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martedì 29 luglio 2014

LA CORSA ALLA FIGC: MA NON SI PUO' PROPRIO FARE A MENO DI TAVECCHIO?

                                    Albertini: candidato più credibile di Tavecchio

E se, alla fine, l'orripilante scivolone dialettico di Carlo Tavecchio (su una buccia di banana, è proprio il caso di dire) si rivelasse una mano santa, mettendo fuori gioco il più improponibile dei candidati alla guida della Federcalcio? Il 71enne lombardo, che sogna di prendere in mano le redini del pallone tricolore in uno dei momenti più critici della storia del nostro football, si è attirato le ire di... tutto il mondo, tranne che della maggioranza dei grandi elettori del Palazzo pallonaro. Si è pronunciata perfino la Comunità Europea, mentre la FIFA ha inviato una lettera in via Allegri chiedendo ufficialmente l'apertura di una indagine sulle parole pronunciate dal suddetto (Opti pobà e dintorni...). La FIFA è l'organismo che governa il calcio planetario: sarebbe come se contro un sindaco di una città italiana, colto in fallo per qualsivoglia motivo, prendessero posizione il Presidente della Repubblica e/o il Presidente del Consiglio. In un "Paese normale" (espressione abusata, ma mai come in questo caso calzante a pennello) tale primo cittadino dovrebbe togliere le tende nel giro di poche ore, al massimo pochi giorni; allo stesso modo, in un calcio normale, il Tavecchio dovrebbe prendere atto delle (giustificate) perplessità della Federazione internazionale, nonché dell'insostenibilità della propria posizione, e farsi da parte. 
IL PAESE NORMALE - In un Paese e in un calcio normale, già: ma la normalità, l'Italia e il suo pallone, l'hanno persa di vista da tempo. Tavecchio viene "messo sotto osservazione" da parte dell'ente a cui un domani, se diventasse gran capo della FIGC, dovrà far riferimento e rendere conto, ma lui continua imperterrito per la sua strada, e la grande maggioranza dei presidenti di A lo segue in questa folle avventura. Nulla di strano, in fondo: dinamiche viste e riviste nel triste Parlamento nostrano. L'impazzimento di questa sventurata nazione è ormai fuori controllo: e, si badi, non sto parlando di moralità, ché lezioni di questo genere non mi sento in grado di darne a chicchessia, ma di una banale questione di opportunità; diciamo addirittura, usando un parolone, di senso delle istituzioni. Basterebbe anche solo il problema della "forma", pur se potrebbe sembrare un esercizio di vuota ipocrisia: però chi aspira ad occupare un ruolo politico (sì, politico) di primissimo piano deve avere quantomeno la capacità di esprimersi in maniera appropriata, pesando le parole e i concetti, contando fino a dieci prima di profferire frasi infelici, manifestando una sensibilità superiore a quella della "gente comune". Dovrebbero essere le basi del mestiere, di un mestiere in cui spesso la forma è anche sostanza. 
MENTALITA' - Ma ovviamente c'è di più: ripeto, nessuna lezioncina morale, ma semplicemente la constatazione di un modo di parlare e di pensare vecchio (nel senso deteriore del termine), che poteva essere tollerato al massimo fino agli anni Settanta, quando nessuno trovava sconveniente che fin dalle scuole elementari certi bambini usassero termini come "handicappato" o "gay" a guisa di insulto: modi di approcciarsi alla realtà che oggi andrebbero considerati fuori dal mondo e dal tempo. La nostra civiltà aspira all'eguaglianza, al superamento di ogni tipo di discriminazione, e lo sport dovrebbe essere il più convinto portabandiera di questa istanza. E chi, da domani, sarà chiamato a guidare il più seguito, il più popolare degli sport, dovrà avere una forma mentis più aperta e contemporanea, ciò che non mi pare traspaia dal già celeberrimo discorso di Tavecchio, che fornisce la chiave di lettura più superficiale e odiosa a un problema indubbiamente esistente, quello dell'importazione selvaggia di calciatori stranieri di modesto livello che hanno finito per riempire anche i nostri vivai. 
PROGRAMMI - Il ricambio ai vertici federali, in una gravissima fase congiunturale che ha portato a un brusco ridimensionamento dell'italico football, rappresenta un problema serio e delicatissimo, tale da non poter tollerare certi incidenti di percorso. Sarebbe piuttosto necessario parlare di programmi, quello del presidente della Lega Dilettanti e quello del suo competitor, Demetrio Albertini. I punti cardine, generici come in ogni manifesto elettorale che si rispetti, accomunano i due rivali: riforma e snellimento dei campionati professionistici e valorizzazione dei virgulti dei nostri settori giovanili. Entrambi puntano su un rilancio in grande stile del Settore tecnico di Coverciano, Tavecchio vagheggia le Academy in stile francese e tedesco, mentre l'ex centrocampista di Milan e Nazionale spinge per l'istituzione delle squadre B (modello spagnolo) e sulla presenza di almeno dieci ragazzi del vivaio nelle rose delle prime squadre. I progetti di Tavecchio non sembrano, dunque, tanto più arditi, convincenti e articolati di quelli dell'ex vicepresidente federale, certo non al punto di giustificare la massa di voti che sembra dover convergere sul candidato nell'occhio del ciclone: ma la sensazione è che tutto questo conti, e conterà, ben poco. La questione è eminentemente politica, i soliti intrecci di appoggi e di alleanze che da decenni zavorrano le nostre istituzioni, non solo quelle sportive, portando a un eterno immobilismo. 
CLASSE DIRIGENTE DA PENSIONARE - E' perfino inutile soffermarsi troppo sul presunto "curriculum" di Tavecchio, sui suoi precedenti... inciampi con la giustizia elencati minuziosamente in un recente articolo del Fatto Quotidiano: l'interessato ha inviato una lettera di smentita e precisazioni al direttore del giornale Padellaro, missiva che linko qui affinché ognuno possa farsi la propria idea. Il problema di fondo è che si tratta comunque di un personaggio fin troppo discusso, mentre il calcio italiano avrebbe bisogno di uomini (e donne) dal passato e dal presente immacolati, senza comportamenti o atti ufficiali che possano anche solo dare adito a sospetti, che possano minarne la solidità politica. Uno come Albertini? Può essere (anche se il sottoscritto auspica da anni un commissariamento, che sarebbe pur sempre una benedizione), comunque sempre meglio del suo rivale, esponente esemplare della classe dirigente italiana cristallizzatasi nell'ultimo trentennio, una classe dirigente da pensionare ma che in pensione non ci va mai, impermeabile a ogni tempesta, attaccata a ogni poltrona e a ogni candidatura, che non molla la presa nemmeno di fronte agli infortuni più clamorosi, nemmeno davanti alle pubbliche perplessità e riserve manifestate da chi sta più in alto. E già, perché la citata lettera della FIFA non è una mera operazione di facciata: potrebbe comportare, in caso di "ascesa" di Tavecchio al più alto scranno di via Allegri, ulteriore perdita di credibilità e di peso internazionale del nostro movimento calcistico, perché il dirigente LND entrerebbe nel massimo consesso con un notevole handicap di partenza: con quale autorevolezza potrebbe poi difendere i nostri interessi? 

giovedì 24 luglio 2014

IL PUNTO SUL MERCATO DEL GENOA: QUANTO MANCA GILARDINO! PERIN E ANTONELLI BANDIERE, MATRI E RAGUSA SCOMMESSE

                                                 Antonelli, bandiera rossoblù

Il calciomercato italiano 2014 è roba da Ghostbusters: inconsistente come i fantasmi. Non poteva essere altrimenti, del resto, dopo il ridimensionamento del nostro movimento pallonaro, sancito dal secondo consecutivo fallimento mundial e da tante stagioni europee coi nostri club a fare tappezzeria. Lo si sapeva: le autostrade dei grandi trasferimenti corrono lontane dallo Stivale, i campionissimi si accasano altrove (sempre nelle stesse società pigliatutto, peraltro, ma il discorso sarebbe troppo lungo), mentre da noi arrivano vecchie glorie (Evra, Ashley Cole), emergenti tutti da scoprire (lo sfortunato Morata), oscure scommesse e modesti mestieranti. Calma piatta anche sul versante dei movimenti interni, se si esclude il colpaccio Iturbe messo a segno dalla Roma. In questo sconfortante contesto, il Genoa non può ovviamente fare eccezione. Le difficoltà economiche, per quanto non da ultima spiaggia come dipinte da qualche testata locale, indubbiamente esistono, nuovi proprietari, cinesi o svizzeri che siano, non paiono essere alle porte, nonostante qualcosa si stia muovendo (altro che "questione di ore", come avevano vergato due illustri firme cittadine qualcosa come tre mesi fa...), e Preziosi fa quel che può, in un contesto globale (il calcio tricolore) già depresso di per sé. 
GILA, ASSENZA CHE PESA - Il mercato è ancora lungo, ma sarà il caso di fare un primo punto della situazione, visto che le vacanze sono finite e il Grifo sta già lavorando nell'ormai abituale ritiro austriaco di Neustift. La sensazione, al momento, è di un Genoa complessivamente indebolito, seppur in maniera non drammatica, e destinato a una stagione di discreta sofferenza, se Gasperini non trarrà fuori dal cilindro una di quelle alzate di ingegno che gli avevano consentito, anni fa, di diventare un tecnico fra i più apprezzati della nouvelle vague italiana. Non giriamoci troppo attorno: la perdita di Gilardino è gravissima, come può esserla quella di un ex campione del mondo ed ex Nazionale ancora nel pieno delle proprie forze. 
Personalmente, ho sempre avuto l'impressione che Alberto sia stato più che altro "sopportato", in rossoblù: mai stimato fino in fondo, mai considerato perno inamovibile di un progetto a lunga scadenza, come invece avrebbe meritato per curriculum e professionalità. Per non parlare di una consistente parte di tifoseria, che davanti a lui ha sempre storto il naso sbavando invece per Borriello (che di Gila, chiariamolo subito, in termini qualitativi vale sì e no la metà, a voler esser generosi). L'attaccante piemontese ha disputato una "temporada" da 7 - 7,5: ha segnato gol importanti, quindici in totale, ne avrebbe potuti fare di più ma ha scontato le difficoltà tattiche di una squadra in cui il peso del reparto avanzato è gravato troppo spesso solo sulle sue spalle. Ha forse perso l'azzurro a causa della netta flessione fatta registrare dalla "Gaspe - band" negli ultimi due mesi di campionato, la meno scandalosa delle tante scandalose decisioni prese dal cittì Prandelli al momento di selezionare i ventitré per il Brasile. Era, insomma, un "tesoro calcistico" che avrebbe meritato ben altra valorizzazione. 
E SE MATRI... - Intendiamoci, al suo posto è arrivato Matri, e non c'è proprio da strapparsi i capelli: anche lui nel giro del Club Italia fino a tre anni fa, oggi va però considerato come una scelta a rischio, dopo la deludente mezza stagione alla Fiorentina. Certo, era stato chiamato in viola per non far rimpiangere Pepito Rossi, impresa titanica per chiunque, ma qualcosa in più del magro bottino di quattro reti era lecito attendersi. E' comunque un buonissimo attaccante, uno che in un contesto come quello rossoblù, circondato dalla fiducia dell'ambiente, con compagni che lavorano per lui, inserito in un meccanismo offensivo dinamico e ricco di soluzioni, potrebbe rifiorire a livelli insperati: proprio come il Borriello di qualche tempo fa, in fondo. Ma il "cinese" Alberto era, ed è, un'altra cosa. 
ATTESA PER RAGUSA - La vitalità e l'imprevedibilità in prima linea dovrebbero essere garantite dal rientrante Kucka, che l'anno scorso, prima della rottura del crociato, utilizzato come esterno nel trio d'attacco aveva sfoderato doti da fromboliere prima ignote, e anche dal giovane e poliedrico Ragusa, ottimo in B col Pescara e tornato alla casa madre perché, a 24 anni, è giunta l'ora di esplodere, lanciando magari qualche segnale al prossimo selezionatore azzurro. Tutto ciò nell'attesa di vedere di che pasta sia fatto Diego Perotti, che nelle ultime stagioni, fra Spagna e Argentina, ha accumulato poche presenze e ancor meno prodezze sotto porta (anche per grossi guai fisici, intendiamoci): insomma, uno di quegli azzardi  di fuorivia per i quali non impazzisco (eufemismo), ma sono ovviamente pronto a rivedere il giudizio in caso di responsi incoraggianti del rettangolo verde; stesso discorso applicabile, per inciso, al terzino Edenilson, che pare prossimo all'arrivo dall'Udinese. 
MATUZALEM VIA, STURARO PROMESSO BIANCONERO - Anche difesa e centrocampo hanno perso pedine importanti: il laterale basso Vrsaljko, uno dei migliori prospetti europei, ceduto al Sassuolo, e nel mezzo Matuzalem, elemento chiave per la manovra in fatto di agonismo, carisma ed efficacia nelle due fasi: non è un caso che il Genoa 2013/14 sia calato bruscamente dopo l'uscita di scena del brasiliano per infortunio. Aggiungiamoci anche Sturaro, che è il presente ma non il futuro: divenuto a tutti gli effetti un giocatore della Juventus, dovrebbe rimanere dodici mesi a Genova, per fare esperienza e trovare quegli spazi da titolare che nelle big, ahimé, per i virgulti italiani è sempre difficile conquistare; pure Marco Motta, rinato sotto la Lanterna dopo tanti tornei anonimi che l'avevano fatto sprofondare nel limbo delle promesse mancate, è rientrato alla Vecchia Signora dopo il prestito semestrale, mentre sarebbe stato un puntello importante per la terza linea. 
VECCHIA GUARDIA AFFIDABILE - Ci si affida a una vecchia guardia tutto sommato qualitativa, e già questa è una bella conquista, dopo anni di rivoluzioni estive che avevano reso chimerico il consolidamento di un gruppo storico, fondamentale per acquisire un'anima di squadra e continuità sul lungo periodo: Perin, esponente della rinvigorita scuola italiana dei portieri, è stato fin qui trattenuto, Antonelli (misteriosamente sparito dagli orizzonti prandelliani al termine del suo miglior campionato in carriera) è diventato una bandiera; dovrebbe rimanere Burdisso, sperando che le défaillance della prima stagione genoana siano state frutto di un momento negativo e non, piuttosto, i sintomi del declino fisico; ci sono ancora De Maio, che deve limare gli eccessivi alti e bassi della prima esperienza in rossoblù, Marchese, una garanzia, e soprattutto Antonini, che è però alle prese con problemi al ginocchio di non facile soluzione. 
CHI E' ARRIVATO, COSA SERVE - E' rimasto anche Bertolacci, che però deve uscire dal bozzolo e fare il salto di qualità definitivo, avendo i mezzi tecnici per diventare un califfo della zona nevralgica, così come è lecito chiedere al furetto Fetfatzidis un contributo di brillantezza e imprevedibilità più sostanzioso, anche se il gol alla Roma con cui ha chiuso l'ultimo campionato fa in fondo ben sperare. Si è stranamente rinunciato al rientrante Tachtsidis, organizzatore di gioco di buona grana per quanto non ancora del tutto convincente agli alti livelli: nel cuore della manovra manca qualcosa, è evidente. Fra i nuovi al momento arrivati, dietro ci si aspetta molto da Rosi, a patto che sia il Rosi del Parma di due anni fa, sicuro in copertura e abile negli inserimenti offensivi; quanto a Greco, è certamente un elemento utile per la sua duttilità, uno in grado di lavorare molti palloni e di portare in dote intensità e applicazione, ma non certo un campione, uno di quelli che fanno alzare l'asticella delle ambizioni. E', insomma, un Genoa che necessita ancora di tre - quattro innesti, equamente divisi fra difesa e reparto di mezzo, con in più un'alternativa valida per la prima linea. Ma siamo ancora all'inizio dei giochi... 

martedì 22 luglio 2014

COCA COLA SUMMER FESTIVAL: IL VERO EREDE DEL FESTIVALBAR IN UNA ESTATE CANORA "OLD STYLE"


Televisivamente parlando, questa estate canora è una boccata d'aria fresca, dopo anni di oscurantismo pressoché totale. Ebbene sì: la musica del solleone (si fa per dire, visto il clima ballerino di queste settimane) pare aver finalmente ritrovato un degno "megafono" catodico. L'esperimento di dodici mesi fa, il Tezenis Live, già era stato confortante. Quest'anno il main sponsor è cambiato, l'evento si chiama "Coca Cola Summer Festival", ma poco importa: ciò che conta è la sensazione, netta, che Canale 5 abbia fatto centro, e che l'industria discografica italiana potrebbe giovarsi oltre ogni più rosea aspettativa di questo exploit in parte inatteso. 
E' DAVVERO IL NUOVO FESTIVALBAR - Abbiamo pianto per un lustro e oltre la dipartita del caro, vecchio Festivalbar, mentre i soliti soloni ci ripetevano fino alla nausea che non era proprio il caso di strapparsi i capelli, che oramai il "consumo" di musica pop passa attraverso altri canali mediatici e che, in ogni caso, manifestazioni di quel tipo erano ormai logore, avevano fatto il loro tempo: assunto che poteva essere condivisibile solo in riferimento alla stanca formula adottata dalla kermesse "made in Salvetti" nelle sue ultime edizioni. Il rimedio, poi, fu peggiore del male: ad erede della mitica "rassegna del juke box" venne eletto, non si sa bene su quali basi, lo show denominato "Music awards", piatta serata istituzionale e ingessatissima, all'insegna del "premiami tu che ti premio anch'io", dopodiché arrivava il nulla: i mesi canicolari proponevano il vuoto spinto, quanto a passerelle musicali sul piccolo schermo. 
Ora, invece, ci si accorge con piacevole stupore che quei "carrozzoni canzonettistici" non erano passati di moda, altroché. Servivano solo buone idee e contenuti di qualità, un'alchimia creatasi magicamente in questa estate 2014. L'esperimento Summer Festival, come detto, era stato azzardato già nel 2013: ma è con la seconda edizione, attualmente in onda sull'ammiraglia Mediaset, che pare aver raggiunto la quadratura del cerchio.
Sissignori, abbiamo il "vero" erede del glorioso Festivalbar, e pazienza se i puristi, i nostalgici a oltranza, non se ne faranno una ragione. Buone idee e buoni contenuti, si diceva: perché un'azzeccata strutturazione del format non basta da sola a decretare il successo di questi eventi, la cui riuscita è affidata in buona parte a un fattore imponderabile: nel caso specifico, incappare o meno in un'annata di pregevole produzione discografica. Ebbene, l'estate in corso mi riporta alla mente gli anni più felici della musica da ombrellone, orecchiabile e spensierata, i mai abbastanza rimpianti Ottanta e Novanta. C'è stata un'infornata di brani efficaci, di grosso impatto, semplici senza essere banali: "Niente al mondo" di Dolcenera e "Il mio giorno più bello nel mondo" di Francesco Renga rappresentano il mio top personale, ma in tanti hanno lavorato bene. 
ECCELLENTE INFORNATA - Forse la crisi e l'annoso problema del calo di vendite hanno aguzzato l'ingegno e fatto riscoprire la leggerezza, con insperati risultati: già lodato nelle settimane scorse il Killa di "Maracanà", davvero un tormentone vecchio stampo, il palco di Roma ci ha proposto il redivivo Nek con l'energica "Hey Dio", Alessandra Amoroso con la suadente "Non devi perdermi" e la classicheggiante "Bellezza, incanto e nostalgia", Emma che sta giustamente valorizzando a dovere "La mia città", maltrattata senza ragione all'Eurovision Song Contest, i Modà che hanno rinnovato con successo la partnership con Jarabe De Palo nella poetica "Dove è sempre sole", Noemi con la ritmata "Don't get me wrong",  la "melody dance" di Gabry Ponte in "Buonanotte giorno", l'azzeccata rentrée di Syria con un "Odiare" dall'ottimo arrangiamento, a metà strada fra tradizione e innovazione, e dalla buona cantabilità, Annalisa con una molto sanremese "Sento solo il presente"... E poi giovani di sicuro valore: mi ha molto colpito il Paolo Simoni dell'originale "Che stress" e di "15 agosto", tormentone estivo in chiave divertissement, mentre con la frizzante e ironica "Stanco" Antonio Maggio sta confermando quanto fosse meritato il trionfo fra le Nuove proposte del Festivalone di Fazio targa 2013; bene anche le ultime scoperte "defilippiane", i Dear Jack e soprattutto Deborah Iurato, con una "Anche se fuori è inverno" di stampo assolutamente contemporaneo e dal refrain trascinante. Tutto questo, mentre è stato (finalmente!) ridotto al minimo indispensabile lo spazio - tributo ai prezzemolini della musica, ai colossi delle hit parade che non avrebbero bisogno di vetrine promozionali in sovrabbondanza e che invece sono sempre i più presenti: le Pausini e gli Antonacci di turno non sono mancati, ma il loro è stato, tutto sommato, un passaggio non eccessivamente invasivo. 
FORMAT SENZA FRONZOLI - Poi, certo, se è vero che senza qualità della proposta musicale non si va lontano, è altresì innegabile che il contenitore conta, eccome. Ed ecco i grossi meriti degli ideatori del Summer Festival: una formula snella, senza inutili sovrastrutture, senza lungaggini. Attorno all'evento si respira, davvero, il magico clima dei... festival vacanzieri dei bei tempi andati. C'è la spigliatezza dei "padroni di casa", lo stesso stile informale dei presentatori di tanti Festivalbar, fra i quali non a caso vi era quell'Alessia Marcuzzi ripropostasi con intatta verve sul palco di piazza del Popolo; accanto alla vulcanica bionda, si muovono con buona disinvoltura un Rudy Zerbi che, fuori dai suoi contesti televisivi abituali, riesce ad apparirmi persino simpatico, e un Angelo Baiguini che ogni volta mi fa scendere una metaforica lacrimuccia, perché era una delle voci che accompagnavano i miei pomeriggi di studio universitario negli anni Novanta, quando la mia radio era sempre sintonizzata su RTL 102.5.... 
REGOLAMENTO PERFETTIBILE - Del primo Festivalbar "berlusconiano", invece, la kermesse griffata Coca Cola ha ripreso il gusto per la gara: c'è quella delle nuove leve, ma anche i big si sfidano a singolar tenzone, addirittura con un "vincitore di tappa" a chiusura di ogni puntata, anche se, fin qui, non mi è parso di scorgere nel meccanismo della competizione il rigore e la chiarezza che invece, nonostante tutto, caratterizzano in materia il tanto bistrattato Festival di Sanremo. Fra votazioni del pubblico a casa via web e peso dell'airplay radiofonico c'è stata forse un po' di confusione (ne hanno parlato, in maniera più dettagliata e polemica, diversi siti prima di me): uno dei motivi del contendere è stato il presunto sbilanciamento causato dalla rilevazione dei passaggi in radio, visto che, al momento della registrazione delle serate, alcuni brani erano già in rotazione e altri no. 
Da questo punto di vista, devono essere fatti passi avanti: è giusto insistere sulla "battaglia" fra cantanti, che continua a tirare nonostante da anni si asserisca il contrario e nonostante gli stessi artisti non la digeriscano fino in fondo (salvo poi scendere puntualmente nell'arena, al Summer come al Sanremone), ma che allora lo si faccia con un regolamento che non presti il fianco a critica alcuna; quest'anno le classifiche sono parse più che altro un pretesto per ravvivare la manifestazione. E da questo punto di vista sono risultate comunque funzionali alla bisogna, perché il suo scopo il "Coca Cola Summer Festival" l'ha raggiunto: ridare alle canzoni della bella stagione visibilità e una cornice all'altezza. Un juke box in versione ventunesimo secolo che diffonde, finalmente, note coinvolgenti e accattivanti: un'estate 2014 ricca di musica pop, testimonianza di una ritrovata vitalità dell'industria discografica nostrana. Mi piace interpretarlo come un segnale positivo in vista del prossimo Festival della canzone italiana che, se Carlo Conti saprà fare le cose per bene, potrebbe persino riavvicinarsi ai suoi fasti più gloriosi. Il "materiale" su cui lavorare sembra esserci, basta saper scegliere con oculatezza. 

martedì 15 luglio 2014

MONDIALI DI CALCIO 2014: BILANCIO TECNICO. STELLE NASCOSTE, SQUADRE SPARAGNINE E DUE PARTITE DA LEGGENDA

                     Schweinsteiger non fa passare Messi: è stato il Mundial del gregariato al potere

Nei prossimi giorni, per noi calciofili impenitenti l'impegno più gravoso sarà spazzare via il magone del dopo Mondiale. E sì: difficile lasciarsi alle spalle questo mese di ubriacatura collettiva, di ore e ore di football televisivo, di commenti, discussioni, polemiche fra appassionati "de visu" e on line, di emozioni, trepidazioni e delusioni. Quattro settimane di "estasi clamorosa", avrebbe detto Miss Rettore. Quando la squadra vincitrice alza la Coppa e il sipario cala impietosamente, la malinconia ci avvolge, perché in quel momento finisce la più colossale e immaginifica festa del pallone: un appuntamento atteso per quattro anni, un evento che avvolge e coinvolge, incontro di popoli e culture calcistiche, molto più di una mera tenzone sportiva. Ci aspettano le miserie del campionato nostrano, nella speranziella che i nuovi vertici federali e il nuovo CT favoriscano finalmente la valorizzazione delle giovani leve azzurre, unico sentiero percorribile per il rilancio. Per intanto, non mi rimane che un piacevole impegno, quello di azzardare un bilancio tecnico, forzatamente sommario, della kermesse brasiliana. Pochi flash qua e là, nella convinzione che sia impossibile fornire un quadro completo, oggettivo, inoppugnabile. 
MONDIALE STORICO? NO... - "Il Mondiale dei Mondiali", dicevano: sarà che nutro un'innata idiosincrasia agli slogan e alle frasi fatte che diventano tormentoni giornalistici, ma di quello appena citato è stato fatto, in queste settimane, un abuso irritante. Irritante e non giustificato. Il senso di tale perentoria definizione voleva essere più o meno questo: "Brasile 2014 sarà "il Mondiale dei Mondiali" perché nella terra del futébol per antonomasia, con un nutrito drappello di campionissimi all'apice della traiettoria agonistica, con squadroni in sboccio e altri giunti finalmente alla piena maturità e consapevolezza dei propri mezzi, non potrà che disputarsi la kermesse iridata più scintillante di tutti i tempi. E poi, suvvia, c'è un motivo d'interesse mozzafiato, l'assalto al trono della Spagna campione di tutto...". Ecco, non è per voler fare il bastian contrario a tutti i costi, ma le cose sono andate un po' diversamente.
Il thriller intitolato "Le Furie Rosse contro tutti" ha conosciuto una fine assai precoce. Gli iberici si sono liquefatti nel giro di due match: hanno abdicato, più che essere spodestati. Sul piano generale, il primo turno ha regalato momenti senz'altro godibili, spettacolo di buon livello e, oggettivamente, tante reti. Ma qualcuno ha esagerato nel trarre dalla fase a gironi auspici entusiastici sulla qualità complessiva della rassegna.  Nei... primi metri di una maratona che vede ai nastri di partenza 32 compagini, molte delle quali impresentabili a certi livelli, con differenze di tasso tecnico spesso abissali fra le protagoniste designate e le comparse, è facile che le prodezze sgorghino cospicue, che da parte delle grandi ci sia più coraggio nell'impostazione tattica delle partite, e che certe difese non proprio irreprensibili sazino premurosamente gli appetiti di gol. 
CALCIO SPARAGNINO, CON L'ECCEZIONE TEDESCA - Poi, però, è nei turni a eliminazione diretta che si fa sul serio, è quello il momento in cui si misura lo spessore autentico delle espressioni di vertice di questo sport. Ebbene, dagli ottavi in poi sono stati  realizzati trentacinque gol, nove in meno rispetto alla medesima fase della non esaltante edizione sudafricana. E se è poi vero che i gol non sono tutto, è altresì innegabile che, parallelamente al calo delle segnature, gli scampoli di gioco pregevole si sono progressivamente diradati. Due delle squadre più briose e innovative della prima fase, Cile e Messico, sono ben presto uscite di scena, vittime della loro leggerezza offensiva; due potenziali Nazionali del futuro, Belgio e Colombia, le hanno seguite a stretto giro di posta, cadute sotto i colpi del pragmatismo, direi quasi del "minimalismo calcistico", di due scuole tradizionali, di un'Argentina e di un Brasile che un tempo estasiavano il mondo cesellando un football che era arte allo stato puro, mentre adesso ruminano calcio con pochissime concessioni alla platea.
Delle magnifiche quattro semifinaliste, solo la Germania ha percorso la strada di un gioco propositivo e di iniziativa, conciliando sprazzi di tiqui taca con l'essenzialità e la verticalità della manovra, esaltate dall'abilità di tutti i suoi elementi nel trattare la palla, abilità che nei sedici metri finali si è tradotta in devastante efficacia al momento di concludere. L'Olanda ha prodotto fiammate esaltanti soprattutto nel primo turno e in quell'ora di commovente assedio alla Costa Rica nei quarti, sviluppando tuttavia le sue trame offensive partendo da una disposizione assai abbottonata: difesa a tre, diga a centrocampo, fasce blindatissime (con l'ex stoccatore Kuyt trasformato in un drago nel lavoro di contenimento e ugualmente disponibile in appoggio, per quanto non sempre preciso) e fase creativa quasi esclusivamente affidata a Sneijder (peraltro anche lui a lungo chiamato ad arretrare e a "fare legna") e al superbo Robben.
STELLE NASCOSTE - Già, Robben: insieme a Thomas Muller, la sola grande figura di un Mundial in cui molte stelle d'attacco hanno steccato. In primis Cristiano Ronaldo, atteso come un potenziale mattatore, ma anche Balotelli, novello Godot del calcio italiano. Hazard è andato troppo a corrente alternata, pur facendo balenare le sue infinite potenzialità, Pirlo si è ben presto spento come l'impresentabile Azzurra di Prandelli, Messi ha dispensato gol nella prima fase, assist al bacio negli ottavi e nei quarti, per poi dileguarsi al momento di dare l'accelerazione finale verso la conquista più ambita (che non era certo il titolo di Top player del torneo...), mentre il suo connazionale Higuain, dopo la messe di gol raccolta a Napoli, in Brasile non è andato oltre l'acuto coi belgi, per poi mancare un'occasione clamorosa in apertura di finalissima. Muller e Robben, dunque, fuoriclasse risolutivi: un gradino più su il tedesco, per poliedricità e completezza: capace di far tutto dalla trequarti in su senza mai smarrire il senso del gol, laddove l'olandese non ha più trovato la via della rete dalla terza gara in poi.
IL MUNDIAL DEI GREGARI - E' stato più il Mondiale delle seconde linee, della "classe operaia", che quello dei primattori: dei "mediani", nel significato esteso che alla parola attribuì Ligabue nel suo celebre brano. Schweinsteiger e Mascherano, formidabili uomini - ovunque, garretti e lucidità al servizio del collettivo; l'impagabile e generoso equilibratore tattico Khedira, cancellato dal gala di chiusura al Maracanà per un infortunio poco prima del via, più o meno lo stesso rio destino del nostro Antognoni, assente all'epica serata del Bernabeu '82 per via di un incidente occorsogli in semifinale; metterei nel gruppo di questi eroi inattesi anche De Bruyne, che ha piedi più educati dei colleghi appena citati ma era forse meno reclamizzato di altri illustri Diavoli Rossi come Hazard o Fellaini, risultando invece il più continuo nel dare benzina all'azione offensiva dei suoi.
DUE PARTITE DA LEGGENDA - Sulla valutazione del livello qualitativo di un Mondiale pesa anche il numero di partite che la kermesse tramanda ai posteri, le gare destinate a rimanere nel libro d'oro del calcio per significato storico, tensione emotiva, fuochi d'artificio spettacolari. Ebbene, credo di poter dire che non molto resterà di Brasile 2014: tanti match apprezzabili, ma nessuno in grado di lasciare autenticamente il segno. Con due eccezioni: il tracollo spagnolo al cospetto dell'Olanda, che ha segnato l'inizio della fine dell'irripetibile ciclo iberico, e il 7 a 1 tedesco alla Seleçao in semifinale, per motivi che sono già stati ampiamente illustrati. Come "jolly", potrei aggiungere l'ottavo Brasile - Cile, con quella splendida recita dei rossi, fermati dalla traversa di Pinilla a un passo dall'impresa. L'atto conclusivo è stato dignitosissimo, senz'altro migliore di quello di quattro anni fa, ma non tale da far gridare al miracolo.
GIOVANI IN VETRINA - Gotze ha risolto la finale, Il capocannoniere James Rodriguez si è svelato al mondo con colpi da funambolo, i ragazzini terribili del Belgio promettono di crescere ancora. Da questo punto di vista, il bilancio del Mundial è in vistoso attivo: è ovviamente mancata all'appello l'Italia, con Prandelli che nel suo quadriennale percorso ha via via smarrito il coraggio iniziale nel promuovere la linea verde, riservando, in Brasile, una sorta di "fiducia condizionata" al suo unico fresco virgulto di autentica statura internazionale, il "parigino" Verratti, venendone ripagato con due prestazioni di temperamento e personalità. Ma tanto Buffon e Pirlo sono già pronti a tornare in cattedra, a settembre, mentre i promettenti babies della bella Under di Mangia (2011 - 2013) fanno ancora anticamera...
IL TRACOLLO DI BIZZOTTO - Postilla sul Mondiale della Rai, del quale ho già scritto (criticamente) in questo post di un paio di settimane fa. Domenica sera la degna (ehm) conclusione, e spiace che a inciampare sia stato l'ottimo Stefano Bizzotto, una delle poche eccellenze della spedizione brasiliana. Ma non accorgersi della presenza in campo di Kramer in luogo di Khedira, dopo che sullo schermo era già comparsa la formazione con la novità dell'ultimo momento, dopo che la regia aveva fornito le classiche inquadrature in primo piano degli atleti durante l'esecuzione degli inni, dopo che alcuni minuti di gioco erano già trascorsi, è stato un errore da matita blu. Col bravo telecronista sono naufragati la seconda voce Dossena (che pure, fra i suoi compiti, dovrebbe avere quello di seguire gli spostamenti dei calciatori e la loro disposizione sul terreno) e tutta la redazione di Rai Sport, che non è stata in grado di allertare sollecitamente Bizzotto. Un autogol clamoroso, più di quello di Marcelo che aveva aperto il torneo. 

lunedì 14 luglio 2014

MONDIALI DI CALCIO 2014: GERMANIA CAMPIONE, UN ATTO DI GIUSTIZIA


La Germania campione del mondo (primo titolo iridato dopo l'unificazione del Paese) è la migliore eredità che Brasile 2014 potesse lasciare ai posteri. Per crediti accumulati nel breve e nel lungo periodo, per ragioni tecniche e financo morali, nessuno più dei tedeschi avrebbe meritato di alzare la Coppa FIFA al cielo di Rio de Janeiro. Di più: scorgo in questa Nationalmannschaft le stimmate del dream team, con picchi di perfezione che forse neanche la leggendaria Roja spagnola 2008 - 2012 aveva mai raggiunto. Nella mia squadra del cuore vorrei ammirare proprio le qualità del gruppo di Low: sagacia tattica europea con una spruzzata di fantasia latina, refrattarietà ai condizionamenti ambientali, concretezza (nella semifinale contro i padroni di casa, Kroos e compagni sono andati vicini a una percentuale realizzativa del 100 per 100), continuità agli alti livelli non solo nell'arco di un singolo torneo, ma da Mondiale ad Europeo, da Europeo a Mondiale; e capacità di abbattere tabù quasi secolari, nella fattispecie l'impossibilità, per una squadra del Vecchio continente, di affermarsi in America (del nord e del sud). Cosa potrebbe desiderare di più, un appassionato di football? 
LA GIOVENTU' COME NORMALITA' - La squadra ideale, per quanto mi riguarda, è anche quella che non vede nella valorizzazione dei giovani un atto di coraggio (se non addirittura una fastidiosa incombenza), ma la considera come la fase più normale, più logica, nella messa a punto di un credibile progetto calcistico. Normale e logico, per il cittì tedesco, è stato buttare nella mischia un fresco ventiduenne (peraltro già più volte titolare nel passato recente) quando si approssimava il momento più caldo della sfida conclusiva; e questo ventiduenne, Mario Gotze, ha semplicemente risolto la gara, andando a siglare, con uno splendido sinistro, il gol della quarta stella mondiale. Mario Gotze e, attorno a lui, come è stato più volte ricordato in queste ore, tanti ex componenti di una Under 21 tedesca che, nel 2009, vinse fortunosamente una semifinale europea contro un'Italia brillante ma poco pragmatica. Quei... giovani panzer sono stati poi travasati, in buona parte, nella selezione maggiore di mister Low: ma, lo ripeto, non è stato coraggio, è il corso naturale delle cose. Accadeva anche da noi una volta: ricordate la splendida giovanile azzurra di metà anni Ottanta, guidata da Azeglio Vicini? Non appena quest'ultimo venne nominato responsabile tecnico dell'Italia "dei grandi", dopo il fallimento di Mexico '86, portò con sé, dapprima a piccole dosi poi sempre più massicciamente, i ragazzini che aveva cresciuto, costruendo una delle Nazionali più belle (e sfortunate) nella storia del nostro pallone. Oggi, invece, quando si è in difficoltà si buttano nella mischia l'innocuo Cassano (32 anni) e "lentopede" Thiago Motta (31 abbondanti)... 
HANNO VINTO I MIGLIORI - Degna trionfatrice, dunque, la Germania. In Brasile ha mostrato di gran lunga il calcio migliore, il tasso di classe più elevato, il maggior numero di uomini decisivi. Dell'Argentina si era già detto: squadra scolpita nel granito, superbo dispositivo di copertura a protezione dell'intermittente (fin troppo...) genio di Leo Messi. Uno di quegli undici abilissimi nel far giocare male anche gli avversari più qualitativi. Per lunghi tratti ci è riuscita anche ieri sera, l'Albiceleste. I tedeschi non erano quelli del 7 a 1 al Brasile, né, forse, era giusto pretendere che si ripetessero sugli standard di quella partita assolutamente unica, con caratteri di eccezionalità. Giocando oltretutto a ritmi più bassi del solito, sono andati a invischiarsi nella ragnatela predisposta da Sabella e mirabilmente eseguita dai suoi uomini in campo. Hanno cercato comunque di tenere pallino, i bianchi, ma dall'altra parte i sudamericani rispondevano colpo su colpo, con una spigliatezza offensiva che raramente avevano sciorinato nelle gare precedenti, nella circostanza alimentata soprattutto da un Lavezzi che sulla destra faceva il diavolo a quattro. 
DEGNA FINALE - Ne veniva fuori una finale degna, magari non bellissima sul piano estetico ma emozionante, equilibrata, combattuta, a tratti aspra, pilotata con discreta disinvoltura da Rizzoli e dai suoi collaboratori. L'Argentina, si diceva, era pericolosa come mai in questo Mundial, con la sicurezza alle spalle garantita da un Garay inappuntabile e dal solito Mascherano interdittore illuminato: ma quattro palle gol nitide non concretizzate nella sfida più importante sono una condanna inappellabile per chiunque. Higuain in avvio su svarione di Kroos, Messi due volte (nel primo tempo salvataggio sulla linea di Boateng, nella ripresa diagonale a lato di un soffio) e Palacio nei supplementari (fiacco pallonetto su Neuer in uscita): troppa grazia per una Germania che comunque non stava a guardare e premeva anzi con più continuità, anche se con minore incisività. Muller, nelle vesti di sontuoso assist man, nella prima frazione inventava uno splendido cross sul quale Klose non riusciva ad arrivare, e nella ripresa liberava a centro area Howedes, che cincischiava e perdeva l'attimo. Lo stesso Howedes, poco prima dell'intervallo, aveva centrato il palo di testa su corner; a completare il conto dei tentativi tedeschi, Kroos per due volte vanificava la tessitura dei compagni chiudendo dal limite con conclusioni fiacche e prevedibili. Poi, nei prolungamenti, subito una botta di Schurrle da distanza ravvicinata, respinta a mani aperte da Romero, e nel secondo extra time il sinistro chirurgico di Gotze, su assist dello stesso Schurrle. 
DUE VETERANI DA APPLAUSI - Detto dei giovani leoni, non si può negare che, fra i panzer, due veterani abbiano onorato come meglio non avrebbero potuto il match più importante della loro carriera: capitan Lahm si è sfiancato nel doppio lavoro di chiusura e di spinta, Schweinsteiger è stato letteralmente onnipresente: decisivo a protezione di Neuer, formidabile settepolmoni nel mezzo, propulsore per la fase offensiva. E poi Boateng, nelle ultime partite più decisivo del (giustamente) celebrato collega Hummels nel tappare le poche falle della retroguardia, un Kroos meno preciso del solito (e che rischiava di decidere la finale in negativo, con quel pallone regalato al Pipita) ma comunque sempre abile a trovarsi nel vivo della manovra. Ozil è parso, perlomeno nella prima mezz'ora, più vivace e ispirato che in tutto il resto del torneo, poi è calato alla distanza, mentre, come detto, Thomas Muller non ha avuto palle giocabili in area ma ne ha lavorate molte, e con profitto, per i compagni, confermandosi magnifico tuttofare dalla trequarti in su. Forse sarebbe stato meglio scegliere fra lui e Robben, per l'assegnazione del titolo di miglior giocatore del Mondiale: ha invece prevalso Messi e la decisione lascia francamente esterrefatti, come del resto, parere personale, fu quantomeno generoso il Pallone d'Oro assegnatogli da France Football nel 2010 (Iniesta poteva vantare titoli ben più corposi). 
I PROBLEMI DI MESSI E LA CONTRADDIZIONE ARGENTINA - La pulce del Barça ha confermato, in fondo, ciò che già si sapeva: spesso risolutore in prima persona o come ispiratore, si erge a mattatore solo se inserito in un contesto altamente competitivo. In questa Seléccion, ha dato l'impressione di predicare spesso nel deserto: troppi elementi preposti al filtro e alla distruzione del gioco altrui, e tutto il lavoro creativo sulle sue spalle, davvero troppo fragili. Se poi, nella finale tanto bramata, si sbagliano gol come Del Piero a Euro 2000, allora è chiaro che il titolo di erede di Maradona sia destinato a rimanere vacante, mentre fossi in Leo e in chi lavora con lui terrei seriamente sotto controllo il problema dei conati di vomito, ripresentatosi ieri sera e fin qui, mi pare, colpevolmente sottovalutato, visto che la spiacevole storia sta andando avanti da mesi.
Certo, ci sarebbero da scrivere pagine e pagine sulla curiosa contraddizione che alberga nell'animo del futbòl argentino: ha donato al mondo una serie di fuoriclasse epocali, gente che col pallone ha saputo ricamare autentici capolavori, ma dopo l'86 è riuscito a sfiorare l'alloro iridato solo con formazioni "da battaglia", prettamente operaie (1990 e ieri), trapanando invece l'acqua quando si è presentata ai nastri di partenza con rose zeppe di stelle (2002 e 2006, per dire). Rimane il verdetto del Maracanà, un vero atto di giustizia, che ha premiato chi ha battuto la strada del football propositivo e di iniziativa, a scapito di chi ha ruminato calcio per un mese, con pochi lampi e votandosi al più crudo utilitarismo. Basta questo, in fondo, per dare senso e credibilità tecnica a un torneo che, al tirar delle somme, non è stato quel "Mondiale dei Mondiali", sublimazione del football - arte, idealizzato da molti fino a pochi giorni fa. 

domenica 13 luglio 2014

MONDIALI DI CALCIO 2014: ODE ALLA "FINALINA". BRASILE ANCORA UMILIATO: E ADESSO?

                                 Il rigore con cui Van Persie ha sbloccato il risultato

La "finalina". Termine che in molti, quasi tutti, usano in tono spregiativo per bollare la finale per il terzo posto dei Mondiali. E' una sfida inutile, dicono, e in questo senso si era espresso anche il CT olandese Van Gaal, alla vigilia del confronto di ieri sera. Io invece la adoro, la "finalina". E' la partita più romantica della kermesse iridata: quella in cui la genuinità primordiale di questo sport, lo spirito più puramente decoubertiniano possono riemergere alla luce del sole. La adoro non solo per queste ragioni strettamente "sentimentali", è chiaro: sono sempre stato del parere che arrivare fra le prime quattro al mondo sia comunque un risultato straordinario (con qualche eccezione: ne parleremo più avanti), e che, una volta persa la semifinale, si debba comunque dare il massimo per riuscire a salire sul podio, perché un bronzo mondiale vale tantissimo, rimane nell'albo d'oro a certificare, in maniera tangibile, l'ottimo comportamento delle squadre che l'hanno ottenuto: fa "curriculum", insomma. Poi, che sia una finale fra deluse è evidente: ma la bellezza dello sport sta anche nel fatto che, dopo ogni sconfitta, offre sempre un'occasione di riscatto, e in questo caso l'occasione è immediata: i perdenti di pochi giorni prima possono subito dimostrare che tutto sommato non avrebbero sfigurato nell'atto conclusivo, mentre chi ha giocato meno nelle partite precedenti può finalmente gridare all'universo: "Ci sono anch'io, e forse meritavo una maggior considerazione da parte del mister"... 
BRASILE: FALLIMENTO TOTALE - Va da sé che, al di là dei proclami di sufficienza  e disinteresse lanciati alla vigilia, il campo ha poi quasi sempre regalato "finali di consolazione" godibili, combattute, emozionanti, di buonissimo livello spettacolare. Segno che, alla fine, le squadre ci tengono, a quella medaglia coniata con un metallo un po' meno "nobile". Dacché seguo la Coppa del Mondo, l'unica squadra che non ha pienamente onorato questa sfida credo sia stata la Bulgaria di USA '94, asfaltata in 45 minuti dalla Svezia con un 4 a 0 che poi rimase tale fino alla fine. Il match di poche ore fa fra Brasile e Olanda non è stato fra i migliori della serie di finaline Mundial, ma i motivi per ricordarlo a lungo non mancheranno comunque. La sfida di Brasilia ha certificato definitivamente la totale inadeguatezza della Seleçao. Inadeguata al podio, forse persino inadeguata a un posto in semifinale. A proposito delle eccezioni di cui si è detto in apertura: ecco, questo ingresso fra le prime quattro del "suo" Mundial non lascerà alcunché al calcio brasiliano. E' un piazzamento "fantasma", che più che impreziosire appesantisce la bacheca verdeoro. E' come la Mitropa Cup 1982 per il Milan: un traguardo da dimenticare, un vessillo da sventolare il meno possibile. 
DOMANDE PER SCOLARI - Presto a Scolari saranno poste domande non dissimili, fatte le dovute proporzioni, da quelle a cui il nostro ex (per fortuna) cittì Prandelli non si è ancora degnato di rispondere. Anche per Felipao, la gestione dell'operazione Mundial è stata una collana di strafalcioni: sbagliata l'impostazione tattica, sbagliata la scelta di molti uomini, sbagliata la gestione del gruppo. La totale provvisorietà del progetto di gioco era nell'aria già dal fortunato esordio contro la Croazia, ma si pensava che strada facendo, come in Confederations, la quadratura del cerchio potesse essere raggiunta. Come è andata lo sappiamo tutti. 
SQUILIBRI TATTICI E NESSUNA IDEA DI GIOCO - Digerire in pochi giorni la più grave disfatta della propria storia era impossibile. Sulla prostrazione psicologica dei sudamericani, gli Oranje sono andati a nozze senza nemmeno dannarsi l'anima più di tanto. Una squadra preda di gravissimi squilibri tattici, il Brasile, quasi anarchica. Smarrito Neymar, la sua unica certezza assoluta, il totem cui aggrapparsi per restare in lizza doveva essere la difesa, indubbiamente il reparto più qualitativo di un complesso tutt'altro che eccelso: ma la terza linea è stata rasa al suolo nella serata horror di Belo Horizonte, e a quel punto l'unico canovaccio strategico del team, coprire e poi impostare a partire dalla retroguardia, è venuto meno. 
Al di  là delle dimensioni del punteggio, lo 0 a 3 contro gli olandesi non è stato meno umiliante del cappotto tedesco: qualche sprazzo di gioco i padroni di casa l'hanno pur mostrato, ma è sempre stato frutto di iniziative individuali, grazie soprattutto a un Oscar molto dinamico e se non altro coraggioso nell'assumersi la quasi totale responsabilità dell'azione offensiva, e ad un Maicon intraprendente ma mai sostenuto dall'adeguata precisione. Il resto, a parte un bello spunto di Ramires (a un passo dal gol nella ripresa con un destro dal limite) è stato il solito pianto: centrocampo a disagio nella fase di filtro, che dovrebbe invece essere il vanto di oscuri pedatori come Paulinho e Luiz Gustavo, difesa imprecisa e farfallona, con un David Luiz che resta un ottimo elemento ma che nelle ultime due gare è andato completamente fuori fase. 
No, non c'è proprio nulla da salvare di questa Seleçao mal costruita e mai maturata. Ed è chiaro che, quando tutto va male, piove sul bagnato, nel senso che l'arbitro ci mette del suo: il rigore che ha presto sbloccato il risultato non c'era, perché Robben è stato atterrato fuori area da un Thiago Silva che, invece, avrebbe meritato l'espulsione (era ultimo uomo ed era chiara occasione da gol). Insomma, due errori gravissimi nella stessa azione: non male per l'algerino Haimoudi. 
WIJNALDUM "EROE PER CASO" - Tuttavia, l'impressione è che l'Olanda avrebbe sfondato ugualmente in breve tempo, nonostante un Van Persie sottotono, trasformazione del penalty a parte. Vlaar e De Vrij hanno confermato di essere fra le maggiori sensazioni di questo Mondiale, chiudendo a doppia mandata la retroguardia di fronte ai comunque timidi attacchi avversari, mentre nel mezzo si è visto finalmente un Wijnaldum protagonista non più sotto traccia: è stato il perno della manovra arancione, si è mostrato propositivo e ha tessuto buone trame di gioco, andando infine a siglare il meritato successo personale in chiusura. E poi Robben: anche a corrente alternata, ha saputo regalare saggi del suo infinito talento: si è procurato un rigore larghissimo, ne ha reclamato un altro (non senza ragione) nel secondo tempo. E' sicuramente una delle figure di spicco di questo torneo, uno dei pochi fuoriclasse autentici e decisivi al momento in circolazione.
Rimane il fatto che il Brasile, come si dice in gergo, nelle ultime due gare è stato letteralmente "scherzato" dagli avversari, dando la sensazione di un'assoluta, totale impotenza: un'umiliazione senza precedenti. Fra le grandi storiche, solo la Spagna del 1982, in passato, aveva gestito peggio, sul piano calcistico, l'occasione di un Mundial fra le mura amiche. Scolari non potrà rimanere su quella panchina, ed è lampante che molti giocatori non siano all'altezza della camiseta auriverde: forse sarà il caso di attingere con maggiore coraggio alla selezione campione del mondo Under 20 nel 2011, e riscoprire le radici: va bene la maggior cura della fase difensiva, va bene l'arguzia tattica "europea", ma una Seleçao così priva di fosforo nel mezzo, di lampi di classe sulla trequarti (Neymar escluso), di forza penetrativa è un insulto alla tradizione. 
RIZZOLI E GLI ARBITRI ITALIANI - Una postilla sul confronto di questa sera: l'ondata di nazionalismo posticcio che ha accompagnato la designazione di Rizzoli è di una tristezza infinita. Triste è "tifare" per un arbitro (nel calcio, come in qualsiasi altro sport, si tifa per una squadra o per un atleta, mentre ci si augura, questo sì, che il direttore di gara svolga nel miglior modo possibile il suo complesso e delicato compito), triste è farne la bandiera dell'avvio di un presunto riscatto del calcio italiano, riscatto che non esiste e che manco si profila all'orizzonte, triste è leggere nel suo successo personale la certificazione della qualità dell'intera classe arbitrale tricolore.
Il fischietto di Mirandola ha ottenuto un riconoscimento al suo buon Mondiale: meritato, alla luce di quanto ho potuto vedere. Stop, chiusa lì. Dopodiché, le nostre "giacchette nere" (anzi, diciamo meglio "gialle") rimangono di una modestia a tratti irritante, e lo dimostrano settimanalmente nel campionato italiano. E' invece già partito, con scarsa fantasia, il coro "gli arbitri italiani sono i migliori al mondo", stucchevole favoletta che ha la stessa credibilità del tormentone "torti e favori arbitrali a fine campionato si compensano". E già... Le direzioni di gara non rappresentano la più grave tara del nostro football, ma sono comunque un problema, nel momento in cui impreparazione, mancanza di personalità, difficoltà nell'interpretare univocamente il regolamento portano a condizionare pesantemente gli esiti di molte partite. Ecco, vorrei che nella vuota euforia pro Rizzoli di questi giorni tutto ciò non venisse dimenticato. In ogni caso, a far da promemoria giungerà presto la nostra Serie A, garantito. 

giovedì 10 luglio 2014

MONDIALI DI CALCIO 2014: LA SEMIFINALE PIU' BRUTTA PROMUOVE L'ARGENTINA. SARA' SFIDA CON LA GERMANIA, UN CLASSICO

                                                 Romero: ha parato due rigori

Dopo la partita da sogno, la partita da sonno. Proprio così: ventiquattr'ore dopo averci regalato un Germania - Brasile di cui si parlerà ancora fra decenni, questo contraddittorio Mundial 2014 ci ha costretti a sopportare, fino a notte alta, un'Olanda - Argentina di raro squallore. Sicuramente la semifinale più brutta fra quelle di cui sono stato testimone in diretta (televisiva) dacché seguo il calcio, direi quindi da Messico '86 in avanti: il paragone, per una triste competizione al ribasso, è possibile solo con la sfida Germania - Corea del Sud del 2002, ma in quell'occasione i temi tattici della partita furono differenti e comunque, alla fine, una delle due squadre, quella tedesca, riuscì a spuntarla senza dover ricorrere a faticosi prolungamenti. 
IL MONDIALE DEI MONDIALI? - Insomma, il presunto "Mondiale dei Mondiali" (ma chi ha lanciato per primo questo già irritante slogan?) è quantomeno assai schizofrenico: se è innegabile che sia stato impreziosito da match di buono, se non ottimo, livello spettacolare, emozionanti e ben giocati (per la verità concentrati soprattutto nella pletorica prima fase), è altresì evidente che strada facendo si sia gradualmente convertito al ritorno a un football più razionale, fondato sull'equilibrio, la solidità e l'arguzia strategica più che sulle luminarie di manovra. Il confronto di Sao Paulo, ennesima rivincita della contestata finale del 1978, ha raggiunto l'apice di questa... restaurazione tecnica, riportandoci alla più deteriore tradizione del pallone, quella che fa rima con attendismo, atteggiamento speculativo, prudenza portata fino agli estremi. No, non si onora così una semifinale Mondiale: perché una cosa è essere guardinghi, un'altra è rintanarsi in attesa o del primo errore dell'avversario, o dell'estemporanea giocata di uno dei propri campionissimi. 
L'OCCASIONE PERSA DEGLI ORANJE - Olanda - Argentina è stata una partita mai nata, mai sbocciata. E a dover dare la testa nel muro è la compagine Oranje, non solo per l'esito conclusivo, ma perché l'occasione della vita, la possibilità di centrare la quarta finalissima per inseguire finalmente il primo titolo, se l'è giocata come peggio non avrebbe potuto, rinunciando al coraggio e alla voglia di osare che fanno pur sempre parte del bagaglio di questa rappresentativa, anche nella versione più accorta e "con i piedi per terra" impostata da Van Gaal in questo torneo. Intendiamoci, non credo che le due formazioni mirassero esplicitamente ai rigori, come ipotizzato da qualcuno: sarebbe stata una follia, un giocarsi un numero alla roulette e nulla più. Sono mancati il gusto di rischiare e i diversivi tattici: ne è venuta fuori una lagna insopportabile andata avanti per troppo tempo. Certo, le due retroguardie meritano l'elogio pieno: Garay e Demichelis da una parte, Vlaar e De Vrij dall'altra sono stati impressionanti per tempismo, senso dell'anticipo, abilità nel chiudere sia di piede che di testa; poi, però, il football prevede anche una fase offensiva, che ieri è rimasta nei sogni (o nei sonni, come detto all'inizio) degli spettatori. 
KUYT, SUPERFLUO - Certo, si possono in parte comprendere le difficoltà dei Tulipani: del resto avevo già scritto che questa Argentina ha la capacità di far giocare male anche gli avversari più reputati, basti ricordare come ha neutralizzato il devastante potenziale del Belgio. Uno schieramento difensivo così saldo e folto è sempre difficile da forzare: per avere qualche chance in più di riuscirvi, occorrerebbe agire in velocità, disporre di elementi in grado di saltare l'uomo, e sfruttare maniacalmente le fasce. Gli olandesi sono mancati in tutti e tre questi fattori: la rapidità nelle avanzate è rimasta nelle intenzioni, l'unico elemento dotato di sublime palleggio e capace di aggirare le più ferree marcature, dicasi Robben, è stato poco e male attivato ed è parso comunque più timido e meno esplosivo rispetto a tante precedenti uscite, anche se un suo ubriacante spunto in dribbling nel finale di tempi regolamentari per poco non fruttava il vantaggio; quanto al gioco sulle corsie esterne, Blind è spesso e volentieri rimasto rintanato dietro, mentre Kuyt, sballottato da un lato all'altro, pur giocando perlopiù arretrato è andato al traversone più volte, mostrandosi impreciso e prevedibile e risultando, in pratica, un uomo regalato agli avversari; un po' di vivacità in più l'ha poi portata Janmaat, a destra, ma ci voleva ben altro. 
ARGENTINA AI PUNTI - Leggermente meglio l'Argentina, allora, che dal canto suo non ha fatto altro che accentuare i caratteri sparagnini di un dispositivo tattico già di per sé non particolarmente incline ai fuochi d'artificio. Detto di una retroguardia scolpita nel marmo, Rojo ha almeno cercato di affacciarsi qualche volta in avanti, mentre fondamentale è risultato lo schermo protettivo creato da Biglia e Mascherano: se il laziale ha fatto filtro con profitto senza però offrire contributi in fase creativa, il veterano della Seléccion, oggetto del desiderio del Napoli, ha giostrato a tutto campo, in un florilegio di chiusure e contrasti, per poi cercare (spesso inutilmente) di far ripartire l'azione e di smistare efficacemente palla. 
Il fatto è che, per i sudamericani come anche per gli europei, fra centrocampo e attacco c'era come una voragine, e mancavano la rapidità e la verticalità che avrebbero potuto dare sale offensivo alla gara. Merito del team di Sabella l'averci provato un tantino di più: se Lavezzi declinava presto dopo un furente avvio sulla destra,  e se Messi non riusciva a venir fuori dalle sabbie mobili in cui lo avevano cacciato i difensori olandesi, Perez, il modesto sostituto dell'insostituibile Di Maria, nella ripresa riusciva a liberare in area Higuain che al volo, di destro, mandava il pallone sull'esterno della rete dando l'illusione ottica del gol, e nei supplementari Palacio, di testa, falliva una colossale opportunità a tu per tu con Cillessen. Troppo poco, comunque, per nobilitare come sarebbe stato doveroso una semifinale iridata. 
LA LOTTERIA DEI RIGORI E LE PROSPETTIVE DELLA SELECCION - Sui rigori, poco da dire: confermata ancora una volta tutta la loro aleatorietà, che continuo cocciutamente a sostenere nonostante in molti asseriscano che non sia assolutamente una lotteria: ma se fallisce uno dei migliori arancioni (Sneijder), e se si erge a eroe un Romero che i tifosi della Sampdoria ricordano come un incubo, allora vale tutto... E Van Gaal non poteva neppure più giocarsi la carta Krul: una di quelle mosse geniali che, forse, possono funzionare una volta, ma alla seconda risultano già depotenziate. Sarà dunque la finale tris Germania - Argentina: al momento, immaginare un risultato diverso dal quarto titolo dei tedeschi pare arduo, ma gli uomini di Low per primi si renderanno conto che, a prescindere dalla loro scintillante prestazione col Brasile, un risultato come quello di ieri ha caratteri di assoluta eccezionalità e non può essere preso per oro colato, a maggior ragione se stai per confrontarti col più impenetrabile degli assetti di copertura del Mondiale, la squadra più chiusa, rocciosa, abile a mandare in tilt anche gli attacchi più reputati. E con un Messi a cui bastano pochi minuti di operatività e pochi centimetri di libertà per risultare devastante. 

mercoledì 9 luglio 2014

MONDIALI DI CALCIO 2014: BRASILE ALL'INFERNO, AZZERATO DA UNA GERMANIA AI LIMITI DELLA PERFEZIONE

                                             Così Muller ha aperto le marcature

C'è una sensazione che tutti gli appassionati di calcio dovrebbero sperimentare almeno una volta nella vita. E' una sensazione inebriante, che ti avvolge quando ti rendi conto di avere appena assistito a un match che entrerà nella leggenda di questo sport, e vi rimarrà per sempre. Un misto di entusiasmo, appagamento, quasi genuina commozione, il classico orgoglio di poter dire "io c'ero", pur se soltanto davanti alla tv, di esser stato testimone di un evento di cui fra decenni si parlerà ancora, e il cui ricordo verrà tramandato di generazione in generazione. Personalmente, tutto questo mi è accaduto poche ore fa: la prima semifinale del Mundial 2014, Germania - Brasile 7 a 1, è già una pietra miliare nel libro d'oro del football planetario. 
IL DRAMMA? SOLO SUL CAMPO - Nei prossimi giorni, sui giornali, in tv, sul web, tutti racconteranno il nuovo dramma brasiliano. Dramma tecnico, dramma di campo e basta, credo e spero: per gli aficionados verdeoro la vita continuerà, altri più seri problemi incombono, i tempi delle autentiche tragedie che fecero da macabra cornice al "maracanazo 1950" (malori, infarti, suicidi) sono lontani,  e lo si è intuito già stasera, allo stadio di Belo Horizonte, "in corso d'opera": la reazione della torcida è stata, appunto, da tifosi: dopo le lacrime, solo fischi assordanti ai beniamini di cartapesta locali, e "olè" irridenti a sottolineare la breve melina tedesca a secondo tempo inoltrato.
Sette a uno: mai visto un divario così abissale, in una semifinale iridata. Punteggi simili hanno le stimmate dell'eccezionalità, prescindono dalle differenze di valori in campo, dalla modestia di una delle contendenti, dalle giornate storte e da quelle di grazia: sono eventi di un'enormità tale da non poter essere spiegati totalmente con dotte disquisizioni specialistiche. La notizia di questo epocale 8 luglio 2014, è chiaro, non può che essere il disfacimento della Seleçao "che doveva vincere la Coppa", perché la più grande potenza del futébol non poteva permettersi di perdere due Mondiali su due in casa. E' successo, invece, e paradossalmente l'unicità calcistica di questo contraddittorio Paese sarà d'ora in avanti rappresentata anche da questo assurdo record: i veri maestri del pallone (altro che inglesi) protagonisti della più clamorosa débacle casalinga nella storia della manifestazione, roba che neanche anfitrioni di secondo o terzo livello come States, Sudafrica, Giappone o Sudcorea. Ma il Brasile, pur fra mille demeriti, è crollato sotto i colpi di una corazzata, forse in questo momento l'unica attendibile erede della invincibile Roja spagnola andata in pensione poche settimane fa.
TEDESCHI STELLARI - Proprio così: nella prima mezz'ora tedesca al Mineirao ho intravisto tratti di perfezione assoluta, vette di calcio magistrale che ben poche squadre, nella storia, hanno saputo giocare. E non mi riferisco solo alla classe o alla sapienza tattica: perché sei pur sempre nella tana del grande Brasile (grande più per palmarés che per l'attualità, ma poco importa), sei immerso in un clima di delirio popolare a tratti sconfinante nel fanatismo: molte compagini anche reputate, molti campioni con carisma e pelo sullo stomaco, in situazioni similari finiscono per farsi condizionare e non riescono a rendere come potrebbero. La Germania no: ha giostrato con tranquillità, nervi distesi, fiducia cieca nei propri mezzi, e ha sollecitamente scritto una delle pagine più belle dell'interminabile romanzo dei Mondiali. Mezz'ora di struggente bellezza, dicevo, da far venire i lucciconi e da proiettare non solo nelle scuole calcio, ma anche durante le sedute di allenamento dei professionisti: manovra essenziale, rapida, verticale; precisione assoluta nel tocco di palla, nel controllo, nei passaggi (molti calciatori italiani, coi loro strafalcioni da "piedi quadri", dovrebbero solo arrossire e tornare a esercitarsi sui fondamentali), e una concretezza strabiliante, che ha portato a una percentuale realizzativa vicina al cento per cento delle occasioni create. 
SPIETATI COME RICHIEDE LO SPORT - E' cosi che si fa: se hai la bravura di passare quasi subito in vantaggio e ti accorgi di avere davanti un gigante ferito e in difficoltà, ebbene, nel calcio bisogna affondare i colpi senza pietà, colpire e colpire, fino a mettere ko chi ti sta davanti, e fare in modo che non si alzi più. La Nationalmannschaft lo ha fatto, metodicamente, senza mai abbassare la guardia, senza farsi prendere dalla tremarella ogni volta che arrivava in area di rigore brasiliana. Ed è persino un peccato che, nel clima surreale venutosi ben presto a creare nello stadio, sia quasi passata in secondo piano l'impresa nell'impresa, l'impagabile Klose che, di prepotenza, è andato a segnare il raddoppio riprendendo una corta respinta di Julio Cesar su suo precedente tiro, issandosi infine in testa alla classifica dei bomber iridati di tutti i tempi, 16 gol contro i 15 di Ronaldo, l'altra sconfitta brasiliana della serata. 
Si può poi discutere su quanto avvenuto nella ripresa, con i ragazzi di Low che, pur tenendo ritmi più bassi, sono ancora andati a nozze nel nulla difensivo dei locali, piazzando altre due stilettate con Schurrle: c'è chi pensa che ad un certo punto sia meglio tirare i remi in barca, chi invece ritiene che non ci si debba fermare. Io sono più per la seconda teoria: frenare non è una forma di rispetto per gli avversari, quanto un gridargli in faccia, a chiare lettere, "sei inferiore, pateticamente inferiore: se solo volessi potrei continuare, ma preferisco non infierire". Queste manfrine, questa magnanimità un po' ipocrita verso gli sconfitti, è una malattia molto italiana, una delle tante storture del nostro calcio. Evidentemente i panzer sono di diverso avviso.


BLUFF SMASCHERATO - E dunque, la Germania ha fatto il suo dovere. Stilare pagelle è quasi superfluo: tutti si sono espressi su livelli di eccellenza, da Neuer che ha continuato a chiudere la saracinesca anche sullo 0-5, nei minuti dell'unica breve fiammata brasiliana in avvio di ripresa, a un Boateng monumentale in retroguardia, da Khedira instancabile e onnipresente nel mezzo agli esemplari Muller e Kroos, formidabili sia come finalizzatori che come "creativi". La Germania, si diceva, ha fatto il suo, smascherando il bluff della Seleçao. Un colosso d'argilla, tenuto in piedi fin qui dal fattore campo (che non significa solo favori arbitrali, ma affetto del pubblico, e quel surplus di motivazione che arde dentro l'animo di chi gioca una Coppa del mondo in casa), dalle prodezze estemporanee dei suoi difensori dai piedi buoni e da un Neymar che stava marciando a ritmi sostenuti verso la consacrazione a fuoriclasse assoluto, prima dell'uscita di scena. Il genietto del Barcellona era semplicemente vitale per questa squadra povera di talento e di risorse tattiche: prima ancora che il campo lo dimostrasse in maniera inequivocabile, lo avevano lasciato intendere i suoi compagni, teneramente aggrappati alla maglietta del loro illustre collega infortunato durante l'esecuzione dell'inno: una plateale dimostrazione di affetto che era anche, però, un'ammissione di debolezza. 
NIENTE FOSFORO, NIENTE GENIO - La partita ha detto il resto: quando i nodi devono venire al pettine, dopo che la polvere è stata troppo a lungo nascosta sotto il tappeto, il crollo è spesso clamoroso. E' accaduto alla Spagna sazia di trionfi, è accaduto all'Italia mal guidata, mal gestita e mal costruita; è accaduto al Brasile forse più dimesso di ogni tempo, un Brasile, lo abbiamo detto più volte, edificato su una terza linea che era chiamata a un compito ingrato e sfiancante, dovendo chiudere e impostare scavalcando un centrocampo a corto di idee e votato a un cieco sferragliare,  col gregario Fernandinho eletto a elemento cardine, e cercando vanamente di attivare un reparto offensivo che dalla trequarti in su, tolto Neymar, ha mostrato da subito classe approssimativa e forza penetrativa pressoché nulla, con Oscar costantemente sotto tono e Hulk prima ai margini della manovra, poi confusionario e sprecone una volta riportato più vicino alla porta. 
SCOLARI MONOCORDE - Gettare la croce addosso all'impresentabile Fred è ingiusto: ha fallito lui, ha fallito chi doveva attivarlo nei sedici metri finali, ha fallito un progetto di gioco acefalo, privo di fosforo e inventiva nel mezzo, "vizio di fabbricazione" inaccettabile per la tradizione brasileira; hanno fallito Scolari, Parreira e tutto lo staff tecnico, mostrandosi drammaticamente a corto di alternative strategiche (non c'era proprio altro modo per ovviare all'assenza del campionissimo? Era improponibile un rimpasto fra centrocampo e attacco, magari dando fiducia a un Hernanes che è uno dei pochi, nella Seleçao, a saper fare discretamente filtro e a portare buone giocate in fase di costruzione e rifinitura?). Questo mediocre Brazil poteva arrivare in fondo solo con i ritmi, il pragmatismo, l'aggressività mostrate in chiusura di Confederations l'anno scorso. Venuti a mancare questi presupposti fin dall'inizio della competizione, sparito successivamente dai radar Neymar, la conclusione era quasi inevitabile. Che poi, oltre al disastro tecnico, tattico e agonistico, vi sia stato pure quello psicologico, aggiunge poco al quadro generale, se non la constatazione che sotto nessun aspetto questi auriverdes erano degni di figurare in una finale mondiale. Rimane l'epicità di una sfida di cui si parlerà per lustri, per decenni. E non ci sarà neppure bisogno di arricchirne il ricordo con particolari romanzeschi: la realtà è stata più che sufficiente, Germania - Brasile brillerà per sempre di luce propria... 

domenica 6 luglio 2014

MONDIALI DI CALCIO 2014: BILANCIO DEI QUARTI DI FINALE. ORA L'ARGENTINA FA PAURA: CON UN MESSI (E UN HIGUAIN) COSI'...

                                              Higuain: si è finalmente sbloccato

Cosa rimane, quando non mancano che sette giorni alla battaglia conclusiva, del Mundial delle outsider e dei Paesi emergenti? Nulla, assolutamente nulla, sul piano dei risultati concreti. A contendersi il titolo sarà un consesso di nobili del football planetario: tre Nazionali superdecorate (Brasile, Germania e Argentina, come dire dieci allori iridati) e un'Olanda che non ne può più di veder svanire i suoi sogni di gloria all'ultimo tuffo. Sarà anche il caso di cominciare a porsi qualche domanda, su questa Coppa 2014 che in molti, pochi giorni fa, avevano precocemente classificato come la migliore di sempre, bellissima, esaltante, di livello tecnico memorabile. Forse occorrerebbe mettersi d'accordo sui parametri adottati per azzardare tali valutazioni: le buonissime, a tratti ottime, espressioni di gioco della fase iniziale, indubbie ed encomiabili, non hanno certo rappresentato un unicum nella storia del Campionato del mondo: era già accaduto, in un passato anche recente (ricordo messe di gol e sfide elettrizzanti persino nel primo turno della deprecata edizione nippo - coreana del 2002, per dire), ma il "peso specifico" qualitativo di queste rassegne va misurato sul lungo periodo, e in particolar modo tenendo in massima considerazione l'andamento delle fase a eliminazione diretta, quella in cui emergono i valori veri. 
OTTAVI E QUARTI CON POCHI LAMPI - Ebbene, da quando sono cominciate le partite "dentro o fuori" sono diminuiti i gol e, soprattutto nei quarti, i momenti in cui si è giocato un football quantomeno pregevole. Non solo: l'accesso alle semifinali di quattro potenze assolute del pallone, se da un lato garantisce appeal stratosferico ai match in programma da martedì prossimo, dall'altro ha aperto due "crepe" nella credibilità di questa edizione del torneo, nella "buona fama" che aveva saputo crearsi: in primis, le "nuove grandi", fino agli ottavi portatrici del calcio più piacevole, moderno, propositivo, dinamico (Belgio e Colombia, ma anche Messico e Cile, fra le altre), sono state ridimensionate e cancellate dalla scena nel momento dell'esame di maturità, "quando i duri iniziano a giocare". Si era data una rilevanza storica eccessiva e prematura alle loro comunque incoraggianti prestazioni, ma alla fine è arrivata la "normalizzazione", che è poi il ritorno all'immutabile realtà di sempre: la caratura di "squadra mondiale" non si improvvisa, difficilmente sboccia d'incanto, ma va costruita nel tempo: in Coppa del Mondo contano ancora l'esperienza, la tradizione, l'abitudine a certi confronti e a un palcoscenico che è come... il Festival di Sanremo per un presentatore o un cantante: puoi far bene in altri ambiti anche prestigiosissimi, come la Champions League, ma la "FIFA World Cup" è un'altra cosa, una "bestia" a sé che può bocciare anche vedette di prima grandezza.
La seconda "crepa" è rappresentata dall'approdo ai confronti decisivi di compagini che, a meno di imprevedibili impennate in dirittura d'arrivo, difficilmente lasceranno un segno indelebile nella storia di questo sport. L'unica eccezione è forse rappresentata dalla Germania, di cui da queste parti ho più volte tessuto le lodi, anche se va detto che lo strapotere mostrato al debutto col Portogallo, nonché certe lampeggianti fiammate di calcio pimpante e aggressivo al cospetto del Ghana, hanno poi lasciato spazio all'appannamento contro l'Algeria e alla sapiente, ma priva di acuti, gestione del match contro i frizzanti ma innocui francesi.
ARGENTINA: PRIGIONE TATTICA PER GLI AVVERSARI - Però  la Nationalmannschaft rimane, delle magnifiche quattro, la più completa, organizzata, continua, ricca di alternative (strategiche e di uomini), la più affidabile come progetto di gioco. Del Brasile si è lungamente scritto ieri e anche prima. Dell'Argentina si può invece dire che, nel quarto contro il Belgio, ha offerto la miglior prova di un cammino non certo esaltante, quanto a brillantezza di manovra. Il che è tutto dire, perché i Diavoli Rossi sono stati neutralizzati grazie a una mirabile interpretazione tattica di Sabella e dei suoi uomini, senza però che lo spettacolo ne abbia tratto qualche giovamento. Messi è decisamente ispirato, e si vede: gli basta accendersi quattro - cinque volte in un match per mettere in ambasce gli avversari: ieri stava mandando in gol Lavezzi dopo pochi minuti, e sempre da lui è partita l'azione, poi rifinita da Di Maria, che ha infine riacceso la sopita vena di Higuain, abile a piombare su una palla vagante in area e a scaraventarla in rete di destro con riflesso fulmineo, per poi sfiorare il raddoppio in avvio di ripresa, quando ha colto la traversa dopo un mirabile spunto in velocità.  
Attorno al genietto blaugrana giostra la classica formazione operaia, che poco o nulla concede alla platea ma ancor meno agli avversari, asfissiandoli con una capillare copertura del terreno di gioco e inaridendone la fase creativa, con una gabbia dalle sbarre strettissime che rallenta e arresta le trame "nemiche" fin dalla trequarti, e soprattutto una difesa folta che ha in Garay un inesorabile pilastro ma che è anche di prim'ordine sul piano collettivo. Certo il Belgio ci ha messo del suo, fallendo il primo appuntamento con la storia (ne arriveranno altri, è la sensazione), ma non può essere stata solo una giornata storta ad annullare gli estri di Hazard, a rendere inoffensivi Lukaku e il bel Mirallas ammirato con gli States e a limitare l'ottimo De Bruyne, peraltro anche a Brasilia uno dei più attivi nel sostenere l'azione offensiva. Spente le fonti di gioco di Wilmots, a creare varchi alternativi per l'attacco han provato i laterali Alderweireld e Vertonghen, e non è un caso che dai cross di quest'ultimo siano arrivate due delle migliori palle gol degli europei, mancate di testa da Mirallas e Fellaini. Troppo poco, ad ogni modo, per scalfire il granitico monolite di Sabella, un capolavoro di perfezione organizzativa che di sicuro starà destando l'invidia di molti tecnici italiani...
OLANDA IN CALANDO, MA CON UN FUORICLASSE RITROVATO - A proposito di espressioni di gioco non esaltanti, anche l'Olanda è andata in calando dopo il folgorante avvio di Mundial: stenti penosi prima di far fuori il Messico; contro la Costa Rica, oltre un'ora di impacci prima di salire di tono nella seconda parte della ripresa e montare l'assedio, ciò che non ha scongiurato la soluzione ai calci di rigore. L'exploit dei Ticos risulta tremendamente difficile da valutare: nascita di una nuova vedette internazionale o effimera fiammata? Personalmente propendo per la seconda ipotesi, difficile che un Paese dalle così limitate risorse calcistiche (e di popolazione) e con una tradizione ai minimi termini possa spingersi più in là, in futuro. Pronto a fare il mea culpa, se avverrà il contrario, ma al di là dei loro meriti colossali, in questo torneo ai centroamericani sono girate bene molte cose, in primis scoprire "in loco" che il girone di ferro era in realtà di pastafrolla, fra un Uruguay a un passo dal declino, un'Italia impresentabile per motivi detti e ridetti su questo blog e un'Inghilterra leggerina, ancora all'inizio del proprio cambio generazionale. 
Tornando ai Tulipani, ora possiamo dire di aver visto quasi tutto ai Mondiali: ci mancava l'allenatore che si tiene buona una sostituzione e cambia il portiere poco prima dei rigori di spareggio, mettendo dentro uno specialista, o presunto tale. A colmare la lacuna storica ha pensato Van Gaal, e forse nessun altro avrebbe potuto farlo... Gli è andata bene, per acume, coraggio e fortuna: il "dodicesimo" Krul ha portato in semifinale i suoi con due parate. In precedenza, gli Oranje avevano a lungo marciato in folle, pur meritando ai punti la qualificazione per numero di opportunità create: due bordate di Sneijder si erano infrante sui legni della porta di Navas, Van Persie aveva manifestato una preoccupante involuzione fallendo alcune facili occasioni (clamoroso il pallone ciabattato nell'area piccola su cross dello stesso, indiavolato Sneijder, fuoriclasse ritrovato), ma poi si era visto negare un gol quasi fatto da un rocambolesco salvataggio sulla linea di Tejeda. Classe, ritmo e arguzia tattica non mancano all'Olanda per opporsi validamente alla Seléccion, ma lo avevamo detto anche del Belgio... Vedremo. 

sabato 5 luglio 2014

MONDIALI DI CALCIO 2014: SENZA NEYMAR IL BRASILE SI AGGRAPPA ALLA SUA DIFESA. E LA GERMANIA BOCCIA GLI SCOLARETTI FRANCESI

                                            David Luiz: splendido gol su punizione

Contro il Cile, David Luiz su corner. Contro la Colombia, Thiago Silva ancora su angolo e nuovamente Luiz, direttamente su punizione. Il Brasile è aggrappato alla sua difesa. E lo sarà più che mai, da adesso in poi, dopo la tegola del ko di Neymar, vittima di un'entrataccia scomposta di Zuniga che gli ha causato la frattura di una vertebra (!) mettendo fine al suo Mondiale. Il ragazzo dovrebbe cavarsela con un paio di mesi di stop, e non c'è da lamentarsi troppo, vista la delicatezza della parte del corpo colpita; per Scolari e per tutto il popolo brasiliano, invece, è una di quelle mazzate talmente forti da poter abbattere un toro. Neymar era la sola anima offensiva della squadra, costretto a cantare e a portare la croce, a inventare e a concludere (e non solo, come vedremo più avanti), in un desolante deserto di idee calcistiche popolato dai Fred e dagli Hulk, meno efficaci sotto porta del famigerato Serginho di Spagna 1982. Senza il golden boy, la ricerca del gol, o anche solo di trame offensive più convincenti, diventa un rebus quasi inestricabile.
GOL CHE ARRIVANO DA LONTANO - E allora, probabilmente, non si potrà che puntare alla rete avversaria partendo da lontano. Dalla retroguardia, appunto. E' un Brasile aggrappato alla sua terza linea, dicevamo, come mai lo era stato in passato. Sì, d'accordo, la Seleçao utilitaristica di USA '94, che però riusciva a riscattarsi parzialmente, sul piano estetico e spettacolare, grazie alle prodezze di quei due fenomeni che aveva in prima linea, dico Romario e Bebeto, e scusate se è poco. Anche la squadra pentacampione in Sud Corea e Giappone 2002, che pure non esaltava per luminarie di gioco, si schierava sì con tre difensori, ma aveva sulle corsie laterali due "martelli" come Cafu e Roberto Carlos, mentre in avanti poteva accendere a turno Ronaldinho e Rivaldo, e mandare in gol Ronaldo. Ma questo Brasile 2014, il Brasile che "deve" vincere la Coppa perché è il padrone di casa e non può permettersi un altro Maracanazo, ha definitivamente saltato il fosso. 
DIFESA CREATIVA - Lo si era intuito in tempi non sospetti, dodici mesi fa, nei giorni della vittoriosa Confederations. Scolari aveva impostato una squadra da battaglia, che strada facendo, dopo una carburazione lenta, mostrò al mondo il suo volto: un undici compatto, privo di genio nella zona nevralgica ma edificato sui granitici pilastri di una difesa di valore assoluto, talmente qualitativa da non limitarsi a chiudere ogni spiffero davanti a Julio Cesar, sapendo accollarsi persino compiti di impostazione. Scrissi, all'epoca, che le migliori trame brasiliane germogliavano proprio dalla terza linea grazie all'eclettismo, alla visione di gioco, alla corsa, alla capacità di palleggio e alla precisione di lancio di David Luiz e compagnia. In questo Mundial si sta andando oltre, e la difesa oltre che creativa è diventata finalizzatrice, riuscendo dove finora hanno miseramente fallito gli uomini più direttamente deputati al gol, Fred in primis, ma anche il colosso Hulk. Discorso a parte per Neymar, ovviamente, che ha tirato la carretta nella prima fase mentre in queste sfide a eliminazione diretta ha smarrito lucidità, forse perché chiamato a fare legna oltre che a ricamare assist e gol. 
TROPPO LAVORO PER NEYMAR - Uno dei tanti equivoci tattici di un Brasile che, superato il momento critico vissuto contro il Cile (quella traversa di Pinilla in chiusura di supplementari aveva davvero mandato il team di Scolari a un passo dall'inferno sportivo), si trova oggi a dover affrontare un altro salto nel buio, ancor più inquietante. Una disdetta, perché contro la Colombia il rendimento degli anfitrioni si è impennato, anche se non al punto di poter nascondere i tanti limiti della squadra: se il centrocampo produce solo corsa cieca e atletismo, se l'attacco scompare dagli schermi, si può gioire fino a un certo punto, perché le prodezze su calci piazzati di David Luiz e Thiago Silva non potranno diventare una consuetudine.
COME LA FRANCIA '98? - Una sola Nazionale, in passato, è riuscita a vincere il Campionato del Mondo senza avere una prima linea all'altezza, la Francia del 1998, ma quella era una compagine comunque equilibrata, ricca di campioni autentici sia in retroguardia (Thuram, Desailly, Blanc) sia nel mezzo (Petit, Deschamps), per non parlare di uno Zidane che comunque si scoprì cavallo vincente solo in finale. Questi auriverdes sono, invece, ancora a metà del guado: ben lungi dal crescere, Fred peggiora di partita in partita, la batteria di incursori alle sue spalle non offre che pochi lampi (in particolare Oscar risulta troppo spesso impalpabile), mentre Neymar, unico faro offensivo, è ora fuori dai giochi.
Il genietto del Barcellona, come detto, rappresentava un equivoco tattico del tutto gratuito: d'accordo che i calciatori d'oggidì devono essere il più possibile universali, ma che senso aveva chiedere a uno come lui di arretrare e interdire, di intristirsi in uno sfiancante lavoro di spola in una squadra che, lo si è visto, di interdittori e di addetti alla copertura ne ha già in abbondanza? Restano, dopo il fattaccio, gli interrogativi su arbitraggi assolutamente non all'altezza: errori non numerosi ma sempre decisivi, tolleranza eccessiva verso il gioco duro, salvo poi punire entrate irruente ma tutt'altro che violente come quella di Marchisio in Italia - Uruguay. Fosse vero quanto annunciato ieri sera in tv dal telecronista Alberto Rimedio, ossia l'indicazione ufficiosa della Fifa di non ammonire nella prima mezz'ora se non strettamente necessario, ci sarebbe di che mettersi le mani nei capelli...

                                            Low applaude: la sua Germania va... 

UN BRASILE PIU' INTENSO - Cosa ha funzionato, in casa verdeoro, contro i ragazzi di Pekerman? L'impeccabile meccanismo di copertura, lo si è detto, grazie anche alla barriera creata da Fernandinho, filtro impeccabile, ma anche una certa velocità nel ripartire, nell'aggredire gli avversari, che fu fondamentale nella conquista della Confederations 2013 e che ha prodotto la miglior frazione (primo tempo) della Seleçao in questo Mundial. Hulk ha regalato un paio di sprazzi notevoli in area, difettando in fase conclusiva, Maicon e Marcelo hanno spinto con troppa parsimonia sulle fasce. Però c'è stata maggiore continuità di azione, questo va detto. La Colombia, dal canto suo, ha forse patito il classico "braccino": deludentissimo Cuadrado, a corrente alternata James Rodriguez (un cui strepitoso assolo nel corso del primo tempo è stato vanificato proprio da un eccesso di confidenza del fiorentino); un peccato, perché alcune fasi di gioco e quel finale arrembante hanno mostrato fin dove sarebbero potuti arrivare, i cafeteros, con un po' di sangue freddo e di concretezza in più. 
GERMANIA IN SCIOLTEZZA - Di certo, le pause di gioco e la desuetudine a certe sfide al calor bianco non fanno parte del DNA della Germania, che al momento, se Scolari non riuscirà a mettere insieme tutti i pezzi del suo intricato puzzle (e gli mancherà pure un altro pilastro, lo squalificato Thiago Silva...), sembra rappresentare per la Nazionale organizzatrice una montagna piuttosto alta da scalare. L'attesa sfida con la Francia non rimarrà negli annali, e ha puntualmente ridimensionato i galletti, illusi da un cammino che, lo si è scritto più volte, era stato fino a ieri di una facilità disarmante (frutto del sorteggio scandalo di dicembre, ricordiamolo). Ma una cosa è spezzare le reni a Honduras e Nigeria, con tutto il rispetto, un'altra è cercare di mettere i bastoni fra le ruote alla rappresentativa più solida, continua, mentalmente "sul pezzo", ricca di soluzioni di gioco vista in questo torneo. 
La gara è rimasta in bilico sino alla fine solo perché i panzer non hanno potuto o saputo affondare i colpi dopo il sollecito vantaggio di Hummels (clamoroso il gol mancato da Schurrle nella ripresa, quasi un rigore in movimento davanti a Lloris, per tacere del fallo in area su Klose nella prima frazione, ignorato dall'arbitro) ma i ragazzi di Low, a parte qualche sballottamento in avvio, non hanno mai dato la sensazione di andare in sofferenza auentica, se non nei limiti fisiologici dettati dal vantaggio minimo. Benzema (due volte, di cui una a fil di sirena) e Valbuena hanno avuto le loro occasioni, ma qualsiasi risultato diverso dal successo tedesco sarebbe stato bugiardo. 
FRANCESI  SOVRASTIMATI - I francesi sono parsi prevedibili nei loro approcci offensivi, aggrappati al sopra citato Valbuena, piuttosto ispirato ma non adeguatamente assistito; anche Matuidi ha spinto con vigore, ma per il resto il centrocampo è naufragato in un mare di mediocrità e di idee confuse, e sono clamorosamente mancati rifornimenti a Benzema, mentre Griezmann si è confermato buon giocatore e nulla più, inadatto a certe sfide di altissimo livello. Di Pogba si era già detto dopo la gara con la Nigeria, e il Maracanà ieri ha confermato tutto: l'esplosività e l'incisività sono rimaste a Torino. Per tutto il resto, questo congedo mondiale di Deschamps è stato solo un po' più vivo di quello Europeo di Blanc due anni fa di fronte alla Spagna. Insomma, il calcio transalpino è ripartito, ma per arrivare fra le prime quattro del mondo ci vogliono ben altri argomenti tecnici.

giovedì 3 luglio 2014

RECENSIONI "MONDIALI": "LA GRANDE PASSIONE", UN BRUTTO FILM PER UN DIMENTICABILE OMAGGIO AL CALCIO E ALLA FIFA


Giorno di pausa Mondiale, ieri, fra gli ottavi e i quarti di finale. Serata estiva non troppo calda. Ti piazzi davanti alla tivù e ti sintonizzi su Rai Uno per goderti, in mancanza di partite, "La grande passione", un film di recente uscita (regia di Frédéric Auburtin) dedicato alla storia della FIFA e quindi, in definitiva, al racconto dello sviluppo e dell'affermazione del calcio in ogni angolo del pianeta, dal 1904 in poi. Promettente, e poi il cast è di prim'ordine: Gérard Depardieu, Tim Roth, Sam Neill le punte di diamante. Ti aspetti un meritato tributo, un po' agiografico e un po' critico, ma comunque ben confezionato, al percorso ultracentenario dello sport che più di ogni altro ha saputo catalizzare oceaniche passioni, travalicando i confini agonistici per assumere un deciso rilievo sociale. Arrivi alla fine con una sola domanda a martellarti le meningi: perché il cinema continua a trattare così male il football? Perché svilire una tematica dalle infinite potenzialità narrative con un'opera così raffazzonata? 
CATTIVO CINEMA - Negli ultimi anni una svolta positiva c'era pur stata: il grande schermo aveva omaggiato l'universo del pallone con due piccoli gioielli, "Il miracolo di Berna" (intenso affresco attorno all'inatteso trionfo tedesco occidentale nella Coppa del Mondo '54, lo recensii qui) e "The game of their lives" (sull'incredibile vittoria della Nazionale statunitense ai danni dell'Inghilterra, nel 1950). Ma questa pellicola rimanda indietro l'orologio e rischia perfino di cancellare i passi avanti compiuti. "La grande passione" non rende un buon tributo all'epopea del calcio mondiale: è, semplicemente, un esempio di cattivo cinema, a partire dall'impostazione generale per finire a dettagli in apparenza secondari che, però, già dicono molto sulla qualità complessiva dell'operazione, sul rigore storiografico con cui è stata realizzata. Esempio: se la "credibilità fisica" degli attori ha una sua pur minima importanza, ecco, scegliere il colosso Depardieu per affidargli la parte del "padre" dei Mondiali, Jules Rimet, nella realtà uomo dalla corporatura tutt'altro che debordante (anzi), significa già partire col piede sbagliato. 
SCRITTURA DISOMOGENEA - Fosse solo quello il problema. Mi rendo conto che racchiudere in un film di due ore scarse una vicenda lunga oltre un secolo, e fittissima di episodi clamorosi e controversi, sia impresa improba per chiunque, ma una via di uscita c'è sempre, sol che si voglia trovarla: ci si può focalizzare su una determinata fase storica, e sarebbe stato ad esempio interessante raccontare solo le gesta dei pionieri, dalla fondazione della Federazione internazionale fino all'organizzazione del primo torneo iridato, ma queste sono scelte editorial - creative che spettano a chi il film lo scrive. Però, se si opta per una narrazione onnicomprensiva, è doveroso realizzarla in maniera meno grossolana, superficiale, disomogenea. Sì, "La grande passione" è una pellicola "squilibrata" nella costruzione: troppi passaggi storici epocali liquidati in poche battute o addirittura ignorati, e lungaggini inenarrabili, di converso, sulla FIFA dell'era moderna, con le sue lotte di potere e i suoi scandali veri o presunti. Più politica che calcio, il che è già una scelta programmatica discutibile, perché comporta l'abbattimento del possente effetto poetico che un prodotto del genere avrebbe invece nel suo Dna. 
MONDIALI IGNORATI - Due film diversi, slegati fra di loro, sembrano quasi convivere (a fatica) in quest'opera: la prima parte, come detto, potenzialmente potrebbe risultare la più fascinosa, evocativa, financo romanzesca, ma tutto scorre via come in un riassunto frettoloso e poco curato. I primi vent'anni di esistenza della Federazione di fatto cancellati, nemmeno un cenno alle vicende agonistiche della prima Coppa del Mondo (si passa dalla costruzione dello stadio Centenario di Montevideo direttamente alla premiazione dei campioni uruguaiani), saltate a pié pari le altre due edizioni degli anni Trenta, se non per un odioso riferimento alla kermesse del '34 ospitata dall'Italia: "L'avete organizzata per ragioni di propaganda, non certo per passione sportiva", dice Rimet rivolto al dirigente italiano Ottorino Barassi: e quando quest'ultimo afferma "comunque l'Italia l'ha vinta", il presidente FIFA gli ribatte: "No, ve ne siete appropriati"... Dialogo assolutamente improbabile, una venatura politico - ideologica che in un simile contesto assume i contorni di una forzatura, anche perché l'argomento (rapporto fra calcio e fascismo, organizzazione di quel torneo e svolgimento dello stesso) è talmente articolato e complesso (ne ho parlato qualche settimana fa sul mio blog, in due post, qui e qui) che, o lo si affronta seriamente, oppure si lascia perdere e si passa oltre. Del tutto ignorate anche le rassegne iridate dal 1954 al 1962 (gli anni della grande Ungheria, della nascita del mito Pelè e del dominio brasiliano, robetta di nessun valore, insomma). 
POCO PASSATO, TROPPO PRESENTE - La sensazione, col passare dei minuti, è che si corra a perdifiato per liquidare quanto prima la parte di storia "antica" (mentalità diffusa in tanti ambiti comunicativi: del passato frega poco, meglio dedicarsi ai tempi recenti e all'attualità, che intercettano un'audience maggiore), e che non si veda l'ora di affrontare le tematiche geopolitiche e finanziarie della FIFA contemporanea: la sfida fra l'antico presidente Stanley Rous e Joao Havelange, l'entrata in scena di Sepp Blatter, che diventa in breve il protagonista assoluto del film, il ruolo dell'Adidas, l'apertura ai Paesi del cosiddetto Terzo mondo calcistico, in primis l'Africa (dell'Asia, chissà perché, non viene fatto cenno alcuno), passaggio fondamentale nel lungo cammino della Federazione internazionale, passaggio che però "La grande passione" affronta omettendo un evento storico, il più decisivo in questo senso, ossia l'allargamento del Mondiale, in occasione di Spagna '82, da 16 a 24 squadre, modifica regolamentare adottata proprio per aumentare il numero di partecipanti fuori dal giro delle due culle del football, Europa e Sud America.
GLI INTRIGHI DELLA FIFA - Viene passata al setaccio la gestione Blatter con occhio indagatore, ma la sceneggiatura sembra muoversi maldestramente tra volontà accusatrice e benevola assoluzione, butta lì sospetti di manovre losche e giri strani (talmente gravi da poter portare il potente dirigente svizzero in galera, viene detto) ma non lascia intendere compiutamente quali siano queste malefatte di rilevanza penale, e anzi alla fine tutto si stempera mentre viene celebrata la rielezione al vertice FIFA dell'astuto Sepp, per poi chiudere in gloria con lo stesso Blatter che decreta, fra scene di entusiasmo, l'assegnazione del Mondiale 2010 al Sudafrica. Della serie: abbiamo iniziato raccontando con toni romantici i primi passi dello sviluppo mondiale del football, però per pochi minuti sennò poi il pubblico si annoia, abbiamo lungamente divagato puntando su non meglio precisati torbidi intrighi di palazzo e tentando di realizzare una pellicola di denuncia, dopodiché, oops, in dirittura d'arrivo ci siamo ricordati che in fondo l'intento del film era celebrativo (o no? Per la verità non si è capito) e allora era giusto finire con il primo Mondiale africano, emblema della totale universalità raggiunta dal pallone, ormai diffuso nei cinque continenti. Mah. 
IL CALCIO MERITA DI PIU' - Fosse stato il tema di un liceale, avrebbe seriamente messo a repentaglio la promozione del ragazzo. In questo brodo indistinto, un pizzico di retorica a buon mercato: le parentesi che, a mo' di intervallo fra un'era calcistica e l'altra, mostrano un gruppo di ragazzini alle prese con la classica partitella su un campetto sterrato, con l'unica bambina del plotone che resta insofferente in porta per tutto il film salvo poi abbandonare arbitrariamente i pali, impossessarsi del pallone e, manco fosse Aristoteles in "L'allenatore nel pallone", dribblare compagni e avversari fino a realizzare un gol che al confronto Maradona era un dilettante. Come a dire: ora il calcio è veramente di tutti perché coinvolge anche "l'altra metà del cielo". Vero (fino a un certo punto: purtroppo il "pallone in rosa" deve ancora decollare in molti Paesi, si pensi a come è bistrattato da noi), peccato che in tutto il film alla questione venga dedicata solo una mezza battuta del solito Blatter: "Per lo sviluppo del football, ora dobbiamo dedicarci anche alle donne": stop, finita lì. E peccato che il racconto di questa raggiunta universalità sia stato proposto puntando l'obiettivo più su politica e affarismo legati al calcio (con tutti i risvolti negativi del caso) che sulla faccia pulita di questo sport, sui campioni, le grandi squadre e l'entusiasmo popolare. Tornando alla domanda di cui sopra: l'intento dell'opera era celebrativo o di denuncia? La sensazione è che si dovesse fare una scelta di campo, una sola cosa fatta bene, invece se ne son fatte due male, cucinando un minestrone di difficile digeribilità: superficialità storiografica, imprecisioni, discorsi iniziati e mai portati a termine, spirito critico che rimane a metà del guado. La fascinosa leggenda del calcio, ma anche i suoi lati oscuri, meriterebbero di più e di meglio.