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lunedì 30 giugno 2014

MONDIALI DI CALCIO: UN ROBBEN ESAGERATO. SALVA L'OLANDA E SI AUTOACCUSA PER UNA PRESUNTA SIMULAZIONE

                                              Robben "hombre del partido"

Un popolare telecronista messicano (il Guerin Sportivo dell'epoca lo citò, semplicemente, come "Don Fernando") lanciò il suo malinconico grido di allarme già ai tempi del Mundial 1986, all'indomani della resa ai rigori della Nazionale di casa di fronte alla Germania Ovest: "La storia calcistica di questo Paese è piena di gloriose "derrote", sarebbe invece il momento di cominciare a mettere in fila qualche inglorioso "triunfo"...". Sono trascorsi quasi trent'anni, ma laggiù nella terra degli aztechi nulla è cambiato. Il Messico non riesce a scrollarsi di dosso l'etichetta di grande incompiuta, e ancora una volta saluta la compagnia iridata agli ottavi di finale. Certo, deve maledire un Arjen Robben esagerato, in tutti i sensi. Esagerato sul campo di Fortaleza, allorquando, negli ultimi venti minuti della sfida con la compagine dalle verdi maglie, si è letteralmente impadronito del match e ha suonato la carica oranje, trascinando gli straniti compagni a una rimonta che pareva ormai chimerica. Esagerato in sala stampa, a bocce ferme, quando si è assunto colpe che forse non aveva, o che aveva solo in minima parte, chiedendo scusa per aver simulato, nel primo tempo, un fallo da rigore. "Mi sono tuffato, non dovevo farlo, perdonatemi".
DUBBI - Ma a quale episodio si riferisse non è ben chiaro: in prima istanza diversi organi di stampa italiani, ieri, hanno esplicitamente parlato del penalty che ha sancito il definitivo sorpasso dei Tulipani (come si evince da questo link), penalty che però mi era parso da subito evidente (pestone di Marquez sul piede del fuoriclasse del Bayern). Altri hanno parlato della doppia irregolarità patita in chiusura di prima frazione (e anche in questo caso, ritengo l'infrazione piuttosto netta), altri ancora di un contatto più dubbio avvenuto a metà ripresa, che può prestarsi a diverse interpretazioni.
In attesa che i nostri giornalisti ci (e si) chiariscano le idee, magari imparando meglio le lingue per riportare più fedelmente certe dichiarazioni, si può dire che Robben non abbia rubato alcunché: a volte i calciatori non hanno piena percezione di ciò che fanno in partita, in positivo come in negativo (pensiamo a quelli che negano, anche di fronte a evidenze moviolistiche, di aver toccato il pallone con la mano). Comunque sempre meglio chi, come lui, si presenta davanti alle telecamere facendo un "mea culpa" financo eccessivo, rispetto a chi, dopo una sconfitta senza attenuanti, davanti ai microfoni ci va per accusare alcuni compagni di squadra... 
UN'ALTRA OLANDA - Chiudiamo subito la parentesi: disquisire di rigori dati e non dati e più in generale di sviste arbitrali è sempre antipatico, soprattutto quando gli episodi sono interpretabili  in direzioni radicalmente opposte. Rimane una qualificazione poco gloriosa, per un'Olanda che per tre quarti di gara è parsa la copia sbiadita dell'inesorabile schiacciasassi ammirata nella prima fase. Macchinosa e lenta nella costruzione del gioco, tatticamente confusionaria, con variazioni in corso d'opera che hanno sollevato un gran polverone senza produrre risultati apprezzabili. Kuyt, prima a sinistra e poi a destra, offriva un cieco fervore non sostenuto dalla necessaria lucidità, risultando assolutamente impalpabile in appoggio all'azione offensiva; Blind, spostato al centro dopo il precoce infortunio a De Jong, si limitava a un anonimo tran tran, smistando palloni ma senza fornire contributi apprezzabili in fase creativa; Wijnaldum girava a vuoto, mentre Sneijder si sbatteva per quattro ma giostrava troppo arretrato per poter risultare mortifero dalla trequarti in su. Aggiungiamoci un Van Persie evanescente e un Martins Indi in disagio atletico, che trotticchiava rallentando l'azione: in tale contesto persino Robben faticava maledettamente, e si rendeva pericoloso solo su errato disimpegno della retroguardia messicana, andandosi a procurare, come rilevato in apertura, un rigore netto che, però, Proença non coglieva. 
MESSICO COMPATTO E ORDINATO - Già, il Messico. Sembrava la volta buona per infrangere la maledizione dei quarti, traguardo - miraggio per una Nazionale abbonata agli ottavi di finale (è arrivata fra le prime otto solo quando ha giocato in casa, nel 1970 e nel 1986). Le condizioni c'erano tutte: i verdi in palla, gli arancioni in giornata no. Rappresentativa di spessore, quella del variopinto cittì Herrera: compatta, equilibrata, capace di mandare in tilt gli avversari non con assalti furenti, ma con morbidi ricami e un attento presidio di ogni zona del terreno. Squadra corta, con centrocampo folto, sostenuto dalle avanzate dei difensori, soprattutto di Marquez, da esterni infaticabili come Aguilar e Layun, e dagli arretramenti di Peralta e Giovani Dos Santos. Una ragnatela sostenuta da buon dinamismo e da notevole proprietà di palleggio. 
Nella prima frazione, modesta e giocata sotto ritmo, erano stati proprio i nordamericani a mostrare le cose migliori, con un rasoterra di Herrera che Sillessen guardava sfilare a lato di un soffio, e con un bel diagonale di Giovani, su pregevole azione corale, e conseguente salvataggio del guardiano olandese. A inizio ripresa il vantaggio, siglato da Dos Santos con un preciso sinistro da fuori, era un premio meritato, e poco dopo un altro tiro a lunga gittata di Peralta per poco non fruttava il raddoppio. Qui finivano le luminarie offensive dei messicani, che continuavano a tener bene il campo ma avevano la colpa di non pungere più, di non affondare i colpi, fidando sulla loro capacità di addormentare partita e avversari. 
IL FINALE DI ROBBEN - Poi, come detto, Robben faceva ciò che dovrebbe fare ogni fuoriclasse: si caricava sulle spalle i compagni in difficoltà, dava la scossa, prendeva a spallate la partita con una serie di formidabili percussioni che lavoravano ai fianchi la terza linea dei verdi. Ochoa salvava su un suo destro chirurgico, scagliato dopo aver meravigliosamente saltato l'uomo in area, ma la carica era ormai stata suonata. Il sogno messicano, per l'ennesima volta nella sfortunata storia calcistica di questo paese, andava in pezzi nel giro di cinque minuti: all'88', sugli sviluppi di un corner (battuto ovviamente da Robben, e chi sennò?), Sneijder scaraventava in rete il pallone con un destro dalla distanza di inaudita potenza, e al 93' l'episodio di cui si diceva, piede di Marquez su piede di Robben, rigore e trasformazione del subentrato Huntelaar.
Come il Cile ieri, il "Tri" ha pagato l'incapacità di dare un seguito alla prima prodezza offensiva. Van Gaal, da parte sua, ha un campionissimo e se ne giova, ma deve rivitalizzare alcuni suoi ragazzi e trovare un assetto più razionale, come quello, semplice ed efficace, che consentì di mandare gambe all'aria la Spagna, due settimane fa. Il tabellone si fa invitante: sarebbe folle non sfruttarlo. 

domenica 29 giugno 2014

MONDIALI DI CALCIO: IL BRASILE A UN PASSO DALLA FIGURACCIA EPOCALE. E LA COLOMBIA SI AVVICINA...



Non è certo così, meu Brasil, che puoi puntare con solide ambizioni alla conquista del sesto titolo iridato. Ma che dico: con un tale standard di prestazioni, persino il raggiungimento delle semifinali è a rischio concreto, vista la Colombia che ti troverai di fronte. Certo, non c'è stato alcun furto, ieri pomeriggio a Belo Horizonte: ma se nel calcio esistesse la vittoria ai punti, questa non avrebbe potuto che premiare il Cile, senza se e senza ma. Una lezione di football e di morale sportiva, quella dei ragazzi di Sampaoli: che hanno dimostrato come nella terra del dio pallone, contro la Nazionale di casa predestinata alla Coppa, in un ambiente ostile (amor patrio spinto a livelli di fanatismo, con tanto di fischi all'inno degli avversari), sia possibile scendere in campo forti della convinzione di poter fare il colpaccio, e portandola avanti, questa convinzione, fino all'ultimo secondo utile. Ha inseguito il suo sogno possibile, la vera Roja di questo Mundial, rifuggendo ogni atteggiamento attendista e ostruzionistico, aggredendo il gioco minuto dopo minuto, con una "difesa attiva" che l'ha portata a cercare il varco verso il gol ogniqualvolta se ne presentava l'occasione. 
PINILLA COME BAGGIO - Lo sfortunato finale di gara di Mauricio Pinilla, riemerso a livelli di eccellenza dal piccolo cabotaggio delle sue stagioni italiane, ha riportato alla memoria l'ultimo Roby Baggio mondiale, quello del 1998, quarto di finale in casa della Francia: a pochi minuti dal termine dei supplementari, sfiorò il palo di un nonnulla con uno splendido destro al volo. All'epoca era in vigore il discutibile golden gol, e quella prodezza, concretizzandosi, avrebbe clamorosamente eliminato i galletti. Sappiamo invece come andò, e lo stesso è accaduto all'attaccante del Cagliari: splendido destro dal limite, Julio Cesar battuto e traversa piena, allo spirare dell'extra time. Sono quelle "sliding doors" che, purtroppo, si chiudono quasi sempre per chi già in partenza era sfavorito. 
Poi sono arrivati i rigori nefasti, per Pinilla (penalty calciato assai male) e per i suoi compagni. Ma quella traversa rimane la sintesi di quanto detto prima: i cileni ci hanno creduto fino in fondo, e hanno fatto qualcosa in più degli augusti avversari per entrare fra le prime otto del mondo. Eupalla ha generosamente preso per mano i beniamini locali, impauriti come tanti pulcini bagnati, e li ha accompagnati verso un quarto che non è neppure da considerare un obiettivo minimo: per il team di Scolari, l'obiettivo minimo non può che essere Rio de Janeiro, 13 luglio, Maracanà, ossia giocarsi la finalissima. 
BRASILE BELLO A META' - Il Brasile del primo tempo aveva illuso in una metamorfosi simile a quella della Confederations Cup 2013: inizio di torneo diesel e progressiva carburazione, fino al raggiungimento in extremis della quadratura del cerchio tecnico e tattico. E' stata una frazione di grandissima intensità, per merito di entrambe le contendenti, e la Seleçao ne era uscita tutto sommato a testa alta: attorno a Neymar, unico termometro delle vere ambizioni auriverdes (se cala lui, l'attacco viene depotenziato del 90 per cento), giostrava una squadra più mobile, dinamica, con elementi disponibili al sacrificio: Marcelo pareva in palla in entrambe le fasi di gioco, ed era il primo a cercare il gol con un tiro a lunga gittata, mentre sull'altro lato Dani Alves chiamava il bravo... Bravo a una grande deviazione in corner su fiondata dalla distanza.
Lo stesso golden boy rientrava spesso nelle retrovie a dar manforte, Luiz Gustavo si confermava prezioso interdittore e Hulk regalava una prestazione finalmente convincente, di grande generosità, con un contributo a tutto campo e furenti percussioni a cercar di forzare il dispositivo difensivo cileno. Il gol di David Luiz era in fondo un premio meritato: il fatto è che in questo Brasile, anche nelle giornate migliori, c'è sempre qualche ingranaggio che gira a vuoto, o non gira proprio, dalla cintola in su. Così Fernandinho alzava troppo spesso i toni agonistici, mentre Oscar e Fred rimanevano costantemente ai margini del match, dove, nella ripresa, scivolava anche Neymar, diventando pallida controfigura del folletto ammirato fino a prima dell'intervallo. 
IL MIGLIOR CILE DI SEMPRE - Il Cile coglieva il pari su disattenzione difensiva mirabilmente sfruttata da Sanchez, ma fin dai primi minuti aveva carpito l'essenza del match, esibendosi su altissimi livelli: Isla e Mena chiudevano le fasce e ripartivano, sopratutto il secondo, vera freccia sulla sinistra; Medel là dietro era una barriera difficilmente superabile, nel mezzo Vidal si confermava un settepolmoni universale, catalizzando ogni fase della manovra, e quando calava lui saliva di tono Aranguiz, che dopo qualche impaccio iniziale si ergeva a califfo di centrocampo, filtrando e rilanciando, fino a sfiorare il gol, negatogli da una prodezza di Julio Cesar; in avanti la tessitura era sulle spalle di Sanchez, un moto perpetuo su ogni metro del fronte offensivo, talmente brillante da partecipare attivamente all'azione anche in fase di impostazione. Un bel Cile, forse il migliore di tutti i tempi: quello arrivato terzo al Mondiale in casa sua, nel '62, non può far testo, visto che si fece largo fra pugni e scorrettezze varie non sanzionate dagli arbitri.

                                           James Rodriguez: che gol all'Uruguay!

UN ANFITRIONE IN VESTI DIMESSE - I rigori hanno poi detto bene al Brasile, ma la superfavorita della Coppa 2014 è arrivata davvero sull'orlo del precipizio, ha rischiato seriamente di farsi sbattere fuori dal suo Mundial negli ottavi di finale, cioè quando le sfide decisive devono ancora arrivare. Forse solo la Spagna del 1982, fra le grandi tradizionali chiamate ad ospitare un torneo iridato, aveva mostrato tale fragilità complessiva: caratteriale, perché non c'è stata alcuna reazione né al pari di Alexis né al gol annullato ad Hulk (controllo non evidentissimo col braccio); e di gioco, perché dalla zona nevralgica non arriva un'ispirazione che sia una, la manovra procede a fiammate, l'attacco è privo di forza penetrativa e tutto ruota attorno alle alzate di ingegno di Neymar. Dal secondo tempo in poi, la Seleçao ha fatto quasi tenerezza, per inconcludenza e modestia delle espressioni di gioco, persino per limiti di classe, in alcuni suoi interpreti. 
COLOMBIA MAESTOSA - La Colombia si approssima minacciosa: con l'Uruguay ha giocato al gatto col topo, irretendo gli avversari con un sapiente palleggio a centrocampo e affondando con improvvise accelerazioni. Ottimo lo sfruttamento delle fasce da parte di Zuniga e Armero (di quest'ultimo il cross che ha portato alla rete del raddoppio), controllo del gioco autoritario per oltre un'ora, con Aguilar a far legna in mezzo e James Rodriguez, doppiettista di giornata, toccato dalla grazia: primo gol, sinistro di controbalzo da fuori, capolavoro di balistica e di classe.
Nel finale il team di Pekerman ha rischiato qualcosa in più del dovuto: ultimi fuochi di un Uruguay a fine ciclo, che si dimenava come un animale ferito (non risparmiandosi qualche scorrettezza e qualche eccesso nervoso), ma davanti a Ospina si sono aperte smagliature difensive in cui potrebbe infilarsi un Brasile meno tentennante, più continuo nella sua azione, più rapido e preciso nelle verticalizzazioni. Altrimenti sarà notte fonda, perché a Cuadrado, Jackson e compagnia non manca certo la concretezza sotto rete. Scolari non può sperare che basti questo scampato pericolo a scuotere la sua Seleçao: i problemi sono strutturali, ma risolvibili. Assodato che questo Brazil 2014 non entrerà comunque nella galleria dei team da sogno, deve ritrovare, lo ripetiamo, lo spirito e la filosofia di gioco della Confederations: essenzialità, compattezza, velocità vertiginosa nelle avanzate. Un Brasile non bellissimo, quello di un anno fa, ma capace comunque di sprigionare fasi di gioco notevoli. 

sabato 28 giugno 2014

MONDIALI 2014: LA COPPA DELLA RAI, FRA SIGLE A GOGO', SCELTE SUICIDE E POCHI GUIZZI. SI SALVANO RIMEDIO E LA CAROLLO

                              Messi: la sua Argentina finora non ha goduto di "dirette" Rai

Un susseguirsi continuo di jingle, sigle e siglette, stacchi e stacchetti animati. Ecco come verrà ricordato il Mundial 2014 targato Rai. E forse sarà meglio così, perché se dovesse restare nella memoria per la qualità della copertura dell'evento, beh, ci sarebbe di che mettersi le mani nei capelli, o quasi. Sia chiaro che non si vuole parlare, in questa sede, della miseria di venticinque partite su sessantaquattro offerte in diretta, una al giorno: è così dal 2006 purtroppo, questione di budget, di aste, di concorrenza sempre più terribile, e ormai me ne sono fatto una ragione. Perlomeno, questa volta da viale Mazzini non hanno insistito più di tanto con l'irritante ritornello utilizzato con sfacciataggine in passato, soprattutto in occasione del torneo iridato in Germania: "Noi trasmettiamo le 25 partite migliori". Fragile trovata promozionale, perché nella maggior parte dei casi è piuttosto arduo sapere prima quali saranno le partite "migliori". E poi cosa vuol dire "migliori"? Le più combattute? Quelle con la posta in palio più alta? Quelle con le squadre più titolate o più dotate di classe? Mah. Stavolta, si diceva, il discorso è rimasto sottotraccia, anche perché non sarebbe stato facile giustificare in tale guisa la scelta di mandare in onda gare "epocali" come Francia - Honduras e Algeria - Russia. 
MINA E I FIACCHI OPINIONISTI - Sigle e jingle come se piovesse, dunque. Per fortuna che c'è Mina: la vecchia tigre di Cremona e il suo staff hanno azzeccato il motivetto - tormentone, ciò che cantanti e autori d'oggidì non riescono più a realizzare, se non in casi sporadici ("Maracanà" di Emis Killa, ad esempio). "La palla è rotonda" passa però sugli schermi Rai una quantità esorbitante di volte al giorno, e il rischio che diventi insopportabile è alto. Comunque, sotto questo vestito musicale festoso e martellante c'è il nulla o quasi. Una miriade di ore di calcio parlato, diluito in trasmissioni con titoli che differiscono leggermente fra di loro (Mattina mondiale, Diario mondiale, Notti mondiali...) ma che si somigliano tutte terribilmente. Il format è sempre lo stesso, senza guizzi di fantasia: il conduttore o la conduttrice, e attorno i soliti opinionisti di sempre che discutono stancamente ad libitum. 
IL CALCIOMERCATO E I "PRESTATI" AL CALCIO - C'è un Italo Cucci che ha ormai perso la verve dei tempi del Guerin Sportivo; c'è Zazzaroni, che interessante, godibile e in grado di fare davvero opinione non lo è mai stato, nonostante la sovraesposizione mediatica. Si è tentato il ripescaggio di un polemista d'antan come Aldo Agroppi, ma solo via telefono; e poi il calciomercato, una delle disgrazie del giornalismo degli ultimi vent'anni, affidato a Matteo Materazzi. Irritante il ricorso a giornalisti non sportivi: chissà perché, quando è tempo di Mondiali, si gettano sul pallone grandi firme che nel resto dell'anno si occupano in linea di massima d'altro, nella fattispecie Salvatore Tramontano e Andrea Scanzi. Il calcio è comunque una "materia" che, per essere trattata, richiede un notevole bagaglio di conoscenze tecniche e storiche: ha una sua dignità, tutti lo possono seguire ma non tutti lo possono raccontare professionalmente. Se di esso viene affidata la trattazione pubblica a tutti, anche ai non specialisti, è inevitabile lo sconfinamento nell'effetto Bar Sport.
BAR SPORT - Ecco, la Rai brasiliana è fondamentalmente un grande Bar Sport, laddove l'ente televisivo di Stato dovrebbe tenersi bene alla larga da una dimensione dialettica così dimessa, cercando finalmente, in assenza di una copertura totale delle 64 gare in programma, di fornire perlomeno una lettura più competente e tecnica dell'evento. Ci vorrebbero più Bacconi (l'unico là dentro che sappia raccontare la tattica e i movimenti degli uomini in campo) e più Bartoletti, entrambi invece, chissà perché, vittime "a prescindere" di molti critici sopravvalutati. Siamo rimasti alle modalità comunicative del Mondiale di quattro anni fa, quando Costanzo e Galeazzi conducevano improbabili dibattiti notturni. Ci sono, dicevamo, troppi Zazzaroni, troppi Freccero (con tutto il rispetto, caro prof, ma ieri sera ha fatto più caciara che altro), e si è visto persino transitare dagli studi Maurizio Mattioli, forse promosso a esperto di calcio in virtù di quel famoso film con Massimo Boldi, in cui recitava la parte del tifoso della Roma... E ovviamente guai a fare a meno della solita clip di Fiorello, mica può essere lasciato fuori dal massimo evento mediatico dell'anno, il Rosario nazionale... 
TELECRONACHE A UNA VOCE - Sono davvero in pochi a salvarsi: la brava Giovanna Carollo che però, dopo anni di onesta fatica redazionale e tante oscure edizioni di tg sportivi da ordinario mezzo busto, sembra stia godendosi fin troppo queste luci della poco gloriosa ribalta "Rai Mundial", sciorinando vestiti, sorrisi e movenze fashion (comunque è brava e buca lo schermo), mentre il clima di austerity ha fatto perlomeno riscoprire l'efficacia delle telecronache ad una voce: grazie ad Alberto Rimedio, che ha mostrato brillantezza e dato ritmo al racconto, pur con qualche sbavatura (si sta ancora chiedendo perché sia stato annullato un gol al francese Matuidi, in realtà mai realizzato: il pallone era finito a fondo campo, dietro la rete), un gradino sotto Marco Lollobrigida, in ogni caso entrambi sembrano rappresentare una buona sintesi fra la tradizione nazionalpopolare di Martellini e Pizzul e la maggior analiticità tecnico - tattica della nuova generazione, senza tuttavia trascendere in esagerazioni vocali stile Piccinini o Caressa. Via, Nazionale a parte, le seconde voci (quelle scelte dalla Rai mai hanno aggiunto qualcosa di sostanzioso al commento principale) e i bordocampisti. Non se ne è sentita la mancanza, il consiglio è di insistere. 
DOV'E' FINITO "MONDIALE REPLAY"? - E' misteriosamente scomparsa dai palinsesti, dopo il 22 giugno, la rubrica più interessante, Mondiale Replay, che proponeva ampie sintesi delle partite della giornata: era tutto previsto, ma non se ne comprende il motivo, proprio nel momento in cui il torneo entrava nel vivo, prima con le sfide decisive dei gironi e poi con i match a eliminazione diretta. Incomprensibile anche, e torniamo al punto di partenza, la scelta di alcune partite per le dirette: in pratica una delle favorite per il successo finale, l'Argentina, rimarrà "oscurata" fino ai quarti di finale, quando, si spera, la Rai ci farà la grazia di trasmettere il probabile scontro fra Messi e compagni e l'atteso outsider Belgio. Secondo le ultime notizie, nemmeno l'ottavo che vedrà opposta la Selecciòn alla Svizzera godrà della trasmissione integrale. 
Maltrattata pure l'attesa Colombia, fin qui all'altezza dei pronostici che la indicavano come possibile rivelazione: chi li ha visti, in Rai, Cuadrado e compagni? In compenso, ci siamo dovuti sorbire tutte le stanche recite del Brasile, anche quella dall'esito scontato contro il modestissimo Camerun, e ben due su tre della Francia e del suo girone cuscinetto, frutto dello scandaloso sorteggio decembrino che, personalmente, non ho dimenticato. Scelte editoriali poco coraggiose, effettuate spesso puntando sulla platea sicura della prima serata piuttosto che su quella ondivaga del tardo pomeriggio, benché alle 18 fossero in calendario una serie di sfide di altissimo interesse. Ragionamenti da vecchia tv di Stato: la Rai, per l'appunto. 

giovedì 26 giugno 2014

MONDIALI 2014, DISASTRO ITALIA: IL GRUPPO AZZURRO MAI ESISTITO E I RAGAZZI DAI QUALI RIPARTIRE

                            L'Italia '82 sull'aereo con Pertini: altri tempi, altri ritorni in patria... 

Come cambiano i tempi! Nel 1982 la Rai trasmise in diretta il trionfale ritorno in Italia degli azzurri dalla Spagna, dopo la conquista della terza stella mondiale. Nel 2006, altra diretta fiume, per il colossale bagno di folla degli eroi di Berlino al Circo Massimo. Stamane, nell'anno di disgrazia 2014, ci siamo dovuti accontentare della cronaca minuto per minuto del rientro della spenta e imbolsita truppa prandelliana, affondata con disonore in Brasile. Passano i giorni, ma la delusione e la rabbia per l'indegna conclusione della nostra avventura Mundial crescono, invece di attenuarsi. Nulla ci è stato risparmiato: dopo aver dovuto sopportare la vista di una Nazionale del tutto inconsistente sul piano fisico, caratteriale e del gioco, il seguito è stato, se possibile, ancor più avvilente, con alcuni dei senatori della squadra pronti a presentarsi davanti alle telecamere ad attaccare i compagni più giovani (o "il compagno più giovane"?), oltretutto senza fare nomi, quindi con una curiosa forma di coraggio a metà. 
QUALE GRUPPO? - Così, in pochi minuti, è crollato anche l'ultimo dei miti azzurri: quello del famoso "gruppo", dell'unità d'intenti e dello spogliatoio cementato. Il "tutti per uno, uno per tutti" è stata una delle nostre armi vincenti in occasione di ogni titolo iridato conquistato: ci si ricamò sopra fin troppo soprattutto ai tempi dei "ragazzi di Bearzot", ma anche la rappresentativa di Lippi nel 2006 non sarebbe potuta arrivare così in alto, se non avesse fatto fronte comune davanti all'onda distruttiva di Calciopoli. Questa Nazionale 2014, invece, il gruppo non sapeva nemmeno cosa fosse. Dietro la facciata dei sorrisi, del "tutto va ben, madama la marchesa" propinata ai media, c'era uno spogliatoio in disgregazione. Gli spifferi che stanno emergendo dalle segrete stanze azzurre sono imbarazzanti, ma non è mia abitudine dar credito ai "so tutto io" che in queste ore imperversano sul web e sui giornali. Mi attengo a ciò che ho visto e sentito: i veterani che difendono le loro posizioni scagliandosi contro gli ultimi arrivati non hanno scusante alcuna, e sono la punta dell'iceberg di una situazione non più sostenibile, da estirpare subito alla radice a partire da settembre, quando inizierà la (facile?) rincorsa a un posto fra le 24 finaliste di Euro 2016. 
BUFFON E COMPAGNIA, BASTA COSI' - L'ho già scritto nel precedente post: via subito, queste vecchie glorie. Ci hanno portati sul tetto del mondo otto anni fa, per un po' han tirato la carretta, ma ora basta. Certe uscite sono la plastica dimostrazione di come alcuni campioni non si rassegnino al tempo che passa e, oltretutto, non posseggano nemmeno più l'autorevolezza per tenere salde le redini morali e caratteriali del gruppo. Via Buffon, che ha dato tutto ma ora ha, finalmente, alle spalle tre eredi degnissimi. Via Pirlo, che si era opportunamente e nobilmente chiamato fuori da solo ma che, a 35 anni suonati, si è nuovamente messo a disposizione del cittì che verrà, figuriamoci; cartellino arancione per De Rossi, al quale due giorni fa avevo attribuito il ruolo di possibile ultima chioccia, ma che con quella uscita in sala stampa si è giocato una bella fetta di credibilità: certo la sua garra, la sua universalità tattica, la sua importanza negli inserimenti offensivi, la sua esperienza potrebbero ancora tornare assai utili, anche alla luce di un'età non avanzatissima, ma le sue parole hanno tradito una scarsissima propensione alla vera leadership, quella che si esercita nello spogliatoio con poche e azzeccate frasi nonché con atteggiamenti maturi e misurati, non proclamando discutibili verità nel momento più nero, lavando in pubblico i panni sporchi. 
PRANDELLI ADDIO - Un taglio netto ci vuole, come quello attuato da Fulvio Bernardini dopo i Mondiali del '74.  E per farlo occorre un uomo di carisma, esperienza ai massimi livelli e pelo sullo stomaco. Mancini, Spalletti? Vanno bene. Allegri? Più di una perplessità, ma non si sa mai. Il mio ideale sarebbe un trainer straniero, lontano dalla mentalità italica, capace di tagliare i ponti col passato senza remore né debiti di riconoscenza: Mourinho o Scolari, ma costano troppo e comunque dalle nostre parti, chissà perché, una guida estera per la Nazionale sembra discorso tabù (però poi si fa massicciamente ricorso ad oriundi perlopiù superflui: misteriose strategie). 
Le dimissioni di Prandelli, come già detto, sono state un gesto ovvio, naturale, necessario. Il CT rappresenta la delusione più fragorosa (altro che Balotelli...) fra le mille delusioni di Brasile 2014, per preparazione dell'avventura e gestione in corso d'opera. Deficitario sotto tutti i punti di vista: temo che non sarà facile per lui ripartire ad alti livelli in Italia, e me ne dispiaccio, perché chi mi segue sa che Note d'azzurro ne ha fin dall'inizio apprezzato il lavoro, senza tuttavia chiudere gli occhi di fronte al progressivo regresso evidenziatosi dopo gli Europei. E poi gli errori commessi negli ultimi mesi, dalla preselezione dei trenta all'idea di gioco portata avanti per quattro anni e poi inopinatamente accantonata, fino alla provvisorietà tattica e alla condizione atletica pietosa. Il tutto aggravato dal fatto che a Prandelli erano state affidate le redini del Club Italia per altri due anni, con compiti che sarebbero dovuti andare oltre la mera guida della rappresentativa: doveva essere il faro, l'ispiratore della ripartenza e del rinnovamento di tutto il nostro movimento calcistico, e invece... Basta, non rigiriamo il coltello nella piaga.
ESTEROFILIA DA ESTIRPARE - Avanti, dunque. Molti dei miei pensieri sulla disfatta azzurra li ho messi nero su bianco nel post del dopo Uruguay. Ribadisco che la decadenza del calcio italiano non si identificava con una Nazionale che aveva fatto ottime cose nel quadriennio (argento a Euro 2012, bronzo in Confederations 2013), e che, a maggior ragione dopo aver superato il primo difficile scoglio inglese, poteva e doveva fare di più, avendo i mezzi non solo per passare il turno ma persino per vincere il girone. Noto con piacere, ma con un pizzico di amarezza, che oggi tutti scoprono ciò che altri predicano da anni: che nel nostro calcio ci sono troppi stranieri, in larga parte mediocri, e che questi tolgono spazi ai nostri giovani, mentre i vivai vengono trascurati. Bene, bravi, bis: poi però si continuano a riempire pagine (cartacee e web) sul calciomercato e sui fenomeni di fuorivia in arrivo nelle nostre desolate lande calcistiche. Dalle mie parti, Genova sponda rossoblù, già si delira per l'ingaggio dell'argentino Diego Perotti, pensate un po': almeno qualche anno fa si comprava Milito... Voglio dire che il cambio di mentalità dovrebbe riguardare anche larga parte dei tifosi, dei semplici appassionati, che si stracciano le vesti per la povertà del serbatoio azzurro ma poi vanno in brodo di giuggiole per questi presunti fenomeni giunti da lontano. 
I NUOVI AZZURRABILI - Diamo uno sguardo al futuro della nostra rappresentativa. I danni che questa ottusa esterofilia sta producendo li si vedranno autenticamente da fine anni Dieci in poi, se non si metterà seriamente mano alla questione: e le dimissioni del Presidente federale, magari con conseguente commissariamento che da anni auspico su questo blog, potrebbero essere l'atteso punto di partenza per voltare pagina. Riguardo al prossimo quadriennio, però, c'è un discreto patrimonio di giovani che potrebbero consentirci di figurare più che dignitosamente a livello internazionale. A un patto: farli giocare con continuità, accrescerne l'esperienza, anche a costo di lasciarli andare all'estero o di lanciarli prima in azzurro, vanificando i tentennamenti dei tecnici di club. Ecco un possibile roster per Euro 2016 e impegni successivi: qualcuno potrà entrarvi, qualcun altro potrà uscirne, ma mi pare una base credibile. 
PORTIERI: Sirigu, Perin, Scuffet, Bardi. 
DIFENSORI: Donati, Santon, Darmian, Bonucci, Ogbonna, Bianchetti, Romagnoli, Caldirola, Ranocchia, Astori, Regini, De Sciglio, Criscito, Bocchetti (perché è sparito da tutti i radar?), Rugani, Murru. In più, eventualmente, Barzagli, "chioccia" più credibile quanto a profilo basso, giustamente in silenzio dopo la disfatta brasiliana. 
CENTROCAMPISTI: Jorginho (unico oriundo che valga la pena arruolare...), Florenzi, Verratti, Insigne, Marchisio, Montolivo, Candreva, Parolo, Bonaventura, Bernardeschi, Sturaro, Soriano, Baselli, Viviani, Fausto Rossi, Marrone, Poli, Cristante. De Rossi da valutare, per i motivi prima detti. 
ATTACCANTI: Immobile, Giuseppe Rossi, El Shaarawy, Borini, Gabbiadini, Destro, Ragusa, Berardi, Zaza. Più Balotelli, che la Nazionale dovrà riconquistarsela coi fatti, fatti veri e pesanti. 

mercoledì 25 giugno 2014

MONDIALI 2014: SCEMPIO AZZURRO IN BRASILE. L'ITALIA TORNA A CASA E RIPARTE DA ZERO. FINALMENTE...


Le dimissioni "in stereofonia" di Prandelli e Abete? Ma quale "annuncio shock" (così le ha definite la Gazzetta dello Sport on line). E' l'atto più ovvio, logico, naturale da compiere nel momento in cui ha da poco preso forma uno dei più colossali scempi nella storia del pallone tricolore. Anzi, a voler proprio andare per il sottile, quelle dell'ormai ex Presidente federale (irrevocabili, Deo gratias) arrivano con quattro anni di ritardo, ma non si può avere tutto dalla vita. Il cittì, invece, nel 2010 non c'era, ma in queste ore è come se il tempo non fosse mai passato, dagli amarissimi giorni del disastro sudafricano. Siamo ripiombati sul fondo, su quel fondo dal quale ci eravamo faticosamente risollevati: in due sciagurate partite, contro Costa Rica e contro il fantasma dell'Uruguay campione sudamericano 2011, il nostro football ha mandato in frantumi la residua credibilità che era riuscito a conservare, in tempi di fallimenti e di regresso generalizzato. 
SPEDIZIONE DISASTRO - E' un capitombolo epocale per il sistema calcio nostrano, ben più di quello di Johannesburg al cospetto della Slovacchia, una caduta che vide tramontare per manifesta cottura Lippi e i suoi stanchi eroi berlinesi (affiancati da volti nuovi non all'altezza). E' un ko che sancisce definitivamente la retrocessione dell'Italia a periferica provincia dell'impero pallonaro, perché un Paese con le nostre tradizioni calcistiche non può permettersi due eliminazioni consecutive al primo turno in Coppa del Mondo. E' la sonora bocciatura non solo di una squadra: magari fosse così, magari fossimo davanti a due semplici partite sbagliate. No, tutta l'operazione "Brasile 2014" è stata concepita, impostata, organizzata e condotta in un crescendo rossiniano di errori, anzi, strafalcioni da matita blu. 
E' questo che fa rabbia. Perché la povertà oggettiva del nostro movimento calcistico è sotto gli occhi di tutti da almeno un lustro, e anche in questo blog l'ho spesso sottolineata anche crudamente; eppure, qualcosa di più di questo avvilente bottino era alla portata. Quella affondata indecorosamente fra Recife e Natal non era, come scritto più volte, una delle migliori edizioni della nostra Nazionale, tutt'altro. Ma si trattava, in larga parte, della squadra che nel 2012 ci ha portati ad un passo dal trono europeo, e che dodici mesi fa ha strappato un dignitosissimo terzo posto in Confederations Cup. Insomma, non proprio una manica di mediocri, se i risultati contano ancora qualcosa. 
SVANITO LO SPIRITO DELLA RINASCITA - Il problema è che l'Italia ammirata in quei due tornei (soprattutto in quello polacco - ucraino) in Brasile è come se non fosse mai arrivata. Non è arrivato, soprattutto, lo spirito che aveva contraddistinto il ciclo storico che ho sempre definito "rinascita prandelliana", fatto di voglia di osare, di prendere l'iniziativa, di creare gioco e di attaccare, pur senza tradire i fondamenti storici del football all'italiana, con la dovuta attenzione alla copertura. Il biennio post Euro 2012 aveva mostrato, in questo senso, vistosi passi indietro, fra atteggiamenti sparagnini e qualità della manovra in caduta libera, e chi mi segue sa che da queste parti la cosa era stata denunciata con crescente preoccupazione. Poi era arrivato l'acuto di Manaus con l'Inghilterra, successo sofferto e prestazione non proprio ineccepibile, ma che già aveva scatenato l'assalto al carro del vincitore (con qualche settimana di anticipo, ma certe grandi firme non potevano rischiare di rimanere a terra: vuoi mettere la gioia di poter dire "io ci avevo sempre creduto"?). Dopodiché, il vuoto spinto e la caduta a precipizio verso l'abisso. 
QUATTRO ANNI ALLE ORTICHE - Questa spenta "Azzurra 2014" non ha portato nulla, in Brasile, del lavoro svolto e delle lezioni mandate a memoria nel quadriennio. Come lo studente che fa cinque anni buoni, se non brillanti, e poi si inceppa alla Maturità. Non uno straccio di idea di gioco (a parte, lo ripetiamo, qualche illusorio sprazzo al debutto), un passarsi e ripassarsi la palla senza costrutto, per dilatare i tempi tentando invano di stanare l'avversario; nessuna verticalizzazione, a parte due - tre lanci tagliatissimi di Pirlo; approssimazione nel tocco di palla a livelli di guardia (bisogna lavorare sui fondamentali fin dalle Scuole calcio, altroché); ritmi bassissimi e poco fiato; difesa fragile e mal protetta da un centrocampo che non ha saputo né impostare né, spesso, fare filtro. Una lagna di 180 minuti. 
CON L'URUGUAY ATTENDISMO E CROLLO INEVITABILE - Contro l'Uruguay si è vista inizialmente una squadra un po' più compatta e sicura sul terreno, ma nuovamente votata all'attendismo e del tutto priva di forza di penetrazione, nonostante il ricorso alla doppia punta. Fasce quasi mai sfruttate in fase di spinta da Darmian (spentosi, non solo per sua colpa, dopo il promettente avvio con gli inglesi) e De Sciglio, centrocampisti troppo schiacciati verso la terza linea, fase di costruzione a volte addirittura affidata a Barzagli. Quando, tradito da un infortunio, è stato costretto al forfait Verratti, uno dei cardini del futuro, ispirato e coraggioso, fra i pochi a dare del tu al pallone in un contesto di notevole modestia tecnica, la già fioca luce della manovra azzurra si è spenta, producendo il vuoto spinto in fatto di occasioni da rete. 
Prandelli, come detto, ci ha messo del suo, e molto. Fra l'intervallo e il secondo tempo si è consumata la sua personale Caporetto: già discutibile la rinuncia a Balotelli, nervoso ma pur sempre in grado di spalleggiare Immobile e tenere perlomeno sul chi vive la difesa avversaria che invece, da quel momento, ha dormito sonni sostanzialmente sereni; inconcepibile il ricorso a un Cassano già sonoramente bocciato quattro giorni fa, una scelta che ha di fatto privato la squadra di sbocchi offensivi per larga parte della ripresa, condannandoci a rinculare progressivamente sotto la fiacca spinta di un Uruguay tutt'altro che trascendentale. Certo, l'espulsione dell'opaco Marchisio ha rasentato l'assurdo, ma in dieci si può giocare decisamente meglio, soprattutto se infoltisci all'inverosimile la zona nevralgica con l'intento di tenere palla e rallentare il gioco; ci si è invece consegnati a una mezz'ora di contenimento in sofferenza, con la ciliegina dell'ennesimo ricorso all'irritante Thiago Motta.



GESTIONE IMBARAZZANTE - Il gol di Godin è stato l'approdo inevitabile di una conduzione tecnico - tattica che, davvero, ha lasciato increduli: una Nazionale che sembrava nata ieri, tale era il senso di provvisorietà che trasmetteva. Tutta l'operazione mondiale è stata portata avanti in maniera imbarazzante: dalle convocazioni, con eccesso di alternative in alcuni ruoli, soluzioni scarse in altri lasciati quasi scoperti, elementi di talento e di carisma ignorati, per arrivare alla gestione dei match prima e in corso d'opera. La pomposa preparazione atletica di Coverciano ha prodotto una squadra sfiatata, senza sprint, capace solo di giocare sotto ritmo, laddove sarebbe stato imperativo categorico far tesoro dei patimenti di dodici mesi fa in Confederations, quando un'Italia in debito d'ossigeno si arrampicò fino alla medaglia di bronzo tirando l'anima coi denti. 
E' FALLITO UN PROGETTO - Invece è andata peggio, molto peggio: nemmeno la forza, contro Costa Rica e Uruguay, di condurre con intensità quegli assalti finali all'arma bianca che spesso non producono alcunché, ma che in alcuni casi possono portare al rimpallo fortunato o alla zampata vincente. Nulla di nulla. Eppure, lo ripeto, l'Italia del quadriennio, anche nelle sue versioni meno convincenti, almeno un paio di punticini contro i centroamericani e contro questa Celeste decadente li avrebbe tranquillamente messi in saccoccia, potendo oltretutto partire da posizioni di enorme vantaggio (successo con l'Inghilterra prima della sfida alla Costa Rica, due risultati su tre a disposizione prima del confronto con Cavani e soci). Ecco perché è sbagliato dire che l'incubo brasiliano della Nazionale sia logica conseguenza della decadenza del nostro calcio: non è così, non solo; è frutto, prima di ogni altra cosa, di una spedizione mal guidata, male interpretata e approdata al fallimento di un progetto di gioco e di un'idea di squadra. 
RIFONDAZIONE! - Ritorniamo al punto di partenza. Le doppie dimissioni di CT e Presidente sono una manna dal cielo. Ci sono voluti tempi biblici, ma forse c'è ancora qualche mese di tempo per chiudere la stalla prima che tutti i buoi scappino, e avviare una rifondazione del movimento in stile Germania post Euro 2000. La Nazionale deve voltare pagina e dare il benservito a tanti: ai veterani a un passo dal capolinea (Buffon, Barzagli e Pirlo: quest'ultimo si è già chiamato fuori da solo, mentre De Rossi potrebbe essere l'unica chioccia) così come agli elementi non all'altezza (Chiellini, Motta, Cassano, Abate), e mettere sotto esame gente come Darmian, De Sciglio, Immobile. Per loro l'azzurro non dovrà essere più scontato, così come per Balotelli, che è davvero al suo bivio umano e professionale: il declino precoce verso una carriera "alla Cassano" (furoreggiare in provincia dopo aver fallito nei top club) è a un passo, questo Mondiale doveva sancirne il decollo definitivo e invece ha infittito l'enigma che lo circonda. Lo salverà il fatto che il disastro è stato collettivo, dai vertici federali all'ultima riserva, ma qualche mese di distacco dal Club Italia sarebbe utile a lui per chiarirsi le idee e a noi per chiarircele sul suo effettivo spessore: adesso, per lui, il tempo della paziente attesa è finito, d'ora in poi dovrà parlare coi fatti. Ci sono da chiamare i tanti giovani dell'Under 21 "quasi vittoriosa" di Davis Mangia, argento europeo un anno fa: ci sono i Donati e i Florenzi, i Fausto Rossi e i Borini, ci sono gli Insigne e i Verratti da lanciare definitivamente ma anche un Pepito Rossi e un El Shaarawy da riportare in auge. Si riparta da loro: ora o mai più, altrimenti vivremo un declino calcistico simile a quello di Austria  e Ungheria, ex grandi potenze mondiali. E' questo che vogliamo? 

lunedì 23 giugno 2014

MONDIALI 2014: ALLA SCOPERTA DELL'OUTSIDER BELGIO. UNA FUORISERIE CHE VIAGGIA A RITMI DA UTILITARIA


                                              Esultanza belga a Brasile 2014

Viaggio alla scoperta del pianeta Belgio. Un focus sui Diavoli Rossi è doveroso, dal momento che alla vigilia della Coppa del Mondo figuravano in vetta alla hit parade delle probabili outsider della rassegna. Sul piano più pratico, quello dei risultati, si può ben dire che i pronostici siano stati rispettati in pieno: sei punti e qualificazione al secondo turno già conquistata dopo appena due gare. In sede di presentazione della kermesse brasiliana, avevo scritto che attorno ai belgi si respirava la stessa aria di trepida attesa che circondò altre mine vaganti "in pectore" del passato, in special modo l'Olanda '74, la Danimarca '86 e la Colombia '94. Ebbene, scongiurato il rischio del flop immediato, ciò che accadde ai sudamericani nel Mondiale americano di vent'anni fa, è palese come le vette di gioco toccate dai tulipani settantiani di Cruyff e dalla mitica Danish Dynamite siano rimaste a distanza siderale. 
NOIA - Qualcuno la riterrà un'esagerazione, ma nelle due sfide con Algeria e Russia il Belgio mi è parso il team più noioso del torneo, quello dal gioco più deludente, in rapporto alle aspettative e alle potenzialità. Il Belgio è una truppa di "emigranti di lusso" formata da quotatissimi campioni, militanti in gran parte in top club europei; la formazione con cui ha iniziato la gara coi russi aveva un'età media di poco inferiore ai 26 anni, innalzata però da un drappello di esperti difensori, Vermaelen, Kompany e soprattutto l'anziano Van Buyten, 36enne. Dalla cintola in su sono tutti giovani o giovanissimi, e quindi potenzialmente in grado di occupare i vertici del football internazionale fino ai prossimi Mondiali e anche oltre. Ma sul piano delle espressioni tecniche in campo, questa potenza di fuoco è rimasta finora accuratamente nascosta. 
POCHI MINUTI AD ALTEZZA MUNDIAL - Tanti sbadigli, si diceva. Per lunghi tratti i ragazzi di Marc Wilmots hanno balbettato una manovra monocorde, ripetitiva nelle sue linee essenziali, senza guizzi di imprevedibilità. Un gioco fra i più inconcludenti del torneo, tanto che nel match d'esordio l'Algeria si era trovata in vantaggio senza scandalo e ieri pomeriggio, fino all'acuto finale del subentrato Origi, in fatto di episodi erano gli uomini di Capello a poter recriminare (un rigore netto negato, un'occasionissima di testa sciaguratamente mancata da Kokorin). Il punto è proprio questo: al Belgio, in due gare, è bastato accendere la luce per brevissimo tempo, diciamo metà ripresa con gli africani e una decina di minuti coi russi, per far pendere la bilancia dalla propria parte. E' un fattore che si presta a più di una interpretazione: potrebbe voler dire che i Diavoli Rossi hanno iniziato questo Mundial col freno a mano tirato, consci della relativa difficoltà del girone, per carburare e deflagrare quando verranno i giorni delle sfide dentro o fuori, e che comunque dispongono di un tale serbatoio di classe da poter superare i primi scogli grazie a pochi e decisi scossoni alle partite, limitandosi per il resto a un piccolo cabotaggio nemico dello spettacolo. Ma non si può escludere che questo "andamento lento" nasconda un segnale d'allarme: una squadra bloccata, incapace di tirare fuori le sue enormi qualità.
INCIAMPI TATTICI? - Per quanto il palcoscenico iridato sia una brutta bestia anche per scafatissimi campioni, difficile pensare a difficoltà d'impatto, per giocatori che sono abituali frequentatori dei tornei nazionali più reputati e delle Coppe Europee. Fra le cause di questa partenza "in minore" potrebbe esservi una troppo complessa sovrastruttura tattica che soffoca l'estro di campioni di assoluto valore; un assetto più sbilanciato verso la prudenza che verso la voglia di osare, e con autostrade offensive non numerosissime. 
Il Belgio, davanti a Courtois, ha una difesa ottimamente chiusa al centro da Kompany e dall'essenzialità di Van Buyten, e tuttavia non impermeabile: la deludente Russia di Capello, compagine dal gioco senza slanci, lenta di pensiero e di esecuzione, neppure troppo dotata in fatto di talento, ha minacciato più volte la rete del guardiano dell'Atletico Madrid. Qualcosa non funziona nella cerniera di centrocampo, soprattutto in un Witsel che finora si è limitato al compitino. Meglio di lui De Bruyne, soprattutto come incursore in percussione, uno dei principali chiavistelli per scardinare i dispositivi di copertura avversari; Fellaini svaria sulla trequarti e si accentra, ma è troppo discontinuo: il suo ingresso ha "spaccato" il match con l'Algeria, ieri invece è parso spesso avulso dalla manovra. 
LUKAKU GIU', MERTENS SU - La selezione di Wilmots paga, forse, anche l'infelice momento dell'unica punta, un Lukaku del tutto evanescente e che ieri ha vissuto il peggior contrappasso: sostituito da Origi, quest'ultimo ha subito trovato il gol a lungo inseguito dal più referenziato compagno. Ma senza un centravanti efficace per novanta minuti, tutto il complesso rischia di girare a vuoto, non avendo in area un credibile punto di riferimento. Dei due stantuffi laterali, il napoletano Mertens è sembrato finora il più convincente, e nel primo tempo del Maracanà è stato l'unico, con le sue incursioni, a mettere qualche brivido ad Akinfeev. Mertens, fra l'altro, ha segnato il gol vittoria contro gli algerini in contropiede, non proprio il massimo, per una Nazionale da cui si attendeva una diversa capacità di imporre gioco e di regalare qualche buona luminaria spettacolare: il freno tattico di cui si diceva poc'anzi. Tra parentesi, gli acuti del "partenopeo" sono una risposta a chi sostiene che nel campionato italiano militino, ormai, solo stranieri di seconda schiera: fra lui, Cuadrado, Gervinho, Higuain, Vidal e altre "starlette", ci sono ancora dei buoni... prodotti di fuorivia. 
HAZARD: TROPPO POCO... - L'altro "martello" offensivo, Hazard, è stato una delle delusioni di Brasile 2014 fino agli ultimi dieci minuti contro la Russia: poi ha acceso la luce e con un paio di accelerazioni in elegante palleggio ha fatto a fettine la difesa di Capello, scodellando infine per Origi, da sinistra, il classico pallone che chiede solo di essere spinto in rete. Ma siamo al punto di partenza: un Hazard che recita da par suo per un minutaggio così limitato, costringendo dall'altro lato il collega di ruolo Mertens a un lavoro sfiancante, un Lukaku che non becca palla, un Fellaini a corrente alternata e un Witsel "minimalista" sono stati più che sufficienti per risolvere un girone morbido, ma se non aumentano i giri non possono portare lontano la loro rappresentativa. 

venerdì 20 giugno 2014

MONDIALI 2014: VA IN ONDA IL TRADIMENTO AZZURRO. L'ITALIA SPROFONDA, E' UN FALLIMENTO DI UOMINI, DI TATTICA, DI IDEE


Ci sono vittorie e vittorie, e quella sull'Inghilterra non era stata così brillante come in troppi l'avevano dipinta (gara "epica", secondo Prandelli, della serie "sobrietà e profilo basso"), ma se ti affannavi a sottolinearlo rischiavi pure di passare per disfattista. Ci sono sconfitte e sconfitte, e quella con la Costa Rica entra a pieno titolo nella hit parade degli orrori azzurri, ai primissimi posti. Così, puntuale come un orologio svizzero, è arrivato il tradimento della seconda partita: ormai non ci si sorprende nemmeno più, fra Mondiali ed Europei siamo a quota sette appuntamenti mancati, dal 2002 ad oggi (benedetti Zoff e i suoi ragazzi di Euro 2000, che riuscirono a bissare la vittoria sui turchi al debutto battendo il Belgio padrone di casa), ma certo prima o poi qualche domanda su questa autentica "tara genetica" occorrerà cominciare a porsela.
TOCCATO IL FONDO - Questa volta, però, si è andati oltre: oltre la semplice incapacità congenita di dare un seguito positivo alla prima uscita, che era stata comunque incoraggiante. Questa volta si è raschiato il fondo del barile. "Oggi le comiche", verrebbe da dire, ma a ridere è solo la Costa Rica, che doveva finire stritolata nel "grupo de la muerte" e invece passa il turno con una gara di anticipo. Naturalmente, i caraibici non sono una nuova potenza del football planetario: il girone di ferro era in realtà di pastafrolla o giù di lì, avendo schierato un tris di "grandi storiche" acciaccate, limitate, gonfie di difetti. Ma se l'Uruguay può portare a propria difesa il piccolo alibi dell'imprevisto, avendo scoperto solo sul campo un avversario più competitivo a certi livelli di quanto si potesse pensare, per l'Italia giustificazioni non ne esistono: il team di Pinto si era già messo a nudo, c'era persino lo spauracchio che sempre compare in certe vigilie azzurre da psicodramma tragicomico: dal Flo del '98 al De La Cruz del 2002, fino a questo Campbell, un ottimo attaccante ma non un fuoriclasse. 
SI RIPARTE DA ZERO - Sconfitte e sconfitte, si diceva. Quella di ieri pomeriggio ha, nel suo piccolo, risvolti epocali quasi pari a quella della Spagna con l'Olanda. Certo, qui non c'era, ahinoi, nessun ciclo da leggenda interrotto bruscamente, ma siamo comunque davanti a un tracollo che lascerà il segno, benché rimediabile. Certezze piccole e grandi, non tutte giustificate, sono crollate: quasi un azzeramento. E' fallito un progetto di squadra e di gioco, una squadra e un gioco che a più riprese, in questo quadriennio, erano parsi in grado di avvicinarsi alle eccellenze del calcio mondiale, e che invece sono stati mandati a carte quarantotto da una compagine discreta ma che non ha più di due - tre elementi di autentica statura internazionale. Sono bastate una eccellente organizzazione, aggressività in ogni fase di gioco, dinamismo e buona condizione fisica per distruggere la nostra Nazionale anche al di là del risicato punteggio finale. 
Siamo tornati ai livelli di Slovacchia - Italia a Sudafrica 2010, uno scempio che speravo di non dover più rivedere per molto tempo, quantomeno non così presto, e soprattutto non in un altro primo turno di Coppa del Mondo. Forse ancora peggio, perché all'epoca c'era un'Azzurra in pieno declino post titolo iridato, e in più divorata dalla paura di farsi sbattere fuori da avversari di modestissimo calibro, come puntualmente accadde. Ieri no, ieri i nostri sono giunti al calcio d'avvio nella condizione più invidiabile, con tre punti già in saccoccia, con uno dei due "mostri" del girone già sconfitto e con la possibilità di mettere in ghiaccio la qualificazione battendo una formazione ampiamente alla portata. 
TERZO MONDO CALCISTICO - I novanta minuti sono stati una lenta, dolorosa discesa agli inferi. Non si è visto un barlume di manovra, non un'idea degna di esser definita tale. Lentezza esasperante, passaggini e modesti ricami senza significato tattico, che nulla avevano dell'abbozzo di tiqui taca imbastito sabato scorso. Ed è riemersa l'approssimazione di tocco, errori su errori di misura negli appoggi e nei controlli della sfera, imprecisione che troppe volte ha fatto capolino nel biennio post Europei. Ingenuità da terzo mondo calcistico, come il cadere una quantità imprecisata di volte nella trappola del fuorigioco. E poi ritmi blandi e cattiveria agonistica da torneo dei bar, giocatori che parevano zavorrati da pesanti incudini appiccicate ai piedi. 
MOTTA, PERCHE'? - Parlare delle prestazioni dei singoli potrebbe apparire una crudeltà inutile, ma va fatto: da Buffon, che non si è macchiato di errori gravi ma non ha mai trasmesso una sensazione di totale sicurezza, a un Chiellini improponibile a certi livelli da almeno un paio di stagioni (quante volte si sono sottolineate le sue sbavature in azzurro e la marcata fallosità negli impegni internazionali con la Juve?), da un Abate sciatto in entrambe le fasi di gioco a un Thiago Motta che è il grande mistero dell'era prandelliana. Sempre impalpabile, utilità tutta da dimostrare: ha fallito una delle poche occasioni italiane strozzando un destro da fuori nel primo tempo, ma sarebbe il meno. Il problema è che si tratta di un uomo regalato agli avversari, se lo schieri nelle sfide in cui toccherebbe a noi fare la partita, perché non costruisce alcunché e rallenta il gioco: può servire in situazioni come l'ultima fase di Inghilterra - Italia, ossia quando bisogna fare mucchio a centrocampo per aumentare la protezione di una difesa fra le più perforabili della storia della nostra Nazionale.


BALOTELLI MALE, MA... - Vogliamo continuare? Candreva e Marchisio hanno tradito la loro missione di incursori, assolutamente fondamentale per rendere efficace il modulo a una punta non lasciando abbandonato in avanti il solo Balotelli. Il quale Mario non raggiunge certo la sufficienza, ma è assai meno colpevole di altri: ha fallito due buone occasioni nel primo tempo, è comunque stato il più pericoloso dei suoi e, come detto, non ha usufruito di alcun sostegno da parte della squadra, eccezion fatta per due splendidi lanci di prima da parte di Pirlo (gli unici lampi nella grigia gara dello juventino) che lo hanno messo a tu per tu con Navas. 
Darmian, spostato a sinistra, è stato meno esplosivo e scattante, ma non ha demeritato e, in quel secondo tempo da vergogna nazionale, è stato l'unico a cercare il gol su azione con un bel destro da fuori deviato sopra la traversa dal portiere; ad ogni modo, si sente la mancanza di De Sciglio, così come quella di un mancino vero (Pasqual escluso all'ultimo tuffo, Criscito ignorato). Per De Rossi discorso a parte: come diga davanti alla difesa è uno spreco, in gare come questa; il suo eclettismo, la sua capacità di inserirsi, la sua potenza di fuoco in zona tiro sono drammaticamente mancate. Uno come lui servirebbe anche a tenere alta la squadra, che sarebbe pur sempre una forma di salvaguardia di una terza linea priva di fulmini di guerra: e ieri eravamo invece troppo bassi, troppo schiacciati verso Buffon; abbiamo dato la sensazione non di rispettare, ma di temere avversari che sono andati a nozze sulla nostra pavidità. 
CAMBI: BUIO TOTALE - Black out totale per Prandelli: formazione sbagliata, rimedi peggiori del male iniziale. Cassano dovrebbe fare la differenza almeno in partite contro avversari di medio calibro, invece ha prodotto solo una grande nuvola di fumo: talmente irritante che avrebbe meritato a sua volta la sostituzione. Cerci e Insigne hanno avuto notevoli difficoltà a saltare l'uomo, e la loro pretesa rapidità è parsa ben poca cosa di fronte al tempismo e alla reattività dei difensori costaricani. Se ne tenga conto, quando partiranno le crocefissioni di Balotelli: se è vero che si è dissolto proprio dopo l'ingresso di trequartisti in quantità, bisogna anche domandarsi che tipo di supporto gli abbiano fornito questi ultimi. 
DISASTRO PRANDELLI - Il cittì ha presentato una squadra sparagnina e sulla quale gravava un senso di provvisorietà, un undici votato alla conservazione di non si sa che cosa piuttosto che alla costruzione, laddove il debutto aveva fatto balenare un parziale ritorno allo spirito propositivo del primo biennio. Una squadra priva di autorità e di personalità. Insieme alla citata Slovacchia - Italia, è stata una delle gare mondiali peggio gestite di tutti i tempi: come concezione strategica prima e durante, e come conduzione mentale del gruppo. Tutte le condizioni, ripeto, erano dalla nostra parte per fare un buon match: ma il calcio italiano sembra aver perso la capacità di dare continuità alle prestazioni, di confermarsi sul breve periodo, di restare sul pezzo, nostre caratteristiche storiche che hanno contribuito a creare il mito della leggenda azzurra quadrimondiale. Ora, la Nazionale tricolore è una volubile signorina capace del tutto e del niente. 
ALL'ATTACCO CONTRO L'URUGUAY - Si diceva prima dei risvolti "epocali" del ko firmato da Ruiz: epocali perché è una sconfitta che mette in discussione tutto, fa crollare molte certezze, scopre difetti che il sofferto successo di Manaus aveva solo mascherato agli occhi dei critici più superficiali. Ma è un cappotto (morale, non nel punteggio) ancora rimediabile, a patto che con l'Uruguay non si giochi per il pari (che basterebbe): è il momento di ritornare con decisione alla filosofia prandelliana originaria, tenere pallino, costruire, imporre l'iniziativa, dare ritmo e fare movimento, magari con Insigne dall'inizio, con Verratti in mezzo e con Bonucci (ma che fine ha fatto?) dietro. Coraggio e faccia tosta, anche perché, questa volta, se perderemo nessuno ci darà una mano, come l'Ecuador nel 2002, l'Olanda nel 2008, la Spagna nel 2012. Stavolta dovremo cavarcela da soli: cerchiamo dunque di fare ciò in cui meglio riusciamo. La Celeste davanti fa paura, ma è una squadra dal gioco monocorde, rude, votata essenzialmente al contenimento: in poche parole, battibile. Non sono dei mostri: non ce n'erano, in questo presunto girone di ferro che solo noi, con la nostra imperizia, siamo riusciti a complicare. 

giovedì 19 giugno 2014

MONDIALI 2014: SPAGNA ADIÓS, TRAMONTA LA ROJA PIGLIATUTTO. QUALE FUTURO PER IL TIQUI TACA?

                        Del Bosque scuro in volto: un altro CT prigioniero della riconoscenza

Stai a vedere che gli unici ad aver capito tutto erano stati gli organizzatori della Coppa del Mondo. Vecchie volpi, autentiche lenze, capaci di intuire con ben sette mesi di anticipo (sorteggio dei gironi nel dicembre scorso) il repentino tramonto della leggenda spagnola. Sennò chi glielo faceva fare di inserire il Brasile "cocco di casa" e gli iberici nella medesima parte di tabellone e, anzi, di abbinarne addirittura i raggruppamenti, creando i presupposti per un pericolosissimo rendez - vous fra la Seleçao e la Roja già negli ottavi di finale? Si scherza, ovvio: della Fifa si possono dire tante cose, ma fra le sue prerogative non c'è (ancora) la preveggenza... E' un fatto che l'incrocio "arrischiato" non ci sarà: il nuovo Maracanà, grigio e spoetizzato, uguale a mille altri stadi moderni edificati di recente in mille altre parti del globo, mantiene pur sempre un alone di leggenda, e diventa teatro e testimone di un'altra pagina storica del football: l'abdicazione dei monarchi assoluti degli ultimi sei anni di calcio mondiale. 
L'1-5 CON L'OLANDA, SEGNALE INEQUIVOCABILE - Si era stati fin troppo facili profeti nel sostenere che il disastro in salsa Oranje avrebbe lasciato scorie pesantissime e che, soprattutto, una disfatta di tali proporzioni non poteva essere archiviata come un semplice passaggio a vuoto, una di quelle serate storte cancellabili con un colpo di spugna. Alle corte: se una squadra pluridecorata e campione iridata in carica cede così fragorosamente al debutto, è evidente che qualcosa si è rotto, che la "magia" alla base dei tanti trionfi è in via di dissolvimento, che si tratta solo di capire quando la luce si spegnerà del tutto. Di solito, è questione di due o tre partite, non di più: la Francia del 2002 e l'Italia del 2010, fra mille affanni, rimasero in corsa fino all'ultima gara del girone, questa Spagna ha ceduto prima: vorrebbe tornare subito a casa, e invece, suprema umiliazione, sarà costretta a bere fino in fondo l'amaro calice di questa fallimentare spedizione, giocando l'inutile confronto con l'Australia. 
COME L'ITALIA '86: ABIURA TATTICA - Il paragone più adatto per le Furie Rosse in disarmo è con la pallida Azzurra '86, ma non per il modo di uscire di scena: quella nostra Nazionale, seppur logora e non all'altezza della squadra "mundialista" del 1982, riuscì comunque a superare le colonne d'ercole della fase iniziale, prima di arrendersi alla Francia negli ottavi. No, ciò che accomuna le due compagini è l'aver abiurato a certi incrollabili princìpi tattici proprio nel momento di massima difficoltà, sull'orlo del precipizio. Enzo Bearzot, nei due anni precedenti, aveva costruito pazientemente la squadra attorno a un regista, il bravo (e storicamente sottovalutato) Di Gennaro del Verona: era il modulo d'elezione, quasi l'unico su cui si puntava, e nel listone per il Messico non vennero inseriti ricambi testuali per il costruttore di gioco prescelto: tutto doveva ruotare attorno a lui. Ebbene, il giorno dell'ultima sfida contro i galletti campioni d'Europa, il cittì (secondo il giornalista Italo Cucci su infelice imbeccata del suo vice Cesare Maldini) decise di togliere di squadra il buon Di Gennaro, per affidarsi a un modulo di puro contenimento e fare spazio a un marcatore fisso da appiccicare a Platini, il malcapitato Beppe Baresi. Come dire: due anni di lavoro gettati alle ortiche, ammissione di inferiorità rispetto all'avversario, e inevitabile sconfitta. 
IL RIDIMENSIONAMENTO DEL TIQUI TACA - Così ieri la Spagna: nel primo tempo col Cile, il tiqui - taca sembrava un lontano ricordo. Il solito gioco elaborato e fitto di passaggi ricompariva solo a tratti, e aveva più che altro l'aspetto di una triste melina, per allentare la pressione di avversari baldanzosi o traccheggiare nella vana attesa di trovare una degna soluzione offensiva. Per il resto, la Roja cercava di imbastire un gioco un po' più scarno, essenziale, sbrigativo, ma non ci si reinventa così, in pochi giorni: e infatti regnavano approssimazione e squilibrio tattico, e chi in ultima battuta doveva creare, impostare e ispirare appariva costantemente fuori fase: il più inconcludente era Xabi Alonso (anche in zona tiro, sinistro a botta sicura addosso al portiere Bravo), ma personalmente non avevo mai visto un Iniesta così impreciso e falloso. 
Nella ripresa si vedeva persino una bella Spagna, aggressiva, dinamica e volitiva, ma quando devi remare controcorrente per annullare un doppio svantaggio tutto diventa difficile: così, se premi con continuità e metti in piedi un gioco d'attacco decente, devi riaprire subito la gara, altrimenti alla lunga ti esponi alle micidiali ripartenze avversarie. E' ciò che è accaduto: Diego Costa, che già nel primo tempo aveva ciabattato a lato da buona posizione, falliva un'occasionissima facendosi contrare il tiro a tu per tu col guardiano sudamericano, Busquets sciaguratamente lisciava a porta vuota, poi arrivavano altre opportunità, ma dall'altra parte del campo anche il Cile mancava in almeno tre occasioni la possibilità di chiudere il conto. 
MALEDETTA RICONOSCENZA - Spagna adiòs, dunque. Rimane un interrogativo: quale assurdo e malinteso senso di riconoscenza spinge ogni cittì, in ogni epoca, a puntare pervicacemente su giocatori copertisi di gloria nel passato ma che sono già in pieno declino o, nella migliore delle ipotesi, vicinissimi alla parabola discendente? Spesso sono proprio loro, i tecnici, i primi a dire che nello sport non bisogna mai voltarsi indietro, che si ricomincia sempre daccapo. E allora, perché non metter mano al ricambio, perché andare sistematicamente incontro a brutte figure? Bearzot nell'86, Del Bosque nel 2014, ma anche Lippi nel 2010 o Menotti con l'Argentina nell'82: tutti hanno preferito limitare al minimo il ricorso a forze nuove e affondare con la loro truppa di spompati fedelissimi. Non li capirò mai. 
RINNOVAMENTO? DA SETTEMBRE... - Il "marchese" spagnolo, poi, era nelle condizioni ideali per cominciare a innovare con mano morbida ma inesorabile: un mondiale e un europeo in saccoccia (e in più il titolo continentale di Aragonés, nel 2008), una posizione di enorme potere, inattaccabile, che gli dava ampi margini di azione: si trattava semplicemente di fare qualcosa di inevitabile, ossia rinfrescare i quadri, prevenendo il disastro. Da settembre avverrà comunque, entreranno i vari Koke (già visto stasera, pesce fuor d'acqua in un tessuto di squadra che forse avvertiva come estraneo), Isco, Thiago Alcantara e altri ancora (magari qualche "italiano" non più di primo pelo ma che in Nazionale non sarebbe scandaloso, penso a Borja Valero, Callejon e Llorente); e la Roja tornerà, chissà, ancora col tiqui taca e col falso nueve, invenzioni tattiche che si sono... ribellate ai loro creatori mandandoli in bianco ma che altrove, sia pur mitigate e rivedute, stanno mostrandosi ancora valide (si vedano le prestazioni di Germania e Italia in questo torneo). Intanto però la Spagna euromondiale è entrata nell'altra storia, quella alla rovescia: peggior difesa del titolo di sempre, e score da squadra materasso. 

martedì 17 giugno 2014

MONDIALI 2014: LA GERMANIA E' LA REALTA' PIU' SOLIDA. CALCIO "QUASI" TOTALE, RONALDO CANCELLATO, MULLER UBER ALLES

                                           Esultanza tedesca, con Muller al centro

Uomini da Mondiale. Appena annusano nell'aria l'inebriante aroma del torneo iridato, ingranano la quarta e diventano mattatori, disseminando di prodezze il più importante palcoscenico calcistico del globo. E' un club di calciatori esclusivo e assai invidiato, perché solo in pochissimi riescono a diventarne membri. La storia e l'attualità del football sono piene di campioni, persino di fuoriclasse, che davanti all'impegno della Coppa del Mondo si sono fatti piccoli piccoli: pensiamo a Platini, che di Mondiali ne ha disputati tre senza mai lasciarvi un'impronta autenticamente indelebile, così come Van Basten, che trapanò l'acqua in occasione della sua unica partecipazione; oppure, venendo all'oggi, in attesa di capire se Leo Messi riuscirà finalmente a rompere l'incantesimo dando un seguito al gol gemma con la Bosnia, chi ha nuovamente steccato è stato Cristiano Ronaldo, ectoplasmatico nella disfatta del suo Portogallo davanti alla Germania. Ecco, la Germania invece ce l'ha, il suo "uomo da Mondiale": si chiama Thomas Muller ed è un castigo di Dio. 
MULLER DA TRIPLA - Cinque reti in Sudafrica, quattro anni fa, capocannoniere al debutto in una grande competizione internazionale; tripletta ieri pomeriggio, a griffare il trionfale vernissage brasiliano della Nationalmannschaft. Il 4 a 0 agli spauriti lusitani rappresenta il vero atto di forza di questo avvio di torneo, ancor più della demolizione spagnola ad opera dell'Olanda, che probabilmente aprirà la strada a un ottimo Mondiale degli Oranje ma che, nelle dimensioni dello score e nella sostanza tecnica, rimane un episodio probabilmente irripetibile: un'impresa, nel senso più pieno del termine. I tedeschi hanno invece lasciato una sensazione ben più "corposa": quella di Low è parsa, fra le "grandi" designate, la compagine più equilibrata, compatta, completa, di alto livello tecnico e agonistico, pienamente consapevole dei propri mezzi. Come l'Italia, neanche  la Germania poteva contare su un approccio morbido utile a completare il rodaggio, ma ha fatto spallucce, riuscendo a ridurre il Portogallo a caricatura di squadra. 
QUASI CALCIO TOTALE - Vista la partita, tutto è sembrato facile, ma di fronte ai teutonici c'era una delle migliori espressioni del calcio europeo degli ultimi tre lustri, terza (proprio come la Germania) al torneo continentale 2012, mina vagante col privilegio di schierare in prima linea il Pallone d'oro in carica. Tutto è parso facile perché sono stati Muller e compagni a mettere la strada in discesa: il Portogallo aveva iniziato in maniera promettente, con una incursione di CR7 arginata a fatica da Neuer, poi non c'è più stata storia. Dal rettangolo verde è zampillato uno spettacolo a tratti esaltante di calcio contemporaneo, modernissimo: mi è parso persino di intravedere sprazzi di football totale, nel senso universalmente conosciuto tramandatoci dagli eroi olandesi del 1974 e dintorni. Nessuno o quasi era ancorato saldamente al proprio ruolo nominale, nelle file dei bianchi: tutti o quasi coprivano e attaccavano, sostenuti anche da uno schieramento corto, che consentiva di difendere in massa per poi distendersi armoniosamente verso la porta di Rui Patricio, senza allungare il brodo della manovra. 
BATTERIA DI INCURSORI - In un attacco che, nel solco spagnolo, abbracciava la filosofia del "falso nueve", il tourbillon era notevole, anche se alla distanza emergevano posizioni ben definite: Ozil a ispirare inesausto la manovra sulla destra, il furetto Gotze a regalare lampi brucianti sul versante opposto, e poi lui, "l'uomo da Mondiale" Muller, a spaziare in libertà per poi venire fatalmente calamitato verso la zona centrale, suo approdo naturale, fino a siglare, dopo il penalty in apertura, due reti da centravanti vero, l'ultima delle quali con un opportunismo alla Paolo Rossi, piombando nell'area piccola su una palla sfuggita al portiere. Per inciso, anche senza ricorrere al finto centravanti, la batteria di trequartisti, mezzeali e incursori messa in mostra dalla Germania è la formula che sogno, come tante volte scritto, per la nostra Nazionale, in modo da dare sostegno e respiro a Balotelli e ampliare il ventaglio di soluzioni offensive del Club Italia. 
Dietro il trio di guastatori "senza fissa dimora tattica", agivano con costanza un Kroos chirurgico in impostazione, un Khedira ritrovato dopo il grave infortunio, efficacissimo nelle due fasi di filtro e rilancio (e anche vicino alla segnatura nelle battute iniziali), l'impagabile Lahm che agiva a tutto campo avanzando spesso fino alla trequarti; nelle retrovie Hummels, oltre a difendere con perizia, si industriava a far ripartire l'azione e andava oltretutto a siglare, di testa su corner, il punto del raddoppio. Una "cooperativa" del pallone, insomma, in cui tutti si aiutavano anche al di là delle rispettive mansioni d'origine. 
GERMANIA, SOLIDE CERTEZZE. PORTOGALLO DA REINVENTARE - Mentre la Spagna si è smarrita e il Brasile è aggrappato al suo genio Neymar, mentre l'Italia fa ben sperare ma deve mettere a punto diversi dettagli tattici e di uomini, mentre la Francia è da rivedere contro un avversario di vera caratura mondiale e l'Argentina pare aver sposato il minimo sindacale del gioco, la Germania è una realtà già "fatta e finita", piena di certezze,  pronta per volare lontano: quello di ieri doveva essere il suo impegno più gravoso, in questa fase iniziale, e invece nell'ultima mezz'ora ha persino potuto tirare il fiato, ridimensionando un Portogallo sovrastato in ogni zona del campo, mai in grado di abbozzare contromisure plausibili.
Ronaldo ha fatto tutto il contrario di ciò che ci si attende da un fuoriclasse universale: mai ha preso la squadra per mano da vero leader, si è limitato a giocate elementari e prevedibili, a un'attesa passiva dei passaggi (spesso imprecisi) dei compagni. E intorno, il nulla, a parte qualche buona idea di Veloso nel primo tempo e qualche incursione di Nani. Come per la Spagna, ripartire da un esordio così disastroso, nel punteggio e nelle risultanze di gioco e di rendimento, sarà impresa disperata. La Germania, invece, di esordi non ne sbaglia più uno, dal 1990. Fece 4 a 0 anche nel 2010, ma all'epoca davanti c'era l'Australia, con tutto il rispetto. Oggi, questo poker ha un peso specifico ben diverso. Generalmente non amo sbilanciarmi (anche se, sosteneva Gianni Brera, i pronostici li sbaglia solo chi non li fa, come dire che chi scrive di pallone deve saper rischiare), ma, allo stato delle cose, mi sorprenderei molto se non trovassi la selezione di Low fra le prime quattro di questo Mundial. 

domenica 15 giugno 2014

MONDIALI 2014: L'ITALIA DI DARMIAN NON STECCA LA PRIMA, MA E' ANCORA UN CANTIERE E INSEGUE LO SPIRITO DELL'EUROPEO

                                        Così Balotelli ha deciso la sfida con gli inglesi

A lungo, è stata soltanto l'Italia di Darmian. E faceva tenerezza, la nostra Nazionale, aggrappata com'era agli slanci, alla personalità, allo strapotere agonistico della sua più fresca recluta, un ragazzo che fino a pochi mesi fa era davvero lontano anni luce dal giro azzurro. Il laterale granata si "mangiava" letteralmente la fascia destra del campo, offrendo continui inserimenti e percussioni: autentiche frustate, sollecitazioni a compagni che parevano timidi, frenati, inconcludenti. Ma se l'ultimo arrivato nel club aveva suonato la sveglia, toccava a due pretoriani di Prandelli, presenti fin dalla prima convocazione londinese del 2010 (amichevole persa con la Costa d'Avorio) "dipingere" la partita e darle tonalità tricolori: Marchisio, su sapiente velo di  Pirlo, indovinava un destro da fuori area che freddava Hart passando in mezzo a una selva di gambe, e dopo che Sturridge aveva rimesso fulmineamente le cose a posto per l'Inghilterra, Balotelli in avvio di ripresa si librava in aria incornando in rete un pregevole traversone dell'ottimo Candreva, fissando il 2 a 1 finale. 
TORNARE AL PRIMO BIENNIO - Buona la prima, dunque, ma son state tutte rose e fiori? Beh, non proprio. Mi è parsa un'Italia desiderosa di riappropriarsi dell'idea di gioco portata avanti nel primo biennio prandelliano: occupazione quasi "militare" del terreno, prolungata gestione della palla per mantenere l'iniziativa e piegare il match ai propri "desiderata". Una filosofia che, pur costantemente presente nelle dichiarazioni d'intenti del cittì, dopo la semifinale di Euro 2012 si era sostanzialmente annacquata in atteggiamenti sparagnini, manovra involuta e fragilità difensive assortite. Questo tentativo di recupero è tuttavia rimasto a lungo, ieri sera, nelle intenzioni. Gli azzurri hanno fatto... gli spagnoli, senza però avere la forma mentis e l'equilibrio tattico complessivo della Roja dei giorni migliori: la ragnatela di passaggi quasi esasperante raramente si è tradotta in efficaci verticalizzazioni per attivare Balotelli, e nemmeno ha prodotto micidiali inserimenti dei centrocampisti (a parte un indemoniato Candreva), tantomeno è valsa a ridurre al minimo la spinta dei britannici, che troppe volte hanno superato il nostro sbarramento facendoci rinculare fin dentro l'area e andando più volte pericolosamente alla conclusione. 
MARIO TROPPO SOLO - Quello dell'attacco azzurro rimane un rebus: come ho scritto un'infinità di volte nell'ultimo anno, la formula a una punta diventa mortifera solo se Balotelli può usufruire del sostegno inesausto e continuo di una ispirata batteria di incursori, trequartisti, mezze punte: ieri sera così non è stato, se non con qualche sporadica fiammata, e quel povero Cireneo di Mario ha dovuto sobbarcarsi un lavoro enorme, facendo reparto da solo ma senza ricevere munizioni, tanto da scivolare più volte ai margini della partita, e la prima occasione da gol se l'è dovuta costruire sostanzialmente da solo, ricevendo palla, girandosi e scagliando un bolide dalla lunga distanza terminato alto non di molto. 
Quando finalmente è stato opportunamente liberato in area, prima ha messo scompiglio nella difesa avversaria costringendo l'ottimo Jagielka a un rocambolesco salvataggio sulla linea, poi ha trovato la rete della vittoria nel modo prima descritto. Il discorso non cambierebbe granché con Immobile al posto del milanista, al di là delle enormi differenze tecniche fra i due: l'abbiam visto ieri, Ciro, gravitare costantemente sulla linea dell'offside nella vana attesa della palla giusta, ma così è quasi un uomo regalato agli avversari. Fermo restando che lui e Balo potrebbero tranquillamente giocare assieme, ieri sera sarebbe bastato piazzare un Insigne alle spalle del nostro attaccante, o spostare qualche metro più avanti uno dei tre di centrocampo, per rendere più vivace e incisiva la nostra manovra offensiva. 
DIFESA: URGONO BONUCCI E DE SCIGLIO - Se l'attacco è un rebus, la terza linea è un'emergenza assoluta. La formula a quattro è quella giusta, ma sono certe scelte singole a far storcere il  naso, e meno male che Sirigu ha fatto ciò che deve fare un portiere da Champions League quale lui è: poche sbavature, generale sicurezza e una serie di opportune respinte sulle numerose conclusioni inglesi. Fin troppo sottovalutata l'assenza di De Sciglio, potenzialmente uno dei craque di questo Mundial, stando a quanto visto dodici mesi fa in Confederations: il rossonero avrebbe potuto fare sulla sinistra ciò che ha fatto Darmian sull'altro versante, dando respiro alla retroguardia, aprendo nuovi sbocchi alla costruzione del gioco e dirottando al centro un Chiellini che, nella versione offertaci ieri da Prandelli, è qualcosa di pericolosamente simile a una palla al piede. 
Anche Paletta è parso un pesce fuor d'acqua, spesso in ritardo, in affanno e "fuori sincrono" rispetto agli automatismi di copertura della squadra. L'italo - argentino è un buon francobollatore e poco altro: ha disputato un buonissimo, a tratti ottimo, campionato col Parma, aveva brillato all'esordio in azzurro nell'amichevole in Spagna, ma non credo sia il meglio che il nostro football possa offrire in quel ruolo, anche in tempi di vacche magre difensive come quelli attuali. La sua corsa verso la Nazionale è stata accompagnata da una massiccia campagna di stampa davvero degna di miglior causa: incomprensibile questo innamoramento di certe "prime firme" nei confronti di un difensore come tanti: una volta ci si mobilitava perché Trapattoni lasciava a casa Roby Baggio... Ad ogni modo è una curiosità e nient'altro, perché il cittì ha senz'altro fatto le sue scelte senza ascoltare alcun suggeritore, basandosi per l'appunto sulle lusinghiere risultanze della stagione gialloblù. Insomma, non ce ne voglia Paletta, ma nel cuore della retroguardia dovrebbe più opportunamente giostrare Bonucci, che oltretutto è anche abile a far ripartire l'azione, per quanto non sempre "pulitissimo" nei lanci. 
ITALIA CANTIERE - L'Italia è entrata nel Mundial brasiliano col piede giusto: poteva finire in parità senza scandalo, perché l'Inghilterra ha sostanzialmente cancellato la brutta figura di due anni fa, quando si piegò a un orrido catenaccio nel quarto di finale europeo contro di noi, finendo giustamente battuta ai rigori. Ma i nostri, vincendo, non hanno rubato alcunché. Successo che ci sta, ma che non deve esaltare: a tutto quanto detto sopra va fatta una tara legata alle difficili condizioni climatiche in cui si è disputato il match di Manaus, ma, come quasi sempre, i fattori esterni non bastano a giustificare ogni imperfezione. 
La Nazionale è ancora un cantiere aperto, è un team a metà del guado, indeciso sulla strada tattica da intraprendere: ha ripescato, in fondo al suo animo, le stimmate della squadra sbarazzina quasi mai più vista dopo il torneo continentale polacco - ucraino, ma quello spirito lo ha tenuto per troppo tempo nascosto e adesso fatica tremendamente a tirarlo fuori. E tuttavia sia Prandelli, sia i suoi ragazzi, sanno perfettamente che quell'anima propositiva è l'unica in grado di render bella e vincente questa nostra rappresentativa: val la pena insistere, con più decisione e qualche ritocco tattico e di formazione. Per il momento va bene, più che bene così: ricordiamoci che, per il nostro calcio, era una novità assoluta il debutto in Coppa del mondo con un'avversaria potenzialmente da ottavo o quarto di finale: eravamo abituati al Cile, all'Ecaudor o al Paraguay, approcci abbordabili per cominciare piano e completare con calma il rodaggio. E' stato il battesimo più terribile della nostra storia iridata, e ha sentenziato che "l'Azzurra" c'è. 

sabato 14 giugno 2014

MONDIALI 2014: IL MITO DELLA ROJA DOMINATRICE VA IN FRANTUMI, RESTA UNA SPAGNA "UMANA" E PERICOLOSA

                                                 Van Persie tira, Piquè osserva

Nulla sarà più come prima. Certo, l'imprevedibilità innata del calcio e la storia stessa della Coppa del mondo inducono alla prudenza; molte volte (ma non sempre...) inciampi clamorosi delle big nella partita d'esordio hanno assunto le sembianze della classica rondine che non fa primavera: pensiamo alla favoritissima Italia di Sacchi sconfitta dall'Eire nel '94 e poi volata in finale, o all'Argentina messa ko dal Camerun nel '90 e tuttavia in grado di arrampicarsi, con molta fortuna e pochi meriti, fino all'atto conclusivo della kermesse. E allora diciamolo subito: la Spagna è ancora in corsa, anche se fa un effetto strano dirlo dopo aver assistito allo scempio che ne ha fatto l'Olanda poche ora fa; eppure a Casillas e compagnia dovrebbe bastare, a rigor di logica, battere Cile e Australia per andare avanti, e si tratta di "imprese" ampiamente alla portata di una selezione iberica almeno al 70 per cento delle proprie potenzialità.
CESURA STORICA - Ma il punto è proprio questo: la gara di ieri sera, comunque vada a finire questo torneo, entrerà nella leggenda dei Mondiali perché ha segnato una cesura storica. C'è ancora, malgrado la batosta, una Spagna ricca di risorse, di talento, di personalità, in grado di fare un po' di strada in Brasile (non una strada lunghissima, a sensazione); ma il mito della Roja euromondiale, l'Invincibile armata che ogni ostacolo ha travolto dal 2008 in poi, non esiste più. Frantumato, cancellato, spazzato via nella piovosa  e umidiccia serata di Salvador. Perché i cocci possono essere rimessi faticosamente insieme, si può tentare una correzione di rotta per tornare avventurosamente in carreggiata, ma un crollo come quello al cospetto dei Tulipani non può scorrere addosso come acqua fresca.
SCONFITTA EPOCALE - In un Mondiale ci sono fattori che pesano assai più delle contingenze del campo: c'è la tradizione, innanzitutto, che significa un sacco di cose. Significa, per le grandi squadre, il prestigio da difendere ad ogni costo, significa una dignità da conservare anche nelle circostanze più infelici, anche quando la decadenza comincia a far malinconicamente capolino. Ecco, tutto ciò è stato tradito dalla Spagna di ieri sera. Non si può iniziare la difesa di un titolo iridato in questa maniera: nessun altro campione in carica del passato è mai arrivato a tanto. Poi, certo, altri detentori prima di Xavi e compagni sono usciti nel girone iniziale (Brasile '66, Francia 2002, Italia 2010), e magari le (ex?) Furie Rosse almeno questo scoglio invece lo supereranno, ma la Nazionale che ha dettato legge in ogni angolo del globo da sei anni a questa parte ha dei doveri, degli oneri a cui tenere fede sempre e comunque. Ecco perché un tale avvio da brividi, un 1 a 5 all'ingresso nel massimo consesso calcistico internazionale, è uno di quegli eventi che segnano indelebilmente la storia di una squadra, e che, nella fattispecie, non può che chiudere l'epoca degli iberici extraterrestri aprendo quella, ben più carica di incognite, degli iberici umani, sempre forti ma battibilissimi.
EPPURE, NEL PRIMO TEMPO... - E' finito il mito, dunque, ma non la Spagna. Perché se si analizza nel dettaglio il cappotto in salsa (o succo) Oranje emerge una partita per certi versi "assurda"; si può quasi dire che siano state due gare in una, con l'intervallo a tracciare un confine ben definito fra due film diversi, anzi tre: nel primo tempo una placida commedia in slow motion, nella ripresa un action movie dal ritmo incalzante per l'Olanda e un horror per i campionissimi. I primi 45' di gioco avevano, in fondo, mostrato la Spagna di tante altre occasioni: sorniona, palleggiatrice, capace di non sprecare che pochissimi palloni (i nostri azzurri, da questo punto di vista, possono continuare a invidiarli...) e di accendersi con verticalizzazioni improvvise e devastanti, pilotate principalmente da un Iniesta ancora ad altissimi livelli, prima di scomparire anche lui nei gorghi di quella ripresa da incubo. 
E' pur vero che Sneijder in apertura aveva incredibilmente calciato su Casillas in uscita disperata, ma poi erano stati i rossi (in tenuta bianca) a tenere pallino. Diego Costa, macchinosissimo, era stato favolosamente lanciato per due volte in area, in identica posizione, sul versante sinistro: la prima aveva cincischiato all'inverosimile, la seconda... pure, trovando però un rigore cercatissimo e generoso (ma che si può dare, come anche no...). E dopo la trasformazione di Xabi Alonso, Silva, uno dei più vivaci sul versante offensivo, aveva clamorosamente mancato il raddoppio su splendido assist di Iniesta, mentre nelle retrovie si metteva in luce un Jordi Alba ispirato soprattutto nei recuperi difensivi. Insomma, nulla di trascendentale ma neppure sintomi di un crollo imminente: solo un ritmo ancor più basso del solito, ma ci poteva stare in una partita d'esordio (quindi con un torneo presumibilmente lungo davanti) e con un vantaggio da gestire.

                                             Robben esulta: vendetta consumata

VENDETTA ROBBEN - La poderosa inzuccata di Van Persie che ha fruttato il pari è stata lo spartiacque. Al ritorno in campo, si diceva, un altro match, eppure non mi è parso di vedere un'Olanda fenomenale, una di quelle macchine da calcio in grado di dare inizio a una nuova egemonia. Difesa serrata, manovra assai scarna con Blind junior abilissimo a chiudere e rilanciare, però, va detto, grande rapidità complessiva e uomini d'attacco maestri nel palleggio, capaci di animare vertiginosi dialoghi e di arrivare in zona  - pericolo con irrisoria facilità. Robben ha consumato l'attesa vendetta, dopo i gol falliti nella finalissima sudafricana: la doppietta di ieri non gli ridarà la Coppa persa nel 2010, ma, lo si è scritto in apertura, resterà comunque negli annali, perché ha sancito il tramonto di una compagine che pareva immortale. 
SUPPONENZA E ALTRO... - Ecco, torniamo alla Spagna: il crollo non è stato solo fisico: sì, la condizione atletica è parsa assai approssimativa, ma Del Bosque e i suoi pretoriani hanno costruito i loro trionfi fondamentalmente su altre basi. Alcuni fattori che hanno prodotto la disfatta si possono comunque individuare: una sensazione generalizzata di supponenza, in primis. Nel primo tempo si è vista la Roja "ammirata", si fa per dire, nella fase centrale di Euro 2012, contro Francia e Portogallo: una squadra che andava col pilota automatico, talmente convinta (non a torto...) della propria superiorità da dare la sensazione di non dannarsi più di tanto, di risparmiare energie e di giocare come il gatto col topo. Solo che nel frattempo qualcosa è cambiato: molte Nazionali hanno trovato il modo di disinnescare il tiqui taca, lo si era detto qui pochi giorni fa. 
Ancora: è un team troppo monocorde tatticamente. Sì, lo so, parrebbe una bestemmia dirlo di una Spagna che è entrata nella leggenda insistendo su pochi capisaldi strategici: il suddetto tiqui taca, la ragnatela di passaggi precisa al millimetro fino a che non si riesce a stanare l'avversario, e il famoso "falso nueve". Eppure resto convinto che l'eclettismo, la capacità di adottare diverse formule anche a partita in corso, rimanga una risorsa fondamentale, anche se è necessario disporre di un modulo "di base", sul quale eventualmente operare variazioni. A proposito di "nueve", il naturalizzato Diego Costa è parso un pesce fuor d'acqua, poco reattivo e poco pungente pur avendo ricevuto, nel primo tempo, alcuni assist pregevolissimi. Meglio Villa, allora, che negli ultimi anni in rappresentativa è stato ingiustamente sottoutilizzato. 
ENTRA L'ITALIA - Stanotte, intanto, si alza il sipario sul "mistero Italia". Mistero perché, l'ho scritto giorni fa, la nostra è squadra di impossibile collocazione sulla griglia di partenza: può fare tutto e niente. Ha dalla sua due buonissimi piazzamenti nei due tornei a cui ha finora partecipato, e alcune risorse di classe non indifferenti; ma pesano due colossali incognite: il rendimento non esaltante nelle ultime due stagioni e la generale involuzione del nostro movimento calcistico, di cui la Nazionale rischia di essere lo specchio. L'ultima amichevole non ufficiale con la Fluminense ha mostrato Insigne e Immobile in apparente stato di grazia (apparente, perché il match, giocato in pratica con la formazione riserve, era di scarsissima attendibilità tecnica): entrambi possono tornare utilissimi, il talentino di Benitez perché è uno scricciolo in grado di dare del tu al pallone e di sconvolgere il fronte offensivo con invenzioni improvvise e una innata rapidità, l'ex granata perché è il classico bomber toccato dagli Dei del calcio proprio nel momento più opportuno (in.. zona Mondiale), e oltretutto poco conosciuto dagli avversari, una di quelle risorse dell'ultimo momento di cui tante volte l'Italia ha potuto usufruire. E personalmente non sono sicuro sia incompatibile con Balotelli. Certo, esordire con l'Inghilterra è un po' come cominciare il Mundial dagli ottavi, o dai quarti: l'avvio più impegnativo di sempre, e le premesse non sono buonissime: prima fuori De Sciglio, ora a rischio Buffon. In bocca al lupo ai nostri.