, per quei due, di battersi ad armi pari coi "famosi" potendo puntare alla vittoria (impresa riuscita a Mahmood proprio nel '19), ma il gioco non vale la candela, gli emergenti hanno più da perdere che da guadagnare da questo format. 

SANREMO HA BISOGNO DELLE NUOVE PROPOSTE - E' la storia degli ultimi quarant'anni a dirlo, non solo io: il Festival, dopo la crisi dei Settanta, si risollevò alla grande anche perché puntò massicciamente sul proprio vivaio, che dall'80 in poi ha immesso continuamente linfa verde nelle vene della kermesse ligure e contribuito in buona misura al periodico rinnovamento e ricambio generazionale di tutta la musica leggera italiana. Sul "settore Primavera" del Sanremone scrivo queste cose più o meno da quando è nato Note d'azzurro, e probabilmente a qualcuno saranno venute a noia, ma se lo faccio è perché i giovani, ossia l'anello debole di Sanremo, sono stati troppo spesso sotto attacco. Certo, quest'anno c'è la giustificazione del fallimento totale dell'ultima edizione e di quello parziale della penultima, sotto il profilo degli esiti commerciali dei dischi: due anni fa il vincitore Leo Gassman non ha sfondato e se l'è cavicchiata Fasma, quest'anno è stato un disastro, nonostante buoni talenti e discrete canzoni, nonostante Davide Shorty e Wrongonyou, Gaudiano e Folcast, Greta Zuccoli e Avincola. 

RIFORMARE LA CATEGORIA GIOVANI, NON RIDIMENSIONARLA - Chiaro, qualcosa è andato storto, ma non è che risolvi il problema facendo piazza pulita della categoria. Da Amadeus, tanto coraggioso e rivoluzionario quando si tratta di comporre il cast dei Big, quanto prudente fino all'autolesionismo nella gestione del caso Nuove Proposte, mi sarei aspettato un tentativo di riforma creativa della sezione, non un mero ridimensionamento operato oltretutto ripescando l'idea di un predecessore. Perché le Nuove proposte si possono salvare e rilanciare, ma vanno adeguatamente valorizzate, attraverso vari step. Il primo sarebbe quello di creare un format di selezione nuovo e originale, che non scimmiotti e riproponga il solito schema trito e ritrito dei talent, coi giurati che fanno spettacolo e che valutano in diretta, e via dicendo. 

BATTERE IL TERRITORIO, E RITORNO AGLI INEDITI - Rimango poi del parere che ci vorrebbe una commissione ad hoc, stabilmente insediata, che nel corso dell'anno facesse il giro delle città, dei locali, per scovare solisti e band alle prese con la gavetta per segnalarli alla direzione artistica. Altro punto chiave: ripristinare l'inedito da portare in gara a febbraio (quest'anno avverrà per ovvi motivi di lotta ad armi pari con gli altri componenti del "listone"). Tenere in ghiaccio per due  o tre mesi i brani lanciati nella disfida dicembrina per poi ripresentarli all'Ariston ha funzionato all'inizio, poi decisamente meno, e in linea di massima non mi pare una grande idea, perché quelle canzoni rischiano di arrivare al Festival già vecchie, "masticate", sentite e strasentite, mentre il Festival è soprattutto la celebrazione del pezzo nuovo. 

CENTRALITA' ANCHE A FEBBRAIO, CON FINALE AL SABATO - Dulcis in fundo, e torniamo al punto di partenza, va restituita centralità alla gara dei "pulcini" all'interno del Festival vero e proprio, e in questo caso ritengo che quantità faccia rima con qualità e con rilevanza, nel senso che i classici otto partecipanti degli ultimi tempi sono pochi; oltretutto, la collocazione in apertura di ogni serata, il cui intento iniziale era di incrementare la visibilità della loro gara, sul piano pratico si è tradotta in un frettoloso "sbrighiamo la pratica e passiamo alle cose importanti dello show", aggravato dalla modalità degli scontri diretti applicata fino al 2020, che rendeva la sfida troppo rapida, vorticosa, veloce, al punto che a metà puntata te l'eri quasi già dimenticata. In soldoni, far aprire le serate ai debuttanti non basta, occorre che la loro presenza sia massiccia, si faccia sentire, deve essere parte importante dello spettacolo: in tale ottica, riportarne lo scontro finale al gala conclusivo del sabato sarebbe secondo me un'altra mossa vincente. 

PER IL 2022, PERCHE' SOLO DUE EMERGENTI? - Discorsi che, per il prossimo Sanremo, vengono portati via dal vento, per via della "riformina". Anche su questo fronte, tuttavia, si poteva fare qualcosina in più: perché solo due ragazzi promossi da dicembre a febbraio? Nel quasi nulla a cui è stato ridotto il comparto giovani, anche solo un posticino in più non avrebbe spostato gli equilibri della gara dei "grandi" e, anzi, avrebbe dato chances di visibilità a un altro emergente. Insomma, perché mortificare un questo modo un vivaio che ogni anno richiama centinaia di domande di partecipazione? Nel 2020 le richieste furono poco meno di mille, un'enormità: cavare solo due nomi da questo immenso serbatoio è quasi offensivo verso i tanti che, anche negli anni Venti del ventunesimo secolo, continuano a vedere nel "vecchio" Festivalone la via principale verso il successo o anche solo verso la speranza del successo. 

QUANTI CANTANTI NEL LISTONE? - Spezzata con convinzione una lancia a favore dei giovani, parliamo dunque di questa categoria unica. Non essendo ancora uscito il regolamento della gara di febbraio, possiamo solo azzardare supposizioni: quanti saranno i cantanti ammessi? Nel 2019, unico termine di paragone plausibile visto che la formula della competizione era la stessa, furono 24: possibile che il numero sia il medesimo quest'anno. Per il Sanremo 71 Amadeus esagerò portando 26 vip, soluzione che io avevo caldeggiato nei mesi precedenti, parlando della necessità di un Festival allargato e partecipato per dare sollievo agli artisti dopo il terribile periodo della pandemia. Ora non siamo fuori pericolo, ma diciamo che la fase di più acuta emergenza dovrebbe essere alle spalle, e del resto lo stesso direttore artistico aveva detto, a posteriori, che 26 erano troppi. Ma quest'anno non ci sarà il concorso dei Nuovi, quindi il problema dei tempi televisivi non si porrebbe: anche perché, diciamolo, la dilatazione delle ultime edizioni non è stata dovuta certo alla competizione, quanto alle tante ospitate e a siparietti spesso evitabili.

PRIME CONSIDERAZIONI SUI PAPABILI - Ovviamente è presto per parlare di papabili, ma neanche tanto. La scelta verrà compiuta a dicembre e verosimilmente resa nota in occasione della finale dei Giovani: nel frattempo si possono già fare alcune parziali valutazioni legate alle risultanze discografiche di questi mesi. In sintesi: capire chi potrà tornare in competizione dall'ultima edizione, chi dalle edizioni immediatamente precedenti, chi potrebbe proporsi dopo gli ottimi riscontri estivi, quali volti nuovi o parzialmente nuovi potrebbero essere lanciati in orbita per creare gli eredi di Colapesce-Dimartino, Coma_Cose, Rappresentante di Lista e via dicendo. E poi ci sarà da capire cosa accadrà nei mesi autunnali: molti big escono con nuove produzioni, ma come andranno? Perché se le vendite non saranno all'altezza delle aspettative, sorgerà l'immediata necessità di una spinta promozionale con conseguente repackaging del disco... 

SIGNORE E SIGNORI, IL BORSINO - Insomma, una miriade di fattori, molti dei quali volatili, aleatori, soprattutto scrivendo in questo momento. Cerco comunque di azzardare un primo, parzialissimo borsino dei papabili partecipanti, dividendoli, in base a considerazioni soggettive e oggettive, fra probabili, possibili (ma meno probabili), difficili, con un capitolo a parte per i veterani. Diciamo subito che fra i primi avrei inserito sicuramente Levante, la quale però, si è appreso in questi giorni, è in dolce attesa, e il lieto evento dovrebbe verificarsi proprio in febbraio. Per contro, non avevo finora preso in considerazione Francesco Gabbani, che ha appena pubblicato un bel singolo, "La rete", ma che in una recente ospitata a "Domenica in" non ha escluso il ritorno. Fra i possibili un nome curioso, quello di Bianca Guaccero, che sa cantare e che, nell'ultimo numero di Sorrisi, ha dichiarato che non disdegnerebbe affatto una partecipazione. Ed eccolo dunque, il borsino:


PROBABILI

Elodie, Diodato, Giusy Ferreri, Nek, Fabrizio Moro, The Kolors, Boomdabash, Mahmood, Simona Molinari, Nina Zilli, Sangiovanni, Aka7even, Carl Brave, Fred De Palma, Rkomi, Michele Bravi, Casadilego, Iosonouncane, Federico Rossi, Rocco Hunt e Ana Mena,  Wrongonyou, Mara Sattei, Maria Antonietta, Margherita Vicario, Gazzelle, Calcutta, Brunori Sas, Mannarino, Irama, Coma_Cose, Gaia Gozzi, Fulminacci, Tommaso Paradiso, Ariete


POSSIBILI

Francesco Gabbani, Cristiano Malgioglio, J-Ax, Chiara Galiazzo, Dolcenera, Emma, Modà, Greta Zuccoli, Clementino, Samuele Bersani, Tiromancino, Sottotono, Capo Plaza, Anna, Blanco, Mr. Rain, Davide Shorty, Baby K, Lorenzo Fragola, Shade, Federica Carta, Emis Killa, Tecla, Bianca Guaccero


DIFFICILI

 Carmen Consoli, Luca Carboni, Alessandra Amoroso, Ultimo, Ghali, Zibba, Niccolò Agliardi, Alberto Bertoli, Lorenzo Baglioni, Mirkoeilcane,  Gaudiano, Motta, Bianca Atzei, L'Aura, La Rua, Eugenio in Via di Gioia, Marianne Mirage, Alberto Urso, Giordana Angi, Roberta Giallo, Erica Mou, Le Deva, Matteo Faustini, Negramaro, Marco Mengoni, Jack Savoretti, Niccolò Fabi


VETERANI: PROBABILI...

Gigliola Cinquetti, Ricchi e Poveri, Lisa, Paolo Vallesi, Mietta, Syria, Francesca Alotta, Sergio Cammariere, Marcella, Nomadi,  Erminio Sinni, Mariella Nava-Grazia Di Michele-Rossana Casale, Silvia Mezzanotte-Carlo Marrale, Rettore, Marina Rei

.

..  E POSSIBILI

Alice, Teresa De Sio, Eduardo De Crescenzo,  Jalisse, Danilo Sacco, Matia Bazar, Massimo Ranieri


giovedì 23 settembre 2021

IL GENOA DA PREZIOSI AL FONDO 777 PARTNERS: E' IL MOMENTO DELL'OTTIMISMO, NON DELLE PERPLESSITA'. BREVE BILANCIO DI 18 ANNI DI JOKER

                                                  I nuovi proprietari sono già a Pegli (foto Genoa CFC)

Secondo molti, questo giorno non sarebbe mai potuto arrivare. Una chimera, un'illusione per gonzi e nulla più. Che fra questi "molti" vi fossero genoani in grande quantità la dice lunga sul punto di deterioramento a cui era giunto l'ambiente rossoblù. E la dice lunghissima sulla portata rivoluzionaria dell'evento di oggi. La notizia è fresca: ufficiosa ma pressoché scontata già ieri, ha assunto questa mattina i crismi dell'ufficialità assoluta. Il Genoa cambia proprietà, ad Enrico Preziosi subentra il fondo statunitense 777 Partners, che arriverà a detenere il 99,9 per cento delle quote societarie, praticamente l'intero pacchetto. 

IN BUONE MANI - In città c'è chi festeggia e stappa champagne, non metaforicamente. Certe celebrazioni preferisco riservarmele per quando, è nei voti, si centreranno titoli o piazzamenti di prestigio. Per il momento, prendo atto con soddisfazione di quella che è comunque una conquista di immenso valore: poter finalmente guardare al futuro con tanta fiducia, parecchio ottimismo, rinnovato entusiasmo, ciò che sembrava essere diventato impossibile; una chimera, per l'appunto. Su questo aspetto il vecchio Joker è stato di parola, bisogna dargliene atto: non ha lasciato il club in mano ad avventurieri di dubbia moralità e ancor più dubbia capacità finanziaria. Non tocca a me descrivere nel dettaglio le potenzialità economiche, gestionali e di investimento del gruppo con sede a Miami, in rete e sui giornali specializzati si trovano informazioni sufficientemente esaurienti; ma sembra chiaro che meglio di così non potesse andare, per un sodalizio del livello del Grifone. E c'è davvero poco da fare gli schizzinosi, o peggio ancora i nostalgici di un calcio che non c'è più, non tornerà e che aveva pur sempre i suoi lati oscuri: ai vertici della piramide pallonara, i tempi dei Rozzi e degli Anconetani sono finiti da un pezzo, è bene metterselo in testa una volta per tutte. 

18 ANNI, UN PEZZO DI VITA - Evento rivoluzionario, dicevo in apertura. Per tutta una serie di motivi: perché il "regno" di Preziosi è durato oltre diciotto anni, un pezzo di vita considerevole per chiunque, in cui si perdono e trovano lavori, iniziano e finiscono amicizie, si vedono andare via per sempre persone care; e perché la seconda metà di questi diciotto anni è stata una discesa agli inferi della passione calcistica: un Genoa via via sempre più marginale, con ambizioni ormai quasi inesistenti, privo di qualsiasi continuità tecnica e quindi di identità, con quel continuo viavai di calciatori divenuto infine smobilitazione, con una società poco presente (eufemismo) in città, nei rapporti con la stampa e soprattutto coi tifosi. Dal sogno all'incubo, in poche parole. 

2003: TRE SQUADRE IN MEZZA STAGIONE - Ho sempre trovato forzata la divisione fra preziosiani e antipreziosiani. Questa lunga gestione è stata talmente movimentata, variegata, "squilibrata", ricca di fatti positivi e negativi da non poter essere liquidata con ideologismi e schieramenti aprioristici. E' la classica situazione per la quale vale la frase "ci vorrebbe un libro", e magari prima o poi qualcuno lo scriverà, nella speranza che racconti tutto quel che c'è da dire. La gestione del Prez ha avuto tanti meriti, come detto concentrati quasi tutti nei primi sette anni, a partire dal salvataggio di un club che pareva destinato al fallimento e alla scomparsa dai radar del calcio che conta per chissà quanto tempo. Dopo la sua presa di potere, con contestuale ripescaggio dalla C1 alla B per via del famigerato caso Catania, il re dei giocattoli mostrò subito una caratteristica che si sarebbe portato dietro, nel maneggiare il... giocattolo Genoa, fin quasi alla fine del suo percorso, ossia l'iperattivismo, il forsennato compra-vendi di calciatori, che transitavano dalla sede di Pegli come in un porto di mare. In quella estate del 2003 allestì addirittura due squadre in poche settimane, la prima per dominare in terza serie, la seconda per fare bene in cadetteria, con in più una terza "riverniciata" alla rosa in sede di mercato di riparazione, per tentare subito l'assalto alla A. Tre Genoa quasi del tutto diversi fra loro in nemmeno metà stagione. 

DALL'INFERNO ALLA... QUASI CHAMPIONS - La massima serie arrivò nel 2005, poi ci fu il pasticciaccio del caso Venezia (in verità mai del tutto chiarito fino in fondo, ancora oggi permangono molti dubbi su alcuni aspetti della vicenda) e la conseguente retrocessione d'ufficio in C. Poteva essere il colpo di grazia, fu invece lo scossone (dolorosissimo) che diede un fondamentale input positivo, inaugurando un quinquennio, o giù di lì, denso di soddisfazioni: l'immediato seppur sofferto ritorno in B, la promozione in A nell'ambito di un torneo difficilissimo che vide la partecipazione, fra le altre, di Juventus e Napoli, il calcio innovativo e spettacolare di Gasperini, i grandi nomi ad illuminare la ribalta del Ferraris spingendo il Grifone fino alle soglie della Champions League, mancata nel 2009 a vantaggio della Fiorentina fra mille recriminazioni. Poi quella che ho sempre considerato la svolta negativa della presidenza, la campagna acquisti dell'estate 2010 in cui Preziosi investì pesantemente per tentare il definitivo salto di qualità: quattro grandi nomi dell'epoca, un paio di loro addirittura grandissimi, ossia Eduardo, Rafinha, Veloso e Toni. Non uno, non due, ma tutti e quattro fallirono, una congiunzione astrale negativa probabilmente irripetibile, e che rappresentò una insostenibile zavorra sotto molti punti di vista. 

DOPO IL 2011, SI SCENDE IN PICCHIATA - Da lì in poi, il buio. Qualche campionato tranquillo e molte salvezze col cuore in gola, l'abisso della vergogna nel 2015, con la qualificazione all'Europa League sfumata per il mancato conseguimento della licenza Uefa, mancanza da me definita "imperdonabile" su queste pagine, e ancora la considero tale. E' stato quello il punto di non ritorno, probabilmente la vera fine dell'era Prez: a seguire solo un modesto, in certi casi mortificante, tirare a campare. Giocatori, anche di valore, che arrivavano per poi ripartire dopo pochi mesi, giovani promettenti subito venduti, depauperamento qualitativo della rosa pressoché costante e inarrestabile, assenza di un cospicuo nucleo fisso di atleti attorno al quale costruire un abbozzo di formazione tipo "a lunga conservazione", un undici che permettesse ai tifosi di affezionarsi, di identificarsi con una squadra che sentivano invece sempre più distante; personalmente, lo ammetto con assoluta onestà, nel continuo tourbillon di calciatori a cui ho assistito, di molti mi sono perso i volti, le fattezze fisiche, in altre parole non sarei in grado di riconoscerli, cosa che anche solo fino al 2011 o 2012 sarebbe stata per me inconcepibile. 

La sensazione era quella di essere diventati soltanto una stazione di transito, un parcheggio per ragazzini da svezzare o per elementi di dubbio valore che erano in esubero in altre società, ed anche un approdo tranquillo per veterani ormai agli sgoccioli. Una situazione allucinante, in cui fare calcio serio, di prospettiva, non era obiettivamente impossibile, e infatti l'unica prospettiva era quella di vivere alla giornata, conquistare la permanenza in categoria e tornare a tribolare dopo l'estate, con un roster rifatto da capo a piedi o quasi.

I 15 ANNI DI A, IL TOURBILLON DI GIOCATORI, L'IMMOBILISMO DELL'ESTATE '21 - Ecco, questo trovano gli americani di 777, e piange il cuore a dirlo. Perché fra tanti errori operativi, scivoloni, promesse mancate, l'ex proprietario, lo ripeto, qualcosa di buono aveva combinato. I quindici anni di A, alla fine, non sono una barzelletta per boccaloni: nel medesimo lasso di tempo, hanno conosciuto l'onta della retrocessione realtà come Sampdoria, Bologna, Torino, e, udite udite, Atalanta. E non sono stati un'illusione i grandi campioni che abbiamo visto sfilare davanti ai nostri occhi in casacca rossoblù: il magico trio della quasi Champions Ferrari-Motta-Milito, ma anche Palacio,  Borriello, Gilardino, per tacere di tanti altri validissimi elementi, da Moretti ad Ansaldi, da Mesto a Kaladze, da Pavoletti a Piatek, fino al gruppo dell'ultima salvezza poi volatilizzatosi in sede di mercato, Perin e Zappacosta, Strootman e Scamacca, Piaça e Shomurodov. Anche alla luce di questi dati di fatto, di questi risultati, di questi nomi, risulta incomprensibile il distacco/disamoramento del patron manifestatosi sempre più massicciamente nell'ultimo quinquennio, col culmine dell'immobilità toccato questa estate, una campagna acquisti quasi provocatoria per la sua impalpabilità, prima della parziale impennata di fine agosto che però, come prevedibile, ha al momento risolto solo in parte i problemi di assetto, ponendo nelle mani del povero cireneo Ballardini la proverbiale patata bollente. 

MEDIATICAMENTE SENZA DIFESA - Gli americani trovano anche un Genoa fragilissimo, quasi indifeso, sul piano comunicativo. Una società e una squadra incapaci di fare la voce grossa, come fanno tutti, di fronte a torti o ingiustizie arbitrali (che ci sono ancora e vanno sottolineate, anche in epoca Var), una società non in grado di rispondere a illazioni, accuse, prese in giro e offese da parte di testate nazionali e locali, quasi disinteressata alle dinamiche mediatiche, trattata spesso a pesci in faccia, con arroganza, e che tutto si fa scorrere addosso, in un mondo in cui se porgi l'altra guancia sei invece spacciato. Non è un aspetto secondario, e anche su questo la nuova proprietà dovrà lavorare. 

VIA IL MUGUGNO, LARGO ALL'OTTIMISMO (GIUSTIFICATO) - Va anche detto che certi media, soprattutto quelli regionali, nel loro atteggiamento non benevolo nei confronti del Genoa (club storico, lo ricordiamo: il più antico d'Italia, e anche solo per questo meriterebbe un minimo di rispetto) hanno trovato terreno fertile nello scetticismo e nel disfattismo a oltranza di una parte (minoritaria, ma rumorosa) della tifoseria. Le tante scottature e delusioni patite non possono portare al tafazzismo, non al punto di cominciare da subito a storcere il naso e a fare le pulci ai nuovi arrivati. No, ragazzi: la svolta c'è stata, e  stavolta è di portata storica. Mettete per una volta da parte l'amore per il mugugno e rialzate la testa. E' ovvio che il 777 sarà chiamato a operare su più fronti: rilancio dell'immagine, riorganizzazione aziendale, potenziamento economico, accrescimento della competitività tecnica del team e altro ancora. Di questo, a tempo debito, negli anni, non mancheremo di chiedere conto: ma ora l'orizzonte è più sereno. "Lasciatelo lavorare": era il finto titolo di giornale che Gianni Ippoliti, nelle sue fantasiose rassegne stampa, faceva ripetutamente comparire sui quotidiani berlusconiani ai tempi in cui Silvio era presidente del Consiglio. Ecco, "lasciamo lavorare" anche il Fondo, senza mordere il freno, perché i tempi saranno lunghi. Ma stavolta sono convinto che l'attesa e la pazienza saranno adeguatamente ricompensate. E allora, signori Wander, Pasko, Arciniegas e Blazquez: benvenuti, e buon lavoro. 

giovedì 9 settembre 2021

MONDIALI 2022: RIECCO LA GIOVINE ITALIA. DAL 5-0 ALLA LITUANIA ALLE PROSPETTIVE TECNICHE E TATTICHE OFFERTE DA KEAN E RASPADORI

Italia-Lituania è stata, nel suo piccolo, la riscoperta delle radici, quelle del 2018, quelle da cui è nato tutto il bello di questo triennio. Un nuovo inizio per l'Azzurra versione Mancio nella sua essenza più genuina, nei suoi princìpi cardine, e che sgombra il campo da qualsiasi "sindrome da riconoscenza" che possa frenare ogni ulteriore progresso della nostra Selezione: il cittì non sarà mai prigioniero del passato, sa che ci sono i margini per crescere innovando nella continuità, e percorrerà questa strada fino in fondo. La scorribanda di Reggio Emilia, un 5-0 maturato in meno di un'ora di gara, non merita ovviamente celebrazioni o trionfalismi, ma scrive un capitolo comunque significativo dell'era Bobby Gol, un capitolo perfettamente coerente con i passi fin qui compiuti. Passi che raccontano di una gestione "verde" nello spirito e nei fatti, con poche chiocce e tantissimi pulcini chiamati a misurarsi sul campo dopo brevi anticamere in panchina. La filosofia è sempre stata questa, fin dall'inizio dell'avventura: buttare nella mischia forze nuove appena se ne intravede la possibilità o, come in questo caso, quando il ringiovanimento diventa un'urgenza dettata dall'emergenza. Ieri, la preparazione atletica ancora in abbozzo e il cumulo di impegni ravvicinati consigliavano un forte turn over, la caratura dell'avversario incoraggiava la scelta, la gragnuola di infortuni e affaticamenti la rendeva obbligata, l'equilibrio psicologico del gruppo richiedeva uno scossone di qualche natura, uno stimolo particolare. 

CONCORRENZA - Corsi e ricorsi: spesso, per rivitalizzare campioni forse preda di un momentaneo rilassamento mentale, occorre pungolarli mettendoli di fronte a una agguerrita concorrenza. Il Trapattoni cittì nel 2003 ricorse alle seconde linee per scuotere i grossi calibri dell'epoca che troppe volte in azzurro diventavano fantasmi, e per un po' di tempo ci riuscì. Situazione radicalmente diversa, è chiaro, in questo dolce 2021, ma è giusto che gli Insigne e gli Immobile, i Bonucci e i Chiellini comincino da subito a sentire sul collo il fiato della nouvelle vague. Lo ripeto da mesi: il bacino da cui pescare si è ampliato quantitativamente e soprattutto qualitativamente, e dopo due lustri di magra sarebbe delittuoso non approfittare di questa buona semina. 

PESSINA E BERNARDESCHI ISPIRANO, KEAN E RASPA BRACCI ARMATI - Così è stata, di nuovo, "Giovine Italia": dinamica, avvolgente, precisa ed efficace nell'assediare i sedici metri avversari, con la vivacità e il movimento continuo di Pessina ad animare la fase di costruzione, con un Cristante determinato e sicuro di sé nel lancio e negli inserimenti, con Bernardeschi particolarmente ispirato nelle vesti di suggeritore e rifinitore. Con questi tre motori alle spalle, e Jorginho a fare il "padre nobile", sorvegliando da dietro senza strafare gli ardori dei compagni emergenti, i due baby Kean e Raspadori hanno potuto giostrare a briglia sciolta, sia pur con dinamiche tattiche diverse: guizzante, velocissimo, ficcante il neo juventino con le sue percussioni laterali e l'abilità nel convergere al centro, universale il giovanissimo del Sassuolo, attaccante ultramoderno, a tutto campo, capace di ripiegare e di presentarsi lucido in fase di "sparo", di concludere da media e corta distanza, di districarsi nel cuore dell'area senza paura (già lo aveva fatto nel finale di Firenze, pur trovando ovviamente meno spazi). Entrambi, soprattutto, puntano a rete senza eccessivi ghirigori, senza titubanze, in modo diretto (Kean ha cominciato a gigioneggiare solo quando si è trovato a corto di fiato), e in questo momento è forse quello che davvero ci vuole per accentuare la pericolosità del nostro team. 

NUOVI SCHEMI OFFENSIVI - Certo non bastano due gol a testa contro la Lituania (il primo di "Raspa" è, per la verità, più un autogol, ma vabbè) per avanzare candidature prepotenti alla titolarità, ma va tenuta in assoluta considerazione la modalità con cui si è approdati all'ottimo bottino delle... imberbi punte: tatticamente, è un modo di approcciare la fase offensiva diverso da quello incentrato su Immobile punta fissa, un modo che sembra offrire più variabili, più soluzioni, forse più imprevedibilità, fermo restando che gli attuali tenutari delle casacche azzurre dalla trequarti in su, Chiesa e Insigne, Berardi e Ciro, se al top della forma sono pur sempre in grado di tagliare a fettine le retroguardie nemiche. Ma ora le alternative ci sono, sono credibili e hanno avuto un discreto battesimo, senza contare che per Kean è una seconda nascita in Nazionale, dopo il folgorante debutto di inizio 2019 poi frenato da questioni soprattutto caratteriali. 

C'è dell'altro: nella scarsa attendibilità tecnica della ripresa di Reggio Emilia, oltre al casuale cross-gol di Di Lorenzo si è visto uno Scamacca che porta più peso, più fisicità in area e che necessita forse di schemi più tradizionali, e han fatto capolino alcuni bagliori di Castrovilli, apprezzabile nei tentativi di costruire e abile al tiro (un suo palo con un destro da fuori meritava la rete). Altri piccoli mattoncini di un edificio azzurro che sta aumentando di dimensioni senza perdere bellezza e armonia nelle linee.  

SBLOCCARLA SUBITO, POI... - Poco altro resta da scrivere, su una partita come quella di ieri era. Giochiamo con un interrogativo solo in apparenza banale: più meriti dei nostri o più demeriti dei rivali? La risposta è la medesima seguita a tante Italia-Lituania del passato (dove ai baltici si può sostituire il nome di altre nazionali di basso livello incontrate nel tempo, da Malta al Lichtenstein), ma val la pena di essere ribadita e tenuta a mente, quando ricapiterà di stentare contro le "piccole". Il segreto è sbloccare il risultato il prima possibile: se ci riesci, e poi continui a premere sull'acceleratore, tutto diventa più semplice, e si moltiplicano le possibilità di portare a casa uno score cospicuo. Se invece non sfondi subito, la controparte acquisisce coraggio e "cazzimma", moltiplica gli sforzi, rinserra ancor più le file accentuando il proprio atteggiamento difensivista e intasando gli spazi a ridosso della sua area e all'interno di essa: a quel punto, la goleada diventa impossibile, e si corre addirittura il rischio della suprema figuraccia, ossia la mancata vittoria. 

LA "CRISETTA" SUPERATA - Ecco perché, "dopo", tutto sembra più facile. A Reggio Emilia, l'Italia ha approcciato l'incontro col piglio giusto: senza fasi di studio o di assestamento, ha subito aggredito e preso possesso del terreno. Non era scontato, dopo le due docce fredde di Firenze e di Basilea. Checché ne dicano i pompieri in servizio permanente effettivo, la "crisetta" c'è stata, una crisetta fatta di occasioni clamorose sprecate in entrambi i match, di due punti persi concedendo ai bulgari il cento per cento di percentuale realizzativa (un'occasione e un gol), e di una involuzione di gioco evidente soprattutto con gli elvetici, conseguenza soprattutto, lo avevo scritto, di una condizione deficitaria che è del resto fisiologica, per come sono attualmente impostati i calendari interni e internazionali. E definirla piccola crisi era opportuno, perché l'appannamento riguardava la rappresentativa campione d'Europa, non una selezione qualsiasi. 

Una formazione opportunamente rinfrescata è stata più che sufficiente ad archiviare la pratica lituana. Nel futuro immediato, Mancini dovrà essere abile a compiere un mirabile lavoro di sintesi, armonizzando veterani e new entry. Quello che, ripeto, ha sempre fatto dal 2018 in poi, ma operare su una squadra fresca di trionfo è mille volte più arduo.