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domenica 29 dicembre 2013

DAL 2013 AL 2014: NOTE D'AZZURRO, L'AVVENTURA CONTINUA



Un altro anno è passato, e per "Note d'azzurro" è stato l'anno migliore della sua finora breve vita. Inutile girarci troppo attorno: quando si approntano questi consuntivi, a cavallo fra Natale e Capodanno, è doveroso mettere sui due piatti della bilancia i traguardi raggiunti e quelli mancati, con assoluta onestà. Dodici mesi fa, come i lettori più affezionati ricorderanno, il post di fine 2012 fu di natura prettamente personale: i rischi legati alla mia salute che mi avevano frenato nei mesi precedenti, l'incubo di una grave malattia e la successiva uscita dal tunnel meritarono un'ampia trattazione, non certo per la presunzione che i miei guai interessassero a una marea di persone, ma soltanto per un insopprimibile bisogno di sfogarsi, dopo settimane di sofferenza soprattutto psicologica; una sofferenza che fra l'altro, me ne sto accorgendo giorno dopo giorno, mi ha comunque segnato e mi è rimasta dentro: il catetere, l'intervento chirurgico e l'ansia del "verdetto" dell'istologico sono pensieri ricorrenti, mi visitano spesso, ma comunque tutto ciò appartiene al passato e allora via, cerchiamo di lasciarci alle spalle i ricordi più spiacevoli e di dedicare invece questo bilancio 2013 al percorso compiuto col mio blog. Un bilancio più tecnico e meno passionale, un tirar le somme di natura "editoriale", come fanno i giornali e i giornalisti veri...
CRESCITA - Sono entusiasta, ebbene sì, perché questa mia creatura è cresciuta più di quanto osassi sperare. Intendiamoci, qualcuno potrà sorridere di fronte a certi numeri che restano comunque di livello "amatoriale", ma ribadisco quanto scritto un anno fa di questi tempi: sopravvivere nel mare magnum di Internet non è facile per un blog fatto solo di passione, fuori dal giro delle grandi piattaforme blogosferiche, costretto quindi a guadagnarsi visibilità quotidianamente, con una oculata scelta degli argomenti e con una loro trattazione il più possibile competente e originale, nonché cercando di fare amicizia con altri blogger. A fine dicembre 2012 eravamo arrivati a 11mila pagine viste, totale dalla nascita di NdA, ossia da fine estate 2011; oggi siamo a oltre 37mila. Significa che in soli dodici mesi il blog ha totalizzato più del doppio di quanto aveva raccolto nei primi sedici mesi di esistenza. Dite che mi accontento di poco? Forse, ma per me è una soddisfazione enorme, perché, è persino inutile ribadirlo, si scrive anche per il piacere di essere letti, altrimenti tanto vale tenere un diario personale, di quelli che si chiudono col lucchetto (esistono ancora?) e si appoggiano sul comodino.
LE TENDENZE DEL BLOG - Sanremo uber alles! I post dedicati al Festivalone sono stati quasi sempre confortati da un pienone di visite: unica eccezione, e non me la spiego, uno degli ultimi, quello che avevo dedicato all'analisi del cast dell'edizione prossima ventura, un post che ha faticato moltissimo a decollare. Stranezze della rete... Benissimo anche gli approfondimenti sul mondo della tv; gli articoli sul cinema danno alterne soddisfazioni, così come quelli sul calcio, che però ultimamente hanno fatto registrare una discreta crescita di interesse. Genoa e Nazionale azzurra, da sempre temi "caldi" di questo blog, sono seguitissimi, soprattutto l'Italia di Prandelli, comprensibile se si pensa che quello che sta per iniziare sarà l'anno del Mundial brasiliano, evento che cercherò di "coprire" con lo stesso scrupolo dedicato a Euro 2012 e alla Confederations Cup, tempo permettendo.
CREAMY, ANNI70 E... - Tante visite anche per i pezzi sul teatro, le recensioni letterarie hanno rappresentato un esperimento che mi riprometto di ripetere nel corso del nuovo anno, il post su Creamy è stato un atto d'amore per il mondo dei cartoni giapponesi, indelebile ricordo di infanzia e parte importante della mia crescita morale e culturale: non dovrebbe rimanere un episodio isolato, qualcosa ho già in mente, vedremo che si riuscirà a fare. Discorso a parte per il "caso Pagine 70": la scomparsa del celeberrimo sito vintage, da me portata sotto le luci della ribalta già nel 2012, ha continuato a convogliare su questo blog centinaia di visitatori, e da quella massiccia attenzione è nato il progetto di creare un nuovo spazio web dedicato al mitico decennio, che riprendesse in parte la filosofia di quello... inghiottito dai gorghi del web. E' nato così "Anni70.net": un pizzico, solo un pizzico di merito per questo blog che ha sposato in toto l'iniziativa, ideata, costruita e portata avanti dalle decine di reduci seventies rimasti orfani di P70.
RINGRAZIAMENTI - A loro va il mio grazie per aver popolato e animato questo sito; grazie a tutti quelli che leggono e commentano, e un ringraziamento affettuoso e specialissimo a tre persone in particolare: l'indomito Gianni, che nonostante un anno difficile sul piano personale è stato sempre presente, e col quale è bello confrontare le nostre opinioni sui temi a noi cari (calcio, musica, Sanremo) e discutere senza remore delle nostre vicissitudini quotidiane. Grazie a Chiara, la dolce "Impronte" dalla sconfinata inventiva e dalla grande competenza musicale, conosciuta anni fa su un forum dedicato allo scambio di figurine e con la quale il legame di amicizia virtuale sta resistendo al tempo, e ne sono felicissimo; e grazie ad Alessandro, giovane appassionato di calcio di cui mi ha colpito la straordinaria competenza in fatto di tecnica e tattica, e la buonissima capacità di scrittura. Gianni, Chiara e Alessandro: i loro tre blog sono linkati in home page, sulla destra: se vi va dateci un'occhiata, e scusatemi per la pubblicità, ma ogni tanto ci vuole!
SOGNI - Cosa chiedo al 2014? Sul piano personale, salute a parte, un lavoro, e aziende che paghino ai collaboratori ciò che devono, invece di far trascorrere un anno senza farti sapere nulla, per poi farsi inseguire telefonicamente. La figura barbina ce la fanno loro, non certo io che chiedo solo ciò che mi spetta... Per il blog, sarei già contento di difendere con successo le posizioni faticosamente conquistate. Riguardo ai temi trainanti di "Note d'azzurro", beh, cosa vorrei dal calcio italiano l'ho già scritto talmente tante volte che troverei sgradevole ripetermi: chi mi legge sa cosa penso delle brutture del nostro football e cosa vorrei che cambiasse. Idem per la Nazionale azzurra, i cui problemi ho ripetutamente segnalato su queste pagine nell'anno solare. Vorrei un Genoa meno schizofrenico nei movimenti di mercato (e le ultime due campagne acquisti hanno segnato una parziale  inversione di tendenza in questo senso) e soprattutto sul campo (e qui ancora non ci siamo: dopo aver trovato un apparente equilibrio di squadra, di gioco e di risultati col ritorno di Gasperini, nelle ultime settimane si è rivisto il Grifone inaffidabile e poco cattivo delle recenti stagioni. Sveglia!).
Al Festival di Sanremo chiederei un ritorno totale alla centralità della musica:  negli ultimi anni, grazie al duo Fazio - Pagani e soprattutto a Gianmarco Mazzi, si son fatti grossi passi avanti, ma ancora siamo lontani dal rigore artistico che caratterizzò la kermesse fino a metà anni Novanta, prima che la televisione la cannibalizzasse. Già, la tv: questo è il terreno più minato. L'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare, avrebbe detto Gino Bartali. Il piccolo schermo dovrebbe ritrovare il gusto del bello, e il buon gusto tout court: l'uno e l'altro si sono smarriti nei gorghi di trasmissioni di bassa qualità, concepite male e scritte peggio, e animate da personaggi di dubbio talento (discorso che vale, elevato al quadrato, per le fiction di produzione nostrana). Vorrei meno talk show politici, che sono il trionfo del baccano, della retorica, del "predico bene e razzolo male", passerella per politici che passano più tempo davanti alle telecamere che sul loro posto di lavoro (con alcuni di loro ti addormenti la sera e ti risvegli la mattina: che trascorrano le notti negli studi televisivi?). Vorrei una tv che sapesse, per almeno un mese, fare a meno di Al Bano, ma quest'ultimo pare proprio un desiderio irrealizzabile... Buon 2014 a tutti!

sabato 21 dicembre 2013

IL CASO JALISSE: DA 17 ANNI BUSSANO INVANO A SANREMO. DA DON BACKY A MIETTA, GLI ALTRI ESCLUSI DI LUNGA DATA



Entrare a far parte del cast dei Big del Festival di Sanremo è ormai un privilegio riservato a pochi, vista la... cura dimagrante a cui la categoria d'élite della rassegna canora (come anche la sezione giovani, del resto) è stata sottoposta negli ultimi anni: appena 14 posti a disposizione, mentre ci fu un tempo in cui si arrivò addirittura a quota 26. Gli esclusi, quindi, sono fatalmente tanti, e molti di essi, dopo aver esternato ai quattro venti mediatici la loro rabbia o averla faticosamente repressa, non possono che esclamare "sarà per l'anno prossimo!". D'accordo, ma c'è chi "sarà per l'anno prossimo" è costretto a dirlo sistematicamente tutti gli anni, nientemeno che dal 1998. E' lo strano caso dei Jalisse, dei quali ho letto stamane un accorato sfogo sul profilo ufficiale Facebook: "Si avvicina Sanremo - scrivono - Anche quest'anno abbiamo presentato il nostro prodotto. Anzi due, come vuole Fazio. Sono 17 anni e 17 brani inediti che presentiamo, ma non passano". 
Ce ne sarebbe abbastanza per parlare di ostracismo. Non mi piace tranciare giudizi senza conoscere a fondo tutti i fatti e i retroscena, ma di certo la parabola dei Jalisse ha in sé molto di insolito, e un retrogusto che definire amarognolo è forse eufemistico. Stare qui a discutere le scelte della commissione artistica di quest'anno avrebbe poco senso, perché non si conosce la qualità dei brani ammessi alla gara, né quella dei "bocciati". Qualche considerazione la si può invece fare sui Festival del passato: canzoni come "6 desiderio" (2004), "Linguaggio universale" (2007) e "Ritornerà il futuro" (2011), tre tra le tante proposte dai Jalisse, potevano approdare all'Ariston senza scandalo, soprattutto pensando a certi dimenticabilissimi "capolavori" ammessi in concorso in quelle edizioni. 
LA SORPRESA DEL 1997 - Ma chiaramente il discorso è più ampio: diciassette tentativi consecutivi di partecipazione andati a vuoto fanno sensazione. Anche perché Alessandra Drusian e Fabio Ricci, i Jalisse per l'appunto, non sono dei parvenus delle sette note. Sono dei professionisti con alle spalle una lunga carriera, sono musicisti e cantanti preparati ed eclettici, come la loro vasta produzione testimonia. Hanno modalità espressive di grande raffinatezza, sono capaci di recepire le sonorità più moderne di stampo internazionale riuscendo a sposarle con i classici stilemi italiani, in particolare con la melodia coniugata in chiave contemporanea. Hanno anche vinto un Festival di Sanremo, i Jalisse, nel 1997, e da quel momento è iniziata per loro una lotta impari, che li ha visti respinti ai margini dell'arengo della musica da classifica e da rotazione radiofonica.
Il trionfo del duo in quell'ormai lontano Festival rappresentò senz'altro una sorpresa clamorosa, ma avvenne in maniera del tutto cristallina, nel pieno rispetto di un regolamento che, in quegli anni, concedeva alle Nuove proposte in gara nell'edizione precedente di concorrere per la conquista di quattro posti nella categoria "regina". E i Jalisse, debuttanti nel 1996 con la sofisticata ed eterea "Liberami", superarono questa pre - selezione, entrarono fra i Big (assieme a Marina Rei, Silvia Salemi e agli O.R.O.) e sbaragliarono concorrenti più onusti di gloria, conquistando il primo premio. Sorpresissima, ma fu esattamente lo stesso, identico percorso seguito due anni prima da Giorgia: nessuno si scandalizzò, nel '95, e anzi tutti plaudirono, giustamente, alla nascita di una nuova stella che, lo si intuiva, avrebbe segnato la storia della musica italiana. 
ALTRO CHE METEORE... - L'affermazione di "Fiumi di parole" venne invece presa da più parti come il paradigma di ciò che Sanremo non dovrebbe essere. Addirittura anni dopo, ai tempi dei primi trionfi di Fazio sulla Riviera ligure, un importante dirigente Rai esclamò, trionfante: "Abbiamo traghettato il Festival dai Jalisse agli Avion Travel: indietro non si torna". Incomprensibile. Alla base di tutto c'è anche un equivoco di fondo: i Jalisse vengono citati spesso come esempio di meteora sanremese subito caduta nel dimenticatoio, e invece, ancora oggi, anche chi non è a conoscenza del loro (intenso) percorso artistico successivo si ricorda di loro, e ricorda perfettamente "Fiumi di parole" che, piaccia o no ai detrattori, è diventata una evergreen del Festival, e pochi mesi dopo quella "vittoria di Pirro" si comportò molto bene all'Eurovision Song Contest, strappando un bel quarto posto. Era, è, una canzone di buona fattura, un pop brillante e intenso, ottimamente interpretato. Più apprezzata all'estero che da noi, così come il duo che l'ha lanciata.
OLTRE LA CANZONE - Già dall'anno dopo tentarono un ritorno a Sanremo (con "Le cime del Tibet"), ma non ci fu verso, e così successivamente, fino ad oggi. Senza parole. Rimane la soddisfazione di un curriculum comunque di notevole spessore: Alessandra e Fabio han continuato a produrre musica di qualità ma, soprattutto, sono andati oltre la canzone fine a se stessa. Si sono impegnati in ambito sociale e didattico, con progetti come "Artisti nelle scuole", finalizzato allo sviluppo della creatività e alla formazione musicale dei bambini, o iniziative di promozione culturale e turistica del territorio nostrano come "Localitour d'Italia". E ancora, un fortissimo impegno civile: i loro brani, i loro dischi sono spesso il risultato finale di intense collaborazioni con artisti di ogni parte del mondo, per lanciare messaggi di pace e di speranza, per promuovere la difesa dei diritti umani anche nelle zone più martoriate del pianeta... Chi vuol saperne di più può dare un'occhiata al loro sito, www.jalisse.it. Insomma, altro che meteore: i Jalisse sono... sopravvissuti a quel tempestoso 1997, e hanno saputo interpretare il loro mestiere in chiave estesa e altruista, nonostante i "niet" arrivati da Sanremo, che però bruciano ugualmente, e lo si capisce. 
NON SOLO JALISSE: REITANO E GLI ALTRI - E' altresì vero che che, prima e dopo i Jalisse, altri cantanti hanno dovuto subire la freddezza di commissioni e direttori artistici sanremesi. Il povero Mino Reitano, ad esempio, stando ai giornali è stato in lizza per partecipare al Festival quasi ogni anno, nel corso della sua carriera, ma alla fine ha collezionato appena sette presenze, quasi nulla se si pensa alla sua longevità artistica. E che dire di Don Backy, un altro che ci ha tentato spessissimo ma, una volta uscito dal giro dei grandi venditori di dischi (diciamo a inizio anni Settanta) in riviera ha sempre trovato la porte sbarrate? Arrivò al punto, nel '95, di inscenare una protesta plateale, denudandosi davanti al Colosseo per denunciare l'ostracismo decretato nei suoi confronti dalla Rai. 
Little Tony il Festival fu costretto a vederlo sistematicamente in tv,  proprio negli anni in cui suoi coetanei e rivali di antiche battaglie, come Bobby Solo, Fausto Leali e Patty Pravo, videro rifiorire la loro popolarità partendo dal palco dell'Ariston (particolarmente bruciante per lui fu l'esclusione del '94 con il bel pezzo "Dentro ad ogni cosa", poi portato al successo dagli Audio 2). In tempi più recenti ha avuto ragione di lamentarsi Mariella Nava, che per la verità fino all'inizio del secolo di partecipazioni sanremesi ne aveva accumulate un bel po', ma che dopo la brillante comparsa del 2002 con "Il cuore mio" ha visto andare a vuoto i suoi numerosi tentativi (con alcuni gioiellini come "It's forever" e "In nome di ogni donna", che avrebbero meritato di essere ascoltati da una immensa platea come quella della kermesse ligure, così come "Piano inclinato" e "Dimmi che mi vuoi bene", respinte negli anni Novanta). E ancora, Mietta: rimane ancora oggi una delle voci più calde e convincenti della nostra canzone, ha mostrato coraggio e versatilità passando attraverso gli stili più disparati: è incredibile che negli ultimi vent'anni alla cantante pugliese siano stati concessi solo tre passaggi festivalieri, di cui uno come ospite di Morris Albert, nel 2004. Molto discussa fu, in particolare, la bocciatura del 2003: la sua "Abbracciati e vivi", canzone dal sound moderno, in linea con le nuove sonorità anni Duemila, era superiore ad almeno quattro dei motivi ammessi alla gara. 

giovedì 19 dicembre 2013

SANREMO 2014: CAST ECUMENICO, FRA POP, ELITE E QUALCHE AZZARDO DI TROPPO. DA RENGA AI PERTURBAZIONE


Pareva strano, in effetti. Le previsioni dei più attendibili "esperti" in merito al cast dei Big di Sanremo 2014 avevano disegnato, nei giorni scorsi, un "listone" un po' troppo commerciale. Non certo "nazionalpopolare", intendiamoci, ma sicuramente dal deciso sapore pop, con nomi di grandissimo impatto mediatico e di "facile presa", un cast per andare sul sicuro in termini di passaggi radiofonici e di classifiche di vendita. Un cast, in parole povere, poco "faziano". Non poteva essere, e infatti l'annuncio odierno dei 14 "magnifici" che si daranno battaglia in Riviera dal 18 al 22 febbraio prossimi è stato di primo acchito spiazzante. Lo straniamento, va da sé, si attenua molto pensando che il criterio di composizione del cartellone sanremese è stato, né più né meno, lo stesso adottato dodici mesi fa per il Festival 2013. 
CAST A 360° - Del Sanremo di stampo "baudiano" è rimasta l'ecumenicità delle scelte: oggi come allora, la direzione artistica tenta di dar spazio al maggior numero di tendenze possibili, ad accontentare la più vasta gamma di fasce di pubblico. La differenza rispetto al passato è che, se una volta la linea editoriale era quella di privilegiare la tradizione e il classico, oggi si punta con maggior decisione sulla produzione di marca contemporanea, sulle sonorità e sugli stili più in voga. L'inversione di tendenza, in questo senso, l'aveva già data Gianmarco Mazzi nel suo quinquennio di gestione, non ci stancheremo mai di ripeterlo; di loro, Fazio e Mauro Pagani ci hanno messo un coraggio maggiore nell'effettuare scelte sofisticate, quasi d'élite, e quindi a rischio di impopolarità o di scarso peso penetrativo presso i telespettatori e i "consumatori" di musica. 
DRAPPELLO POP - Nel dettaglio, Sanremo 2014 soddisfa la sua anima più pop e glamour con la convocazione di Arisa, Noemi, Francesco Renga, Giusy Ferreri e Francesco Sarcina. Sono tutti big nati negli anni Duemila, con curricula solidissimi, vasta credibilità artistica presso gli appassionati più giovani (ma non solo), modalità espressive radicalmente diverse fra di loro: Renga, in particolare, è una delle voci maschili migliori, per potenza ed estensione, prodotte negli ultimi trent'anni dalla canzone italiana, Noemi e Arisa hanno finora sempre fatto centro nelle loro partecipazioni sanremesi, la Ferreri torna tre anni dopo l'eccellente performance sfoderata con "Il mare immenso" di Bungaro, brano intenso e ben costruito, non ricordato come meriterebbe. Sarcina, infine, riesce finalmente a ricrearsi una verginità dopo il lungo capitolo Vibrazioni, iniziato alla grande (pareva una band destinata a segnare la storia della musica nostrana) e chiuso in tono minore. Stupisce, casomai, la pressoché totale assenza di rappresentanti di quel rap italiano che ha marchiato a fuoco le classifiche di vendita dell'anno solare in via di conclusione. Un Fedez, un Moreno o un Clementino avrebbero rappresentato dei formidabili "acchiappa audience". 
SORPRESA GUALAZZI? - Nella terra di mezzo fra "easy listening di qualità" e "sperimentazione" troviamo personaggi come Frankie Hi - NRG, veterano dell'hip hop italiano, mai banale nelle sue proposte e mai apprezzato per quello che effettivamente vale, poi Giuliano Palma, musicista di straordinario eclettismo (soul, ska, jazz e quant'altro) e un Gualazzi dal quale potrebbe arrivare qualcosa di sorprendente, visto l'abbinamento con The Bloody Beetroots, che frequenta territori musicali radicalmente diversi da quelli finora esplorati dal vincitore di Sanremo Giovani 2011. Più ampio del previsto lo spazio riservato ai veterani:  si faceva da tempo il nome di Cristiano De Andrè, mentre in pochi avrebbero scommesso sul ritorno in pompa magna di Antonella Ruggiero (bocciata l'anno passato) e soprattutto di Ron, che manca dalla ribalta sanremese dal 2006 e pareva essere un po' uscito dal circuito che conta. Perlomeno c'è stata fantasia nelle scelte, visto che ci sono stati risparmiati i nomi dei soliti prezzemolini ultrapresenzialisti all'Ariston e in Rai (anche se l'ex Matia Bazar non è che abbia lesinato le sue partecipazioni alla kermesse ligure, intendiamoci...). 
SCELTE ARDITE - Il resto del cast desta qualche perplessità, non tanto per la qualità degli artisti, quanto per la qualifica di big loro attribuita: Riccardo Sinigallia è ben noto a chi mastica un po' di musica, è attivo a notevoli livelli fin dagli anni Novanta, tuttavia ha sempre, più che altro, operato dietro le quinte, come musicmaker e creativo di notevole brillantezza, collaborando fattivamente al successo di altri nomi assai più popolari (Tiromancino in primis): non è però un cantante di immediata riconoscibilità, se non presso una ristretta cerchia di appassionati ed esperti. Idem per i Perturbazione, gruppo di vasta esperienza, che ha tratto le  maggiori soddisfazioni dai live e da alcune collaborazioni di spessore, mentre il mercato discografico raramente ha riservato riconoscimenti autenticamente tangibili. Ma sono i classici rischi che ogni tanto i vari patron e direttori artistici del Festival si prendono, "forzando" l'ingresso fra i big di personaggi ancora in fase di emersione o provenienti da circuiti alternativi, per cercare di spingerli verso una crescita di notorietà e un mercato più generalista: un po' quello che venne fatto l'anno passato per i Marta sui Tubi. 
Stesso discorso applicabile a Renzo Rubino che, proprio no, big non può essere considerato, visto che l'anno scorso nemmeno ha vinto la categoria Giovani del Festival e non si può certo dire che in questi dodici mesi si sia messo più in evidenza di Antonio Maggio, trionfatore fra le Nuove proposte 2013. Ma Big autentici, ai loro tempi, non lo erano nemmeno Zucchero, o Nek, o Marco Armani o Flavia Fortunato: inserire certi ragazzi nella categoria regina serve per spingerli presso il pubblico, ritenendoli meritevoli di un'affermazione che fatica ad arrivare, per un motivo o per l'altro. Come si evince dai quattro nomi appena fatti, l'azzardo a volte ha esito positivo, a volte no. 
I DELUSI - Detto che giustamente non si è pagato il solito tributo ai vincitori dei talent sulla cresta dell'onda, da The Voice a X Factor (che maturino e facciano altra esperienza, questi ragazzi: Sanremo se lo devono ancora meritare), l'elenco dei non convocati è lunghissimo, come sempre. Stando alle voci girate in queste frenetiche settimane di vigilia, sono rimasti al palo, fra gli altri, Alice (in lizza, pare, con pezzi di Battiato), Syria, Sal Da Vinci, Alex Britti in coppia con Bianca Atzei, il citato Antonio Maggio, Il Cile, Mango, Mondo Marcio, Sergio Caputo, Violante Placido, Anna Oxa, Sergio Cammariere, Mietta e, notizia delle ultime ore, i Jalisse, che, leggo su Facebook, da 17 anni presentano pezzi alle varie commissioni e da 17 anni vengono sistematicamente esclusi. Altri nomi sono stati fatti, ad esempio Nek ed Enrico Ruggeri, ma su di essi non esistono certezze assolute (così come non esistono mai, in generale, sugli esclusi da Sanremo, che spesso non gradiscono comparire in tale veste sui media e quindi preferiscono tenere un assoluto riserbo in merito). Ribadiamolo per l'ennesima volta: con tante richieste di partecipazione, costerebbe davvero tanto aggiungere due posti? Da 14 a 16 Big cosa cambierebbe? 

domenica 15 dicembre 2013

IL TKC TEATRO DELLA GIOVENTU' LANCIA "TRA LE TETTE DELLA FORMICA (SI STA STRETTI)", SITCOM SUL TEATRO IN 12 PUNTATE

                         Gli attori della TKC, protagonisti della serie. Al centro, Eleonora D'Urso

Una sitcom sul mondo del teatro realizzata da una compagnia teatrale. Verosimilmente una primizia assoluta, nel panorama artistico italiano. E non potevano essere che quei... pazzi scatenati della The Kitchen Company a concepire e mettere in pratica una simile idea. Ecco dunque l'insolito fiocco rosa in casa TKC Teatro della Gioventù, nel centro di Genova: nasce "Tra le tette della formica (si sta stretti)", una miniserie comica in 12 puntate distribuite in dvd.
Una novità, si diceva. L'ennesima di una catena che, negli ultimi anni, ha piacevolmente messo a soqquadro il mondo teatrale genovese (e, perché no, quello nazionale tout court): prima l'apertura estiva della sala con spettacoli anche nei mesi della "canicola", poi la doppia rappresentazione giornaliera con la messa in scena  delle ore 19 e ora, per l'appunto, la produzione e il lancio di una sitcom interpretata in toto dagli attori della Kitchen Company. Spieghiamo il titolo, innanzitutto, che riprende un modo di dire equivalente al famoso "In bocca al lupo - Crepi il lupo", anche se meno diffuso: l'augurante dice "Tra le tette della formica" e il destinatario dell'augurio deve rispondere" Si sta stretti!".
La serie accende i riflettori sulla caotica e surreale vita di una compagna teatrale: è un primo tentativo di catturare, con la macchina da presa, ciò che accade nel mondo fascinoso, imprevedibile, a tratti paradossale, del teatro. E chi meglio di persone che nel teatro ci lavorano, e di teatro di fatto vivono, poteva lanciarsi in questa innovativa e audace impresa quasi... autobiografica? Deus ex machina del progetto è Eleonora D'Urso, direttore artistico (assieme a Massimo Chiesa) del TKC e, nello specifico, produttrice, sceneggiatrice, regista e interprete della sitcom. "Da almeno due anni - confida - sognavo di mettere in piedi un'operazione come questa. La vedevo come l'evoluzione naturale di un affiatamento, quello fra me e gli attori della TKC, che questi sei anni di attività insieme hanno reso inossidabile e piacevole. Lavorare con questi ragazzi mi rende felice, scrivere soggetti per loro e interpretarli al loro fianco è bellissimo, mi appaga e mi dà stimoli sempre nuovi". 
Il linguaggio di "Tra le tette della formica" è quello dello humour, della comicità, il più congeniale al recente percorso artistico, autoriale e attoriale sviluppato dalla D'Urso e dalla sua "squadra": con ironia, in... punta di sorriso, vengono messe alla berlina bizzarre abitudini, rivalità, sogni, istrionismi, disturbi della personalità e riti scaramantici di una scombiccherata compagnia di attori, il cui obiettivo è scrivere e mettere in scena una romantic comedy destinata a sbancare i botteghini. Si riderà, dunque, anche se non si tratta di una comicità chiassosa, di grana grossa, sullo stile di certe arene televisive: occhio, ammoniscono i ragazzi della TKC, ad attendersi una risata ogni dieci secondi, una sarabanda continua di battute come avviene in certi telefilm americani: si resterebbe delusi. Eccesso di prudenza, a parere di chi scrive: visionata la prima puntata, si può tranquillamente dire che i momenti di ilarità sono assai frequenti, frutto di un umorismo arguto eppure alla portata di tutti, di tempi comici perfetti e di una eccellente alchimia fra i personaggi.
Si punta, dunque, sull'accentuazione un po' caricaturale degli aspetti più singolari, divertenti  e grotteschi di fare teatro e di chi fa teatro, ma ci sono anche, pur alleggeriti in chiave sdrammatizzante, tanti elementi narrativi riconducibili ai problemi di oggi e di sempre dell'universo teatrale, dalle difficoltà dei giovani attori alle prime armi a quelle di realizzazione  e rappresentazione di uno spettacolo. E' un esperimento, d'accordo, ma fatto con tutti i crismi tecnici e di messa in scena; non è una "web serie", alcune delle quali si caratterizzano per pecche notevoli di scrittura e recitazione: è il frutto, dice ancora la D'Urso, "del lavoro di una realtà produttiva consolidata e affiatata, fatta di attori giovani e preparati e di figure professionali che da due anni rendono possibile ciò che qui sta accadendo". 
La serie non viaggerà in web streaming (i trailer si possono comunque visionare sul canale You Tube della The Kitchen Company), né è stato chiesto un "diritto di antenna", non sono stati cioè cercati partner tv per la messa in onda: è una serie nata in teatro e che attraverso il teatro verrà diffusa. Il primo dvd, con la prima puntata  e un contenuto "extra", è infatti già in vendita, a soli 5 euro, presso il botteghino del TKC, e prossimamente sarà acquistabile anche online sul sito del teatro. Gli altri seguiranno. Accanto a Eleonora D'Urso, recitano in "Tra le tette della formica" Marco Zanutto, Daria D'Aloia, Fabrizio Careddu, Carlo Zanotti, Barbara Alesse, Luca Sannino, Daniela Camera e Martina Lodi. 

venerdì 13 dicembre 2013

LE MIE RECENSIONI: ZALONE IN "SOLE A CATINELLE", UN FILM... ORECCHIABILE


Dunque, ho visto "Sole a catinelle". L'ho visto perché, piaccia o non piaccia, sul piano commerciale è stato il fenomeno cinematografico italiano del 2013, e alla nascita di questo fenomeno ho in pratica assistito in presa diretta. Alcune settimane fa, prese forma davanti ai miei occhi l'oceanico assalto ai botteghini in una delle prime giornate di proiezione della terza opera di Checco Zalone. Ero in coda per vedere un altro film, ma quella massa di gente di ogni età mi colpì, inevitabilmente. Scoprire i segreti di questo travolgente successo è impresa ardua: certi boom a volte nascono per caso, o sono comunque figli di fattori e contingenze che esulano dalla mera qualità artistica della pellicola. Lo stesso, del resto, avviene in un altro settore "pop" dalle tendenze molto ondivaghe e difficilmente inquadrabili, quello della musica leggera, con canzonette di scarsa consistenza autoriale che diventano autentici tormentoni planetari (ricordate il modesto "Gangnam style" che, giusto l'anno scorso di questi tempi, ci veniva proposto in tutte le salse ovunque, dalla radio a Internet, persino nei telegiornali?). 
FACILE PRESA - Se proprio si volesse azzardare una spiegazione, si potrebbe dire che nel mondo della canzone sfondano più sovente l'immediatezza e la semplicità, e lo stesso criterio si può applicare alla celluloide. Ecco, con una forzatura linguistica "Sole a catinelle" può essere catalogato come un film... orecchiabile, di facile presa, e come tale costruito su misura per conquistare la vetta della hit parade. Attenzione: non siamo di fronte a una "trashata" indegna, come molti l'hanno aprioristicamente bollata. "Sole a catinelle", diretto da Gennaro Nunziante, è un prodotto onesto e pulito: tiene fede alle premesse, perché si ride, si ride davvero. I cali di "tensione comica" sono ben pochi, e soprattutto ben poche volte si scade nella trivialità "dura e pura" per strappare il sorriso allo spettatore.  Zalone conosce il mestiere e lo ha affinato negli anni: è uno "zelighiano" atipico, nel senso che, al contrario di molti dei colleghi con cui ha condiviso il popolare palcoscenico Mediaset, è in grado di sopravvivere decorosamente anche al di fuori dello show campione di ascolti televisivi. 
NON SOLO ZELIG - Non è un cabarettista da tormentoni, uno di quelli, per l'appunto, che fanno la fortuna di programmi come il citato "Zelig", o il vecchio "Drive in" o, ancora, il nuovo "Made in Sud", ma che tolti da quel meccanismo rigidamente schematico finiscono col boccheggiare come pesci fuor d'acqua: Checco ha un repertorio più ampio e articolato, sia pure con certi capisaldi, dall'ostentata e artefatta ignoranza linguistica a certi pregiudizi tipici di un'italianità non ancora scolarizzata o culturalmente arretrata, fino a un pizzico di sbrigativa perfidia nell'affrontare argomenti non facili; in più, la solita pennellata musicale, un suo marchio di fabbrica, con la canzoncina "finto - seria" o ironica tout court, eppure costruita con la perizia tecnica di una vera hit commerciale (nel caso specifico, "Superpapà", orecchiabile sigla del film). 
IRONIA NON OFFENSIVA - "Sole a catinelle" non ha in sé molto di originale, il canovaccio è semplice e lineare, ma fa leva sull'attualità più stretta, sul dramma del restare senza lavoro, della crisi professionale che finisce col riverberarsi anche sulla famiglia, mettendo a repentaglio annosi legami affettivi. Poi, certo, il dramma vira ben presto in farsa, ma non nego che nelle battute iniziali del film il sottoscritto abbia persino avvertito un vago senso di malinconia, un certo magone di sottofondo, perché parlare di licenziamenti e di difficoltà a sbarcare il lunario di questi tempi è pur sempre un pugno nello stomaco. Zalone e la sua squadra riescono ad alleggerire un tema pesante, ispido, ma lo fanno in modo non offensivo, ironizzando il giusto e offrendo sempre una chiave di lettura ottimistica, un voler cercare lo sbocco positivo anche in situazioni dai risvolti amarissimi. Intrecci narrativi per palati facili e lieto fine assicurato, ma vi è qualcosa di disdicevole in tutto ciò? Altri registi, altri attori sviscereranno in modo crudo la piaga della disoccupazione galoppante. Zalone invita al sorriso e, ripeto, lo fa con misura, da battitore libero, giocando sempre sul filo del "politicamente scorretto", com'è suo costume, ma senza pesantezza e riuscendo comunque a non minimizzare, a non "svuotare" del reale significato la difficile situazione sociale rappresentata,.
OTTIME SPALLE - Tuttavia, non siamo davanti a un "one man film", e questo è un altro punto a favore della pellicola. Zalone è ovviamente il mattatore, ma si è saputo circondare di spalle all'altezza. Il termine "spalla" va sottolineato, perché, certo, l'unico protagonista è lui e gli altri fanno contorno, ma è un contorno sostanzioso, attivo. Bravissimi i due bambini, Robert Dancs che impersona Nicolò, lo studiosissimo figlio di Checco, davvero un mostro di abilità recitativa, così come Ruben Aprea nei panni di Lorenzo, il "ragazzino problematico" (l'espressione è usata da Checco, a proposito del mutismo selettivo da cui il piccolo è affetto): due mini attori che potrebbero dare lezioni a tanti interpreti di alcune sciape fiction Rai e Mediaset, gonfie di prove attoriali "adulte" francamente imbarazzanti. 
Ho rivisto con piacere Valeria Cavalli, che ricordo come valletta, assieme alla splendida Jinny Steffan, ai tempi dello show di Raiuno Fantastico 4, quello con Gigi Proietti e Teresa De Sio. E Marco Paolini, mai sopra le righe, riesce a ritagliarsi una sua credibilità scenica anche al di fuori del contesto di "teatro civile" che ormai è il suo brodo di coltura ideale. Basta tutto questo a spiegare pienamente il tutto esaurito di "Sole a catinelle"? No, chiaro, ma va anche detto che far comicità, in Italia, pare essere diventata oggi un'impresa titanica. Zalone è uno dei pochi in grado di riuscirci in maniera organica, e non solo con il rapido sketch "one shot": che il pubblico si precipiti a guardarlo non è, in fondo, più di tanto sorprendente. 

giovedì 12 dicembre 2013

CALCIO ITALIA, DISASTRO CHAMPIONS, RESTA SOLO IL MILAN: ORA SI RISCOPRIRA' L'ODIATA EUROPA LEAGUE?

                           Sotto la neve di Istanbul è svanito il sogno Champions della Juve

Beffarda legge del contrappasso. Dopo aver ignobilmente snobbato per anni l'Europa League, considerata solo un fastidioso ostacolo alle imprescindibili sfide della Serie A, nel 2014 il calcio italiano dovrà riversare anima e corpo sulla "parente povera" della Champions League. In soldoni, Napoli, Juventus, Fiorentina e Lazio dovranno fare più strada possibile, e almeno una di esse arrivare fino in fondo e vincere la finale di Torino. E' un obbligo morale e tecnico, per tenere a galla la pericolante zattera del pallone tricolore, quasi totalmente cancellato dall'Europa dei grandi in una serata che resterà nella storia come una delle più nere di sempre per il nostro football.
JUVENTUS GAMBERO - Siamo di fronte, a questo punto lo si può dire, a qualcosa di assai peggiore di una prolungata congiuntura sfavorevole. Il rischio di un ridimensionamento epocale è dietro l'angolo. La distanza fra le grandi potenze continentali e il nostro scalcinato movimento sta diventando una voragine. La cartina di tornasole non può che essere il comportamento della nostra più prestigiosa rappresentante nel consesso internazionale, la Juve biscudettata e avviata a conquistare un tris che però, visto quanto successo a Istanbul, avrebbe uno sgradevole retrogusto agrodolce. Svaniti nel nulla i progressi fatti balenare nella stagione passata, quando i bianconeri ottennero vittorie di peso (un roboante 3 a 0 al Chelsea, dopo aver pareggiato a Londra, un successo in casa dello Shakhtar, doppia affermazione sul Celitc negli ottavi), e si arresero solo, nei quarti, al devastante Bayern Monaco della primavera scorsa, quello che mise a ferro e fuoco il Camp Nou per poi aggiudicarsi il trofeo. Sembrava un buon trampolino di lancio per una ulteriore risalita nei valori continentali, che doveva esser favorita dall'arrivo di un top player come Tevez, invece c'è stato un regresso netto, imbarazzante e, per certi versi, incomprensibile. 
LA STRANA TIMIDEZZA DEI CALIFFI AZZURRI - Le polemiche sulle condizioni atmosferiche e ambientali trovate in Turchia sono talmente gratuite da risultare fastidiose: è stato tutto il girone della Juve a essere scandaloso. Una squadra che vuole ben figurare in Champions deve battere il Copenaghen a domicilio, concretizzando almeno una delle innumerevoli palle gol costruite, e deve ottenere almeno quattro punti su sei contro un  Galatasaray che, sul piano della classe complessiva, non vale i torinesi, pur potendo contare su alcuni elementi di valore e di esperienza come Sneijder e Drogba.
L'eliminazione è ineccepibile, e rappresenta una bocciatura inattesa anche per il nucleo azzurro della Juve: inattesa perché i vari Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Marchisio e Pirlo in Nazionale non solo fanno sempre decorosamente la loro parte, ma risultano sovente trascinatori e sono stati spesso decisivi nei traguardi conquistati in questi tre anni dal team di Prandelli. Quando tornano in bianconero e vengono chiamati a far la voce grossa fuori dai patrii confini, diventano degli agnellini (sic!): la stessa cosa accadeva spesso a loro illustri predecessori, penso al gruppo bianconero dell'Italia di Bearzot, ai vari Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea e Tardelli che in Europa non brillarono affatto, prima di diventar campioni del mondo in Spagna e di poter accogliere fra le loro file fuoriclasse esteri come Platini e Boniek, coi quali fecero incetta di allori. Questo per dire che si tratta di una strana tara storica per la Vecchia Signora, senonché molti esponenti del citato blocco italiano, dopo il Mondiale dell'anno prossimo, cominceranno la loro parabola discendente, e dunque questa Champions League rappresentava forse la loro ultima occasione ad altissimi livelli. 
NAPOLI, CHE INGIUSTIZIA; MILAN IN TRINCEA - Certo, poi c'è il caso del Napoli: eliminazione che non fa un piega a termini di regolamento, ma moralmente inaccettabile: la squadra di Benitez ha tenuto alto il nome del nostro declinante football sia sul piano del gioco sia su quello dei risultati: quattro vittorie e due sconfitte, battuti in casa l'Arsenal e i vicecampioni d'Europa del Borussia, l'unica gara veramente sbagliata è stata quella di Londra ma, insomma, non si vede cosa dovessero fare di più i partenopei per passare: loro fuori con dodici punti, mentre la Juve, tanto per dire, ha rischiato di passare con sette, prima della rasoiata finale di Sneijder. Ha rischiato grosso anche il Milan, se quella rovesciata di Klassen all'ultimo secondo fosse stata più precisa di un paio di centimetri: i rossoneri si sono qualificati senza gloria, costretti a una battaglia in trincea contro un Ajax giovane e senza stelle, un atteggiamento solo in parte giustificato dall'inferiorità numerica causata dalla grave scorrettezza di Montolivo (il cui momento difficile, anche in azzurro, si sta prolungando pericolosamente): lo scintillante Milan europeo costretto a far mucchio dietro per salvare lo zero a zero, come le squadre italiane facevano fino ai primi anni Ottanta: tristezza assoluta, e consapevolezza che al momento un quarto di finale rappresenterebbe, per gli uomini di Allegri, un traguardo eccezionale. 
DIVARIO - Torniamo al punto di partenza: il divario con i club delle tre nazioni più potenti è sempre più ampio, al momento direi incolmabile. I motivi di questo crollo di competitività sono stati elencati più volte su questo blog, non voglio risultare stucchevolmente ripetitivo. Il problema contingente è che anche al cospetto di paesi nostri "pari" o inferiori, calcisticamente parlando, le squadre italiane faticano: per fare un esempio, la superiorità di Juventus e Milan nei confronti di Galatasaray e Ajax è evidente, ma non tanto schiacciante da consentire loro di giocare con autorità e onorare il pronostico favorevole.
Non ci sono più certezze, insomma: siamo arrivati a un punto in cui i club nostrani possono perdere con chiunque e vincere solo con qualcuno: l'emblema della decadenza. E allora, ripetiamo, non rimane che l'Europa League: il contingente azzurro, almeno in questo ambito, è di primo piano, e il messaggio è di quelli da non sottovalutare: per lavare i propri peccati, per ripartire da zero e ricominciare la scalata, l'Italia del calcio deve tornare ad apprezzare le piccole cose, nella fattispecie a dare il giusto rilievo all'odiata "coppa minore", come all'estero fanno da anni e con ottimi risultati in tema di ranking Uefa: riusciranno, i nostri scalcinati eroi, a immergersi in questa nuova e più spartana dimensione europea mettendo, una volta ogni due settimane, l'adorata e svalutata Serie A in secondo piano?  Stai a vedere che adesso si scoprirà che all'handicap della partita al giovedì si potrà ovviare con adeguati posticipi ad hoc... 

lunedì 9 dicembre 2013

CAGLIARI - GENOA, IL MARTIRIO DI MANFREDINI E QUELLI CHE "GLI ARBITRI ITALIANI SONO I MIGLIORI AL MONDO"

                                       Gasperini: rabbia per l'ingiusto ko di Cagliari

Fra i problemi che minano alle fondamenta il buon funzionamento del sistema calcio Italia non ci sono solo il teppismo dilagante (con annesso strapotere degli ultras negli stadi), l'inadeguatezza degli impianti e delle modalità di accesso agli stessi per i tifosi "normali", la discutibile gestione finanziaria di molte società, le scommesse e le partite truccate, l'esterofilia dilagante e il conseguente semiabbandono dei vivai. Su "Note d'azzurro" lo scrivo da sempre: anche la sconfortante modestia complessiva della nostra classe arbitrale rappresenta un pericolo per il football, per una ragione molto semplice: un fischietto che, con le sue decisioni sbagliate, indirizza e condiziona lo svolgimento di un match, incrina pesantemente la credibilità di tutto il baraccone. Lo ribadisco oggi, all'indomani dell'amena direzione di gara del signor Giacomelli in Cagliari - Genoa, ma non è solo questione di tifo: avrei potuto scriverlo tranquillamente dopo l'ultimo Sampdoria - Torino, con l'incredibile 2 a 0 negato a Pozzi perché Gervasoni aveva deciso di chiudere il primo tempo dopo la respinta del portiere su punizione di Palombo; l'ho scritto dopo l'assurdo Genoa - Milan della stagione scorsa, con rigori in serie negati ai rossoblù, e dopo la Supercoppa italiana 2012 fra Juventus e Napoli. 
Non è una posizione critica comoda, me ne rendo conto, nel Paese dell'ipocrisia e dei luoghi comuni applicati al pallone, di frasi fatte del genere "gli arbitri italiani sono l'unica parte sana di questo ambiente", "gli arbitri italiani sono i migliori al mondo", "a fine stagione torti e favori arbitrali si compensano per tutte le società". Una marea di belinate, diremmo a Genova. La verità è drammaticamente diversa: a parte poche eccezioni, i fischietti italici navigano nella più desolante mediocrità, in un livello medio - basso: mancanza di uniformità, buon senso ed elasticità nell'applicazione del regolamento, scarsa personalità e conseguente sudditanza psicologica (al cospetto delle big soprattutto, ma a volte anche di fronte a "fattori campo" particolarmente infuocati e pressanti), deprecabili manie di protagonismo. Gli arbitri che salgono in cattedra, gli arbitri che indirizzano l'esito di un incontro sono la negazione stessa dello spirito, del senso della loro professione. Un arbitro è come un giudice in un tribunale, il suo errore non è paragonabile a quello di un calciatore, ossia di una delle due parti in causa: è il giudice supremo del gioco, deve rasentare l'infallibilità, e per farlo deve essere preparato in maniera maniacale. 
Il Giacomelli di ieri non lo era: l'espulsione del genoano Manfredini, strattonato a lungo  in area da Daniele Conti, è roba da radiazione dall'albo. A corredo, altre decisioni penalizzanti nei confronti del Grifone (la mancata sanzione ad Avramov per la trattenuta a Biondini). Altri ne hanno parlato in lungo e largo, persino il Corriere della Sera: inutile dunque infierire, se non per rilevare come certe persone dovrebbero essere accuratamente tenute lontane dai campi di calcio, e non solo da quelli professionistici. Arbitrare non fa per loro, se ne facciano una ragione. Così come non faceva per certe vecchie giacchette nere che, dopo essersi coperte di ben poca gloria in carriera, continuano a pontificare dagli schermi della tv di Stato, cianciando a vanvera di "espulsione giusta per Manfredini".
Rimane la sensazione, per il Genoa, di un possibile decollo verso un campionato più tranquillo frenato né dalle proprie debolezze né dalla superiorità avversaria. A parità numerica, il team ligure aveva trovato il vantaggio e lo aveva gestito con sufficiente disinvoltura, rischiando il giusto (cioè pochissimo). Rimasto in dieci, si è difeso ma non in modo del tutto passivo, cercando lo spiraglio per il contrattacco e andando persino a sfiorare il raddoppio con una splendida conclusione di Antonelli, sventata dal citato Avramov. Poi, chiaro, i sardi hanno assediato, ma Perin aveva sfoderato la consueta sicurezza degli ultimi tempi (al momento attuale, il giovanotto rossoblù dà più garanzie di almeno uno dei tre portieri azzurri designati per il viaggio in Brasile, a voi indovinare quale... Ma per la Nazionale se ne parlerà da luglio in poi). 
Insomma, una vergogna. La gara di Cagliari era una di quelle che possono dar la svolta a una stagione, ed è stata fallita senza colpe, dopo averla condotta per larghi tratti. A chi dice che nel calcio italiano troppo spesso si dà agli arbitri la colpa delle proprie défaillances, rispondo che può essere vero anche il contrario, ossia che spesso basta un uomo vestito di giallo, o di fucsia, o di quel che è, per mandare a monte il lavoro di una settimana di allenamento. Nel Genoa attuale si vede pesantemente la mano di Gasperini, è un complesso compatto, agonisticamente sempre sul pezzo, con lo spirito giusto e con un canovaccio tattico plausibile. C'è coraggio, c'è un'idea di gioco, ci sono giocatori chiave in stato di grande ispirazione (il citato Perin, Antonini, Matuzalem, Kucka e un Gilardino sempre più inebriato dal profumo del Mundial). E' una squadra che non fa più tremare il tifoso, un undici che quando scende in campo dà la sensazione di poter vincere, o quantomeno di potersela giocare, con chiunque, laddove fino a un paio di mesi fa trasmetteva solo insicurezza e paura. Ma se non vieni messo nelle condizioni di giocarti le tue chances ad armi pari, tutto ciò conta poco. 

sabato 7 dicembre 2013

BRASILE 2014, IL SORTEGGIO: GIRONE DI FERRO PER L'ITALIA, SCANDALO FRANCIA MA... GLORIA A CHI VINCE!

                               Argentina '78: allora come oggi, girone di ferro per gli azzurri

E' lecito discutere della bontà o della crudeltà di un sorteggio mondiale, quando quattro anni fa la spompatissima Italia di Lippi, da campione in carica, riuscì nella stratosferica impresa di arrivare ultima in un girone di pasta frolla con Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda, col riprovevole ruolino di marcia di due pareggi e un ko? Ragionevolmente no, così come non sono ammesse troppe recriminazioni sulla qualifica di testa di serie negata alla nostra rappresentativa: bastava battere l'Armenia, ciò che una Nazionale come quella di Prandelli, per caratura tecnica (lasciamo perdere il blasone) dovrebbe essere in grado di fare sempre, quasi per dovere morale. E dunque, non è il girone di ferro toccatoci in sorte (Uruguay e Inghilterra, con la novità Costarica) a fare rabbia, quanto l'odiosa mossa geopolitica che ha consentito alla Francia di reinserirsi in una fascia di squadre che non le spettava, essendo risultata la peggiore europea sulla base del ranking FIFA di ottobre (considerato invece Vangelo assoluto per la designazione delle teste di serie): per ripescare i transalpini, due giorni prima della composizione dei gironi, si sono inventati un'urna europea di nove squadre (dovevano invece essere otto), con conseguente pre - sorteggio per escluderne una e spedirla nella fascia più debole, quella che sarebbe dovuta toccare "di diritto" ai Bleus; l'ulteriore giro di bussolotti ha penalizzato gli azzurri, costretti a scendere di un'altra posizione nelle gerarchie non per proprio demerito, ma per una forzatura senza alcun fondamento logico che dovrebbe destare scandalo e indignazione fra gli amanti di questo sport. 
COME NEL '78 - Alla Francia, arrivata al Mundial brasiliano per il rotto della cuffia dopo un affannoso playoff con l'Ucraina, è così toccata in sorte una partenza soft con Svizzera, Ecuador e Honduras. Per l'Italia, l'atmosfera al calor bianco di un girone di ferro che da tempo, in sede iridata, non respiravamo. Era stato piuttosto duro l'avvio di Germania 2006, contro Ghana, Stati Uniti e Repubblica Ceca (soprattutto africani e cechi all'epoca schieravano formazioni di altissimo spessore), ma per trovare una prima fase così impegnativa occorre risalire, nientemeno, ad Argentina '78, quando l'urna ci recapitò assieme alla Francia dell'astro nascente Platini, all'Ungheria degli spauracchi Nyilasi e Torocsik e ai padroni di casa, predestinati al trionfo. All'indomani di quel verdetto, all'apparenza infausto, il Guerin Sportivo titolò: "Gloria a chi vince - Un girone difficile ma anche affascinante", schierando in copertina una Gloria Guida vestita d'azzurro. Le cose andarono decisamente bene, ed è giusto ripetere oggi l'auspicio, anche se cullarsi sulla convinzione che l'Italia dia sempre il meglio contro le squadre forti potrebbe essere pericoloso: del gruppo di Prandelli abbiamo diffusamente parlato in questi anni, "Note d'azzurro" ne ha a lungo esaltato i pregi e ne ha dovuto registrare, negli ultimi mesi, il progressivo appannamento. 
MOLTO DA LAVORARE - Ci sarà ampiamente modo, nei prossimi mesi, di tornarvi sopra, ora vale solo la pena sottolineare che la squadra ha manifestato limiti di varia natura (squilibri tattici, difesa esposta alle intemperie, scarsa tenuta fisica e psicologica, discontinuità nella manovra, regresso sul piano della qualità di gioco) tali da non poterci far dormire sonni tranquilli: allo stato delle cose, un esordio contro l'Inghilterra è una delle cose peggiori che potessero capitarci, così come va sottolineato che, se i nostri sapranno recuperare la brillantezza messa in mostra fino a Euro 2012 (quando gli inglesi li prendemmo letteralmente a pallonate, passando però solo ai rigori) e in qualche sporadica occasione nell'ultimo anno e mezzo, il girone D lo si potrebbe addirittura vincere, perché le risorse di spirito, classe e personalità internazionale non ci fanno difetto. Dopodiché, superate queste terribili forche caudine, potrebbe toccarci un ottavo teoricamente morbido (proprio come in occasione del nostro ultimo alloro iridato, sette anni fa), andando a incrociare il gruppo C con Colombia, Grecia, Costa d'Avorio e Giappone (anche se i sudamericani si presenteranno con una delle formazioni più scintillanti della loro storia, e potrebbero essere una delle sensazioni della Coppa, assieme al rifiorito Belgio).  
POCO RIGUARDO PER LE GRANDI - Sul resto del quadro uscito dall'inutilmente lunga cerimonia brasiliana, sorprende il trattamento riservato a tre delle quattro favorite della vigilia: la Spagna campione in carica dovrà addirittura esordire ripetendo la finalissima di quattro anni fa con l'Olanda, schiacciasassi in fase di qualificazione, mentre Cile e Australia non possono certo considerarsi comodi materassi. La Germania aprirà le danze col Portogallo di un Cristiano Ronaldo all'apice della carriera (meglio avere lui che il sopravvalutato Ibra al Mondiale, non ci sono dubbi) e poi dovrà vedersela con Stati Uniti e Ghana, mine vaganti che negli ultimi tornei sono state capaci di regalare exploit clamorosi anche contro avversarie più reputate. E lo stesso Brasile non ha la strada spianata verso il secondo turno, perché Croazia, Messico e Camerun non vanno a formare un percorso cosparso di rose: squadre solide ma non eccezionali, del tipo di quelle che, consapevoli dei loro limiti, danno il massimo nelle prime gare, rischiando di far saltare il banco (l'Italia ne sa qualcosa, basti ricordare le sofferenze patite proprio contro croati e messicani al mondiale nippo - coreano del 2002). 
Insomma, sulla carta ci è andata male ma siamo in buona compagnia e la sensazione è che nessuna delle grandi (la Francia, al momento, non lo è) possa sentirsi totalmente al sicuro. Ecco, l'unico aspetto positivo di questo sorteggio rivoluzionato, con teste di serie del tutto inedite, è forse questo: non ci sono più intoccabili, non basta più cullarsi sugli allori passati, bisogna stare sempre "sul pezzo", dare il massimo anche nelle partite di qualificazione in apparenza scontate, e nelle amichevoli (quelli che scrivevano "non servono a niente, se non per interrompere il campionato" ora sono serviti). Metodo discutibile e non privo di controindicazioni (vedasi il generale squilibrio nei giorni di questa Coppa del Mondo, con il citato gruppo C, il gruppo E della Francia o l'H con Belgio, Algeria, Russia e Corea del Sud, o ancora l'Argentina alle prese con Bosnia, Iran e Nigeria), però almeno quello del ranking è un criterio che si fonda su parametri oggettivi, laddove in passato le teste di serie venivano designate secondo criteri piuttosto ballerini: l'albo d'oro, il piazzamento nel precedente Mondiale, i risultati nelle qualificazioni... Il Brasile, per dire, ha continuato ad essere testa di serie ininterrottamente anche nei 24 anni, dal '70 al '94, in cui non ha più vinto la Coppa: non il massimo della giustizia. Solo che il ranking è stato tradito col discutibile trattamento riservato alla Francia, e allora...