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venerdì 27 marzo 2015

LE MIE RECENSIONI - "SPLENDE", IL NUOVO ALBUM DI ANNALISA: EASY LISTENING DI QUALITA'


Semplicità, immediatezza e orecchiabilità stanno riguadagnando terreno, nel panorama nostrano del pop "mainstream". E' un po' che lo sottolineo, la proposta complessiva del Sanremo ultimo scorso lo ha in larga misura confermato. E non c'è di che dolersi della tendenza, ché anzi si avvertiva il bisogno di un certo ritorno alle melodie di facile presa. Proprio l'Ariston, poche settimane fa, ha portato alla ribalta una Annalisa sempre più convincente, nel cavalcare l'onda easy listening. Il 2015 si presentava per lei come un anno cruciale: attesa al banco di prova del secondo Festival rivierasco, dopo il positivo esordio datato 2013 (con l'originale e ballabile "Scintille"), non ha deluso le attese. "Una finestra tra le stelle", fermatasi a un passo dal podio, ha fatto da apripista ad un album, "Splende", che ha il raro dono di non concedersi pause, di non scadere in episodi autenticamente non riusciti. E' un album che "tiene", sostanzialmente, dal primo all'undicesimo brano della track list. 
RADIOFONICITA' - E' chiaro: stiamo parlando, lo si accennava all'inizio, di musica ad uso e consumo "radiofonico", come si dice oggi. Sperimentazioni stilistiche e ricerca sonora non ce ne sono che in minima parte, in questo disco, e forse è un peccato, perché l'artista ligure ha i mezzi, sia vocali sia compositivi, per poter osare un tantino di più. Però, per il momento, va bene così: la canzone nostrana necessita di un rinnovamento qualitativo del suo repertorio "fischiettabile", e allora ben vengano le Annalisa e tutte le ugole che sanno restituirci la gioia della cantabilità, dei ritornelli che si fissano subito in testa e non ne escono più. "Splende" ha questo di bello, e non è poco: è immediato e orecchiabile dall'inizio alla fine. Ma non si tratta di melodie dozzinali, "buttate lì": ci sono arrangiamenti ben congegnati, c'è quel modo di costruire i pezzi "all'italiana" declinato però in chiave contemporanea, che sta rinverdendo i fasti della nostra tradizione leggera; c'è anche un'apprezzabile varietà nella strutturazione dei pezzi.
VARIETA' DI STILI - L'album è potenzialmente un serbatoio di singoli, a parte il pezzo sanremese e i due che hanno anticipato, l'anno passato, l'uscita dell'opera, ossia "Sento solo il presente" e "L'ultimo addio". La partenza è  lanciata, con "Vincerò": è un inno all'ottimismo e alla positività, ma è soprattutto un brano senza cedimenti, convincente nella strofa, di fortissimo impatto nel ritornello, esempio ben confezionato di quel pop nostrano in salsa Duemila di cui si è appena detto. Poi la canzone che dà il titolo a tutto il lavoro: "Splende" offre una variazione sul tema, insegue un certo brio e indossa una veste vagamente dance, strizzando l'occhio a certi stilemi ritmici dei tardi anni Novanta.
KEKKO - Non annoia, la giovin savonese: con la terza traccia, "Un bacio prima di morire", cambia ancora rotta, e questa volta si affida a una costruzione quantomai classicheggiante, con pianoforte in bella evidenza, sapiente uso di cori, e grande apertura melodica sul refrain, per poi... affondare i colpi con "L'ultimo addio", ballatona old style. Di "Sento solo il presente", i fans conoscono tutto: è stata una delle canzoni più gettonate del 2014. L'impronta di Kekko Silvestre, autore "re Mida" di questi ultimi anni, si avverte chiarissima, nella poetica a tratti audace e nell'impostazione complessiva dell'opera, dal tono incalzante e a tratti solenne, con un possente sostegno orchestrale.
"Questo amore" è forse il passaggio meno convincente dell'album, anche se la sufficienza la strappa in pieno: anche qui siamo sul pop all'acqua di rose, senza rischi, ma appare più efficace la strofa che non il ritornello, tutto sommato abbastanza dimenticabile. Ci si riprende con "Una finestra tra le stelle", di cui non diremo, avendone già ampiamente tessuto le lodi in occasione del recente Festivalone, così come superfluo è soffermarsi su "Ti sento", una cover ben interpretata ma pur sempre una cover (genere verso il quale provo da sempre scarso entusiasmo): coraggiosa, comunque, l'idea di "spogliarla" di quegli arrangiamenti ultratecnologici che erano marchio di fabbrica dei Matia Bazar anni Ottanta.
ROCK E IMPRONTA CANTAUTORIALE - Di notevole spessore le restanti tre canzoni: "Niente tranne noi" sprigiona un certo vigore, forte di echi morbidamente rock, "Se potessi" è forse la più originale del lotto per tessitura e complessità sonora, con impronta quasi cantautoriale, sapiente uso di chitarre e percussioni e un buon impasto vocale nel duetto con Rapahel Nkereuwem, "Posizione fetale" ha un testo discretamente ispirato, è la più "orchestrata", al pari di "Sento solo il presente", ed esalta più di altre la consistenza e le sfumature della voce di Annalisa, che si sprigiona restando a metà strada fra accenti adolescenziali e piena maturità. Il giudizio finale, lo si è detto, è nel complesso positivo. Cosa manca, allora, per il definitivo salto di qualità? L'easy listening va benissimo, se portato avanti con perizia tecnica come fanno la Scarrone e il suo staff; magari, ecco, un po' di voglia di osare in più nella ricerca di strade compositive diverse e meno "commerciali", senza tuttavia snaturarsi. E azzardare di più nei testi, ancora acerbi in qualche passaggio. Ma le basi sono già ottime.

mercoledì 25 marzo 2015

DOSSIER AZZURRI: DOPO QUATTRO MESI DI NULLA, L'ITALIA DI CONTE TORNA IN VERSIONE "STRANIERA"

                                        Eder in azzurro, una sola domanda: perché? 

Quattro mesi senza Nazionale. Una assurda eternità: colpa, certo, delle ulteriori restrizioni imposte dal nuovo calendario FIFA in tema di date per le amichevoli, ormai viste come fumo negli occhi. Colpa, soprattutto, dell'assoluta impotenza della nostra Federcalcio, che non è stata neppure in grado di imporre uno straccio di stage, solleticando il sempre meno latente malcontento del trainer Conte. Ma quest'ultimo punto desta ben poca sorpresa: l'inconsistenza della reggenza Tavecchio sul piano dell'autorevolezza e della capacità di governare era già evidente ben prima delle elezioni dello scorso agosto, tutto ciò che è accaduto dopo rientra in una drammatica normalità. 
ORIUNDI COME SE PIOVESSE - Quattro mesi senza azzurri, dopodiché l'Italia si ripresenta a Coverciano nella versione peggiore possibile, piegata alla logica dell'oriundismo (orribile termine da me testé coniato...). E dunque, per rilanciare le scolorite ambizioni della squadra rasa al suolo dalla Coppa del Mondo 2014, non si trova nulla di meglio che naturalizzare Eder e Vazquez, un brasiliano non più di primo pelo che sembra toccato dalla grazia (come tutta la sua Sampdoria) e un furetto argentino che da un paio d'anni sta facendo le fortune del Palermo. E cara grazia che Dybala, altro rosanero, fuoriclasse in pectore, abbia cortesemente declinato l'invito del Commissario Tecnico, perché giustamente sa di avere i mezzi per puntare alla Selecciòn biancoceleste, all'equipo del suo Paese. 
BACINO RISTRETTO - Ecco, sinceramente non mi pare una prospettiva allettante, quella di ritrovarmi con un Club Italia in versione dopoguerra, quando la Nazionale si aggrappava ai naturalizzati collezionando brutte figure in serie, in primis la clamorosa eliminazione dal Mondiale del '58 (ciò che accadeva negli anni Trenta è discorso diverso, per contesto storico, politico, calcistico, di leggi civili e di regolamenti sportivi).
Certo, il bacino da cui pescare è quello che è. Censurato giustamente Prandelli per la conduzione dell'infausta operazione iridata, va anche detto che nei primi tre anni di gestione fece obiettivamente miracoli, riuscendo a creare una rosa piuttosto ampia di azzurrabili, quasi tutti di buona affidabilità (e al 99 per cento "prodotti casalinghi"), e che fino a un certo punto risposero sul campo con buone prestazioni e risultati accettabili. Ma i miracoli non possono protrarsi all'infinito, e la Serie A di oggi ha ulteriormente ristretto le prospettive al nuovo cittì. 
Grazie all'imprescindibile Calcioitalia, aggiornatissimo almanacco del Guerin Sportivo, mi son tolto lo sfizio di buttare giù qualche statistica: sui circa 600 calciatori che compongono i roster delle 20 di A (cifra comprendente i Primavera, aggregati alla prima squadra per scaldare la panchina o i seggiolini in tribuna...), gli italiani sono circa 270, il 46 per cento del totale. Non sarebbe nemmeno terribile, come dato generale, visto l'andazzo degli ultimi anni, ma si sa che la Nazionale deve, preferibilmente, poter selezionare i suoi elementi nei club di alta classifica, o al limite in quelli di fascia media, per poter contare su atleti rodati alle sfide "che contano", meglio ancora se con buona esperienza internazionale. 
DI ITALIANI NE GIOCANO POCHI... - Ed è qui che la situazione si fa tragica. Altra analisi statistica, basata sulle formazioni messe in campo in campionato nei mesi di gennaio e febbraio: Fiorentina e Napoli, i due sodalizi che si stanno facendo onore in Europa League, schierano in media poco più di un italiano a gara (Pasqual, Aquiliani, Maggio, Gabbiadini: i nomi sono quelli, sostanzialmente). L'Inter è poco sotto la media di due (grazie a Santon, Ranocchia e D'Ambrosio che hanno trovato spesso spazio), la Roma poco sotto il quattro. Fra le grandi classiche, onore alla Juventus, con cinque italiani a match, lo zoccolo duro di nazionali che tutti conosciamo, ma anche al Milan, poco sopra il cinque, grazie soprattutto al coraggio mostrato nel mercato invernale, con gli arrivi di molti "virgulti" di casa nostra, da Bocchetti ad Antonelli a Destro, aggiuntisi ai vari De Sciglio, Montolivo, Poli ed El Shaarawy: una politica che finora non sta dando grossi frutti, ma i problemi rossoneri sono altri e ben più complessi... Caso stranissimo quello della Lazio: ha solo cinque "tricolori" in organico, ma ultimamente sono quasi sempre titolari, anche il giovanissimo Cataldi, fra i pochissimi nomi nuovi "made in Italy" emersi in questa grigia stagione. 
SI PESCA FRA LE "MEDIE" - Nelle società di fascia media la situazione migliora, ma non più di tanto: Genoa e Palermo, belle realtà della prima parte di stagione ora "annacquatesi" per varie ragioni, sono a un deludente 3,5, o giù di lì, di titolari nostrani: ciò deve suonare a condanna soprattutto del Grifone, che si era presentato ai nastri di partenza estivi con un gruppo dal forte cuore tricolore e che invece si è arreso, a gennaio, all'esterofilia dilagante, congedando Antonelli, Sturaro e Matri per i vari Bergdich, Laxalt e Niang (Borriello al momento è stato del tutto inconsistente, come era ampiamente prevedibile). 
Meglio i cugini sampdoriani, che sono sulla media del 6,5 di italiani in campo, e che anche da questo fattore, ne sono convinto, stanno traendo slancio per una "temporada" decisamente sopra le righe. Stessa media del Torino, dignitosissimo protagonista anche in Europa, mentre l'Udinese è ormai una multinazionale che non supera l'1,5 (Di Natale, Domizzi e poco altro), dopo che anche la valorizzazione del portierino Scuffet (l'anno scorso addirittura accostato alla Nazionale A) è stata gettata alle ortiche puntando su Karnezis. Scendendo, ci sarebbero i casi esemplari di Empoli (quasi otto titolari di media) e soprattutto Sassuolo (oltre dieci), che non a caso sono diventati serbatoi importanti per le nostre due principali rappresentative (maggiore e Under 21), ma è decisamente un'anomalia che per costruire il Club Italia ci si debba rivolgere a squadre in odor di salvezza. 
C'ERANO SPAZIO E TEMPO PER LAVORARE SUGLI ITALIANI - Ecco, questo è il desolante panorama in cui Conte si trova a dover agire. Meno alternative vi sono, più difficile è scovare calciatori di qualità, questo è certo. Ma niente paura, perché è stata trovata l'immediata soluzione: naturalizzare, naturalizzare senza sosta. Dopo Vazquez ed Eder, si fanno già i nomi di De Maio e Vecino. E sì, sanno veder davvero lungo, i responsabili del nostro calcio: eppure, in questo biennio soft, con la qualificazione europea pressoché scontata (ricordiamo sempre che a Francia 2016 saranno ammesse 24 finaliste), c'era tutto lo spazio per impostare un lavoro di prospettiva sui ragazzi di casa nostra, per far giocare, crescere con calma, "svezzare" e abituare ai confronti internazionali i giovani italiani che, fra mille difficoltà, stanno emergendo. Insistere sui Berardi e sui Zaza, sugli Immobile e sui Gabbiadini, ma anche sui Rugani e sui Romagnoli, molti dei quali ancora assurdamente confinati fra i babies di Di Biagio.

Immobile: insistere su di lui

SENZA PROSPETTIVE - Gli oriundi sono un tutto e subito (la cui efficacia, peraltro, è da dimostrare), un voler vivere alla giornata. E la levata di scudi quasi oceanica pro Conte, anche da parte di certa stampa "istituzionale", rattrista: perché certifica che la situazione è ormai irrecuperabile, che la trascuratezza dei vivai diventerà abbandono totale, che non c'è alcuna volontà di investire sui nostri talentini in erba, oltre al fatto che si vuole scindere qualsiasi legame fra calcio e territorio, e depotenziare il più genuino senso di appartenenza, che è fondamento della passione per il football.
Le grida di dolore sentite degli addetti ai lavori scadono a vuote dichiarazioni di facciata: ci si appella ai regolamenti, si parla di retorica superata, mentre si perdono di vista l'essenza, il significato, la ragion d'essere delle rappresentative: unico autentico traino dei movimenti calcistici nazionali (è una storia quasi secolare a dirlo), nonché sola attendibile cartina tornasole per valutare lo stato di salute degli stessi, con particolare riferimento alla prolificità dei vivai locali. Dato di fatto ancor più valido al giorno d'oggi, dal momento che il calcio di club di vertice è ormai popolato, l'abbiamo visto, da sodalizi "all stars", con rose gonfie di stranieri e pochi elementi "fatti in casa".
Ma di questo, evidentemente, non frega nulla a nessuno: si devono ottenere risultati (ma quali, ripeto? Una qualificazione europea che arriverebbe in ogni caso?), e li si possono ottenere solo con gli oriundi (forse). Però non venite a cianciare a vanvera di modernità, di globalizzazione e di Paesi esteri che fanno la stessa cosa, perché in Spagna e, soprattutto, Germania, è stato impostato un lavoro radicalmente diverso. Come al solito, qui da noi si manda a memoria solo una parte della lezione, e sovente la peggiore. E apertura alle istanze della società  multietnica non vuol dire trasformare una Nazionale in un club a tesseramento libero: perché i Balotelli, gli Okaka e gli Ogbonna sono cosa ben diversa dai sopracitati stranieri (sì, stranieri).
SI PUO' FARE ANCHE SENZA ORIUNDI - Le basi per migliorare, come sarebbe doveroso, la qualità del nostro serbatoio calcistico, oltretutto ci sarebbero. L'estate scorsa, dopo il disastro brasiliano, avevo pubblicato un listone di una cinquantina di papabili per la ricostruzione azzurra. Sono tutti in larga parte riproponibili, anche con qualche aggiunta. Sono la dimostrazione che la scuola italiana, nonostante i pesanti attacchi che le giungono da più parti, ha davvero un DNA forte, se riesce ancora a produrre elementi di discreta validità e che ancora di più potrebbero valere, se fosse dato loro modo di maturare. Fornisco qui una versione aggiornata di quell'elenco, da cui ho escluso infortunati lungodegenti (ad esempio Bernardeschi, e Insigne che è da poco ricomparso) e giocatori da troppo tempo in netto calo di rendimento (Balotelli, per dire): dateci un occhio, e poi ditemi se il Club Italia, nonostante tutto, ha davvero bisogno di Eder e Vazquez, per tacere di De Maio e Vecino.
PORTIERI: Sirigu, Buffon, Perin, Marchetti, Consigli.
DIFENSORI: Darmian, Bonucci, Romagnoli, Chiellini, Astori, Acerbi, Moretti, De Sciglio, Zappacosta, Criscito, Rugani, Donati, Tonelli, Santon, Pasqual, Antonelli. CHIOCCIA: Barzagli.
CENTROCAMPISTI: Florenzi, Verratti, Marchisio, Montolivo, Candreva, Parolo, Bonaventura, Bertolacci, Soriano, Baselli, Valdifiori, Poli, Verdi. CHIOCCE: De Rossi e Pirlo.
ATTACCANTI: Immobile, Gabbiadini, Destro, Berardi, Zaza, Pellè, Sansone, Okaka, Paloschi.
GIOVANI DA SEGUIRE: Izzo, Cataldi, Belotti, Verde, Crisetig, Cristante, Sturaro, Viviani, Mandragora. 

domenica 22 marzo 2015

RECENSIONI LETTERARIE: "REVOLUTION '90" DI GIANNI GARDON. I FERMENTI DELLA MUSICA ITALIANA ANNI NOVANTA, MA NON SOLO...


Mi hanno sempre fatto sorridere le dispute e le polemiche, talvolta fin troppo calde, sul differente livello qualitativo delle varie fasi storiche della musica leggera. "Era meglio il pop degli anni Ottanta", "vuoi mettere le canzoni dei Sessanta?", "la discomusic dei Settanta è inarrivabile", e via filosofeggiando. Accapigliarsi su certi argomenti è sterile: in ogni epoca c'è del buono, pur con inevitabili oscillazioni indotte da diversi fattori. Prendete gli anni Novanta, limitandoci alla produzione italiana: una decade musicale sulla quale, per troppo tempo, non si sono concentrate le attenzioni di critici ed esperti. Sminuita, a volte considerata semplicemente "di transizione", di certo sfavorita dall'esser giunta dopo tre epoche di fortissimo impatto: gli anni Sessanta con la modernizzazione dei generi più commerciali e l'apertura del nostro mercato alle tendenze internazionali, i Settanta con la crescita del cantautorato più impegnato eppure "da classifica", il disimpegno eighties con l'exploit della nuova dance che esportammo in tutto il mondo...
ALMANACCO MUSICALE - Eppure, anche i Novanta sono stati anni ricchi di fermenti e di innovazioni. E il panorama tricolore, addirittura, era un vulcano in ebollizione, un crogiolo di idee, sperimentazione e ricerca di nuovi canoni espressivi, di sguardi lanciati al futuro ma anche di riscoperta di sonorità tradizionali. Dieci anni stracolmi di musica genuina, coraggiosa, godibile, che rivivono attraverso le pagine di "Revolution '90", l'ultima fatica letteraria dell'amico Gianni Gardon (casa editrice Nulla Die), giornalista e scrittore, esperto autentico del mondo delle sette note.
"Revolution '90" è un saggio sui vorticosi e movimentati Nineties della scena canora nostrana. Più che saggio, però, io preferisco definirlo "almanacco", termine molto "calcistico" e che quindi ritengo non dispiacerà all'autore, visto che il football è un'altra sua grande passione. Almanacco perché contiene una mole impressionante di dati storici e note biografiche, perché è un volume non necessariamente da sfogliare rigorosamente dalla prima all'ultima pagina come un romanzo, ma consultabile "a random", quando si ha la voglia o l'esigenza di approfondire le vicende di questo o quell'artista, di questa o quella band.
DIECI ANNI FRIZZANTI E QUALITATIVI - E sì, perché il libro è fondamentalmente imperniato su 101 schede dedicate ad altrettanti protagonisti della musica del decennio. "Revolution '90" offre una panoramica estremamente ampia, viaggia alla larga da elitarismi e puzze sotto il naso: ci sono gli artisti pop sbanca - classifiche, ci sono gli eredi della citata generazione cantautoriale settantiana, c'è tanto rock, ci sono il funky, il rap, il brit pop declinato in salsa... peninsulare, e c'è soprattutto quel popolatissimo universo di band che, per periodi più o meno lunghi, riuscirono a emergere dai circuiti locali per guadagnare gloria nazionale.
Sfogli questa... carica dei 101, e "scopri" di aver vissuto in prima persona un'epoca musicalmente viva, frizzante, ricca di stimoli compositivi, aperta alle influenze estere e in grado di rielaborarle con gusto tutto nazionale. Il fatto è che, vivendo quegli anni in presa diretta, giorno dopo giorno, non c'era la completa percezione di tale ben di Dio creativo: accade spesso, sul momento non sempre si riesce a cogliere l'eccezionalità, la portata epocale di un'opera d'arte, di un disco, di un film: si tende a sminuire. Ma rivedere tutto ciò a posteriori è impressionante, restituisce appieno il peso storico e culturale dello scenario musicale novantiano, e in un certo senso riempie di orgoglio, perché ti fa dire: "Ebbene sì, c'ero anch'io, per quel poco che conta". 
GIOVANI, BAND, SPERIMENTALISMO - Novanta: gli anni degli exploit di tanti giovani, quando la discografia riusciva ancora a investire massicciamente sui talentini in sboccio. Da Grignani a Silvestri, da Carmen Consoli a Irene Grandi, da Di Cataldo a Gazzè e Fabi, fino a fenomeni autentici come Giorgia e la Pausini, o ad altri rimasti sotto traccia come Daniele Groff, il più british dei nostri. Gli anni del folk d'autore in stile Modena City Ramblers e Agricantus, gli anni dei veterani che ritornano più pimpanti che mai in vetta alle chart, da Baglioni a Zero, da Vasco a Zucchero.
Gli anni, soprattutto, di band all'avanguardia che fanno breccia, svecchiano il panorama sonoro nostrano, lo rendono meno mainstream e più variegato, più ricco di sfumature e di audacia stilistica, e qui i nomi si sprecano: chi è riuscito a raggiungere le grandi masse come i Subsonica e gli Articolo 31, chi ha ballato per poche estati ma ha comunque lasciato il segno, nomi come Prozac + e Mao, Soon (passione giovanile che mi accomuna all'autore) e Casinò Royale, e poi autentici gruppi - pilastro della generazione in esame, in primis i C.S.I. (di cui ricordavo la clamorosa incursione nelle hit parade "generaliste"con "Tabula rasa elettrificata", anno 1997: ne parlarono persino i telegiornali!), i Verdena e i Marlene Kuntz. Impossibile citarli tutti: per ognuno di loro Gardon sintetizza il percorso artistico, dalla gavetta all'affermazione (o al tramonto) e concentra l'attenzione sull'album da lui ritenuto più riuscito o comunque più significativo, raccontandone i contenuti con un linguaggio che media fra la giusta dose di tecnicismo e il fattore emozionale, senza mai scadere nel nozionismo ma con quella "discorsività" che è suo preciso marchio di fabbrica. 
LA MUSICA, LA VITA, IL MONDO ATTORNO - Una ambivalenza linguistica fondamentale, quest'ultima, perché "Revolution '90" è sì saggio, è più compiutamente almanacco, ma non solo. Dentro c'è molto anche del mondo interiore dell'autore, del suo vissuto. Del resto, i Novanta sono stati gli anni decisivi per il suo percorso umano; gli anni del liceo e dell'Università, con tutto ciò che questo comporta: la crescita, la maturazione, le solide amicizie, i primi amori, ma anche la formazione culturale e la coltivazione delle proprie passioni, la musica in primis. Tutto ciò che è vita, insomma, e che Gianni tratteggia per brevi pennellate, con diversi excursus personali a inframezzare gli approfondimenti su dischi e cantanti.
Ma non solo: oltre alle sette note, oltre ai cenni alle vicende private, vergati con leggerezza e con una nostalgia che però mai sconfina nel vuoto rimpianto, ci sono anche brevi finestre sui fatti epocali che hanno attraversato la decade, in primis quelli politici e tecnologici, ovviamente visti attraverso la chiave di lettura dell'autore. Ed ecco allora spiegato il significato del titolo: "Revolution '90" perché quei dieci anni furono rivoluzionari per la musica italiana, rivoluzionari per il mondo e rivoluzionari... per Gardon, in quanto gravidi di novità, di cambiamenti, un continuo marciare avanti con sempre maggior consapevolezza. Verrebbe da dire "Evolution", più che "Revolution", ma cambia poco. Anni, sempre e comunque, attraversati dalla musica, vissuta quotidianamente, da ascoltatore prima e anche da esperto poi.
DEBITORI DEI NINETIES - Torniamo alla parte più "tecnica", il cuore dell'opera. 101 schede e  il piacevole stupore di vedere finalmente catalogato il meglio di un'epoca colpevolmente sottovalutata, alla quale il mondo canoro nostrano d'oggidì deve tantissimo. Quei Novanta sono stati una palestra di sperimentazioni di cui si raccolgono i frutti ancora oggi, una fucina di fuoriclasse autentici che, fra le mille difficoltà legate alla crisi dell'industria discografica, sono riusciti a giungere fino ai giorni nostri mantenendosi su dignitosissime espressioni creative. E fa male pensare a quanti altri, di quella decade, sono rimasti al palo pur avendo talento cristallino, un patrimonio che chi di dovere non ha saputo né valorizzare né conservare. Altro che fase di passaggio...

venerdì 20 marzo 2015

MONDIALI DI CALCIO 2022, IL PALLONE SOTTO L'ALBERO: IN QATAR SI GIOCHERA' A DICEMBRE


Un altro totem calcistico è caduto. Ora è ufficiale: il Mondiale del 2022, in Qatar, si giocherà fra novembre e dicembre, in quelle settimane in cui l'autunno sta per lasciar strada all'inverno, quando l'atmosfera natalizia, sincera o posticcia che sia, ha già largamente invaso le case di tutti o quasi. Da quelle parti, a giugno e a luglio (i mesi classici della kermesse iridata) le temperature, e le condizioni climatiche in generale, sono incompatibili con lo svolgimento di un'attività sportiva: alla faccia degli "stadi refrigerati" di cui aveva favoleggiato qualche buontempone. Nessun dramma, ci mancherebbe: sono ben altri gli orrori che stanno minando alla base la credibilità del carrozzone, e che, quantomeno qui da noi, hanno raffreddato gli entusiasmi di molti "calciomaniaci" impenitenti. Però un po' di magone c'è. 
Di Coppe del mondo invernali in fondo se ne son disputate altre, in passato, dal punto di vista strettamente "geografico": quella maggiormente ricordata da appassionati giovani e attempati è, ancora oggi, Argentina '78. A giugno, nella terra dei gauchos, fa freddo: foto e immagini televisive di quei giorni ci raccontano di atleti schierati in campo con maglie a maniche rigorosamente lunghe, allenatori intabarrati in impermeabili e giacconi pesanti, atmosfere spesso plumbee, tenebre precoci, nebbioline incipienti. Tutto ok, però pur sempre giugno era...
MONDIALE= CALDO... - Il "problema", è chiaro, riguarda soprattutto noi europei, abituati a vederci servite le grandi competizioni per Nazionali, Mondiali ma anche Europei, ogni due anni alla fine della stagione per club. Conta l'atmosfera, l'ambiente in cui si sviluppa l'evento, un fattore niente affatto trascurabile per chi vede il football non solo come vicenda strettamente agonistica, ma come autentico romanzo popolare, volano e crogiolo di passioni, caratteristiche che ovviamente si ritrovano amplificate al diapason nella rassegna planetaria, ossia nella massima espressione calcistica del globo. Ebbene, per noi italiani Mondiale vuol dire estate, caldo più o meno canicolare: vuol dire strade illuminate dal sole e dalle bandiere tricolori, vuol dire raduni nelle piazze per assistere alle partite davanti ai maxischermi, e, per i più "pazzi", bagni nelle fontane, un po' per festeggiare eventuali trionfi azzurri, un po' per alleviare la calura. Scene, scorci di gioia che si ripetono simili nel resto del Vecchio Continente, o in buona parte di esso, con le ovvie sfumature legate alle differenze di attitudini e di carattere, alla maggiore o minore morigeratezza nel vivere la grande festa del football. 
RITUALI INTOCCABILI - Nel 2022, tutto questo non accadrà, non dalle nostre parti: e questo brusco cambiamento di "atmosfera" toglierà inizialmente un po' di magia alla kermesse, sorvolando sull'opportunità di averne assegnato l'organizzazione a un Paese ricchissimo ma calcisticamente all'ABC, e per tacere di tutto l'enorme strascico di polemiche che ha accompagnato tale designazione. Però non bisogna chiudersi aprioristicamente alle novità: anche solo una volta nella vita, ci sta di sperimentare un Mondiale da vivere... in maglia di lana, con l'albero di Natale e/o il Presepe già allestiti in salotto. L'importante sarà che i parrucconi della FIFA non ci prendano l'abitudine: la sacralità di certi eventi, e la Coppa del Mondo è l'Evento per eccellenza del calcio, si regge anche su certe ritualità, su certe tradizioni immutabili: su quei "totem" di cui si diceva all'inizio. E' pur vero che il calciofilo medio di oggi si fa andar bene più o meno qualsiasi cosa, non si spiegherebbe altrimenti la tolleranza nei confronti dello spezzatino che ha distrutto la contemporaneità della nostra Serie A, o verso le rose imbottite di stranieri, ma c'è un limite a tutto. 
ORGANIZZAZIONE, PREPARAZIONE: CAMBIERA' TUTTO - Questo per quel che riguarda il versante "sentimentale" (importantissimo, lo ripeto). Sul piano strettamente tecnico, i problemi saranno forse amplificati. Dovrà essere totalmente sconvolta la pianificazione complessiva dell'annata calcistica, sia sul fronte organizzativo sia su quello più strettamente agonistico, sia per i club che per le rappresentative. Preparazione fisica da "rileggere" alla luce delle nuove esigenze di calendario, da effettuare forse con tempistiche diverse e con modalità da calibrare attentamente, magari persino con metodiche nuove. Campionati  nazionali da interrompere, giocoforza, a metà percorso, e ci sta: la pausa invernale, invece che per ricaricare le pile in vista delle sfide di primavera, dovrà servire per la messa a punto delle 32 partecipanti al torneo iridato, e per la disputa dello stesso. 
Torneo che forse, proprio per questo, mostrerà compagini e campioni più "sul pezzo", meno spremuti fisicamente e mentalmente, il che è un'arma a doppio taglio: se da un lato tutto ciò dovrebbe garantire un innalzamento del tono spettacolare delle partite, dall'altro potrebbe rendere la competizione più prevedibile, con un sostanziale rispetto delle gerarchie consolidate, senza exploit inattesi: potrebbe persino accadere che i calciatori inglesi, non più ridotti al lumicino dalle innumerevoli gare chiamati a giocare coi loro club, riescano finalmente a impreziosire un albo d'oro "mundial" tremendamente a corto di argomenti (anche se per loro il logorio è solo una parte del problema: la verità è che, da qualche anno a questa parte, lassù sull'Isola i talenti veri latitano, altroché: molto peggio che da noi...). 
E DOPO IL MONDIALE? - Poi, però, sorgerebbero inconvenienti dopo la fine della festa qatariota: giocatori spremuti, forse più sul piano nervoso che su quello atletico, in proporzioni mai viste nel bel mezzo di una stagione agonistica. Nuova preparazione, da impostare in maniera diversa, ma il rischio concreto di vedere, nella seconda parte dell'annata per club, squadre poco brillanti, o comunque uno sconvolgimento dei valori che porterebbe le "grandi" ad arrancare e le società meno attrezzate a trovare più spazio per imprese "impossibili"; nulla di negativo sul piano emozionale, anzi, ma sicuramente un'anomalia causata da un evento "esterno", e non da, piuttosto, una auspicabile redistribuzione di risorse fra società "ricche" e società "povere". 
Tutte ipotesi, ci mancherebbe; magari invece non accadrà nulla di tutto questo e, anzi, il Mondiale troverà nell'autunno - inverno la sua nuova collocazione ideale. Sul punto ho i miei dubbi, ma di certo rappresenterà un banco di prova enorme, uno di quegli snodi cruciali nella storia di questo sport: si tratterà di mettere in moto il cervello, di studiare nuovi sistemi di gestione degli impegni, di preparazione degli atleti, di calendarizzazione degli eventi. Sarà meglio che i padroni del vapore pallonaro comincino a pensarci per tempo. 

IL CASO ROMA: LA SQUADRA GIALLOROSSA SI E' SFALDATA A DICEMBRE, QUATTRO LE PARTITE - SVOLTA

                                         Rudi Garcia: non sa più che pesci pigliare... 

Cosa diavolo sta accadendo alla Roma? Difficile comprenderlo per chi, come il sottoscritto, non vive quotidianamente l'ambiente giallorosso. Non ho dunque né risposte né soluzioni, ma non si può non rimarcare il fatto che la parabola di questa disastrata "grande" in ambasce rappresenti pressoché un unicum, nella storia della nostra Serie A. Fateci caso: il percorso di De Rossi e compagnia ha un che di schizofrenico, del tutto insolito per quelle compagini d'alta classifica che, in linea di massima, sempre si contraddistinguono per un rendimento costante su buoni livelli: inizialmente bella o quantomeno concreta, poi, da lungo tempo, brutta, perdente, inghiottita da un buco nero tecnico, eppure incredibilmente ancora aggrappata a un secondo posto che mai è stato così bugiardo. Presentatasi ai nastri di partenza agostani come la più autorevole candidata a rivaleggiare con la Juve per lo scudetto, fino ai primi di dicembre ha marciato, in campionato, su ritmi elevatissimi, superando anche le secche (più psicologiche che tecniche) in cui era andata a impantanarsi dopo la caduta della sesta giornata allo Stadium torinese (con contorno di vittimismi assortiti), e, in apparenza, persino il terribile knock out patito in Champions League dal Bayern, a domicilio (1-7). 
QUATTRO GARE SCHOCK - Tutto più o meno liscio fino a fine novembre, diciamo fino al rotondo 4 a 2 imposto all'Inter, poi si è spalancato il baratro. La svolta della stagione in quattro partite chiave, equamente divise fra Europa e Italia: in Coppacampioni, il suicidio di Mosca, col gollonzo del pari incassato contro il Cska allo spirare del match e compromissione del passaggio del turno, ufficializzata nella successiva dimostrazione di impotenza all'Olimpico col Manchester City, trionfatore senza nemmeno soffrire tanto. In patria, prima il rischio - crollo in casa col Sassuolo (che ebbe di che lamentarsi della direzione di gara) scongiurato in extremis, poi la discussa e immeritata vittoria di Genova sui rossoblù, con contorno di inaccettabili, sesquipedali e decisivi svarioni arbitrali: una sfida, quest'ultima, che ha inciso negativamente sulle sorti di ambedue le compagini. Quella di Gasperini, pur mantenendosi su una decorosa linea di galleggiamento, non è più riuscita a toccare i vertici di rendimento del primo terzo di torneo (complice anche una incomprensibile ostilità delle giacchette gialle, oltreché per innegabili responsabilità interne al Grifone), ma ad avere la peggio, alla lunga, è stato proprio il gruppo di Garcia. 
SECONDI CON RENDIMENTO DA ZONA SALVEZZA - Da quei giorni di fine 2014, la Roma è diventata Rometta. Dapprima sorretta da abbondanti dosi di buona sorte (ricordate il passaggio di turno in Coppa Italia contro l'Empoli?), alla fine non ha trovato più alcunché a cui aggrapparsi. La qualità della manovra è precipitata a livelli da bassifondi, e il ruolino di marcia è diventato specchio fedelissimo di questa involuzione. Ed ecco il paradosso: nonostante il rendimento imbarazzante mostrato all'indomani del citato "poker esiziale" di partite, la Roma si trova tuttora al secondo posto in campionato. Eppure, a vederla oggi, sembra una squadra che per espressioni di gioco, consistenza, approccio mentale alle gare, ha tutte le stimmate del team da retrocessione - salvezza risicata. E' in un tunnel, qualcosa di più di una crisi passeggera: l'incapacità di battere il Parma fantasma, la lunga sequela di pareggi anche in impegni alla portata, la resa senza condizioni di fronte a Sampdoria e Fiorentina, sono la spia di qualcosa di serio, di non facilmente estirpabile. Se gli unici lampi di luce di questi mesi sono stati la vittoria di Rotterdam (contro un Feyenoord modesto, che faceva paura solo per l'ambiente infuocato) e la doppietta - selfie di Totti nel derby, c'è poco da stare allegri. 
SMARRITA LA BUSSOLA TECNICA - Tutto incomprensibile, si diceva, perché nella stagione 2013/14 sembrava esser stato avviato un circolo virtuoso, un ciclo che nel giro di due - tre anni avrebbe potuto portare alla conquista di qualcosa di concreto. E invece la bussola tecnica sembra esser stata smarrita: scarsa fiducia ai giovani, ovviamente soprattutto agli italiani (Destro non è un fenomeno, ma poteva ancora tornare utile, per non parlare del promettente Romagnoli dirottato alla Samp), acquisti stranieri un tanto al chilo (e certi "esperti" hanno avuto il coraggio di parlare di "rinforzi" a proposito degli arrivi di Ibarbo e del mistero Doumbia), declino improvviso di certi totem che parevano inaffondabili (De Sanctis e soprattutto De Rossi) ai quali non sono stati trovati adeguati ricambi, e, alla fine, il solito aggrapparsi all'eterno Totti, della cui longevità io stesso ho tessuto le lodi pochi mesi fa, ma che a livello di allori autentici, ossia di apporti decisivi al raggiungimento di traguardi "da toccare con mano", non sposta più alcunché da almeno una decina d'anni. In tutto questo, Garcia sembra aver perso il controllo del gruppo, mai pare in grado di azzeccare la mossa vincente, di indirizzare una gara con un'idea tattica o col cambio giusto al momento giusto. Così, la Roma è fuori da tutto, o quasi: niente Champions, niente Europa League, niente scudetto e niente Coppitalia, spettacoli da Serie B su tutti i campi: quale miracolo potrà tenerla in corsa per il secondo posto? 

sabato 14 marzo 2015

FESTIVAL DI SANREMO, UN MESE DOPO: PERCHE' UN "CONTI BIS" E' POSSIBILE


Sanremo 2015, un mese dopo. Il 14 febbraio scorso calava il sipario sull'edizione più riuscita dell'ultimo decennio. Non è ancora tempo di parlare dei riscontri commerciali dei brani in gara: per tracciare un bilancio attendibile mi prendo ancora qualche settimana, in modo da poter lavorare su un arco di tempo più ampio. I dischi stanno andando abbastanza bene, questo si può dire: la presenza nelle classifiche (il dato più importante) è confortante, le ospitate televisive numerose, e la nuova moda - marketing dei "firmacopie" presso gli store sta beneficiando di notevoli adunate di fans (ho partecipato in prima persona, da "osservatore", a quello di Annalisa, alla Feltrinelli di Genova). 
IL FUTURO - Ma, ripeto, ne parleremo meglio più avanti. L'argomento "caldo" in questo momento è un altro: cosa farà Carlo Conti? Il vero trionfatore dell'ultimo Festival, dopo un breve periodo di riposo, è tornato alla guida del pre - serale "L'eredità", come d'accordo con la dirigenza Rai, in linea con la sua volontà di restare un volto televisivo "di famiglia", da incontrare nella quotidianità, e non invece un personaggio da spendere solo per grandi eventi e super produzioni. Riguardo al suo futuro... festivaliero, ha nel frattempo mantenuto la posizione di scetticismo espressa a caldo, a conclusione della kermesse. L'ultima dichiarazione pubblica sul tema è in un'intervista rilasciata a Sorrisi & Canzoni, due settimane fa: " Rifare Sanremo? Per ora non ci penso proprio. Ho bisogno di almeno un mese di tempo per metabolizzare il tutto. Ne riparleremo quando sarà il momento e farò le mie riflessioni. Ma un risultato del genere è irripetibile e potrei fare solo peggio...". 
RISCHI AUDITEL? - Dunque nicchia, il buon Conti. La preoccupazione per eventuali crolli Auditel è comprensibile, anche alla luce del fresco precedente di Fabio Fazio: trionfo nel 2013 (con pompaggio eccessivo di una critica che aveva finalmente trovato il Festival "per palati fini" da tanto tempo auspicato) e brusco ridimensionamento dodici mesi dopo. Credo però che non esistano meccanismi fissi e inevitabili, riguardo alle oscillazioni dell'audience (da un anno all'altro, poi...), e che si debba analizzare caso per caso. Fazio e Littizzetto, nel 2014, fallirono perché riproposero lo stesso schema di spettacolo dell'anno prima, ma ulteriormente appesantito da insopportabili elementi seriosi e retorici, che nulla avevano a che fare con l'amenità e la gioiosità che dovrebbero dominare una rassegna canora. 
IL VORTICE DEI PADRONI DI CASA - Ecco, in questi ultimi anni si è parlato fin troppo, a proposito della manifestazione ligure, di "progetto artistico da costruire attorno al team di presentatori". Si è sempre data per scontata, cioè, la necessità di proporre ogni volta una forma di presentazione nuova, con elementi originali e brillanti, possibilmente con un continuo ricambio di volti; i padroni di casa come "spettacolo nello spettacolo", elemento trainante, quasi primario, per la buona riuscita dell'evento. Deriva inevitabile, nel momento in cui si è data per assodata la trasformazione di Sanremo da gara musicale tout court a show televisivo. Ma, forse nemmeno Conti se ne è accorto, con l'edizione di quest'anno si è compiuto un salto qualitativo storico e fondamentale, che potrebbe mandare a carte quarantotto ogni considerazione legata al "rischio Auditel": l'anchorman toscano ha infatti messo a punto una "formula Festival" che potrebbe risultare buona per tutte le stagioni, o quantomeno per molte delle stagioni a venire. 

                                  Pippo Baudo: Conti può esserne l'erede "sanremese"? 
                                           
LA NUOVA FORMULA SANREMO - Nulla di particolarmente rivoluzionario, quanto piuttosto un ritorno nel solco della tradizione, con gli opportuni aggiornamenti richiesti dall'evoluzione del mezzo catodico. Così, il Sanremo 2015 è risultato un Festival asciutto, snello, ritmato nella conduzione, incentrato sui cantanti in gara: giovani di nuovo in primo piano, ribalta degna di questo nome per i Big, competizione avvincente in entrambe le categorie, buon livello dei pezzi. Questo è il ritratto perfetto del Festival di Sanremo, nel formato in cui si è affermato e ha avuto successo lungo i decenni; nessuna alchimia, nessun meccanismo astruso, nessun coup de théatre (Benigni, Celentano, Madonna...) per assicurarsi i riflettori mediatici: solo tanta musica e pochi tempi morti, pur se con l'inevitabile "tassa" da pagare alle esigenze di rete, leggasi passerelle dei personaggi Rai in promozione di future trasmissioni. E' una struttura spettacolare estremamente funzionale, che non può essere "pensionata" dopo una sola edizione per avventurarsi lungo strade nuove, ma che può reggere a lungo, e Conti è la persona più adatta a mantenerla a regime. Basta, semplicemente, ripetere una buona selezione di brani, come quest'anno, e conservare il medesimo gusto pop nella scelta degli ospiti (con tocco più felice per i comici, questo sì...). 
Perché non pensare a lui come al Pippo Baudo del Duemila? E' vero, i tempi sono cambiati; ed è innegabile che anche il Pippo nazionale abbia conosciuto, nel nuovo secolo, qualche... rovescio sanremese; però nel suo periodo d'oro, dal '92 al '95, inanellò quattro edizioni con riscontri di ascolto sempre positivi, pur fra qualche oscillazione. L'Auditel non deve essere vissuto come una spada di Damocle, e sinceramente non credo che un eventuale bis immediato, se costruito sui presupposti prima elencati, possa portare crolli disastrosi; anche una piccola flessione di spettatori non sarebbe un dramma, visto che comunque conta soprattutto ciò che Sanremo può restituire all'industria discografica in termini di esiti di mercato (lo stesso Conti l'ha ripetuto più volte: "Ho sempre detto che la mia soddisfazione più grande sarebbe stata ascoltare i brani in radio... Li ho scelti bene, stanno passando tutti"). 
CONTINUITA' - Dal mio insignificante pulpito, invito Carlo e la dirigenza di Rai Uno a riflettere su tutto questo, soprattutto sul cambiamento "silenzioso" ma significativo avvenuto nel tessuto del Festivalone: finito il tempo delle rivoluzioni continue, della ricerca affannosa del nuovo ad ogni costo, oggi si può lavorare sulla continuità e sulla stabilità. Sarebbe comunque lecito, è ovvio, prendersi uno o più anni "sabbatici", per poi tornare all'Ariston fresco e riposato, e con qualche idea in più: come Paolo Bonolis, insomma, che ha fatto due Sanremi "super" nel 2005 e nel 2009 (in entrambi i casi da "salvatore della patria" di un evento a rischio di chiusura, o quantomeno di ridimensionamento), o come lo stesso Fazio, tornato dopo ben tredici anni sul... luogo del delitto. Nel caso, però, la scelta del successore sarà dura: il vivaio di viale Mazzini si è prosciugato, non ha più sfornato giovani anchorman di qualità, e magari sarebbe il caso di inventare un talent ad hoc, piuttosto che The Voice (fotocopia sbiadita di X Factor) o l'inconsistente "Forte forte forte". 
I SUCCESSORI - Dietro Conti, chi c'è? Negli anni scorsi ho proposto più volte Milly Carlucci, che era diventata un volto di punta delle prime serate Rai ma che si sta avvitando nella banale routine di trasmissioni in crisi di popolarità. C'è Insinna che però, nell'ultimo evento leggero presentato, il gala di fine anno, non è parso proprio brillantissimo, e che comunque si è legato mani e piedi all'irritante "Affari tuoi". C'è un ritorno di fiamma per Frizzi, al quale Sanremo è stato negato nel periodo d'oro della sua carriera, gli anni Novanta, prima per l'onnipresenza di Baudo e poi per scelte strategiche discutibili, che affidarono la manifestazione a volti Mediaset (Bongiorno e Vianello): oggi Fabrizio sembra anche più maturo, sereno e "sciolto", ma sarebbe comunque un grosso rischio, per uno da troppo tempo a digiuno di conduzioni "pesanti". Fra i giovani, Nicola Savino e Federico Russo sono due opzioni da non trascurare, ma paiono ancora acerbi. Da casa Berlusconi torna il nome di Bonolis, mentre di assoluta affidabilità sarebbe la candidatura Gerry Scotti, ma credo che l'ente tv di Stato voglia giustamente indirizzarsi su lavoratori interni. Un bel rebus. E dunque, Conti? 

venerdì 13 marzo 2015

CHAMPIONS ED EUROPA LEAGUE: DAL PSG ALLA FIORENTINA, IL CALCIO DI CLUB HA SMARRITO IL LEGAME COL TERRITORIO


Mercoledì scorso, ottavi di Champions League a Stamford Bridge, Chelsea contro Paris Saint Germain: blues con due soli inglesi in campo (i centrali difensivi Terry e Cahill), ospiti con un unico francese (il centrocampista Matuidi). Ieri sera, ottavi di Europa League, derby italiano (e sottolineo "italiano") fra Fiorentina e Roma:  solo che gli italiani, nei due undici iniziali, erano appena due (due su ventidue!), ed entrambi nelle file giallorosse, De Rossi (ben presto uscito di scena) e Florenzi. Ecco, questo è, a grandi linee, il calcio di club degli anni Dieci, perlomeno ai piani più alti. Anzi, tanto perché sia chiara da subito la mia posizione, non è calcio, non lo è più. 
MULTINAZIONALI - Questi tornei continentali, soprattutto il più prestigioso per censo e.. giro di miliardi, hanno in cartellone spettacoli di altissimo livello tecnico, sovente una delizia per gli occhi. Ma si tratta, appunto, di spettacolo: il football autentico, nella sua essenza originaria e genuina, è un'altra cosa. Siamo quasi alla logica "globetrotters": pochi potentati economici hanno dapprima creato una élite di super società pressoché impenetrabile (si guardino vincitori e protagonisti di Champions degli ultimi quattro - cinque anni), e ne hanno poi trasformato i roster in "all stars", con campioni e campionissimi prelevati da ogni parte del mondo, ma quasi sempre stando alla larga dai vivai locali. Un PSG o un Chelsea potrebbero tranquillamente operare, giocare e avere sede a Dubai, a Mosca o in qualsiasi altra parte del globo: Londra e Parigi c'entrano poco, quasi nulla. 
CAMPANILISMO E LEGAME COL TERRITORIO - L'essenza del calcio, si diceva, sta anche, per me soprattutto, nella sua rappresentatività nazionale, nel legame e nell'identificazione col territorio. Che non è provincialismo, ma capacità di alimentare un po' di sano campanilismo nel tifoso ma anche nel calciatore, di rinsaldare il senso di appartenenza a un luogo: sono sentimenti che, declinati in senso positivo (alla larga cioè da eccessi di sciovinismo) hanno decretato nel Novecento il successo di ogni sport, e soprattutto l'oceanico favore popolare coagulatosi attorno al football. 
Personalmente sono uno che, pur coltivando una moderata nostalgia per certi aspetti di un mondo calcistico che non c'è più, ha sempre voluto guardare avanti, cercando il buono pure nelle tante, troppe novità che dal Duemila in poi hanno caratterizzato l'evoluzione di questa disciplina. Ma accettare il progresso non significa farsi andar bene tutto: in compagini come il Chelsea e il Paris Saint Germain, o come la Fiorentina e la Roma di ieri sera (ma mettiamoci anche l'Inter o il Napoli, per restare in ambito EL) la rappresentatività nazionale non esiste, il legame col territorio è stato buttato alle ortiche. E quindi si sono sradicate e rinnegate le radici stesse del fenomeno calcio.
GLOBALIZZAZIONE NEFASTA - Spogliatoi in cui si parlano dieci o più lingue, accozzaglie di calciatori di formazione diversa, nessun autentico collante morale a tenerli insieme, se non i contratti, peraltro assai volatili: non più atleti ma grigi professionisti, che vanno dove ti offrono di più, si chiami anche Anzhi, e chissenefrega se il prestigio del club è inesistente, basta che paghi bene. Danni di una globalizzazione male interpretata e portata agli eccessi, che non si può applicare a tutto: il calcio ha, ebbene sì, una propria valenza culturale, che consiste anche nella salvaguardia e nella valorizzazione della "produzione" locale. Incredibile che, dalla sentenza Bosman in poi, nessun fine giurista abbia trovato qualche machiavellico dispositivo per dare contorni concreti a questo rilievo culturale, e arginare la deriva della circolazione indiscriminata di atleti. 
PIU' ITALIA NEL PSG - Un trionfo nella seconda coppa continentale di una delle compagini nostrane (il Torino devo purtroppo escluderlo, per i suoi mezzi limitati) è certo auspicabile per alimentare il nostro esangue ranking UEFA, ma non sarebbe in alcun modo un termometro attendibile dello stato di salute del pallone tricolore, di cui esse non sono espressione. Il livello di un movimento calcistico, sul piano strettamente tecnico, si misura innanzitutto dalla capacità del vivaio nazionale di produrre elementi di valore, per poi portarli a rapida e proficua maturazione, e non certo dalle illusorie affermazioni di pittoreschi ensemble di brasiliani, croati, sloveni, greci e ivoriani. Idem, ovviamente, nel caso di un trionfo in Champions del PSG, per il quale siamo anzi al paradosso: significherebbe poco o nulla per il football transalpino (così come nulla significò per noi quello dell'Inter straniera nel 2010), mentre sarebbe un segnale interessante per l'Italia, visto che nella squadra di Laurent Blanc militano ben tre azzurrabili, assai più di quelli che è possibile rintracciare in molte realtà di vertice della nostra Serie A. 
ARISTOCRAZIA IMPENETRABILE - I club dell'élite internazionale, si diceva, hanno ormai dato vita a un'aristocrazia impenetrabile, nella quale è pressoché impossibile entrare per spontaneo progresso tecnico (se non in maniera sporadica), ma solo dotandosi di proprietà facoltose, russe o arabe purché immettano nelle casse societarie abbondante liquidità. Atletico Madrid e Borussia Dortmund sono luminose eccezioni, l'augurio è che lo possa essere la Juventus, la quale peraltro, negli anni della piena maturità del suo gruppo di nazionali azzurri (dei Buffon e dei Barzagli, dei Bonucci, dei Chiellini e dei Pirlo), ha dimostrato di non poter andare oltre un determinato limite. 
SCOUTING STRABICO - In questa gruppuscolo ormai destinato a spartirsi la Champions per molti lustri, oltreché a dettar legge nelle rispettive patrie, si è anche perso il concetto di scouting: perché non ci vuole particolare fiuto  di mercato per andare a pescare in giro per il mondo il Verratti o il Diego Costa, il Pastore o l'Azpilicueta, il Courtois o il Thiago Silva. Il lavoro di scouting rimane invece un lodevole punto di forza delle società di seconda fascia europea, quindi di quasi tutte le italiane qui citate, ma, ripetiamo, non si vede perché questa operazione "scova talenti" debba essere indirizzata pressoché esclusivamente verso l'estero. Dicono che i giovanissimi di casa nostra costino troppo: ammesso e non concesso che sia del tutto vero, ci sarà pure un modo per porre un tetto, anche se mi rendo conto che ben poco si può fare, dopo essersi dotati di una presidenza federale impresentabile e votata al totale immobilismo. Ma non sono convinto che sia tutto qui il problema, e prima poi anche questo ostracismo al "prodotto interno lordo calcistico" dovrà essere chiarito, una volta per tutte. 
NON CI RESTANO CHE LE NAZIONALI... - Qualche firma prestigiosa ritiene che le competizioni per rappresentative nazionali abbiano ormai ampiamente perso fascino e appeal, a tutto vantaggio della Champions League e, più in generale, proprio dei tornei fra club. Non è vero (basti pensare alla copertura giornalistica, agli spettatori in loco e attraverso i media vecchi e nuovi, alla passione ma anche al giro di soldi che Mondiali ed Europei continuano a generare): alla luce di quanto scritto sopra, sono proprio quei tornei l'ultimo baluardo a difesa del DNA più autentico e genuino del pallone. Le Nazionali e le loro sfide ridanno vigore al campanile e al senso di appartenenza, al patriottismo sano, e danno la misura più realistica del livello qualitativo di un movimento, dei suoi progressi e dei suoi passi indietro. Quelli di Champions e di Europa League sono solo scontri fra "all stars": emozionanti, gradevoli, ma senza "sugo" storico e di prospettiva. Quasi delle "americanate"... 

giovedì 5 marzo 2015

DUE O TRE COSE SU GIGI VESIGNA E SUL SUO "SORRISI"

                              1982: Vesigna ospita il mitico J.R. nella redazione di Sorrisi

Dici Gigi Vesigna e non puoi non pensare, con un collegamento mentale immediato e spontaneo, a TV Sorrisi e Canzoni e alla sua età dell'oro. Nei giorni scorsi se n'è andato per sempre, a 83 anni, il direttore per antonomasia del più diffuso settimanale italiano. Lo guidò per oltre vent'anni, dal 1973 al 1994. Non saprei dire se ne sia stato, come molti asseriscono, il miglior "condottiero" di tutti i tempi, sul piano dei contenuti (i dati di vendita del periodo sono insindacabilmente dalla sua parte, questo sì): occorrerebbe un'analisi dettagliata delle varie fasi editoriali della rivista, che richiederebbe lungo studio e ampia trattazione. Di certo, Vesigna riuscì in un'impresa non da poco: realizzò un giornale di taglio autenticamente popolare, oggi si direbbe "pop", senza però far venire mai meno la qualità del prodotto, intesa come livello di scrittura e "sostanza" delle informazioni fornite. 
SUPERCLASSIFICHE E ALTRO... - Piccola digressione personale. Sorrisi ha segnato una fase fondamentale della mia vita. C'è una data precisa: nel 1984 esplose la mia passione, in verità già "latente" da un po', per il mondo dello spettacolo e soprattutto della musica, passione che trovò nel periodico milanese uno sfogo naturale. Avevo fame di notizie su cantanti e programmi tv: e quella rivista mi soddisfaceva pressoché totalmente. Perché se alla radio potevo ascoltare la hit parade con soltanto i primi venti dischi più venduti in Italia, su Sorrisi c'era addirittura la "Superclassifica" dei primi cinquanta, sia per i singoli sia per gli album. C'era una guida tv dettagliatissima, c'erano le interviste ai personaggi dello showbiz, c'erano le presentazioni delle nuove trasmissioni e di tutte le kermesse canore, c'erano i testi delle canzoni sulla cresta dell'onda. 
UN GIORNALE, UNA FESTA - Già, i testi: solo su Sorrisi potevo trovare in anteprima (come oggi, del resto) quelli dei nuovissimi brani che, di lì a qualche giorno, sarebbero stati lanciati sul palco del Festival di Sanremo. E i numeri speciali che Sorrisi dedicava alla rassegna rivierasca erano per me, ragazzino delle scuole elementari, un appuntamento irrinunciabile, quasi una festa. Ecco, il giornale di Vesigna era una festa, perché sapeva intercettare mirabilmente i gusti "leggeri" del pubblico, ma trattava argomenti in fondo frivoli con rigore e completezza. Un giornale scritto con linguaggio semplice e che, in linea di massima, cercava di stare alla larga dalle polemiche gratuite, sposando i toni moderati anche nei casi più controversi. E se proprio doveva affondare i colpi della critica, lo faceva con eleganza, con punture di spillo. 
IL BOOM DELLE PRIVATE E IL FESTIVAL DI SANREMO - Certo, Vesigna era più che un giornalista, non solo un semplice osservatore e narratore della realtà, un produttore di notizie e commenti. Lui aveva saputo "entrare" nel mondo dello spettacolo, quasi diventandone protagonista di primo piano. Anche per questo, il suo Sorrisi potè raccontare passo dopo passo una delle fasi più ricche di fermenti nella storia della televisione italiana, quella dell'irruzione delle emittenti private e del boom berlusconiano. Vesigna fu il primo a intravedere le enormi potenzialità di Canale 5 e compagnia, e alla produzione di queste neonate reti diede spazio amplissimo, senza riserve. 
Il suo Sorrisi è stato anche, lo si accennava prima, un fondamentale alleato del Festival di Sanremo: lo è stato soprattutto quando, agli inizi della sua gestione, la manifestazione era guardata in cagnesco da quasi tutti gli addetti ai lavori, discografici, cantanti e giornalisti, e in tanti ne auspicavano la chiusura definitiva. In quegli anni, dal '73 all'80, persino il Radiocorriere TV, organo della Rai, ridusse drasticamente lo spazio dedicato all'evento ligure (strano, visto che rimaneva un appuntamento clou del palinsesto della tv pubblica). Sorrisi no: Vesigna continuò a puntare forte sulla kermesse, non lesinando le critiche ma cercando di individuare vie di uscita dalla crisi e soprattutto, correttamente, dando conto dei piccoli e grandi progressi che ogni anno il Festival registrava, nella sua affannosa rincorsa alla gloria perduta. Si può quasi dire che, nel periodo del suo declino, Sanremo sia rimasto comunque nel cuore della gente anche perché il direttore e la sua rivista ne seppero tenere vivo il mito. Anche solo per questo, da parte di un appassionato "sanremista" come me, merita riconoscenza eterna. 
QUEL LIBRO DELUDENTE - Negli anni passati, nelle mie chiacchiere private con amici, non sono stato sempre tenero col buon Gigi, e sarebbe assurdo rinnegare adesso le mie perplessità. Mettevo in discussione non la grandezza del Vesigna giornalista e direttore, sotto gli occhi di tutti, quanto la sua efficacia come storico e scrittore. Non mi era proprio andato giù il suo modesto libro "Vox populi", uscito nel 2010 e dedicato al Festivalone. Un libro superficiale, pieno di errori e povero di quelle rivelazioni autenticamente clamorose che uno come lui, con le spalle rese larghe da anni di onorata militanza professionale e giunto ormai a un'età veneranda, poteva tranquillamente mettere sul piatto, per far saltare il banco. Questo è l'unico rimpianto che mi lascia: avrebbe potuto scrivere il miglior volume di sempre sulla storia di Sanremo, lui che lo aveva vissuto da dentro, sostenuto nei tempi dei malanni e spinto alla resurrezione, invece si limitò a un piccolo cabotaggio. Pazienza. 
GLI EREDI - L'eredità di Vesigna non è comunque andata perduta. Ha trovato in Massimo Donelli e Umberto Brindani degni successori alla guida del suo amato giornale, a inizio secolo. E da qualche anno, dopo la tristissima parentesi Signorini, Aldo Vitali sta tentando, con genuino entusiasmo, di riportare il periodico agli antichi fasti. Impresa difficile, ma lo zoccolo duro di fedelissimi lettori rimane (uno "zoccolo" per il quale molte testate anche prestigiose farebbero carte false) e sfogliando le pagine del nuovo Sorrisi si è tornata in parte a respirare quell'atmosfera pop di qualità, quella leggerezza che non cede mai il passo all'ineleganza, alla volgarità e alla polemica facile. Proprio come piaceva a Gigi.