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domenica 29 dicembre 2013

DAL 2013 AL 2014: NOTE D'AZZURRO, L'AVVENTURA CONTINUA



Un altro anno è passato, e per "Note d'azzurro" è stato l'anno migliore della sua finora breve vita. Inutile girarci troppo attorno: quando si approntano questi consuntivi, a cavallo fra Natale e Capodanno, è doveroso mettere sui due piatti della bilancia i traguardi raggiunti e quelli mancati, con assoluta onestà. Dodici mesi fa, come i lettori più affezionati ricorderanno, il post di fine 2012 fu di natura prettamente personale: i rischi legati alla mia salute che mi avevano frenato nei mesi precedenti, l'incubo di una grave malattia e la successiva uscita dal tunnel meritarono un'ampia trattazione, non certo per la presunzione che i miei guai interessassero a una marea di persone, ma soltanto per un insopprimibile bisogno di sfogarsi, dopo settimane di sofferenza soprattutto psicologica; una sofferenza che fra l'altro, me ne sto accorgendo giorno dopo giorno, mi ha comunque segnato e mi è rimasta dentro: il catetere, l'intervento chirurgico e l'ansia del "verdetto" dell'istologico sono pensieri ricorrenti, mi visitano spesso, ma comunque tutto ciò appartiene al passato e allora via, cerchiamo di lasciarci alle spalle i ricordi più spiacevoli e di dedicare invece questo bilancio 2013 al percorso compiuto col mio blog. Un bilancio più tecnico e meno passionale, un tirar le somme di natura "editoriale", come fanno i giornali e i giornalisti veri...
CRESCITA - Sono entusiasta, ebbene sì, perché questa mia creatura è cresciuta più di quanto osassi sperare. Intendiamoci, qualcuno potrà sorridere di fronte a certi numeri che restano comunque di livello "amatoriale", ma ribadisco quanto scritto un anno fa di questi tempi: sopravvivere nel mare magnum di Internet non è facile per un blog fatto solo di passione, fuori dal giro delle grandi piattaforme blogosferiche, costretto quindi a guadagnarsi visibilità quotidianamente, con una oculata scelta degli argomenti e con una loro trattazione il più possibile competente e originale, nonché cercando di fare amicizia con altri blogger. A fine dicembre 2012 eravamo arrivati a 11mila pagine viste, totale dalla nascita di NdA, ossia da fine estate 2011; oggi siamo a oltre 37mila. Significa che in soli dodici mesi il blog ha totalizzato più del doppio di quanto aveva raccolto nei primi sedici mesi di esistenza. Dite che mi accontento di poco? Forse, ma per me è una soddisfazione enorme, perché, è persino inutile ribadirlo, si scrive anche per il piacere di essere letti, altrimenti tanto vale tenere un diario personale, di quelli che si chiudono col lucchetto (esistono ancora?) e si appoggiano sul comodino.
LE TENDENZE DEL BLOG - Sanremo uber alles! I post dedicati al Festivalone sono stati quasi sempre confortati da un pienone di visite: unica eccezione, e non me la spiego, uno degli ultimi, quello che avevo dedicato all'analisi del cast dell'edizione prossima ventura, un post che ha faticato moltissimo a decollare. Stranezze della rete... Benissimo anche gli approfondimenti sul mondo della tv; gli articoli sul cinema danno alterne soddisfazioni, così come quelli sul calcio, che però ultimamente hanno fatto registrare una discreta crescita di interesse. Genoa e Nazionale azzurra, da sempre temi "caldi" di questo blog, sono seguitissimi, soprattutto l'Italia di Prandelli, comprensibile se si pensa che quello che sta per iniziare sarà l'anno del Mundial brasiliano, evento che cercherò di "coprire" con lo stesso scrupolo dedicato a Euro 2012 e alla Confederations Cup, tempo permettendo.
CREAMY, ANNI70 E... - Tante visite anche per i pezzi sul teatro, le recensioni letterarie hanno rappresentato un esperimento che mi riprometto di ripetere nel corso del nuovo anno, il post su Creamy è stato un atto d'amore per il mondo dei cartoni giapponesi, indelebile ricordo di infanzia e parte importante della mia crescita morale e culturale: non dovrebbe rimanere un episodio isolato, qualcosa ho già in mente, vedremo che si riuscirà a fare. Discorso a parte per il "caso Pagine 70": la scomparsa del celeberrimo sito vintage, da me portata sotto le luci della ribalta già nel 2012, ha continuato a convogliare su questo blog centinaia di visitatori, e da quella massiccia attenzione è nato il progetto di creare un nuovo spazio web dedicato al mitico decennio, che riprendesse in parte la filosofia di quello... inghiottito dai gorghi del web. E' nato così "Anni70.net": un pizzico, solo un pizzico di merito per questo blog che ha sposato in toto l'iniziativa, ideata, costruita e portata avanti dalle decine di reduci seventies rimasti orfani di P70.
RINGRAZIAMENTI - A loro va il mio grazie per aver popolato e animato questo sito; grazie a tutti quelli che leggono e commentano, e un ringraziamento affettuoso e specialissimo a tre persone in particolare: l'indomito Gianni, che nonostante un anno difficile sul piano personale è stato sempre presente, e col quale è bello confrontare le nostre opinioni sui temi a noi cari (calcio, musica, Sanremo) e discutere senza remore delle nostre vicissitudini quotidiane. Grazie a Chiara, la dolce "Impronte" dalla sconfinata inventiva e dalla grande competenza musicale, conosciuta anni fa su un forum dedicato allo scambio di figurine e con la quale il legame di amicizia virtuale sta resistendo al tempo, e ne sono felicissimo; e grazie ad Alessandro, giovane appassionato di calcio di cui mi ha colpito la straordinaria competenza in fatto di tecnica e tattica, e la buonissima capacità di scrittura. Gianni, Chiara e Alessandro: i loro tre blog sono linkati in home page, sulla destra: se vi va dateci un'occhiata, e scusatemi per la pubblicità, ma ogni tanto ci vuole!
SOGNI - Cosa chiedo al 2014? Sul piano personale, salute a parte, un lavoro, e aziende che paghino ai collaboratori ciò che devono, invece di far trascorrere un anno senza farti sapere nulla, per poi farsi inseguire telefonicamente. La figura barbina ce la fanno loro, non certo io che chiedo solo ciò che mi spetta... Per il blog, sarei già contento di difendere con successo le posizioni faticosamente conquistate. Riguardo ai temi trainanti di "Note d'azzurro", beh, cosa vorrei dal calcio italiano l'ho già scritto talmente tante volte che troverei sgradevole ripetermi: chi mi legge sa cosa penso delle brutture del nostro football e cosa vorrei che cambiasse. Idem per la Nazionale azzurra, i cui problemi ho ripetutamente segnalato su queste pagine nell'anno solare. Vorrei un Genoa meno schizofrenico nei movimenti di mercato (e le ultime due campagne acquisti hanno segnato una parziale  inversione di tendenza in questo senso) e soprattutto sul campo (e qui ancora non ci siamo: dopo aver trovato un apparente equilibrio di squadra, di gioco e di risultati col ritorno di Gasperini, nelle ultime settimane si è rivisto il Grifone inaffidabile e poco cattivo delle recenti stagioni. Sveglia!).
Al Festival di Sanremo chiederei un ritorno totale alla centralità della musica:  negli ultimi anni, grazie al duo Fazio - Pagani e soprattutto a Gianmarco Mazzi, si son fatti grossi passi avanti, ma ancora siamo lontani dal rigore artistico che caratterizzò la kermesse fino a metà anni Novanta, prima che la televisione la cannibalizzasse. Già, la tv: questo è il terreno più minato. L'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare, avrebbe detto Gino Bartali. Il piccolo schermo dovrebbe ritrovare il gusto del bello, e il buon gusto tout court: l'uno e l'altro si sono smarriti nei gorghi di trasmissioni di bassa qualità, concepite male e scritte peggio, e animate da personaggi di dubbio talento (discorso che vale, elevato al quadrato, per le fiction di produzione nostrana). Vorrei meno talk show politici, che sono il trionfo del baccano, della retorica, del "predico bene e razzolo male", passerella per politici che passano più tempo davanti alle telecamere che sul loro posto di lavoro (con alcuni di loro ti addormenti la sera e ti risvegli la mattina: che trascorrano le notti negli studi televisivi?). Vorrei una tv che sapesse, per almeno un mese, fare a meno di Al Bano, ma quest'ultimo pare proprio un desiderio irrealizzabile... Buon 2014 a tutti!

sabato 21 dicembre 2013

IL CASO JALISSE: DA 17 ANNI BUSSANO INVANO A SANREMO. DA DON BACKY A MIETTA, GLI ALTRI ESCLUSI DI LUNGA DATA



Entrare a far parte del cast dei Big del Festival di Sanremo è ormai un privilegio riservato a pochi, vista la... cura dimagrante a cui la categoria d'élite della rassegna canora (come anche la sezione giovani, del resto) è stata sottoposta negli ultimi anni: appena 14 posti a disposizione, mentre ci fu un tempo in cui si arrivò addirittura a quota 26. Gli esclusi, quindi, sono fatalmente tanti, e molti di essi, dopo aver esternato ai quattro venti mediatici la loro rabbia o averla faticosamente repressa, non possono che esclamare "sarà per l'anno prossimo!". D'accordo, ma c'è chi "sarà per l'anno prossimo" è costretto a dirlo sistematicamente tutti gli anni, nientemeno che dal 1998. E' lo strano caso dei Jalisse, dei quali ho letto stamane un accorato sfogo sul profilo ufficiale Facebook: "Si avvicina Sanremo - scrivono - Anche quest'anno abbiamo presentato il nostro prodotto. Anzi due, come vuole Fazio. Sono 17 anni e 17 brani inediti che presentiamo, ma non passano". 
Ce ne sarebbe abbastanza per parlare di ostracismo. Non mi piace tranciare giudizi senza conoscere a fondo tutti i fatti e i retroscena, ma di certo la parabola dei Jalisse ha in sé molto di insolito, e un retrogusto che definire amarognolo è forse eufemistico. Stare qui a discutere le scelte della commissione artistica di quest'anno avrebbe poco senso, perché non si conosce la qualità dei brani ammessi alla gara, né quella dei "bocciati". Qualche considerazione la si può invece fare sui Festival del passato: canzoni come "6 desiderio" (2004), "Linguaggio universale" (2007) e "Ritornerà il futuro" (2011), tre tra le tante proposte dai Jalisse, potevano approdare all'Ariston senza scandalo, soprattutto pensando a certi dimenticabilissimi "capolavori" ammessi in concorso in quelle edizioni. 
LA SORPRESA DEL 1997 - Ma chiaramente il discorso è più ampio: diciassette tentativi consecutivi di partecipazione andati a vuoto fanno sensazione. Anche perché Alessandra Drusian e Fabio Ricci, i Jalisse per l'appunto, non sono dei parvenus delle sette note. Sono dei professionisti con alle spalle una lunga carriera, sono musicisti e cantanti preparati ed eclettici, come la loro vasta produzione testimonia. Hanno modalità espressive di grande raffinatezza, sono capaci di recepire le sonorità più moderne di stampo internazionale riuscendo a sposarle con i classici stilemi italiani, in particolare con la melodia coniugata in chiave contemporanea. Hanno anche vinto un Festival di Sanremo, i Jalisse, nel 1997, e da quel momento è iniziata per loro una lotta impari, che li ha visti respinti ai margini dell'arengo della musica da classifica e da rotazione radiofonica.
Il trionfo del duo in quell'ormai lontano Festival rappresentò senz'altro una sorpresa clamorosa, ma avvenne in maniera del tutto cristallina, nel pieno rispetto di un regolamento che, in quegli anni, concedeva alle Nuove proposte in gara nell'edizione precedente di concorrere per la conquista di quattro posti nella categoria "regina". E i Jalisse, debuttanti nel 1996 con la sofisticata ed eterea "Liberami", superarono questa pre - selezione, entrarono fra i Big (assieme a Marina Rei, Silvia Salemi e agli O.R.O.) e sbaragliarono concorrenti più onusti di gloria, conquistando il primo premio. Sorpresissima, ma fu esattamente lo stesso, identico percorso seguito due anni prima da Giorgia: nessuno si scandalizzò, nel '95, e anzi tutti plaudirono, giustamente, alla nascita di una nuova stella che, lo si intuiva, avrebbe segnato la storia della musica italiana. 
ALTRO CHE METEORE... - L'affermazione di "Fiumi di parole" venne invece presa da più parti come il paradigma di ciò che Sanremo non dovrebbe essere. Addirittura anni dopo, ai tempi dei primi trionfi di Fazio sulla Riviera ligure, un importante dirigente Rai esclamò, trionfante: "Abbiamo traghettato il Festival dai Jalisse agli Avion Travel: indietro non si torna". Incomprensibile. Alla base di tutto c'è anche un equivoco di fondo: i Jalisse vengono citati spesso come esempio di meteora sanremese subito caduta nel dimenticatoio, e invece, ancora oggi, anche chi non è a conoscenza del loro (intenso) percorso artistico successivo si ricorda di loro, e ricorda perfettamente "Fiumi di parole" che, piaccia o no ai detrattori, è diventata una evergreen del Festival, e pochi mesi dopo quella "vittoria di Pirro" si comportò molto bene all'Eurovision Song Contest, strappando un bel quarto posto. Era, è, una canzone di buona fattura, un pop brillante e intenso, ottimamente interpretato. Più apprezzata all'estero che da noi, così come il duo che l'ha lanciata.
OLTRE LA CANZONE - Già dall'anno dopo tentarono un ritorno a Sanremo (con "Le cime del Tibet"), ma non ci fu verso, e così successivamente, fino ad oggi. Senza parole. Rimane la soddisfazione di un curriculum comunque di notevole spessore: Alessandra e Fabio han continuato a produrre musica di qualità ma, soprattutto, sono andati oltre la canzone fine a se stessa. Si sono impegnati in ambito sociale e didattico, con progetti come "Artisti nelle scuole", finalizzato allo sviluppo della creatività e alla formazione musicale dei bambini, o iniziative di promozione culturale e turistica del territorio nostrano come "Localitour d'Italia". E ancora, un fortissimo impegno civile: i loro brani, i loro dischi sono spesso il risultato finale di intense collaborazioni con artisti di ogni parte del mondo, per lanciare messaggi di pace e di speranza, per promuovere la difesa dei diritti umani anche nelle zone più martoriate del pianeta... Chi vuol saperne di più può dare un'occhiata al loro sito, www.jalisse.it. Insomma, altro che meteore: i Jalisse sono... sopravvissuti a quel tempestoso 1997, e hanno saputo interpretare il loro mestiere in chiave estesa e altruista, nonostante i "niet" arrivati da Sanremo, che però bruciano ugualmente, e lo si capisce. 
NON SOLO JALISSE: REITANO E GLI ALTRI - E' altresì vero che che, prima e dopo i Jalisse, altri cantanti hanno dovuto subire la freddezza di commissioni e direttori artistici sanremesi. Il povero Mino Reitano, ad esempio, stando ai giornali è stato in lizza per partecipare al Festival quasi ogni anno, nel corso della sua carriera, ma alla fine ha collezionato appena sette presenze, quasi nulla se si pensa alla sua longevità artistica. E che dire di Don Backy, un altro che ci ha tentato spessissimo ma, una volta uscito dal giro dei grandi venditori di dischi (diciamo a inizio anni Settanta) in riviera ha sempre trovato la porte sbarrate? Arrivò al punto, nel '95, di inscenare una protesta plateale, denudandosi davanti al Colosseo per denunciare l'ostracismo decretato nei suoi confronti dalla Rai. 
Little Tony il Festival fu costretto a vederlo sistematicamente in tv,  proprio negli anni in cui suoi coetanei e rivali di antiche battaglie, come Bobby Solo, Fausto Leali e Patty Pravo, videro rifiorire la loro popolarità partendo dal palco dell'Ariston (particolarmente bruciante per lui fu l'esclusione del '94 con il bel pezzo "Dentro ad ogni cosa", poi portato al successo dagli Audio 2). In tempi più recenti ha avuto ragione di lamentarsi Mariella Nava, che per la verità fino all'inizio del secolo di partecipazioni sanremesi ne aveva accumulate un bel po', ma che dopo la brillante comparsa del 2002 con "Il cuore mio" ha visto andare a vuoto i suoi numerosi tentativi (con alcuni gioiellini come "It's forever" e "In nome di ogni donna", che avrebbero meritato di essere ascoltati da una immensa platea come quella della kermesse ligure, così come "Piano inclinato" e "Dimmi che mi vuoi bene", respinte negli anni Novanta). E ancora, Mietta: rimane ancora oggi una delle voci più calde e convincenti della nostra canzone, ha mostrato coraggio e versatilità passando attraverso gli stili più disparati: è incredibile che negli ultimi vent'anni alla cantante pugliese siano stati concessi solo tre passaggi festivalieri, di cui uno come ospite di Morris Albert, nel 2004. Molto discussa fu, in particolare, la bocciatura del 2003: la sua "Abbracciati e vivi", canzone dal sound moderno, in linea con le nuove sonorità anni Duemila, era superiore ad almeno quattro dei motivi ammessi alla gara. 

giovedì 19 dicembre 2013

SANREMO 2014: CAST ECUMENICO, FRA POP, ELITE E QUALCHE AZZARDO DI TROPPO. DA RENGA AI PERTURBAZIONE


Pareva strano, in effetti. Le previsioni dei più attendibili "esperti" in merito al cast dei Big di Sanremo 2014 avevano disegnato, nei giorni scorsi, un "listone" un po' troppo commerciale. Non certo "nazionalpopolare", intendiamoci, ma sicuramente dal deciso sapore pop, con nomi di grandissimo impatto mediatico e di "facile presa", un cast per andare sul sicuro in termini di passaggi radiofonici e di classifiche di vendita. Un cast, in parole povere, poco "faziano". Non poteva essere, e infatti l'annuncio odierno dei 14 "magnifici" che si daranno battaglia in Riviera dal 18 al 22 febbraio prossimi è stato di primo acchito spiazzante. Lo straniamento, va da sé, si attenua molto pensando che il criterio di composizione del cartellone sanremese è stato, né più né meno, lo stesso adottato dodici mesi fa per il Festival 2013. 
CAST A 360° - Del Sanremo di stampo "baudiano" è rimasta l'ecumenicità delle scelte: oggi come allora, la direzione artistica tenta di dar spazio al maggior numero di tendenze possibili, ad accontentare la più vasta gamma di fasce di pubblico. La differenza rispetto al passato è che, se una volta la linea editoriale era quella di privilegiare la tradizione e il classico, oggi si punta con maggior decisione sulla produzione di marca contemporanea, sulle sonorità e sugli stili più in voga. L'inversione di tendenza, in questo senso, l'aveva già data Gianmarco Mazzi nel suo quinquennio di gestione, non ci stancheremo mai di ripeterlo; di loro, Fazio e Mauro Pagani ci hanno messo un coraggio maggiore nell'effettuare scelte sofisticate, quasi d'élite, e quindi a rischio di impopolarità o di scarso peso penetrativo presso i telespettatori e i "consumatori" di musica. 
DRAPPELLO POP - Nel dettaglio, Sanremo 2014 soddisfa la sua anima più pop e glamour con la convocazione di Arisa, Noemi, Francesco Renga, Giusy Ferreri e Francesco Sarcina. Sono tutti big nati negli anni Duemila, con curricula solidissimi, vasta credibilità artistica presso gli appassionati più giovani (ma non solo), modalità espressive radicalmente diverse fra di loro: Renga, in particolare, è una delle voci maschili migliori, per potenza ed estensione, prodotte negli ultimi trent'anni dalla canzone italiana, Noemi e Arisa hanno finora sempre fatto centro nelle loro partecipazioni sanremesi, la Ferreri torna tre anni dopo l'eccellente performance sfoderata con "Il mare immenso" di Bungaro, brano intenso e ben costruito, non ricordato come meriterebbe. Sarcina, infine, riesce finalmente a ricrearsi una verginità dopo il lungo capitolo Vibrazioni, iniziato alla grande (pareva una band destinata a segnare la storia della musica nostrana) e chiuso in tono minore. Stupisce, casomai, la pressoché totale assenza di rappresentanti di quel rap italiano che ha marchiato a fuoco le classifiche di vendita dell'anno solare in via di conclusione. Un Fedez, un Moreno o un Clementino avrebbero rappresentato dei formidabili "acchiappa audience". 
SORPRESA GUALAZZI? - Nella terra di mezzo fra "easy listening di qualità" e "sperimentazione" troviamo personaggi come Frankie Hi - NRG, veterano dell'hip hop italiano, mai banale nelle sue proposte e mai apprezzato per quello che effettivamente vale, poi Giuliano Palma, musicista di straordinario eclettismo (soul, ska, jazz e quant'altro) e un Gualazzi dal quale potrebbe arrivare qualcosa di sorprendente, visto l'abbinamento con The Bloody Beetroots, che frequenta territori musicali radicalmente diversi da quelli finora esplorati dal vincitore di Sanremo Giovani 2011. Più ampio del previsto lo spazio riservato ai veterani:  si faceva da tempo il nome di Cristiano De Andrè, mentre in pochi avrebbero scommesso sul ritorno in pompa magna di Antonella Ruggiero (bocciata l'anno passato) e soprattutto di Ron, che manca dalla ribalta sanremese dal 2006 e pareva essere un po' uscito dal circuito che conta. Perlomeno c'è stata fantasia nelle scelte, visto che ci sono stati risparmiati i nomi dei soliti prezzemolini ultrapresenzialisti all'Ariston e in Rai (anche se l'ex Matia Bazar non è che abbia lesinato le sue partecipazioni alla kermesse ligure, intendiamoci...). 
SCELTE ARDITE - Il resto del cast desta qualche perplessità, non tanto per la qualità degli artisti, quanto per la qualifica di big loro attribuita: Riccardo Sinigallia è ben noto a chi mastica un po' di musica, è attivo a notevoli livelli fin dagli anni Novanta, tuttavia ha sempre, più che altro, operato dietro le quinte, come musicmaker e creativo di notevole brillantezza, collaborando fattivamente al successo di altri nomi assai più popolari (Tiromancino in primis): non è però un cantante di immediata riconoscibilità, se non presso una ristretta cerchia di appassionati ed esperti. Idem per i Perturbazione, gruppo di vasta esperienza, che ha tratto le  maggiori soddisfazioni dai live e da alcune collaborazioni di spessore, mentre il mercato discografico raramente ha riservato riconoscimenti autenticamente tangibili. Ma sono i classici rischi che ogni tanto i vari patron e direttori artistici del Festival si prendono, "forzando" l'ingresso fra i big di personaggi ancora in fase di emersione o provenienti da circuiti alternativi, per cercare di spingerli verso una crescita di notorietà e un mercato più generalista: un po' quello che venne fatto l'anno passato per i Marta sui Tubi. 
Stesso discorso applicabile a Renzo Rubino che, proprio no, big non può essere considerato, visto che l'anno scorso nemmeno ha vinto la categoria Giovani del Festival e non si può certo dire che in questi dodici mesi si sia messo più in evidenza di Antonio Maggio, trionfatore fra le Nuove proposte 2013. Ma Big autentici, ai loro tempi, non lo erano nemmeno Zucchero, o Nek, o Marco Armani o Flavia Fortunato: inserire certi ragazzi nella categoria regina serve per spingerli presso il pubblico, ritenendoli meritevoli di un'affermazione che fatica ad arrivare, per un motivo o per l'altro. Come si evince dai quattro nomi appena fatti, l'azzardo a volte ha esito positivo, a volte no. 
I DELUSI - Detto che giustamente non si è pagato il solito tributo ai vincitori dei talent sulla cresta dell'onda, da The Voice a X Factor (che maturino e facciano altra esperienza, questi ragazzi: Sanremo se lo devono ancora meritare), l'elenco dei non convocati è lunghissimo, come sempre. Stando alle voci girate in queste frenetiche settimane di vigilia, sono rimasti al palo, fra gli altri, Alice (in lizza, pare, con pezzi di Battiato), Syria, Sal Da Vinci, Alex Britti in coppia con Bianca Atzei, il citato Antonio Maggio, Il Cile, Mango, Mondo Marcio, Sergio Caputo, Violante Placido, Anna Oxa, Sergio Cammariere, Mietta e, notizia delle ultime ore, i Jalisse, che, leggo su Facebook, da 17 anni presentano pezzi alle varie commissioni e da 17 anni vengono sistematicamente esclusi. Altri nomi sono stati fatti, ad esempio Nek ed Enrico Ruggeri, ma su di essi non esistono certezze assolute (così come non esistono mai, in generale, sugli esclusi da Sanremo, che spesso non gradiscono comparire in tale veste sui media e quindi preferiscono tenere un assoluto riserbo in merito). Ribadiamolo per l'ennesima volta: con tante richieste di partecipazione, costerebbe davvero tanto aggiungere due posti? Da 14 a 16 Big cosa cambierebbe? 

domenica 15 dicembre 2013

IL TKC TEATRO DELLA GIOVENTU' LANCIA "TRA LE TETTE DELLA FORMICA (SI STA STRETTI)", SITCOM SUL TEATRO IN 12 PUNTATE

                         Gli attori della TKC, protagonisti della serie. Al centro, Eleonora D'Urso

Una sitcom sul mondo del teatro realizzata da una compagnia teatrale. Verosimilmente una primizia assoluta, nel panorama artistico italiano. E non potevano essere che quei... pazzi scatenati della The Kitchen Company a concepire e mettere in pratica una simile idea. Ecco dunque l'insolito fiocco rosa in casa TKC Teatro della Gioventù, nel centro di Genova: nasce "Tra le tette della formica (si sta stretti)", una miniserie comica in 12 puntate distribuite in dvd.
Una novità, si diceva. L'ennesima di una catena che, negli ultimi anni, ha piacevolmente messo a soqquadro il mondo teatrale genovese (e, perché no, quello nazionale tout court): prima l'apertura estiva della sala con spettacoli anche nei mesi della "canicola", poi la doppia rappresentazione giornaliera con la messa in scena  delle ore 19 e ora, per l'appunto, la produzione e il lancio di una sitcom interpretata in toto dagli attori della Kitchen Company. Spieghiamo il titolo, innanzitutto, che riprende un modo di dire equivalente al famoso "In bocca al lupo - Crepi il lupo", anche se meno diffuso: l'augurante dice "Tra le tette della formica" e il destinatario dell'augurio deve rispondere" Si sta stretti!".
La serie accende i riflettori sulla caotica e surreale vita di una compagna teatrale: è un primo tentativo di catturare, con la macchina da presa, ciò che accade nel mondo fascinoso, imprevedibile, a tratti paradossale, del teatro. E chi meglio di persone che nel teatro ci lavorano, e di teatro di fatto vivono, poteva lanciarsi in questa innovativa e audace impresa quasi... autobiografica? Deus ex machina del progetto è Eleonora D'Urso, direttore artistico (assieme a Massimo Chiesa) del TKC e, nello specifico, produttrice, sceneggiatrice, regista e interprete della sitcom. "Da almeno due anni - confida - sognavo di mettere in piedi un'operazione come questa. La vedevo come l'evoluzione naturale di un affiatamento, quello fra me e gli attori della TKC, che questi sei anni di attività insieme hanno reso inossidabile e piacevole. Lavorare con questi ragazzi mi rende felice, scrivere soggetti per loro e interpretarli al loro fianco è bellissimo, mi appaga e mi dà stimoli sempre nuovi". 
Il linguaggio di "Tra le tette della formica" è quello dello humour, della comicità, il più congeniale al recente percorso artistico, autoriale e attoriale sviluppato dalla D'Urso e dalla sua "squadra": con ironia, in... punta di sorriso, vengono messe alla berlina bizzarre abitudini, rivalità, sogni, istrionismi, disturbi della personalità e riti scaramantici di una scombiccherata compagnia di attori, il cui obiettivo è scrivere e mettere in scena una romantic comedy destinata a sbancare i botteghini. Si riderà, dunque, anche se non si tratta di una comicità chiassosa, di grana grossa, sullo stile di certe arene televisive: occhio, ammoniscono i ragazzi della TKC, ad attendersi una risata ogni dieci secondi, una sarabanda continua di battute come avviene in certi telefilm americani: si resterebbe delusi. Eccesso di prudenza, a parere di chi scrive: visionata la prima puntata, si può tranquillamente dire che i momenti di ilarità sono assai frequenti, frutto di un umorismo arguto eppure alla portata di tutti, di tempi comici perfetti e di una eccellente alchimia fra i personaggi.
Si punta, dunque, sull'accentuazione un po' caricaturale degli aspetti più singolari, divertenti  e grotteschi di fare teatro e di chi fa teatro, ma ci sono anche, pur alleggeriti in chiave sdrammatizzante, tanti elementi narrativi riconducibili ai problemi di oggi e di sempre dell'universo teatrale, dalle difficoltà dei giovani attori alle prime armi a quelle di realizzazione  e rappresentazione di uno spettacolo. E' un esperimento, d'accordo, ma fatto con tutti i crismi tecnici e di messa in scena; non è una "web serie", alcune delle quali si caratterizzano per pecche notevoli di scrittura e recitazione: è il frutto, dice ancora la D'Urso, "del lavoro di una realtà produttiva consolidata e affiatata, fatta di attori giovani e preparati e di figure professionali che da due anni rendono possibile ciò che qui sta accadendo". 
La serie non viaggerà in web streaming (i trailer si possono comunque visionare sul canale You Tube della The Kitchen Company), né è stato chiesto un "diritto di antenna", non sono stati cioè cercati partner tv per la messa in onda: è una serie nata in teatro e che attraverso il teatro verrà diffusa. Il primo dvd, con la prima puntata  e un contenuto "extra", è infatti già in vendita, a soli 5 euro, presso il botteghino del TKC, e prossimamente sarà acquistabile anche online sul sito del teatro. Gli altri seguiranno. Accanto a Eleonora D'Urso, recitano in "Tra le tette della formica" Marco Zanutto, Daria D'Aloia, Fabrizio Careddu, Carlo Zanotti, Barbara Alesse, Luca Sannino, Daniela Camera e Martina Lodi. 

venerdì 13 dicembre 2013

LE MIE RECENSIONI: ZALONE IN "SOLE A CATINELLE", UN FILM... ORECCHIABILE


Dunque, ho visto "Sole a catinelle". L'ho visto perché, piaccia o non piaccia, sul piano commerciale è stato il fenomeno cinematografico italiano del 2013, e alla nascita di questo fenomeno ho in pratica assistito in presa diretta. Alcune settimane fa, prese forma davanti ai miei occhi l'oceanico assalto ai botteghini in una delle prime giornate di proiezione della terza opera di Checco Zalone. Ero in coda per vedere un altro film, ma quella massa di gente di ogni età mi colpì, inevitabilmente. Scoprire i segreti di questo travolgente successo è impresa ardua: certi boom a volte nascono per caso, o sono comunque figli di fattori e contingenze che esulano dalla mera qualità artistica della pellicola. Lo stesso, del resto, avviene in un altro settore "pop" dalle tendenze molto ondivaghe e difficilmente inquadrabili, quello della musica leggera, con canzonette di scarsa consistenza autoriale che diventano autentici tormentoni planetari (ricordate il modesto "Gangnam style" che, giusto l'anno scorso di questi tempi, ci veniva proposto in tutte le salse ovunque, dalla radio a Internet, persino nei telegiornali?). 
FACILE PRESA - Se proprio si volesse azzardare una spiegazione, si potrebbe dire che nel mondo della canzone sfondano più sovente l'immediatezza e la semplicità, e lo stesso criterio si può applicare alla celluloide. Ecco, con una forzatura linguistica "Sole a catinelle" può essere catalogato come un film... orecchiabile, di facile presa, e come tale costruito su misura per conquistare la vetta della hit parade. Attenzione: non siamo di fronte a una "trashata" indegna, come molti l'hanno aprioristicamente bollata. "Sole a catinelle", diretto da Gennaro Nunziante, è un prodotto onesto e pulito: tiene fede alle premesse, perché si ride, si ride davvero. I cali di "tensione comica" sono ben pochi, e soprattutto ben poche volte si scade nella trivialità "dura e pura" per strappare il sorriso allo spettatore.  Zalone conosce il mestiere e lo ha affinato negli anni: è uno "zelighiano" atipico, nel senso che, al contrario di molti dei colleghi con cui ha condiviso il popolare palcoscenico Mediaset, è in grado di sopravvivere decorosamente anche al di fuori dello show campione di ascolti televisivi. 
NON SOLO ZELIG - Non è un cabarettista da tormentoni, uno di quelli, per l'appunto, che fanno la fortuna di programmi come il citato "Zelig", o il vecchio "Drive in" o, ancora, il nuovo "Made in Sud", ma che tolti da quel meccanismo rigidamente schematico finiscono col boccheggiare come pesci fuor d'acqua: Checco ha un repertorio più ampio e articolato, sia pure con certi capisaldi, dall'ostentata e artefatta ignoranza linguistica a certi pregiudizi tipici di un'italianità non ancora scolarizzata o culturalmente arretrata, fino a un pizzico di sbrigativa perfidia nell'affrontare argomenti non facili; in più, la solita pennellata musicale, un suo marchio di fabbrica, con la canzoncina "finto - seria" o ironica tout court, eppure costruita con la perizia tecnica di una vera hit commerciale (nel caso specifico, "Superpapà", orecchiabile sigla del film). 
IRONIA NON OFFENSIVA - "Sole a catinelle" non ha in sé molto di originale, il canovaccio è semplice e lineare, ma fa leva sull'attualità più stretta, sul dramma del restare senza lavoro, della crisi professionale che finisce col riverberarsi anche sulla famiglia, mettendo a repentaglio annosi legami affettivi. Poi, certo, il dramma vira ben presto in farsa, ma non nego che nelle battute iniziali del film il sottoscritto abbia persino avvertito un vago senso di malinconia, un certo magone di sottofondo, perché parlare di licenziamenti e di difficoltà a sbarcare il lunario di questi tempi è pur sempre un pugno nello stomaco. Zalone e la sua squadra riescono ad alleggerire un tema pesante, ispido, ma lo fanno in modo non offensivo, ironizzando il giusto e offrendo sempre una chiave di lettura ottimistica, un voler cercare lo sbocco positivo anche in situazioni dai risvolti amarissimi. Intrecci narrativi per palati facili e lieto fine assicurato, ma vi è qualcosa di disdicevole in tutto ciò? Altri registi, altri attori sviscereranno in modo crudo la piaga della disoccupazione galoppante. Zalone invita al sorriso e, ripeto, lo fa con misura, da battitore libero, giocando sempre sul filo del "politicamente scorretto", com'è suo costume, ma senza pesantezza e riuscendo comunque a non minimizzare, a non "svuotare" del reale significato la difficile situazione sociale rappresentata,.
OTTIME SPALLE - Tuttavia, non siamo davanti a un "one man film", e questo è un altro punto a favore della pellicola. Zalone è ovviamente il mattatore, ma si è saputo circondare di spalle all'altezza. Il termine "spalla" va sottolineato, perché, certo, l'unico protagonista è lui e gli altri fanno contorno, ma è un contorno sostanzioso, attivo. Bravissimi i due bambini, Robert Dancs che impersona Nicolò, lo studiosissimo figlio di Checco, davvero un mostro di abilità recitativa, così come Ruben Aprea nei panni di Lorenzo, il "ragazzino problematico" (l'espressione è usata da Checco, a proposito del mutismo selettivo da cui il piccolo è affetto): due mini attori che potrebbero dare lezioni a tanti interpreti di alcune sciape fiction Rai e Mediaset, gonfie di prove attoriali "adulte" francamente imbarazzanti. 
Ho rivisto con piacere Valeria Cavalli, che ricordo come valletta, assieme alla splendida Jinny Steffan, ai tempi dello show di Raiuno Fantastico 4, quello con Gigi Proietti e Teresa De Sio. E Marco Paolini, mai sopra le righe, riesce a ritagliarsi una sua credibilità scenica anche al di fuori del contesto di "teatro civile" che ormai è il suo brodo di coltura ideale. Basta tutto questo a spiegare pienamente il tutto esaurito di "Sole a catinelle"? No, chiaro, ma va anche detto che far comicità, in Italia, pare essere diventata oggi un'impresa titanica. Zalone è uno dei pochi in grado di riuscirci in maniera organica, e non solo con il rapido sketch "one shot": che il pubblico si precipiti a guardarlo non è, in fondo, più di tanto sorprendente. 

giovedì 12 dicembre 2013

CALCIO ITALIA, DISASTRO CHAMPIONS, RESTA SOLO IL MILAN: ORA SI RISCOPRIRA' L'ODIATA EUROPA LEAGUE?

                           Sotto la neve di Istanbul è svanito il sogno Champions della Juve

Beffarda legge del contrappasso. Dopo aver ignobilmente snobbato per anni l'Europa League, considerata solo un fastidioso ostacolo alle imprescindibili sfide della Serie A, nel 2014 il calcio italiano dovrà riversare anima e corpo sulla "parente povera" della Champions League. In soldoni, Napoli, Juventus, Fiorentina e Lazio dovranno fare più strada possibile, e almeno una di esse arrivare fino in fondo e vincere la finale di Torino. E' un obbligo morale e tecnico, per tenere a galla la pericolante zattera del pallone tricolore, quasi totalmente cancellato dall'Europa dei grandi in una serata che resterà nella storia come una delle più nere di sempre per il nostro football.
JUVENTUS GAMBERO - Siamo di fronte, a questo punto lo si può dire, a qualcosa di assai peggiore di una prolungata congiuntura sfavorevole. Il rischio di un ridimensionamento epocale è dietro l'angolo. La distanza fra le grandi potenze continentali e il nostro scalcinato movimento sta diventando una voragine. La cartina di tornasole non può che essere il comportamento della nostra più prestigiosa rappresentante nel consesso internazionale, la Juve biscudettata e avviata a conquistare un tris che però, visto quanto successo a Istanbul, avrebbe uno sgradevole retrogusto agrodolce. Svaniti nel nulla i progressi fatti balenare nella stagione passata, quando i bianconeri ottennero vittorie di peso (un roboante 3 a 0 al Chelsea, dopo aver pareggiato a Londra, un successo in casa dello Shakhtar, doppia affermazione sul Celitc negli ottavi), e si arresero solo, nei quarti, al devastante Bayern Monaco della primavera scorsa, quello che mise a ferro e fuoco il Camp Nou per poi aggiudicarsi il trofeo. Sembrava un buon trampolino di lancio per una ulteriore risalita nei valori continentali, che doveva esser favorita dall'arrivo di un top player come Tevez, invece c'è stato un regresso netto, imbarazzante e, per certi versi, incomprensibile. 
LA STRANA TIMIDEZZA DEI CALIFFI AZZURRI - Le polemiche sulle condizioni atmosferiche e ambientali trovate in Turchia sono talmente gratuite da risultare fastidiose: è stato tutto il girone della Juve a essere scandaloso. Una squadra che vuole ben figurare in Champions deve battere il Copenaghen a domicilio, concretizzando almeno una delle innumerevoli palle gol costruite, e deve ottenere almeno quattro punti su sei contro un  Galatasaray che, sul piano della classe complessiva, non vale i torinesi, pur potendo contare su alcuni elementi di valore e di esperienza come Sneijder e Drogba.
L'eliminazione è ineccepibile, e rappresenta una bocciatura inattesa anche per il nucleo azzurro della Juve: inattesa perché i vari Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Marchisio e Pirlo in Nazionale non solo fanno sempre decorosamente la loro parte, ma risultano sovente trascinatori e sono stati spesso decisivi nei traguardi conquistati in questi tre anni dal team di Prandelli. Quando tornano in bianconero e vengono chiamati a far la voce grossa fuori dai patrii confini, diventano degli agnellini (sic!): la stessa cosa accadeva spesso a loro illustri predecessori, penso al gruppo bianconero dell'Italia di Bearzot, ai vari Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea e Tardelli che in Europa non brillarono affatto, prima di diventar campioni del mondo in Spagna e di poter accogliere fra le loro file fuoriclasse esteri come Platini e Boniek, coi quali fecero incetta di allori. Questo per dire che si tratta di una strana tara storica per la Vecchia Signora, senonché molti esponenti del citato blocco italiano, dopo il Mondiale dell'anno prossimo, cominceranno la loro parabola discendente, e dunque questa Champions League rappresentava forse la loro ultima occasione ad altissimi livelli. 
NAPOLI, CHE INGIUSTIZIA; MILAN IN TRINCEA - Certo, poi c'è il caso del Napoli: eliminazione che non fa un piega a termini di regolamento, ma moralmente inaccettabile: la squadra di Benitez ha tenuto alto il nome del nostro declinante football sia sul piano del gioco sia su quello dei risultati: quattro vittorie e due sconfitte, battuti in casa l'Arsenal e i vicecampioni d'Europa del Borussia, l'unica gara veramente sbagliata è stata quella di Londra ma, insomma, non si vede cosa dovessero fare di più i partenopei per passare: loro fuori con dodici punti, mentre la Juve, tanto per dire, ha rischiato di passare con sette, prima della rasoiata finale di Sneijder. Ha rischiato grosso anche il Milan, se quella rovesciata di Klassen all'ultimo secondo fosse stata più precisa di un paio di centimetri: i rossoneri si sono qualificati senza gloria, costretti a una battaglia in trincea contro un Ajax giovane e senza stelle, un atteggiamento solo in parte giustificato dall'inferiorità numerica causata dalla grave scorrettezza di Montolivo (il cui momento difficile, anche in azzurro, si sta prolungando pericolosamente): lo scintillante Milan europeo costretto a far mucchio dietro per salvare lo zero a zero, come le squadre italiane facevano fino ai primi anni Ottanta: tristezza assoluta, e consapevolezza che al momento un quarto di finale rappresenterebbe, per gli uomini di Allegri, un traguardo eccezionale. 
DIVARIO - Torniamo al punto di partenza: il divario con i club delle tre nazioni più potenti è sempre più ampio, al momento direi incolmabile. I motivi di questo crollo di competitività sono stati elencati più volte su questo blog, non voglio risultare stucchevolmente ripetitivo. Il problema contingente è che anche al cospetto di paesi nostri "pari" o inferiori, calcisticamente parlando, le squadre italiane faticano: per fare un esempio, la superiorità di Juventus e Milan nei confronti di Galatasaray e Ajax è evidente, ma non tanto schiacciante da consentire loro di giocare con autorità e onorare il pronostico favorevole.
Non ci sono più certezze, insomma: siamo arrivati a un punto in cui i club nostrani possono perdere con chiunque e vincere solo con qualcuno: l'emblema della decadenza. E allora, ripetiamo, non rimane che l'Europa League: il contingente azzurro, almeno in questo ambito, è di primo piano, e il messaggio è di quelli da non sottovalutare: per lavare i propri peccati, per ripartire da zero e ricominciare la scalata, l'Italia del calcio deve tornare ad apprezzare le piccole cose, nella fattispecie a dare il giusto rilievo all'odiata "coppa minore", come all'estero fanno da anni e con ottimi risultati in tema di ranking Uefa: riusciranno, i nostri scalcinati eroi, a immergersi in questa nuova e più spartana dimensione europea mettendo, una volta ogni due settimane, l'adorata e svalutata Serie A in secondo piano?  Stai a vedere che adesso si scoprirà che all'handicap della partita al giovedì si potrà ovviare con adeguati posticipi ad hoc... 

lunedì 9 dicembre 2013

CAGLIARI - GENOA, IL MARTIRIO DI MANFREDINI E QUELLI CHE "GLI ARBITRI ITALIANI SONO I MIGLIORI AL MONDO"

                                       Gasperini: rabbia per l'ingiusto ko di Cagliari

Fra i problemi che minano alle fondamenta il buon funzionamento del sistema calcio Italia non ci sono solo il teppismo dilagante (con annesso strapotere degli ultras negli stadi), l'inadeguatezza degli impianti e delle modalità di accesso agli stessi per i tifosi "normali", la discutibile gestione finanziaria di molte società, le scommesse e le partite truccate, l'esterofilia dilagante e il conseguente semiabbandono dei vivai. Su "Note d'azzurro" lo scrivo da sempre: anche la sconfortante modestia complessiva della nostra classe arbitrale rappresenta un pericolo per il football, per una ragione molto semplice: un fischietto che, con le sue decisioni sbagliate, indirizza e condiziona lo svolgimento di un match, incrina pesantemente la credibilità di tutto il baraccone. Lo ribadisco oggi, all'indomani dell'amena direzione di gara del signor Giacomelli in Cagliari - Genoa, ma non è solo questione di tifo: avrei potuto scriverlo tranquillamente dopo l'ultimo Sampdoria - Torino, con l'incredibile 2 a 0 negato a Pozzi perché Gervasoni aveva deciso di chiudere il primo tempo dopo la respinta del portiere su punizione di Palombo; l'ho scritto dopo l'assurdo Genoa - Milan della stagione scorsa, con rigori in serie negati ai rossoblù, e dopo la Supercoppa italiana 2012 fra Juventus e Napoli. 
Non è una posizione critica comoda, me ne rendo conto, nel Paese dell'ipocrisia e dei luoghi comuni applicati al pallone, di frasi fatte del genere "gli arbitri italiani sono l'unica parte sana di questo ambiente", "gli arbitri italiani sono i migliori al mondo", "a fine stagione torti e favori arbitrali si compensano per tutte le società". Una marea di belinate, diremmo a Genova. La verità è drammaticamente diversa: a parte poche eccezioni, i fischietti italici navigano nella più desolante mediocrità, in un livello medio - basso: mancanza di uniformità, buon senso ed elasticità nell'applicazione del regolamento, scarsa personalità e conseguente sudditanza psicologica (al cospetto delle big soprattutto, ma a volte anche di fronte a "fattori campo" particolarmente infuocati e pressanti), deprecabili manie di protagonismo. Gli arbitri che salgono in cattedra, gli arbitri che indirizzano l'esito di un incontro sono la negazione stessa dello spirito, del senso della loro professione. Un arbitro è come un giudice in un tribunale, il suo errore non è paragonabile a quello di un calciatore, ossia di una delle due parti in causa: è il giudice supremo del gioco, deve rasentare l'infallibilità, e per farlo deve essere preparato in maniera maniacale. 
Il Giacomelli di ieri non lo era: l'espulsione del genoano Manfredini, strattonato a lungo  in area da Daniele Conti, è roba da radiazione dall'albo. A corredo, altre decisioni penalizzanti nei confronti del Grifone (la mancata sanzione ad Avramov per la trattenuta a Biondini). Altri ne hanno parlato in lungo e largo, persino il Corriere della Sera: inutile dunque infierire, se non per rilevare come certe persone dovrebbero essere accuratamente tenute lontane dai campi di calcio, e non solo da quelli professionistici. Arbitrare non fa per loro, se ne facciano una ragione. Così come non faceva per certe vecchie giacchette nere che, dopo essersi coperte di ben poca gloria in carriera, continuano a pontificare dagli schermi della tv di Stato, cianciando a vanvera di "espulsione giusta per Manfredini".
Rimane la sensazione, per il Genoa, di un possibile decollo verso un campionato più tranquillo frenato né dalle proprie debolezze né dalla superiorità avversaria. A parità numerica, il team ligure aveva trovato il vantaggio e lo aveva gestito con sufficiente disinvoltura, rischiando il giusto (cioè pochissimo). Rimasto in dieci, si è difeso ma non in modo del tutto passivo, cercando lo spiraglio per il contrattacco e andando persino a sfiorare il raddoppio con una splendida conclusione di Antonelli, sventata dal citato Avramov. Poi, chiaro, i sardi hanno assediato, ma Perin aveva sfoderato la consueta sicurezza degli ultimi tempi (al momento attuale, il giovanotto rossoblù dà più garanzie di almeno uno dei tre portieri azzurri designati per il viaggio in Brasile, a voi indovinare quale... Ma per la Nazionale se ne parlerà da luglio in poi). 
Insomma, una vergogna. La gara di Cagliari era una di quelle che possono dar la svolta a una stagione, ed è stata fallita senza colpe, dopo averla condotta per larghi tratti. A chi dice che nel calcio italiano troppo spesso si dà agli arbitri la colpa delle proprie défaillances, rispondo che può essere vero anche il contrario, ossia che spesso basta un uomo vestito di giallo, o di fucsia, o di quel che è, per mandare a monte il lavoro di una settimana di allenamento. Nel Genoa attuale si vede pesantemente la mano di Gasperini, è un complesso compatto, agonisticamente sempre sul pezzo, con lo spirito giusto e con un canovaccio tattico plausibile. C'è coraggio, c'è un'idea di gioco, ci sono giocatori chiave in stato di grande ispirazione (il citato Perin, Antonini, Matuzalem, Kucka e un Gilardino sempre più inebriato dal profumo del Mundial). E' una squadra che non fa più tremare il tifoso, un undici che quando scende in campo dà la sensazione di poter vincere, o quantomeno di potersela giocare, con chiunque, laddove fino a un paio di mesi fa trasmetteva solo insicurezza e paura. Ma se non vieni messo nelle condizioni di giocarti le tue chances ad armi pari, tutto ciò conta poco. 

sabato 7 dicembre 2013

BRASILE 2014, IL SORTEGGIO: GIRONE DI FERRO PER L'ITALIA, SCANDALO FRANCIA MA... GLORIA A CHI VINCE!

                               Argentina '78: allora come oggi, girone di ferro per gli azzurri

E' lecito discutere della bontà o della crudeltà di un sorteggio mondiale, quando quattro anni fa la spompatissima Italia di Lippi, da campione in carica, riuscì nella stratosferica impresa di arrivare ultima in un girone di pasta frolla con Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda, col riprovevole ruolino di marcia di due pareggi e un ko? Ragionevolmente no, così come non sono ammesse troppe recriminazioni sulla qualifica di testa di serie negata alla nostra rappresentativa: bastava battere l'Armenia, ciò che una Nazionale come quella di Prandelli, per caratura tecnica (lasciamo perdere il blasone) dovrebbe essere in grado di fare sempre, quasi per dovere morale. E dunque, non è il girone di ferro toccatoci in sorte (Uruguay e Inghilterra, con la novità Costarica) a fare rabbia, quanto l'odiosa mossa geopolitica che ha consentito alla Francia di reinserirsi in una fascia di squadre che non le spettava, essendo risultata la peggiore europea sulla base del ranking FIFA di ottobre (considerato invece Vangelo assoluto per la designazione delle teste di serie): per ripescare i transalpini, due giorni prima della composizione dei gironi, si sono inventati un'urna europea di nove squadre (dovevano invece essere otto), con conseguente pre - sorteggio per escluderne una e spedirla nella fascia più debole, quella che sarebbe dovuta toccare "di diritto" ai Bleus; l'ulteriore giro di bussolotti ha penalizzato gli azzurri, costretti a scendere di un'altra posizione nelle gerarchie non per proprio demerito, ma per una forzatura senza alcun fondamento logico che dovrebbe destare scandalo e indignazione fra gli amanti di questo sport. 
COME NEL '78 - Alla Francia, arrivata al Mundial brasiliano per il rotto della cuffia dopo un affannoso playoff con l'Ucraina, è così toccata in sorte una partenza soft con Svizzera, Ecuador e Honduras. Per l'Italia, l'atmosfera al calor bianco di un girone di ferro che da tempo, in sede iridata, non respiravamo. Era stato piuttosto duro l'avvio di Germania 2006, contro Ghana, Stati Uniti e Repubblica Ceca (soprattutto africani e cechi all'epoca schieravano formazioni di altissimo spessore), ma per trovare una prima fase così impegnativa occorre risalire, nientemeno, ad Argentina '78, quando l'urna ci recapitò assieme alla Francia dell'astro nascente Platini, all'Ungheria degli spauracchi Nyilasi e Torocsik e ai padroni di casa, predestinati al trionfo. All'indomani di quel verdetto, all'apparenza infausto, il Guerin Sportivo titolò: "Gloria a chi vince - Un girone difficile ma anche affascinante", schierando in copertina una Gloria Guida vestita d'azzurro. Le cose andarono decisamente bene, ed è giusto ripetere oggi l'auspicio, anche se cullarsi sulla convinzione che l'Italia dia sempre il meglio contro le squadre forti potrebbe essere pericoloso: del gruppo di Prandelli abbiamo diffusamente parlato in questi anni, "Note d'azzurro" ne ha a lungo esaltato i pregi e ne ha dovuto registrare, negli ultimi mesi, il progressivo appannamento. 
MOLTO DA LAVORARE - Ci sarà ampiamente modo, nei prossimi mesi, di tornarvi sopra, ora vale solo la pena sottolineare che la squadra ha manifestato limiti di varia natura (squilibri tattici, difesa esposta alle intemperie, scarsa tenuta fisica e psicologica, discontinuità nella manovra, regresso sul piano della qualità di gioco) tali da non poterci far dormire sonni tranquilli: allo stato delle cose, un esordio contro l'Inghilterra è una delle cose peggiori che potessero capitarci, così come va sottolineato che, se i nostri sapranno recuperare la brillantezza messa in mostra fino a Euro 2012 (quando gli inglesi li prendemmo letteralmente a pallonate, passando però solo ai rigori) e in qualche sporadica occasione nell'ultimo anno e mezzo, il girone D lo si potrebbe addirittura vincere, perché le risorse di spirito, classe e personalità internazionale non ci fanno difetto. Dopodiché, superate queste terribili forche caudine, potrebbe toccarci un ottavo teoricamente morbido (proprio come in occasione del nostro ultimo alloro iridato, sette anni fa), andando a incrociare il gruppo C con Colombia, Grecia, Costa d'Avorio e Giappone (anche se i sudamericani si presenteranno con una delle formazioni più scintillanti della loro storia, e potrebbero essere una delle sensazioni della Coppa, assieme al rifiorito Belgio).  
POCO RIGUARDO PER LE GRANDI - Sul resto del quadro uscito dall'inutilmente lunga cerimonia brasiliana, sorprende il trattamento riservato a tre delle quattro favorite della vigilia: la Spagna campione in carica dovrà addirittura esordire ripetendo la finalissima di quattro anni fa con l'Olanda, schiacciasassi in fase di qualificazione, mentre Cile e Australia non possono certo considerarsi comodi materassi. La Germania aprirà le danze col Portogallo di un Cristiano Ronaldo all'apice della carriera (meglio avere lui che il sopravvalutato Ibra al Mondiale, non ci sono dubbi) e poi dovrà vedersela con Stati Uniti e Ghana, mine vaganti che negli ultimi tornei sono state capaci di regalare exploit clamorosi anche contro avversarie più reputate. E lo stesso Brasile non ha la strada spianata verso il secondo turno, perché Croazia, Messico e Camerun non vanno a formare un percorso cosparso di rose: squadre solide ma non eccezionali, del tipo di quelle che, consapevoli dei loro limiti, danno il massimo nelle prime gare, rischiando di far saltare il banco (l'Italia ne sa qualcosa, basti ricordare le sofferenze patite proprio contro croati e messicani al mondiale nippo - coreano del 2002). 
Insomma, sulla carta ci è andata male ma siamo in buona compagnia e la sensazione è che nessuna delle grandi (la Francia, al momento, non lo è) possa sentirsi totalmente al sicuro. Ecco, l'unico aspetto positivo di questo sorteggio rivoluzionato, con teste di serie del tutto inedite, è forse questo: non ci sono più intoccabili, non basta più cullarsi sugli allori passati, bisogna stare sempre "sul pezzo", dare il massimo anche nelle partite di qualificazione in apparenza scontate, e nelle amichevoli (quelli che scrivevano "non servono a niente, se non per interrompere il campionato" ora sono serviti). Metodo discutibile e non privo di controindicazioni (vedasi il generale squilibrio nei giorni di questa Coppa del Mondo, con il citato gruppo C, il gruppo E della Francia o l'H con Belgio, Algeria, Russia e Corea del Sud, o ancora l'Argentina alle prese con Bosnia, Iran e Nigeria), però almeno quello del ranking è un criterio che si fonda su parametri oggettivi, laddove in passato le teste di serie venivano designate secondo criteri piuttosto ballerini: l'albo d'oro, il piazzamento nel precedente Mondiale, i risultati nelle qualificazioni... Il Brasile, per dire, ha continuato ad essere testa di serie ininterrottamente anche nei 24 anni, dal '70 al '94, in cui non ha più vinto la Coppa: non il massimo della giustizia. Solo che il ranking è stato tradito col discutibile trattamento riservato alla Francia, e allora... 

lunedì 25 novembre 2013

VERSO SANREMO 2014: E' GIA' CACCIA AI BIG. IPOTESI E INDISCREZIONI

                                            Francesco Renga: pronto a tornare

Manca meno di un mese all'annuncio del cast dei Big in gara a Sanremo 2014. Il "listone", come l'anno passato, verrà svelato direttamente da Fabio Fazio nel corso del Tg1 dell'ora di pranzo. Il "giorno X" è il 18 dicembre, nel frattempo la ridda di voci e indiscrezioni sui possibili partecipanti è già fitta. Cerchiamo di fare il punto, tra spifferi letti qua e là in rete e ipotesi del sottoscritto, più o meno fondate. Ricordiamo che i posti a disposizione degli aspiranti sono solo 14, cioè molto pochi, e quasi sicuramente tali rimarranno: in passato, soprattutto durante le gestioni festivaliere di Gianni Ravera (anni Ottanta) e di Pippo Baudo, era d'uso aumentare in extremis il numero degli ammessi, alla luce delle tante richieste di partecipazione, ma negli ultimi tempi, dall'era Mazzi in poi, la quota fissata dal regolamento è considerata un totem immutabile. 
SUPERSTAR - Partiamo dalle vedette, le superstar della canzone italiana per le quali ogni organizzatore e direttore artistico farebbe carte false. I nomi più... succulenti circolati finora sono quelli dei Negramaro, di Elisa e di Giorgia. Difficile che il sogno si tramuti in realtà per quanto riguarda la fuoriclasse romana e quella triestina, visto che entrambe hanno appena dato alle stampe album già campioni di vendita (ma non si sa mai...), più concreto l'inseguimento alla band di Giuliano Sangiorgi, che si prenderebbe una bella rivincita dopo l'inaccettabile trattamento subìto proprio all'Ariston nel 2005, quando "Mentre tutto scorre", destinata a diventare un loro cavallo di battaglia, l'apriscatole di un successo inatteso e clamoroso, fu bocciata dalle giurie fin dalla prima esibizione. 
Si parla anche di Edoardo Bennato, e questa sì sarebbe una sorpresissima: il napoletano si è tenuto da sempre bene alla larga dal Festivalone, eccezion fatta per un'ospitata nel 2010, quando partecipò, insieme ad altri big della canzone nostrana, alla serata di festeggiamenti per i 60 anni della kermesse. Arduo ma non impossibile, visto che nelle ultime edizioni hanno fatto la loro comparsa in Riviera cantautori tradizionalmente ostili al palco sanremese, da Vecchioni (che ha addirittura vinto) a Battiato e al compianto Lucio Dalla, questi ultimi due, per la verità, con partecipazioni marginali al fianco di altri artisti. Sarebbe bello rivedere due cantanti da tempo lontani da Sanremo come Carmen Consoli e Raf, e chissà che Gino Paoli e Fiorella Mannoia, a quanto pare già corteggiati l'anno scorso, questa volta non decidano di sciogliere le riserve. 
RITORNI A STRETTO GIRO DI POSTA - C'è poi tutta la schiera di big che, avendo partecipato alle edizioni fra il 2010 e del 2012, o sono in dirittura d'arrivo nell'allestimento dei loro nuovi album, o semplicemente di nuovo "maturi" per una partecipazione alla rassegna che ne rinfreschi la popolarità e ne rilanci le vendite. Parliamo di personaggi come Francesco Renga, Arisa, Giusy Ferreri, Noemi, Dolcenera, Nathalie, Fabrizio Moro, Anna Tatangelo e, perché no, un Max Pezzali che fra libri, canzoni, trasmissioni tv e cambi di look ha vissuto un 2013 piuttosto intenso ed appagante. E potrebbe anche riprovarci qualcuno già in lizza nell'ultima edizione, in primis Chiara Galiazzo, ma anche Max Gazzé, l'altro campione di Sanremo 2013 assieme a Mengoni: l'estroso cantautore potrebbe entrare in un trio nel segno della romanità con Daniele Silvestri (anche lui presente nel febbraio scorso) e Niccolò Fabi, che rappresenterebbe una réntrée graditissima. Fra i giovani usciti di recente dal vivaio festivaliero, l'ultimo trionfatore Antonio Maggio è in prima fila, ma non trascureremmo Erica Mou, che nel 2012 ebbe ottimi riscontri di critica e nelle ultime settimane è tornata prepotentemente alla ribalta con la colonna sonora del film "Una piccola impresa meridionale". 
VETERANI - In tema di "veterani" anni Novanta, Syria ha annunciato ufficialmente di essere "in fila per Sanremo": assieme a lei, da tenere d'occhio eventuali mosse di Gianluca Grignani, assente dal 2008, di Paola Turci, nonché di Mietta e Silvia Salemi, il cui indice di gradimento è tornato alle stelle grazie alla fortunata partecipazione a "Tale e quale show" di Carlo Conti. E poi Alex Britti, rivisto su buoni livelli nell'estate 2013, così come Neffa che centellina le sue apparizioni sul mercato discografico, ma quasi sempre coglie nel segno, come con l'ultima "Molto calmo". Ci sarebbero tappeti rossi e porte spalancate anche per un ritorno di Nek, che da Sanremo manca addirittura dai tempi di "Laura non c'è", nientemeno, mentre sarebbe giusto dare un'altra chance ad Alexia e a L'Aura. Fra le vecchie glorie, non dovrebbe mancare la proposta dell'eterno Al Bano, e chissà che non si convinca, dopo anni di scetticismo, Massimo Ranieri; Anna Oxa vorrà forse tornare alla carica, scottata dall'esclusione del 2013 e dalle recenti polemiche di "Ballando con le stelle",  alcune fonti danno in lizza Fabio Concato, mentre pare che anche Umberto Tozzi sia in studio a preparare qualcosa di nuovo, e allora... 
RAP, TALENT E ALTRO - Da tenere nella massima considerazione, come da me già scritto in altre occasioni, il fenomeno dei rapper all'italiana, che hanno dominato le classifiche italiane nell'anno che sta per concludersi. Uno, se non due posti, dovrebbero essere loro appannaggio, e allora sarà lotta serrata tra i vari Moreno Donadoni, Fedez, Clementino, Club Dogo... E poi i ragazzi dei talent: non si è ben capito se un posto di diritto spetterà al prossimo vincitore di X Factor (un azzardo, perché a volte funziona, come nel caso di Mengoni e Galiazzo, altre no, vedasi la pur brava Nathalie), mentre dal passato, oltre alla citata Ferreri, potrebbe riemergere qualcuno fra Marco Carta, Valerio Scanu e Pierdavide Carone, oltre a una Loredana Errore sempre massicciamente spinta dai fans (vedere Facebook per credere), oppure la trionfatrice della prima edizione di "The voice", Elhaida Dani. Altri nomi gettonati dai giornali sono quelli di Sergio Caputo, Francesco Sarcina (aveva tentato già l'anno passato), Cristiano De Andrè, Mondomarcio, Ron, nonché quel Mario Biondi eterno promesso al Festival (non è dato sapere se per sua effettiva volontà o per fantasia giornalistica) e mai approdato all'Ariston in gara. Infine, per quanto riguarda gli interpreti di nicchia", sarebbe auspicabile fosse la volta buona per i  raffinati Musica Nuda. Per il momento questo è quanto, con la doverosa postilla, già ribadita più volte anche per le scorse edizioni, che probabilmente nel "listone" finale compariranno diversi artisti mai citati in sede di pronostici. Anche questo è il bello del Festival. 

mercoledì 20 novembre 2013

LA NAZIONALE AZZURRA DOPO GERMANIA E NIGERIA: CHE ITALIA VEDREMO AL MONDIALE?

                                         Esultanza azzurra dopo il pari coi tedeschi

Che sarà di noi in Brasile? Giunti al termine di questo 2013 premondiale, è il momento di tirare le prime somme azzurre, e non è facile, perché l'anno e mezzo post europeo, che doveva chiarire definitivamente le idee sulle effettive potenzialità della nostra Nazionale, ha invece ingarbugliato la matassa in una misura che non era facile prevedere. Ci si attendeva una crescita spontanea, una maturazione rigogliosa, dopo le succulente promesse fatte balenare fino alla medaglia d'argento continentale di Kiev, poi le cose sono andate diversamente. Cominciamo dal fondo, ossia da ciò che ci ha lasciato l'ultimo duplice impegno amichevole tedesco - nigeriano.  
DUE BEI SECONDI TEMPI - Di positivo, delle sfide di Milano e Londra, restano due secondi tempi di grana buona, seppur dalle caratteristiche diametralmente opposte. Con la Germania, la ripresa ha mostrato un'Italia più arcigna, determinata, "cattiva", brava a chiudere e a ripartire, dopo gli sbandamenti della prima frazione. Nel dettaglio dei singoli, segni di ripresa da parte di Marchisio, tornato a far sentire il suo peso negli inserimenti offensivi, e di Montolivo, benché il suo apporto si sia quasi esclusivamente limitato all'interdizione, mentre confortante, per la continuità nelle due fasi, è stato il rientro di Criscito dopo la lunga assenza, per certi versi inaccettabile (grave infortunio a parte). Con lui e col prossimo recupero di De Sciglio, il problema del terzino sinistro dovrebbe avviarsi a soluzione, con buona pace degli encomiabili Pasqual, Antonelli e del declinante Balzaretti. Viceversa, in terra inglese, dopo l'intervallo si è vista un'Azzurra arrembante, capace di costruire palle gol in serie ma, purtroppo, di sprecarne buona parte. Un altro gradito ritorno, quello di Parolo, ha avuto tante luci ma anche qualche ombra: onnipresente, continuo e inesauribile, utile in copertura e bravo a liberarsi al tiro, ha mostrato però scarsissima lucidità nelle conclusioni, fallendo, palo a parte, un paio di banalissime occasioni da distanza ravvicinata. 
CANDREVA E GIACCHERINI VERSO IL BRASILE - Dal canto loro, Candreva e Giaccherini, le due sorprese della Confederations, stanno continuando ad esprimersi su livelli notevoli e ben difficilmente Prandelli negherà loro un posto fra i 23, nonostante il laziale perseveri nel manifestare una idiosincrasia al tiro a rete che risulta incomprensibile, avendo nei piedi il potenziale per fare malissimo (emblematica un'azione del primo tempo con la Nigeria, quando si è venuto a trovare con un ampio spazio per fare esplodere il destro e invece ha continuato a tenere palla e a cincischiare, consentendo infine ai nigeriani di neutralizzare il pericolo). L'intesa Rossi - Balotelli, sulla quale si appuntavano gli interessi del cittì, è migliorabile ma già buona: l'azione che ha portato al vantaggio a Londra, costruita sull'asse fra il milanista e il viola, ha fatto risplendere tutte le doti del duo: potenza fisica, controllo di palla, capacità di far salire la squadra e ispirare il gioco offensivo da parte di Mario; tempismo, velocità e precisione sotto rete per Pepito. A tutto ciò occorre dare continuità, ma al momento, nell'opzione tattica con l'attacco a due punte, questa coppia rappresenta l'unica soluzione plausibile: fino a pochi mesi fa avrei scommesso sul fatto che il posto di Rossi sarebbe toccato al El Shaarawy, ma l'involuzione del Faraone è stata colossale, pur se i mezzi non gli mancano per uscire dal limbo in cui è stato cacciato anche dalla difficile situazione del Milan. 
INVOLUZIONE POST EUROPEA - Tutto questo per quel riguarda la stretta attualità, Poi, come detto, c'è da tracciare un primo bilancio della fase premondiale, che però ha già molto di definitivo, in quanto prima delle convocazioni per il torneo iridato resta una sola amichevole (a marzo, in casa della Spagna per un altro tentativo di rivincita): è vero, ci sono ancora partite in abbondanza di campionato e coppe europee, ma serviranno solo a chiarire le idee sulle ultime sei - sette maglie da assegnare per il Brasile, mentre al momento non è sorto nessun nuovo astro in grado di far saltare il banco con una stagione sopra le righe. E 'stato dunque, come si diceva, un anno e mezzo contraddittorio, che non ha aiutato granché Prandelli. La bella Italia del suo primo biennio di gestione, frizzante, propositiva, senza paura, capace di tenere pallino, di creare gioco ed occasioni, si è via via annacquata e intristita. Ha vivacchiato sulle posizioni acquisite, ha forse tentato di diventare grande percorrendo la strada del pragmatismo, del fare risultato con pochi fronzoli e molta concretezza, ma vi è riuscita solo in parte. 
DIFESA IN AMBASCE - Il pragmatismo desiderato si è spesso rivelato, alla prova del campo, un affannoso aggrapparsi al golletto di vantaggio (vedi match decisivo con la Bulgaria) o un arroccarsi attorno alla difesa per evitare il tracollo (vedi la gara di Praga con la Repubblica Ceca). Non è certo questo che intendiamo per "squadra concreta": oltretutto, la nostra è una compagine che, in questa fase storica, non può pensare di impostare il suo gioco su un atteggiamento attendista, sulla copertura, in quanto la sua terza linea sta attraversando un prolungato momento di difficoltà. A far data dalla sciagurata amichevole con Haiti, lo score, inquietante, racconta di 22 reti subite in 13 gare, cifre che non sono certo da Nazionale di prima fascia. Blindate le corsie laterali (i citati Criscito e De Sciglio a sinistra, Maggio e Abate dall'altra parte), i problemi sono al centro: Barzagli e Bonucci sono  di alto livello, il problema è la continuità che li ha fatti incorrere, dalla Confederations in poi, in alcuni svarioni non degni della loro fama. Ranocchia sta recuperando le posizioni perdute, Ogbonna non pare ancora pronto, Chiellini ha ampia esperienza, coraggio e personalità ma anche una certa ruvidezza che fuori dei confini italiani non sempre viene perdonata (come accaduto nell'ultimo Real - Juve al Bernabeu).

                                              Criscito: ritorno convincente

Visto che gli uomini della retroguardia sono grosso modo gli stessi del primo biennio prandelliano, caratterizzato invece da una soddisfacente impermeabilità, è chiaro che il problema non stia tanto nella qualità degli uomini, né in un improvviso imbrocchimento degli stessi, quanto in sbalzi di rendimento eccessivi imputabili anche alla diminuita solidità complessiva della squadra, che da troppo tempo, lo ripeto, balbetta football con poche luci e molte ombre. Se il centrocampo torna a fare ciò che ha fatto egregiamente fino alla finale europea con la Spagna, cioè far girare palla, tessere trame, produrre gioco e tenere il controllo della gara, la retroguardia risulterà più protetta e, giocoforza, recupererà sicurezza; se invece continuerà a funzionare a singhiozzo e a lasciare troppo campo ad avversari anche modesti, le sofferenze dietro rimarranno, e nel contesto iridato verranno pagate a caro prezzo.
CENTROCAMPO DA RIDISEGNARE - Ferma restando l'imprescindibilità di De Rossi, uomo ovunque in grado di dare equilibrio a tutto il complesso, la sensazione è che il ritorno alla formula di Euro 2012, con Thiago Motta di nuovo titolare, non sia stata un gran trovata: nell'attesa di un pieno recupero di Montolivo, uomo chiave della gestione Prandelli non sempre esaltato come avrebbe meritato, la zona nevralgica ha bisogno della linfa giovanile, della vitalità, della corsa e dell'eclettismo dell'ottimo Florenzi di questa splendida stagione romanista, così come, qualche metro più avanti, bisognerà cercare di ritagliare uno spazio per Insigne, il quale, Rossi a parte, rappresenterebbe una variabile importante per una manovra offensiva ancora troppo legata agli estri di Supermario. Si è preso atto, come da secoli sottolineato su questo blog, che lo schieramento a quattro dietro è il più congeniale a questa squadra, dopodiché è giusto avere a disposizione più opzioni tattiche, ma sarebbe anche opportuno virare con decisione su una, massimo due formule, perché anche la continua sperimentazione di strategie ha fatto forse perdere un po' la bussola al team azzurro.
PROSPETTIVE MONDIALI - Dopo un avvio di stagione poco entusiasmante, e la perdita (grave e sottovalutata dai grandi media) della testa di serie, l'Italia è scivolata nelle gerarchie planetarie. Al momento è da quarto di finale, non di più, il che vuol dire poco o nulla, perché la Coppa del mondo spesso cambia le carte in tavola. Bisognerà presentarsi al top in quel mese, curare la preparazione in maniera più efficace di quanto sia stato fatto per la Confederations, azzeccare le convocazioni, creare l'atmosfera giusta nel gruppo, un calibrato mix fra serenità e voglia di stupire. Realismo, ci vuole, ma non pessimismo: preso atto di questa involuzione registrata a partire dalla seconda metà del 2012, ci son però tante sicurezze: c'è un'Italia che nei due appuntamenti più importanti fra quelli finora affrontati (Europeo e torneo premondiale l'estate scorsa) ha mostrato mentalità vincente, arrivando fino in fondo; c'è un gruppo non fenomenale ma di buon livello, che ha centrato quasi tutti gli obiettivi (a parte la citata testa di serie Mundial), a volte andando anche oltre le aspettative: un gruppo fatto di tanti buoni giocatori (e una rosa ampia in cui pescare, non poco in questi tempi di esterofilia spinta), di due - tre giovani interessanti e di altrettanti fuoriclasse di statura mondiale, i "vecchi" De Rossi e Pirlo e l'ultimo grido Balotelli. I citati secondi tempi con Germania e Nigeria, il ritrovato gusto del gioco e alcune scintillanti manovre di prima in velocità viste in entrambe le gare, fanno capire che le basi ci sono, non sono andate perdute, si tratta solo di rimettere a punto tutto il meccanismo. Forza e coraggio! 

lunedì 18 novembre 2013

"LA FARFALLA GRANATA"? PER RICORDARE MERONI MEGLIO "SFIDE" O IL GUERIN SPORTIVO...

                                Alessandro Roja, incerto protagonista della fiction Rai

E' stata una vicenda così tragicamente romanzesca, quella del calciatore Gigi Meroni, ala dal talento purissimo stroncata nel fiore degli anni, che una trasposizione cinematografica o televisiva era prima o poi inevitabile. Dovremmo quindi ringraziare la nostra tv di Stato, per averci fornito una propria lettura della vita di questo estroso campione anni Sessanta? Beh, andiamoci piano. La fiction "La farfalla granata", andata in onda la settimana scorsa sugli schermi di Rai Uno, di lodi e ringraziamenti ne merita ben pochi: vediamo perché. 
SVARIONI STORICI - Leggendo qua e là in rete, sbirciando soprattutto nei siti e nei forum di tifosi di Genoa e Torino, le due squadre che hanno segnato la brevissima traiettoria agonistica di Meroni, il sentimento preponderante era l'emozione, soprattutto fra i più "anziani", perché quest'opera ha in fin dei conti risvegliato ricordi, rimpianti e dolori mai sopiti. Li comprendo perfettamente, ma un'analisi più fredda, tecnica e rigorosa di questo "sceneggiato" (così si chiamavano una volta le fiction) mi impone di andare oltre e di non accontentarmi di questa mozione dei sentimenti. Perché a ricordare la figura di questo atipico del pallone, classe cristallina, colpi da campionissimo e carattere controverso, avevano provveduto ottime produzioni letterarie e documentari televisivi. "La farfalla granata", invece, non ha reso un buon servizio alla memoria di Meroni. Non mi riferisco ad alcuni svarioni storici già da altri sottolineati, come l'Inter - Torino del pallonetto  a beffare Sarti e Facchetti trasformata in un Torino - Inter, o come, soprattutto, il gol su rigore alla Sampdoria nell'ultimo match prima della scomparsa, gol mai realizzato nella realtà. Casomai, mi ha dato più fastidio vedere il Genoa, nella parte iniziale, allenarsi sul terreno "di casa" (?) dell'odierno Olimpico di Torino, già Comunale (possibile non vi sia stata la possibilità di operare riprese all'interno del Luigi Ferraris?). 
AMORE, SOLO AMORE... - Ma sono peccatucci veniali: trattandosi di fiction e non di trasmissione ad impronta giornalistica, qualche ardita "licenza poetica" può anche starci, purché non tradisca eccessivamente la realtà. Il problema delle fiction di produzione nostrana, per inciso, è che il vero sconfina troppo spesso nel verosimile, fornendo talvolta una immagine distorta dei personaggi che si vogliono ritrarre: il caso più clamoroso fu quello di Rino Gaetano, trasformato in una sorta di poeta maledetto. Ciò, per la verità, si avverte un po' meno nella "Farfalla granata", la cui credibilità risulta minata da altri punti deboli. In prima istanza, non si capisce perché alla fine tutto debba sempre essere incentrato sulla storia d'amore tra i protagonisti, nel caso specifico tra il campione e la bella Cristiane: il sentimento ci sta, la liaison è esistita, intensa e contrastata, e andava raccontata, ma non al punto di farne il sole attorno al quale dovevano muoversi tutti gli altri elementi narrativi, quasi schiacciandoli. 
POCO CALCIO - Le vicende prettamente sportive di Gigi hanno, al confronto, uno spazio marginale, in cui si eccede nella sintesi: l'approdo del ragazzo alla Nazionale e la convocazione per i Mondiali del '66, i momenti più alti della sua carriera, rischiano quasi di passare inosservati, e più in generale di football autentico se ne vede poco, pochissimo. Ridotte ai minimi termini le scene di allenamento e di gioco, per le quali in un paio di circostanze si fa ricorso direttamente a filmati di repertorio: quasi un'ammissione di impotenza nel vano tentativo di ricostruire degnamente fasi agonistiche, il che è da sempre un limite storico delle pellicole a sfondo calcistico, senonché alcune produzioni relativamente recenti, penso a "Il miracolo di Berna" (sul trionfo tedesco ai Mondiali del '54, ne parlai anche sul blog, qui) e  "The game of their lives" (sulla memorabile sfida Stati Uniti - Inghilterra della Coppa del mondo 1950, vinta a sorpresa dagli americani) hanno dimostrato che un match di pallone può essere ottimamente rappresentato in versione filmica, senza che la "finzione" faccia perdere pathos ed efficacia. 
UN SOLO FUORICLASSE - Ancora: senza voler girare troppo il coltello nella piaga, il livello della stragrande maggioranza degli attori si è rivelato assai modesto: recitazione scolastica, poco spontanea, con in testa, spiace dirlo, proprio il protagonista, Alessandro Roja (leggermente meglio di lui Alexandra Dinu, nei panni dell'adorata Cris). Personaggi "di contorno" scarsamente caratterizzati, eccezion fatta per Nereo Rocco, non a caso valorizzato dall'attore più titolato e preparato del cast, Francesco Pannofino; viceversa, si sarebbe potuto scavare maggiormente nella vita di Beniamino Santos, allenatore di Meroni ai tempi del Genoa, di qualche compagno di squadra (tutti rimasti nell'ombra, a parte l'amicone Poletti) e di Edmondo Fabbri, rappresentato in maniera largamente ingenerosa e ricorrendo a qualche stereotipo francamente poco credibile (la marcia dei bersaglieri fatta ascoltare ai calciatori prima di una partita della Nazionale...). Stereotipi a go go anche nella vicenda umana di Meroni, col classico "presentimento" che, chissà come mai, non può mancare in queste tragiche vicende ("E' come se sentissi di dover fare le cose in fretta perché ho poco tempo", confida un dì alla sua amata...). 
TROPPI ASPETTI INESPLORATI - Rimane comunque il tema di fondo: una vicenda così ricca di sfaccettature sportive, umane, financo sociali (il calciatore capellone e "beat", portabandiera dei primi fremiti di ribellione della gioventù dell'epoca) ridotta ai tormenti sentimentali dei protagonisti: l'amore è bello, è sano, emoziona lo spettatore, ma non sta scritto da nessuna parte che debba essere gonfiato all'inverosimile, fino a farlo debordare, anche in opere che potrebbero brillare di luce propria senza bisogno di eccessi di melassa in stile Liala o Grand Hotel. Il "rosa confetto" che permea la fiction ha fatto perdere di vista tanti passaggi importanti: cosa c'è di più tremendamente, crudamente romanzesco, di più "televisivo" o "cinematografico", di un calciatore che muore investito da un suo tifoso il quale, parecchi anni dopo, diventerà presidente proprio del Torino calcio (parliamo di Attilio Romero)? Perché non fare cenno di tutto ciò? Perché non approfondire le vicende che portarono alla sua "emarginazione" tecnica nel corso del Mondiale '66, culminato con la storica vergogna della Corea? Si voleva fare un film in parte slegato dal rigore documentaristico, che viaggiasse su binari diversi e più "creativi"? Al di là del fatto che sarebbe discutibile, ma allora perché chiudere il tutto con immagini autentiche dei funerali e del corpo senza vita di Meroni, quasi si volesse in extremis accrescere la credibilità del prodotto? 
SFIDE E GUERIN - Per tutto questo, e rispondendo alla domanda retorica posta all'inizio, no, non è proprio il caso di ringraziare la Rai per "La farfalla granata". Chi Meroni l'ha visto giocare ha un suo ricordo ben scolpito nel cuore, che difficilmente sarà stato arricchito da questa fiction (anzi...); chi non l'ha visto giocare, come nel mio caso, ha già avuto modo di scoprirlo tramite rievocazioni su giornali, libri e tv. La speranza è che lo stesso facciano i giovanissimi: si guardino "Sfide", o, per cominciare, acquistino il numero del Guerin Sportivo attualmente in edicola, con uno special ricchissimo sui migliori cento calciatori nella storia del Toro: sarebbe già un ottimo inizio per apprezzare davvero ciò che fu Gigi Meroni, e ciò che rappresentò per il calcio e per i tifosi dell'epoca. 

mercoledì 13 novembre 2013

"EMOZIONI" SU RAIDUE CELEBRA TOTO CUTUGNO, CERVELLO IN FUGA DELLA SEMPLICITA' CANORA NOSTRANA


Uno special dedicato a Toto Cutugno, e per di più su una rete Rai. Qualcosa di raro, in Italia, dove ai paladini nostrani dell'easy listening più spinto (qualcuno direbbe del nazionalpopolare) come il cantante di Fosdinovo, vengono al massimo riservate le tristi ribalte dei contenitori pomeridiani, fra un gossip sulla divetta (s)vestita del momento e le ultime news (ovviamente in esclusiva) sull'omicidio più recente in qualche sperduta landa della penisola. No, questa volta è stata una cosa seria, una gradevole biografia in parole e immagini con tutti i crismi: grazie a "Emozioni", trasmissione monografica già in onda l'anno passato, che racconta il percorso professionale e umano di grandi star della musica pop, e che è ripartita lunedì scorso con una puntata dedicata, per l'appunto, all'autore dell'immortale "L'italiano". Una ripartenza col botto, dunque, ed è bene precisare subito che non vi è alcuna ironia in questa espressione: stimo profondamente Toto, praticamente da sempre, al contrario di larghissima parte della critica nostrana. Anche di questa frattura mai sanata fra il cantautore spezzino e certi esperti un tantino snob, inevitabilmente, si è parlato nel programma: ci ritorneremo. 
COME "SFIDE" - Del format "Emozioni" in sé per sé, nulla che già non si sapesse, per chi in passato aveva avuto modo di seguirlo: è in pratica una versione in salsa... musicale del più celebre e celebrato "Sfide", e non solo perché la voce narrante è la stessa di tante indimenticabili puntate della trasmissione gioiello di Raitre, quella calda e rassicurante di Ughetta Lanari. Dell'illustre "confratella" sportiva, "Emozioni" mantiene il medesimo tono epico, il taglio elogiativo e la quasi totale assenza di venature critiche, una ricostruzione storica  nel complesso apprezzabile anche se, per quanto visto in questa prima puntata, non sempre rigorosissima, che sconfina a volte nella tendenza a "romanzare" i fatti per accentuarne i caratteri avventurosi, drammatici o esaltanti. 
GRAVI OMISSIONI - Sembra quasi che la trasmissione debba seguire il filo conduttore costruito dagli autori, e pazienza se ciò significa ogni tanto uscire dalla retta via della biografia vera e propria del personaggio (per poi rientrare subito in carreggiata, va detto). Ad esempio, il percorso sanremese di Cutugno viene fatto partire erroneamente dal 1977, tralasciando invece l'esordio dell'anno precedente con gli Albatros e con la canzone "Volo AZ 504", della quale pure è stato mostrato uno spezzone tratto però da "Adesso musica". E' risaputo che la Rai non possiede più la registrazione di quella edizione della kermesse rivierasca (qui sotto, un filmato di You Tube tratto da un replica del Festival '76 andata in onda in Spagna), ma ciò non basta a giustificare una tale mancanza. Omissione non da poco, visto che con quella canzone Toto e il suo complesso si piazzarono terzi nella gara e vendettero una discreta quantità di dischi, anche oltreconfine. 

                                L'esordio di Cutugno a Sanremo, con gli Albatros, nel '76

Perché questo buco narrativo? Ipotesi maliziosa: mostrando l'incerta esibizione vocale di Cutugno al Sanremo '77 con "Gran premio", si voleva avvalorare la tesi esposta successivamente, ossia di un artista ancora non pronto per cantare i suoi pezzi in prima persona e più adatto a una carriera da autore, lontano dai riflettori: tesi discutibile, visto il citato e positivo debutto di dodici mesi prima, così come, per contro, qualche imperfezione tecnica nell'esecuzione delle sue canzoni il buon Toto l'ha mostrata anche in esibizioni di molto successive.
Allo stesso modo, si è troppo filosofeggiato sul Cutugno più volte favorito al Festival e troppe volte deluso: favorito non lo era nell'84, come invece lascia intuire il suo collaboratore Popi Minellono, certo non più della coppia Al Bano e Romina Power, poi risultata vincente. E, in tema di omissioni, gravissima quella del trionfo all'Eurovision Song Contest del 1990, per due motivi: perché fu il secondo e ultimo artista italiano a imporsi nella kermesse internazionale, e perché si è trattato senza dubbio di uno dei momenti più alti della sua carriera. Ed "Emozioni" ha anche smarrito le tracce dei suoi primi successi da solista, come la celeberrima "Voglio l'anima" del 1979. 
VANTO ITALIANO - Di buono, la monografia tv di Cutugno ha proposto una lodevole ricerca di immagini d'epoca, soprattutto alcuni "dietro le quinte" sanremesi e il filmato della grottesca premiazione al Festival 1980, con il vincitore decretato nientepopodimenoché... da un notaio, che ne storpiò il nome (Cotugno) e il titolo del pezzo (Noi solo noi), alcuni tocchi benevolmente perfidi (l'intervista a Tiziana Rivale che gli negò, nell'83, una vittoria al Festival da molti considerata scontata), la giusta sottolineatura dello spessore autoriale del protagonista (gli evergreen scritti per Fausto Leali e Celentano) e soprattutto la valorizzazione della sua eccezionale carriera internazionale. In definitiva, un tributo per troppo tempo atteso, eppur doveroso, a un artista che tiene alto il nome della canzone italiana a livello planetario. E qui torniamo al punto di partenza, all'eterno contrasto con i critici specializzati. 
Non era un eccesso di vittimismo di Toto, ma nemmeno si può dire che i giornalisti avessero, con lui, un fatto personale. Più semplicemente, gli esperti hanno da sempre una visione piuttosto pretenziosa, sofisticata ed elitaria della musica leggera, manifestando una notevole puzza sotto il naso soprattutto quando sono chiamati a commentare protagonisti e vicende del Festivalone per eccellenza. Sono in guerra perenne con le strofe semplici e le melodie orecchiabili e di impatto immediato, e lo erano con maggior vigore negli anni d'oro del pop melodico moderno, nei favolosi Eighties che proprio al Teatro Ariston videro celebrare i fasti degli esponenti di spicco di questo filone canzonettistico tutto tricolore, da Christian ad Al Bano e Romina, dai Ricchi e Poveri a, per l'appunto, Cutugno. Brani, i loro, scritti con un linguaggio diretto, senza filosofeggiare troppo, con accordi essenziali e che entravano subito in testa. 
MIOPIA CRITICA - Ognuno ha i propri gusti, le proprie propensioni musicali, ma è sbagliatissimo non saper riconoscere che anche comporre canzoni nel segno della semplicità  e della "facile presa" è un'arte, difficile da esercitare quanto quella di comporre opere cantautorali di ampio respiro e pregne di contenuti: e quanto sia difficile lo si percepisce in maniera netta oggi, perché in questi anni sono ben pochi gli interpreti e gli autori che riescono a sfornare brani capaci di entrare nella testa al primo ascolto, e si è anzi perso lo stampo di certe canzoncine dal tessuto musicale e testuale esile, eppure dotate del dono di essere fischiettabili e canticchiabili in ogni momento del dì.
NEMO PROPHETA IN PATRIA - Ecco, in questo senso Cutugno, se non perseguitato, sicuramente si può definire "incompreso": "Nemo propheta in patria", diremmo. Trattato come un modesto mestierante del pentagramma dalle nostre parti, buono solo per qualche giro di Do in quel di Sanremo, all'estero è osannato, è un divo vero. Si potrebbe dire, e non suoni blasfemo l'accostamento con realtà più brucianti dei nostri anni, un ennesimo cervello in fuga (in anticipo sui grami tempi attuali, però), non capito e non adeguatamente coltivato nel suo Paese e accolto con l'affetto che merita lontano da casa. 
Si sostiene che nell'Est europeo, dove Toto miete tutt'oggi i suoi più grandi successi, il gusto musicale sia più arretrato, quasi primitivo (e lo stesso viene scritto e detto per giustificare altri trionfi incomprensibili agli occhi dei nostri "esperti", come quelli che certi artisti italiani ottengono nei Paesi dell'America Latina). Banale, inaccettabile. Francamente non credo che Russia e dintorni siano popolati da centinaia di migliaia di decerebrati che godono ascoltando per ore i concerti di Toto e dei suoi simili. Gusti più semplici, forse, questo sì, di chi sa ancora apprezzare l'essenzialità e l'immediatezza della canzone, di chi sa riconoscere che anche una musica meno "alta intellettualmente" ha la sua dignità, se concepita con passione e costruita con professionalità tecnica, e se capace di toccare direttamente le corde dell'animo, senza tanti arzigogoli. Non va infine dimenticato un dettaglio fondamentale: Cutugno è portabandiera di un pop melodico lineare, ossia di quella tradizione che viene ancora oggi riconosciuta ovunque come il tratto predominante della canzone italiana, uno stile che da noi è stato portato a vette sublimi e che è tuttora la "branca" più apprezzata universalmente fra le tante che caratterizzano la musica leggera tricolore. 

lunedì 11 novembre 2013

DANIELE CONTI E IL SUO BIMBO, LA MIGLIORE RISPOSTA ALLO SCEMPIO DI SALERNO


Il capitano del Cagliari Daniele Conti che, dopo aver segnato il secondo e decisivo gol contro il Torino, invece di sfoggiare tatuaggi volgari e deturpanti, esultanze bislacche, balletti a mimare l'ultima trashata pop, semplicemente corre verso il figlioletto a bordo campo e lo abbraccia. Una boccata d'aria pura, l'immagine pulita del calcio che vorremmo, poche ore dopo lo scempio di Salernitana - Nocerina. Ecco perché, nonostante tutto, il pallone sopravvive: perché riesce sempre a darci un motivo per crederci ancora, per continuare a seguirlo, anche quando tutto sembra crollare, quando lo squallore e l'impresentabilità sembrano destinate a prendere il sopravvento. 
ESCALATION - Aggrappiamoci a Conti padre e figlio, dunque, che in pochi secondi ci hanno dato una lezione esemplare di come il calcio dovrebbe essere sempre vissuto. Invitiamo le televisioni, la Lega, la FIGC a utilizzare quelle immagini come spot per il prossimo campionato. Non è molto, ma sarebbe un piccolo segnale da cui ripartire per rivoltare il nostro football come un calzino. Dopodiché, è chiaro, il calcio italiano avrebbe bisogno di ben altro. Quanto accaduto a Salerno turba, sconvolge ma non sorprende. Perché chi conosce questo mondo sa che certe cose sono destinate a succedere, prima o poi. Questa stagione ha portato con sé l'ennesima escalation di brutture, a partire dai cori anti Napoli sui quali persino firme prestigiose hanno trovato il modo di eccepire e di fare odiosi distinguo. E il tira e molla sulla "discriminazione territoriale", come se non fosse razzismo tout court anche quella, è stato imbarazzante... Troppo buonismo, troppa tolleranza nei confronti di un fenomeno sul quale io ho da sempre un'idea piuttosto netta e radicale: i gruppi ultras dovrebbero essere sciolti d'autorità, perché, a parte sparute eccezioni, rappresentano il male del calcio, alla stessa stregua delle scommesse clandestine, degli impianti inadeguati, della gestione economica fallimentare, dell'esterofilia che ammazza i vivai e degli arbitraggi non all'altezza, ovviamente il tutto con gradazioni diverse. 
CALCIO SENZA PROTEZIONE - Come si è arrivati a questo stato di cose? Le frange estreme del tifo hanno preso possesso degli stadi, soprattutto in certe realtà periferiche, ma non solo, se si pensa a quanto accaduto due anni fa durante Genoa - Siena o, ancor peggio, nel 2004 in occasione di un assurdo derby romano, quando un manipolo di esaltati ottenne il rinvio del match diffondendo una notizia priva di fondamento (uccisione di un bambino) alla quale venne dato più credito che non alle rassicurazioni delle forze di polizia. Con tali precedenti, inevitabile che si arrivasse all'intimidazione diretta dei giocatori e alla costrizione di non scendere in campo per evitare "guai peggiori", perché il sistema è minato dalle fondamenta. Rattrista che certi alti esponenti del nostro movimento calcistico, ieri come ai tempi dei fatti di Marassi, si siano scagliati contro l'arrendevolezza dei giocatori (a Genova la consegna delle maglie, a Salerno la farsa degli infortuni in serie). Brutte immagini, certo, ma che deviano l'attenzione dai problemi principali, i veri guasti da cui originano scempi simili.
Queste autorità non se le pongono mai certe domande? Non viene loro il dubbio che, se gli atleti si comportano in tal modo (deprecabile, per carità), è perché non si sentono più adeguatamente protetti dai vertici del calcio e dello Stato, e sono, insieme ai supporters "veri" e genuini, le prime vittime di un ambiente inquinato da queste componenti "malate" che troppo terreno hanno guadagnato? Ci sono troppe cose che non funzionano sul piano della gestione della sicurezza e dell'ordine pubblico, se alla fine della fiera i "peggiori", DASPO o non DASPO, tessere o non tessere, curve chiuse o curve non chiuse, hanno sempre il pallino in mano e fanno il bello e il cattivo tempo. 
FERMARE IL PALLONE? NO... - C'è chi dice che per arginare questa deriva occorrerebbe fermare il calcio per qualche anno. Ovviamente è impossibile: il pallone non è fatto solo dai giocatori che scendono in campo, attorno ad essi c'è una vera e propria industria, c'è un indotto sterminato, un apparato grazie al quale lavorano e campano, legittimamente, tantissime persone. All'estero, soprattutto in Inghilterra, sono riusciti a porre parziale rimedio al fenomeno "in corso d'opera", continuando cioè a mandare avanti la baracca anche in circostanze obiettivamente drammatiche, come ai tempi del dopo Heysel: chiudere tutto sarebbe inutile e porterebbe pericolosi effetti collaterali. C'è anche chi dice che allo Stato convenga convogliare ogni domenica le frange peggiori del tifo e della società negli stadi e attorno ad essi, per esercitare su di esse un controllo più efficace. Va da sé che, se così fosse, si tratterebbe di una clamorosa ammissione di sconfitta e di impotenza. 
CAMBIARE I VERTICI - La verità è una sola: in questo momento, anzi da un bel po' di anni, non abbiamo in Italia istituzioni calcistiche e politiche all'altezza. Vi fossero, come vi sono in quasi tutti i Paesi europei di primo piano, prenderebbero di petto il problema, caccerebbero a pedate "giuridiche" i teppisti dagli stadi e restituirebbero gli impianti agli appassionati veri e sani, punendo anche società e giocatori che intrattengono con questi individui rapporti troppo stretti. Perché in certe situazioni occorre il pugno duro, qui invece si va avanti a palliativi che hanno come unico effetto quello di ringalluzzire (e incattivire) ancor di più gli ultras. Ma, ripeto, se non cambiano i volti di chi comanda il baraccone calcio e la nazione Italia le cose sono destinate a rimanere così. E allora, lo ripetiamo, aggrappiamoci agli esempi costruttivi, ai Conti senior e junior, alla purezza dei loro abbracci. E' pochissimo, ma se tutti si comportassero come lui, forse, a lungo andare la positività avrebbe la meglio sull'odio ultras, scaccerebbe i mercanti dal tempio. Sarà utopia, ma se stiamo ad aspettare nuovi dirigenti e nuovi politici...