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sabato 26 novembre 2011

IL PUNTO SUL GENOA: NON E' TUTTO ORO QUEL CHE LUCE

Dopo dieci gare di campionato e due di Coppa Italia, è giunto il momento di fare un primo punto sulla stagione del Genoa. Stagione terribilmente difficile da decifrare e da giudicare, diciamolo subito. La classifica  sorride, i rossoblù, con una gara da recuperare, sono in settima posizione, a pari merito con altre compagini (fra cui il reclamizzatissimo Napoli, che sta pagando un prezzo carissimo all'impegno Champions, nonostante l'allargamento della rosa), la zona che occupano profuma d'Europa e, nell'ambito di una graduatoria che rimane piuttosto corta, l'area B dista ben sette punti, non pochi.
Questi sono i fatti numerici, quelli che in ultima istanza determinano il successo o il fallimento di una stagione sportiva. Tutto bene e prospettive rosee, dunque? Beh, non proprio. Se è vero che in Italia conta solo il risultato, è altrettanto innegabile che non andare oltre le apparenze sarebbe intellettualmente disonesto. E dunque, diciamolo, a maggior ragione dopo aver visto le ultime due gare chiuse vittoriosamente dal Grifone, col Novara in campionato e col Bari in Coppa: il Genoa gioca male, a tratti malissimo, o, meglio (o peggio?) di gioco sembra proprio non averne.
Su blog e muretti vari, le obiezioni ad affermazioni del genere sono sempre le stesse, ripetute come un mantra e con scarsissima fantasia: 1) Dopo tutto quello che si è passato, fra Serie B e Serie C, bisognerebbe solo ringraziare società e squadra per essere dove si è adesso, senza essere troppo schizzinosi. 2) Ora certi genoani fanno i signorini e pretendono il bel gioco, come se avessero goduto sempre del miglior football e non fossero, invece, reduci da decenni di oscurantismo calcistico e di mezze figure. Bene, rispondiamo in breve: gli stenti del passato implicano di certo  in automatico la gratitudine alla dirigenza attuale per aver risollevato le sorti del club più antico d'Italia, ma non possono né annebbiare il senso critico né impedire che si desideri sempre un miglioramento, un passetto in più rispetto all'anno precedente. In seconda battuta, non si pretende il bel gioco (che, pure, Gasperini aveva fatto vedere, e lo dice uno che, pur stimando il tecnico di Grugliasco, non appartiene alla schiera delle sue vedove inconsolabili e la stagione passata ritenne giusto il suo allontanamento), ma "un" gioco, scintillante o scarno che sia.
Per una volta, dunque, mi schiero con i genoani "mugugnoni". Ma non perché, come tanti tifosi, io provi più soddisfazione quando le cose non vanno bene, godendo addirittura nel criticare. Penso invece che in questo caso il mugugno sia legittimo: perché il Genoa sta andando avanti improvvisando, e nel campionato italiano di Serie A con l'improvvisazione e con la fortuna non si sopravvive a lungo, a meno che non si abbiano le potenzialità tecniche ed economiche dei grandi squadroni metropolitani, i quali in una maniera o nell'altra la sfangano sempre, anche nelle stagioni più disgraziate. 
Rispetto all'ultima stagione, il Grifo ha quattro cose in più: un portiere vero, un Veloso finalmente su livelli presentabili, grande praticità (ed è la cosa più importante) e tanto, tanto fattore C. Che, per carità, è benedetto, soprattutto per un club che dalla buona sorte non è mai stato guardato con occhi di riguardo. Però non basta, così come non può bastare l'affidarsi ai saltuari colpi di genio dei buoni giocatori che non mancano nell'organico, dallo stesso Veloso a Palacio. Improvvisazione, appunto. 
Fissarsi sulla necessità di avere un gioco non è roba da palati fini. Un impianto di gioco, un canovaccio da seguire in ogni partita, è ciò che ti sostiene nei momenti (e arriveranno) il cui la ruota della fortuna prende a girare dalla parte opposta, in cui i big avranno un calo di rendimento e non regaleranno più alzate di genio, e in cui il vecchio cuore rossoblù, determinante ad esempio nella sfida col Novara, non basterà più a togliere le castagne dal fuoco. Senza gioco, puoi bluffare per qualche settimana, qualche mese, ma alla lunga paghi dazio. E dire che comunque quanto visto sinora sia sufficiente per raggiungere gli obiettivi stagionali (sempre molto aleatori, oltretutto: parte sinistra? Europa League? Coppa Italia? Salvezza tranquilla?) è falso e rischioso: il nostro campionato rimane il più difficile ed equilibrato, e domenica scorsa, siamo onesti, sarebbe bastato che la Dea bendata avesse deciso di rivolgere i suoi favori al Novara piuttosto che a noi per determinare un risultato radicalmente diverso, e forse di proporzioni clamorose. 
Certo, non tutte le colpe sono di Malesani: che si è ritrovato per le mani una squadra certo di buona qualità complessiva, ma ancora una volta rivoluzionata rispetto alla stagione precedente, coi nuovi che sono in larga parte stranieri, giovani ed esordienti in Italia, e che quindi alle fisiologiche difficoltà di inserimento tecnico aggiungono anche quelle di ambientamento in una nuova realtà sociale e nazionale. Ed è, inoltre, una squadra incompleta: minimo sindacale in difesa (con la fascia destra depauperata nel corso degli anni, a causa della progressiva rinuncia a Sokratis, Tomovic, Rafinha e Konko: oggi c'è in pratica il solo Mesto a cantare e portare la croce) e un attacco che, per l'ennesima volta, non propone l'attaccante di peso in grado di spalleggiare adeguatamente il brillante ma discontinuo Palacio. Caracciolo è un centravanti da bassa Serie A - alta Serie B, Pratto un cavallone con pochissima classe nei piedi. Zè Eduardo è forse il migliore di tutti ma fin qui è stato azzerato dai problemi fisici e pensare che possa arrivare lui a risolvere tutti i guai è assai rischioso. L'anno scorso c'erano Boselli, Paloschi, Destro e Floro Flores: tutta gente che, presa singolarmente, vale assai di più dell'ex bresciano e dell'argentino, sospendendo per il momento il giudizio sul brasiliano. 
Insomma, non è disfattismo, mi limito a giudicare quello che vedo e sento. Se poi, stamane, anche un giornalista dell'esperienza di Gessi Adamoli (Repubblica - Lavoro) sostiene che, nonostante la classifica e la Coppa Italia, Malesani rischi il posto in caso di passo falso a Cesena, perché Preziosi non è per nulla soddisfatto delle prestazioni offerte, beh, magari non c'è nulla di vero, però può essere anche una sensazione dovuta a un certo clima che si respira dalle parti di Pegli, e che chi frequenta giornalmente il campo di allenamento può percepire meglio di me. 
Personalmente, e non sembri un controsenso rispetto a quanto detto fin qui, la riterrei una mossa azzardata: perché l'alternativa sarebbe De Canio, tecnico di basso profilo che qui a Genova abbiamo già visto all'opera in tempi non sospetti, coi risultati che sappiamo; e perché, anche, in questo primo scorcio di torneo qualche sprazzo incoraggiante c'è stato: il secondo tempo di Roma con la Lazio, la gara col Catania, magari non bellissima ma di grande concretezza, la splendida partita dello Juventus Stadium e anche quella con la Roma, di certo sofferta ma perlomeno condotta sulla base di una idea tattica ben precisa. Ecco, certi episodi significano che qualcosa di buono sotto sotto c'è, e che quindi vale la pena di insistere, magari tirando avanti fino a gennaio, quando però dovranno giungere rinforzi di peso (auspicati dallo stesso Malesani nel dopo gara di domenica scorsa) soprattutto per la prima linea. Sperando che la situazione non cambi in peggio prima. 

mercoledì 16 novembre 2011

VERSO UN SANREMO D'AUSTERITY?

La marcia di avvicinamento a Sanremo 2012 ha subìto un rallentamento. Gli anni scorsi, di questi tempi, era già stato pubblicato il regolamento della kermesse. Per il momento, invece, silenzio assoluto. Strano. La conferma del gruppo di lavoro del 2011, fondamentalmente Mazzi alla direzione artistica e Morandi alla presentazione, avrebbe dovuto significare conferma anche della "linea editoriale", dei meccanismi generali della gara e della manifestazione nel suo complesso. Continuo a pensare che così sarà, e proprio per questo il ritardo nella messa a punto delle... tavole della legge sanremesi suona alquanto inspiegabile. 
Ragionandoci in questi giorni, ho pensato che potrebbe non risultare estranea l'attuale situazione del Paese. Addirittura, direte? Ebbene sì: la grave crisi economica coinvolge anche la Rai, che ora comincia a rimpiangere amaramente i tanti investimenti a vuoto, leggasi soldi buttati in progetti fallimentari o in personaggi che, nella tv pubblica dei tempi d'oro, avrebbero potuto a malapena fare le vallette (o i valletti). E lo stesso Festival di Sanremo non è rimasto indenne da questo andazzo censurabile: le ultime edizioni si sono riempite di ospiti non cantanti, in particolar modo di attori americani, pagati a peso d'oro,  e che non solo non aggiungevano alcunché alla qualità dello spettacolo, ma anzi toglievano, e parecchio (John Travolta che massaggia i piedi a Victoria Cabello nel 2006 o l'imbarazzante intervista alla coppia De Niro - Bellucci dell'anno scorso rimarranno vette di pochezza televisiva non più raggiungibili, almeno lo si spera). 
In soldoni: è tempo di austerity, e ciò non potrà non riverberarsi anche sul Festivalone. In un periodo in cui si chiedono sacrifici anche a quegli italiani che non se lo possono permettere, una manifestazione così popolare non può rischiare... l'impopolarità coprendo d'oro star di dubbio talento e di indubbia inutilità. Quindi? Facile, potrebbe cambiare l'impostazione della rassegna: meno ospiti ma di maggior qualità, e soprattutto più spazio alla gara. Il che vorrebbe dire rielaborare il regolamento, magari per aumentare il numero di cantanti (la cui scarsità l'anno scorso si è avvertita soprattutto in finale, con tanti momenti di vuoto spettacolare che si sarebbero potuti riempire con qualche finalista in più) e modificare i meccanismi della gara, lavorando su eliminazioni e ripescaggi e dando più visibilità alla sezione Giovani. Tutte congetture assolutamente personali e prive di fondamento, naturalmente: magari (e sarebbe l'ora) la settimana prossima uscirà il regolamento e sarà tale e quale a quello dell'anno scorso. Rimane però il fatto che un Sanremo più "frugale", con meno lustrini e vedettes internazionali e più attenzione alla valorizzazione del patrimonio musicale italiano, non mi dispiacerebbe affatto. 

EUROPEI: VINCERE SEMPRE NELLE QUALIFICAZIONI NON E' GARANZIA DI TRIONFO FINALE

A conclusione della fase eliminatoria di Euro 2012, e in attesa del sorteggio, una considerazione sui due rulli compressori del calcio del Vecchio Continente. Prima e seconda a Euro 2008, prima e terza a Sudafrica 2010, e ora protagoniste di un sensazionale percorso netto nelle qualificazioni al torneo che vivrà la sua fase finale in Polonia e Ucraina. Parliamo, è chiaro, di Spagna e Germania: per entrambe, solo vittorie nei rispettivi gironi, dieci su dieci per i panzer, otto su otto per le Furie Rosse. Bene, a pensarci non è nemmeno clamoroso: che siano le più forti lo si sapeva, che poi vincere generi convinzione e autorevolezza ulteriori in chi già ne possiede in quantità fa parte di ogni vicenda agonistica. Tali ingredienti, immessi in un calcio, quello teutonico, da sempre abituato a vincere, e in un altro, quello iberico, da quasi sempre abituato a perdere e quindi con una fame arretrata di decenni, non può che produrre effetti devastanti (per gli avversari). 
Gli annali del calcio raccontano però storie un po' diverse: prima di oggi, fare bottino pieno nelle qualificazioni europee ha rappresentato spesso un pessimo viatico per la fase conclusiva. Ne sa qualcosa la Francia: che vinse sempre nella  corsa a Euro '92 (otto vittorie) e si ripetè in quella a Euro 2004 (dieci successi). Risultati: nella prima occasione, le selezione guidata da Michel Platini, che si presentò alle finali in Svezia nel ristretto novero delle favorite, trapanò l'acqua in maniera imbarazzante: pareggio coi padroni di casa nel mach inaugurale, pareggio con l'Inghilterra in una delle partite più noiose nella storia del calcio, e clamorosa sconfitta con la matricola Danimarca, che da lì prese il volo verso il titolo. Risultato: eliminazione al primo turno e, per Roi Michel, la fine precoce della carriera di allenatore. 
Nel viaggio verso Euro 2004, i Bleus si ripetono: dieci vittorie dieci, in un gruppo peraltro non irresistibile (l'avversario più duro era la Slovenia). Dopo l'imprevisto fallimento al Mondiale nippocoreano, la Francia pareva pronta se non altro a confermare lo scettro di massima potenza continentale, e all'inizio nella fase finale in Portogallo tutto sembrò andare per il meglio: Zidane vinse da solo la sfida con l'Inghilterra, poi arrivarono un pari con la Croazia e un'altra vittoria con la Svizzera, per il primo posto nel girone. Ma tutto crollò nei quarti, al cospetto della Grecia miracolo di quel giugno di sette anni fa. 
Non solo Francia, comunque: una simile doccia fredda dopo i precoci entusiasmi toccò alla Repubblica Ceca che, nel 2000, si presentò in Belgio - Olanda non solo da vicecampione europea, ma anche come unica squadra capace di vincere tutte le gare del turno eliminatorio (la Scozia ne fu l'avversaria più irriducibile). Nella fase conclusiva, però, il sogno andò in frantumi: inseriti in un girone di ferro, anzi, di acciaio inossidabile, i cechi persero le prime due gare con Olanda e Francia (e quella coi tulipani padroni di casa, va detto, in maniera del tutto ingiusta) e, subito eliminati, dovettero accontentarsi di una pleonastica vittoria sulla Danimarca. 
Cosa vuol dire tutto questo? Solo rilievi storico - statistici, che a volte hanno riflessi sulla realtà, a volte no. E, di certo, la Spagna e la Germania attuali valgono sicuramente di più, come caratura complessiva, delle tre selezioni di cui abbiamo narrato la parabola. Occhio però: non capita di rado che, a Mondiali ed Europei, chi entra Papa esca poi cardinale. Ergo... 

PERCHE' TUTTI CONTRO OSVALDO?

Leggo da più parti, anche su blog referenziatissimi, di una certa diffidenza nei confronti dell'Osvaldo azzurro. La causa, intuibile, risiede nella sua molto relativa italianità. Ebbene, premetto che io sono da sempre favorevolissimo a Nazionali formate interamente da giocatori nati e cresciuti, sia anagraficamente sia calcisticamente, nel Paese di cui sono chiamati a indossare la maglia. Però i tempi sono cambiati, e sono cambiati davvero: non sarebbe opportuno andare a ripescare, come termine di paragone, i precedenti d'anteguerra: altro calcio, ma soprattutto altra politica, altra mentalità, altre leggi e altri regolamenti. Però ad esempio le naturalizzazioni facili degli oriundi anni Cinquanta e Sessanta mi han sempre dato l'impressione di operazioni di convenienza, artificiose e posticce in quanto fuori dalla storia di un mondo che, all'epoca, era lontano anni luce dalla multirazzialità e dalla globalizzazione che, volenti o nolenti, sono invece caratteristiche della società attuale. 
Per tutto questo, non trovo scandaloso il ricorso a un giocatore che oltretutto, sembra che in molti se ne siano scordati, ha fatto la regolare anticamera nella nostra Under 21. E poi, quale sarebbe il criterio dirimente: la mancanza di senso di appartenenza in un giocatore nato e cresciuto, anche sportivamente, in un'altra nazione? Bene, ma vorrei chiedere: che spirito di appartenenza avevano gli azzurri, italiani a tutto tondo, che negli anni passati marcavano visita per saltare le gare della Nazionale? E quelli che nel biennio non giocavano praticamente mai (e non certo per scelta del tecnico di turno) ma si facevano trovare tirati a lucido nelle fasi finali? E quelli che dicevano di preferire un titolo con la squadra di club a uno conquistato con la rappresentativa? Allora piuttosto preferisco un Osvaldo che, ieri sera, esce dal campo arrabbiato perché non è riuscito a fare gol. 
Inoltre, si dà importanza eccessiva a un fenomeno che riguarda sì e no l’1-2 per cento della composizione delle squadre nazionali: oltretutto, per Osvaldo, come per Thiago Motta, parliamo  di elementi che al momento non possono essere inquadrati in un ipotetico undici base. I posti in attacco, all'Europeo, se li giocheranno Pazzini, Rossi (se rientrerà, ma io credo di sì) e Balotelli; Osvaldo, come Matri, parte dietro, lasciando per un attimo da parte l'incognita Cassano. E nella zona nevralgica, Prandelli insiste  su De Rossi - Pirlo - Marchisio - Montolivo: Thiago Motta è la prima alternativa, anche se non escludo affatto possa trovare parecchio spazio in Polonia e Ucraina. 
Voglio dire, fossimo ai livelli dell’Italia di calcio a 5 di qualche anno fa, formata al 99 per cento da brasiliani naturalizzati, l’indignazione non solo sarebbe giusta, ma sacrosanta; mettersi in questa situazione a fare dei distinguo mi pare come discutere del sesso degli angeli.

ITALIA: PERDERE COL SORRISO. IL NUOVO BALOTELLI E LA DIGNITA' RITROVATA DELLE AMICHEVOLI

Uno a uno e palla al centro. Venerdì scorso, la Nazionale azzurra aveva rovinato ai polacchi il loro anniversario dell'indipendenza; ieri sera, è toccato agli uruguagi rovinare a noi la festa finale per i nostri 150 anni. Pari e patta, dopodiché restano le considerazioni tecniche su ciò che questo doppio impegno amichevole ha aggiunto e tolto al quadro della ricostruzione azzurra. 
Sarò sincero: anche nelle serate meno felici, sul piano del gioco e soprattutto del risultato, come quella di ieri, questa Nazionale non riesce proprio a non piacermi del tutto. C'è sempre qualche sprazzo, qualche idea, qualche trama che mi induce a pensare che non tutto sia da buttare, che ci siano basi più che solide per continuare a crescere. E per quanto mi riguarda non è poco, anzi è tantissimo. Seguo gli azzurri dagli anni Ottanta, raramente mi sono persa una partita, amichevole o "vera" che fosse; ho una memoria piuttosto solida e ricordo lunghi periodi della storia recente di questa squadra in cui, già prima del fischio d'inizio, c'era la discreta certezza di doversi mettere davanti al televisore per assistere a novanta minuti di noia, improvvisazione, gioco di disarmante povertà. E' avvenuto, e questo non lo perdonerò mai, anche  con  Nazionali assai più attrezzate di quella attuale sul piano del talento. 
Ora non è più così: ieri sera l'Italia ha perso, ma, Dio bono, ha lottato con animosità (certo non paragonabile a quella dei sudamericani, che anche in una fase storicamente favorevole come quella che stanno attraversando non riescono proprio a lasciarsi alle spalle antichi vizietti come quello dell'eccessiva fisicità e delle manfrine: peccato, roba da "mediocri", quali essi non sono), e, pur mancando della brillantezza altre volte sfoderata, ha tenuto pallino con insistenza, ha cercato il pari e lo ha sfiorato ripetutamente. Se in certe circostanze recenti (vedasi trasferta in Serbia) era emersa una certa difficoltà a produrre palle gol in proporzione alla gran mole di gioco creata, all'Olimpico è accaduto il contrario: dopo aver mancato il vantaggio con Balotelli in avvio, i nostri hanno collezionato occasioni: ancora due con Mario e una ciascuno per De Rossi e Osvaldo (quest'ultima clamorosa) nel primo tempo, poi con Pepe (grande parata di Muslera), Maggio e Balzaretti nella ripresa, per un pari che ci stava tutto. Quando si crea tanto, al di là del risultato che non ti sorride (ma occorrerebbe ricordare la caratura di un avversario che alla fine ha solo confermato la sua superiorità attuale, quarta al mondo e prima in Sudamerica, ricordiamolo), si può continuare a lavorare tranquilli. 
Lo stesso era accaduto a Cracovia, in una situazione tattica diversa: a fronte di avversari aggressivi, i nostri hanno saputo soffrire riducendo al minimo i rischi (i polacchi caricavano, ma di pericoli veri ne creavano pochi) e mostrato un gioco essenziale e pratico, per poi, una volta trovato il vantaggio, tornare a tratti a dispiegare un gioco arioso e un contropiede micidiale: raddoppio di Pazzini a parte, due errori di Matri hanno impedito al nostro primo successo da quelle parti di assumere proporzioni trionfali, prima che nel finale, col punteggio al sicuro, i biancorossi trovassero tardivamente continuità di gioco d'attacco sfiorando il gol della bandiera, fra un rigore sbagliato e un florilegio di tiri fuori bersaglio. 
E poi, beh, finalmente Balotelli. Arrivo tardi e tutti ne hanno già parlato: dicono che un giornalista che si rispetti non debba mai scrivere: "Io l'avevo detto, avevo ragione io". Non è elegante. Bene, siccome io non sono un vero giornalista e probabilmente mai lo diventerò, quest'obbligo di eleganza non ce l'ho e quindi dico che sull'attaccante del City avevo ragione, quando già c'era chi lo aveva scaricato dopo due anni di mattane. Non so quanti altri giovani italiani di talento del passato, giunti alla sua età, abbiano vinto quanto ha vinto lui, incidendo così tanto in tali vittorie. Già solo per questo, e per la verdissima età che porta inevitabilmente con sé mattane e inquietudini, poi certamente accresciute dal particolare carattere, un'apertura di credito era doverosa, visto che gli stessi giornalisti hanno avuto in passato molta più pazienza e indulgenza nei confronti di giocatori che non la meritavano, e che nel frattempo a furia di promesse non mantenute son diventati vecchi. Per tutto quanto detto, e per un talento che emerge evidente da ogni giocata, in Mario bisognava credere di più. Non che adesso il dado sia tratto e che le magnifiche sorti e progressive siano per lui segnate, ma l'efficacia, la personalità, la voglia mostrate in queste due gare ne fanno fin da ora uno dei potenziali craques di Euro 2012. 
Insomma, la nuova Italia c'è sempre, nelle serate felici e in quelle un po' più opache. E sta facendo riscoprire agli italiani il fascino e l'importanza delle amichevoli, considerate oggi dannose dai più. Un tempo non troppo lontano, queste gare "senza nulla in palio" avevano comunque una loro dignità, erano occasione per allenarsi, trovare l'amalgama, provare nuovi schemi e nuovi giocatori, aumentare l'esperienza internazionale. Per la verità in larga parte del mondo civile è così anche oggi, e le recenti serate dimostrano che si possono ancora organizzare sfide extralusso come Inghilterra - Spagna e Germania - Olanda riuscendo a dar loro dignità agonistica e decente contorno di pubblico, mentre dalle nostra parti l'atteggiamento dei club, avallato colpevolmente da certa stampa, prevede l'obbligo di storcere la bocca di fronte a partite azzurre "inutili". Ecco, se la nuova Italia di Prandelli e Balotelli riuscirà a limitare anche questo disdicevole andazzo, figlio diretto delle brutture del calcio contemporaneo, da parte mia avrà un applauso in più. 

giovedì 3 novembre 2011

LE MIE RECENSIONI: "BAR SPORT"

Spesso un battage pubblicitario invasivo, capillare, sistematico, serve solo a mascherare un drammatico vuoto di idee. E' una delle riflessioni a cui sono stato indotto dalla visione di "Bar sport", il film tratto dall'omonimo libro di Stefano Benni. La promozione mediatica è da considerarsi come la parte più riuscita della pellicola, il che è tutto dire. Il "tutti al cinema!" urlato dalla grancassa televisiva tramite ospitate - happening come quella di Bisio e Teocoli da Fabio Fazio ha senz'altro avuto il suo effetto, sul piano delle presenze nelle sale, ma dietro la facciata di lustrini e paillettes c'è poco, quasi nulla. 
"Bar sport" rappresenta un passo falso per un cinema di cui, giusto una settimana fa parlando di "Ex", raccontavo la ripresa e la capacità di produrre ancora opere gradevoli e interpreti convincenti. Il film ha bensì delle pretese autoriali, didascaliche, la voglia di tratteggiare uno spaccato di una certa società di una certa provincia italiana collocabile nel periodo fine Sessanta - primi Settanta, ma ci riesce solo in minima parte e comunque attraverso personaggi caratterizzati in maniera caricaturale e tutto sommato abbastanza banale. Dal barista tirchio alle bellone maggiorate (e un po' stagionate) di periferia, fino al  "fo' tutto mì" che vuol dire sempre la sua in ogni occasione, è tutto un dejà vu nemmeno troppo riuscito. 
La sceneggiatura è sostanzialmente debole, e soprattutto non supporta adeguatamente un cast pieno di talenti veri: soprattutto talenti della risata, che però, nella circostanza, di sorrisi ne strappano ben pochi, e si sa che non c'è peggior comico di quello che non fa ridere. E non si venga sa dire che la comicità non fosse l'obiettivo primario del film, perché la scelta degli attori è emblematica  e comunque è palese lo sforzo di suscitare ilarità, solo che non ci si riesce se non raramente. 
Nel dettaglio, Bisio pare un po' al di sotto dei suoi standard, pur se il personaggio del tuttologo da bar che in realtà sa poco o niente sembra essere nelle sue corde e alla fine viene reso in maniera abbastanza dignitosa; Teocoli appare financo malinconico nell'ennesima riproposizione del viveur ballerino avanti con gli anni che racconta di imprese amorose mai realizzate; non si sentiva il bisogno dei ripescaggi di Vito, sempre uguale a se stesso, e di Bob Messini (che non vedevo dai tempi del Drive In, ma è sicuramente un mio demerito). Casomai, più riusciti sono i personaggi del giovane in preda alle pene d'amore e schiavo del telefono (Alessandro Sampaoli), delle due vecchiette che trascorrono la vita al tavolino del bar a "ciattellare", come si dice a Genova (Angela Finocchiaro e la deliziosa Lunetta Savino) e del ragazzino scavezzacollo, potenziale campione di ciclismo perennemente con le ginocchia sbucciate (Michael Galluzzi). Lodevole anche la surreale partecipazione di Cornacchione, che dall'inizio alla fine tenta di far funzionare l'insegna del bar, con risultati che non è difficile immaginare. Abbastanza insignificante il cameo di Claudio Amendola, alla cui comparsa in chiusura è legata anche la soluzione del caso "Luisona", ossia la pasterella enorme ed ipermegacalorica esposta da anni nel bancone del bar e che, per comprensibili ragioni, mai nessuno ha osato mangiare. Anche in questo caso, però, una delusione: il finale della vicenda che è un po' il filo conduttore dell'intera storia risulta un po' troppo banale e scontato, quando ci si sarebbe aspettati una conclusione più bizzarra. 
In definitiva, pochi personaggi azzeccati e valorizzati da prestazioni individuali di tutto rispetto rendono meno fallimentare il bilancio di una sceneggiatura inconsistente. Assieme ad alcun trovate di scrittura che ricordano un po' certe invenzioni di Luciano Salce (in stile "Basta guardarla"): penso soprattutto alle animazioni (disegni originali ed efficaci) degli inverosimili racconti ciclistici e calcistici di Bisio e certi oggetti (come le carte da gioco) che prendono vita anch'essi in forma di cartone o di fumetto. Troppo poco, lo ripeto, per un prodotto iper pubblicizzato come questo. 

martedì 25 ottobre 2011

LE MIE RECENSIONI: EX - AMICI COME PRIMA

Chi l'ha detto che il cinema italiano non sia più in grado di produrre commedie leggere di qualità, nel solco della più creativa e prospera tradizione nostrana? Certo, è pur vero che personaggi come Sordi, Manfredi e Tognazzi padre, e i tanti film che li videro protagonisti, rimangono al momento inavvicinabili, ma sarebbe ingiusto negare il fatto che stia finalmente sbocciando una generazione di attori brillanti e talentuosi, capaci di inondare di brio e di felici trovate le sceneggiature loro affidate. 
"Ex - Amici come prima" di Carlo Vanzina, da qualche settimana nelle sale, è un esempio di quanto detto. La pellicola si snoda attraverso le diverse vicende  di una serie di coppie che… scoppiano e si riaccoppiano: c'è chi, come Vincenzo Salemme e Tosca d'Aquino, nei panni di un importante uomo politico italiano e dell'avida moglie, sembra inizialmente andare d'amore e d'accordo, ma in realtà il fuoco cova sotto la cenere e a far esplodere il dissidio sarà nientemeno che il premier di un immaginario Paese dell’Est europeo (Repubbliche baltiche), impersonato da Natasha Stefanenko; c'è chi vive momenti di dubbi e di tentazioni appena dopo le nozze, come il neo sposino Enrico Brignano con la fin troppo premurosa Teresa Mannino, e c'è infine chi si ritrova single e la prende molto molto male (Ricky Memphis e Gabriella Pession) o con il piglio dell'uomo e della donna di mondo rotti a tutte le esperienze (Alessandro Gassman e Anna Foglietta), ma finisce comunque col ritrovare l'amore attraverso le vie più tortuose e impensate. 
Il risultato è un filmetto agile e gradevole, sostenuto da una sceneggiatura magari non originalissima ma solida e priva di autentici tempi morti (il mestiere della Vanzina family emerge in tutto il suo spessore), impreziosita da un cast assemblato con sapienza e ottimamente amalgamato, con interpreti persino sorprendenti per vivacità e brillantezza. Se Gassman è un animale da palco e da pellicola che nella parte dell’uomo vissuto, affascinante e spiritoso eppur romantico trova la sua collocazione ideale, Teresa Mannino non avverte minimamente il passaggio dal piccolo schermo, con i suoi tempi comici e i suoi schemi, alla ribalta cinematografica. Gabriella Pession abbina all’indubbio fascino anche una spontaneità recitativa e una vis comica su cui presto ritorneremo in altro articolo, mentre non sorprende Enrico Brignano, una macchina da risate e un geniale improvvisatore (certe scene, in effetti, sembrano reggersi anche su alcune sue intuizioni “a braccio”, cosa che del resto tutti i grandi comici del passato hanno ammesso di aver fatto spesso durante le riprese dei loro film).
Paolo Ruffini continua a recitare la parte del giovin toscanaccio giovialone, sempre allegrotto e disinvolto negli atteggiamenti e nel linguaggio: bene, è il suo momento e per ora è giusto così, a patto che non finisca col rimanere prigioniero del personaggio. Forse un po’ troppo impostata e schematica la splendida Anna Foglietta, non del tutto convincente Memphis nel ruolo del single disperato, sorprendente la Stefanenko, credibile nelle vesti seriose dell’eminente personalità politica e in quelle dell’amante sospesa fra tentazione dell’avventura e rispetto per un marito che non la rende felice; la coppia Salemme – D’Aquino strizza un po’ troppo l’occhio a certi abusati cliché della napoletanità (abbastanza pesantuccia e stucchevole la storpiatura in chiave… baltica del brano “Funiculì funiculà”, che l'attore usa per conquistare la bella Natasha) ma ne esce tutto sommato bene, soprattutto la versatile Tosca, non più solo ridanciana e solare ma in versione carrierista e acchiappa – soldi.
Non mancano le scene destinate a diventare autentici cult: la lettera immaginaria e improvvisata di Brignano alla moglie Teresa Mannino, e il single impenitente Ruffini che viene aiutato a infilarsi un preservativo dai disinvolti familiari dell’amichetta di turno.  Nulla di originale (la scena della lettera è una pietra miliare del cinema italiano, e leggo in rete che anche quella del profilattico non è una novità assoluta) ma se le variazioni sul tema sono ben riuscite, che male c’è? Infine, anche qualche velato riferimento, nei dialoghi Stefanenko – Salemme, alla attuale situazione italiana, ossia alla moralità privata dei politici in quanto personaggi pubblici. Ci può stare.  

lunedì 24 ottobre 2011

SIMONCELLI E L'ASSURDO DI ESSERE UCCISI DALLA PASSIONE DI UNA VITA

Di fronte alla morte, trovare parole che non sconfinino nella retorica pelosa del "sono sempre i migliori quelli che se ne vanno" è terribilmente difficile, almeno per me. Il silenzio sarebbe la risposta migliore, eppure c'è una rabbia sorda che senti salire dentro e che devi esternare, in qualche modo. Conoscevo Marco Simoncelli solo per immagini, servizi e interviste guardati distrattamente in tv e su Internet. Nulla so delle sue gesta e del suo curriculum da centauro, perché non seguo gli sport motoristici, e anzi ho sempre avuto una certa difficoltà a considerare come sport autentici l'automobilismo e il motociclismo. Più in generale, non amo le due ruote, né come mezzo di trasporto della nostra quotidianità, né tantomeno come "strumento di lavoro" per atleti professionisti. Sono protagoniste, dirette o indirette, della morte di un'infinità di giovani, ogni giorno, in ogni parte del mondo, in circostanze del tutto diverse fra loro ma con un unico, orribile finale: sangue e corpi esanimi sull'asfalto, a volte di una pista, molto più spesso di una strada. 
Fra le tante cose che ho letto e sentito oggi, c'è il sollievo espresso da molti al pensiero che Marco sia comunque morto nel pieno dell'esercizio di una professione che, per lui, era soprattutto la passione di una vita intera. Beh, non sono d'accordo. Non esistono valori (no, nemmeno la Patria), lavori o passioni per cui valga la pena rischiare la pelle, o che rendano più leggera  la sfida alla morte e, in chi resta, più sopportabile il dolore per il trapasso. Di più: morire a causa di ciò che fino a pochi istanti prima è stato solo fonte di gioia e ragione di vita è atroce. E' un non-senso. Anzi, un tradimento bello e buono del destino, o di ciò che presiede alle nostre esistenze, qualsiasi cosa sia. Se poi a morire per questi futili motivi è un ragazzo poco più che ventenne, con una vita intera davanti, beh, al di là dello sgomento ti viene davvero voglia di spaccare qualcosa. Come amo dire spesso in certe circostanze, con un'espressione forse un po' infantile ma che mi tengo stretta, morire a certe età dovrebbe essere semplicemente vietato.
Simoncelli e gli altri che purtroppo lo hanno preceduto amavano le due ruote, vivevano per esse, ad esse hanno sacrificato tempo ed energie per sperare, un giorno, di venirne ripagati. Certo, non gliel'ha consigliato il medico di mettersi a cavallo di una moto per lavoro, e sapevano dei grossi rischi cui si può andare incontro. Anche su questo ci sarebbe da discutere: negli ultimi anni si è fatto sempre un gran parlare degli elevatissimi livelli di sicurezza raggiunti dal circuito motomondiale, fra corazze per i piloti e sistemi elettrici per le moto. D'accordo, c'è sempre l'imponderabile, ma al di sopra di tutto rimane il fatto che una disciplina sportiva non dovrebbe contemplare "per statuto" la possibilità di lasciarci le penne. Cosa che può accadere in tutte le attività agonistiche, beninteso, ma fortuitamente: nella motoGP, invece, l'uso del mezzo e le velocità folli ti fanno già mettere in conto che una gara la puoi iniziare, ma potresti non vederne la fine, perché magari vieni strappato via da questa terra prima di scorgere la bandiera a scacchi del traguardo. Parlando di sport, e non di guerra, queste "regole" sono inaccettabili. 
Un pensiero controcorrente e che rasenta l'assurdo, me ne rendo conto, essendo riferito a uno show business che va avanti da decenni e che continuerà dopo questa tragedia, in quanto circondato da entusiasmo genuino e da interessi economici enormi. Ma mi conforta, questo sì, che simile riflessione l'abbia fatta anche chi di motociclismo vive davvero. Penso a Mattia Pasini, collega e fraterno amico di Simoncelli, che su Facebook ha scritto: "Sono convinto che te ne sei andato facendo quello che amavi, ma questo non serve a riempire il vuoto che ci hai lasciato. Sto riflettendo se realmente ne vale la pena, fare sacrifici, rischiare la pelle, dedicare tutta la vita x rimanere un ricordo....sappi però che se andrò avanti x inseguire quel sogno lo farò per te!". Già: vale la pena rischiare la pelle per rimanere un ricordo?
Addio Marco, ti sia lieve la terra. 

giovedì 20 ottobre 2011

SANREMO: COME SARA' IL MORANDI BIS?

Dunque, tocca di nuovo a Morandi. Il padrone di casa del Festival di Sanremo sarà ancora lui. In attesa di vedere come sarà composto il gruppo di lavoro col quale il Gianni nazionale condividerà questa esperienza, ecco qualche valutazione in libertà. 
E' decisamente una scelta in controtendenza rispetto agli standard delle ormai numerose "gestioni Mazzi". I Festival svoltisi sotto l'egida dell'attuale direttore artistico si sono sempre contraddistinti per il vorticoso, continuo ricambio dei presentatori. Di più: non si trattava soltanto di cercare ogni anno un diverso anchorman (o anchorwoman), ma di trovare un personaggio e un'idea di conduzione e di spettacolo sempre nuova, sempre originale, sempre spiazzante anche solo rispetto all'anno precedente. Nulla di male, direte voi: l'effetto novità dev'essere alla base di ogni spettacolo televisivo. Certo, ma il Festival di Sanremo è uno spettacolo sui generis: almeno per noi nostalgici, il festivalone rimane essenzialmente una rassegna canora, una passerella competitiva di cantanti più o meno noti e più o meno giovani, una vetrina per la musica italiana. Tale dovrebbe essere anche oggi, anzi, a maggior ragione, essendo rimasto in pratica l'unico spazio televisivo di un certo spessore dedicato alla promozione della canzone leggera di casa nostra. E tuttavia, tocca accettare il fatto che, da quando la Rai ne cura direttamente l'organizzazione, e ancor più nell'ultimo decennio, l'aspetto spettacolare, le caratteristiche di show di matrice... catodica abbiano preso il sopravvento sulla tenzone canzonettistica. 
Quando Sanremo era veramente Sanremo, non era necessario cercare ogni anno una formula di conduzione diversa e sorprendente: potevano esserci dieci edizioni di seguito con Bongiorno o con Baudo, tanto ciò che contava era il contenuto musicale. Se proprio qualcosa di originale doveva essere inserita nello spettacolo, occorreva cercarla nell'allestimento del cast degli artisti in gara, andando ad esempio a pescare qualche nome distante dagli standard festivalieri. Ecco, la scelta effettuata quest'anno, cioè quella di confermare il mattatore del 2011, potrebbe anche essere incoraggiante in questo senso: meno tempo e meno risorse da impiegare per la scelta di un nuovo padrone di casa (anche se c'è da mettere insieme il suo gruppo di lavoro sul palco, collaboratori e collaboratrici, ma quello è il meno, se così si può dire), e più energie da rivolgere alla composizione di un cast di concorrenti qualitativo e in grado di reggere, da solo o quasi, la sfida dell'audience, anche alla luce di un regime di austerity economica della tv pubblica che, come già si era intuito l'anno passato, renderà assai difficile l'arrivo in forze di costosissime guest stars d'oltrefrontiera. 
Il cast, dunque. Da comporre pazientemente cercando di prendere il meglio delle ultime tre edizioni targate Mazzi, e colmando i buchi neri emersi. L'ultimo triennio della rassegna, che ha visto oltretutto un prepotente rilancio in termini di ascolti televisivi, si è caratterizzato in primis per una cospicua valorizzazione del vivaio sanremese: c'è stato il lancio di artisti di spessore come Arisa, Malika Ayane, Karima, Simona Molinari, Irene Fornaciari, Nina Zilli e Raphael Gualazzi (quest'ultimo addirittura secondo all'ultimo Eurofestival), e c'è stato il coraggio di proporre tanti giovani virgulti, sbocciati in un recente passato sul palco dell'Ariston, anche nella categoria regina del Festival, quella dei Big, fatto avvenuto in maniera massiccia nel 2010, con la partecipazione dei vari Cristicchi, Moro, Sonhora, Povia e le già citate Arisa e Malika. E se nell'ultimo anno sono ricomparsi volti un po' logori (un po' tanto, a dire il vero) come Al Bano e Patty Pravo, è anche vero che Morandi e il suo staff si sono riscattati portando a gareggiare cantautori solitamente allergici alle gare canore, come Vecchioni e Battiato (pur se quest'ultimo con una presenza piuttosto distaccata e sussiegosa e con la rimasticatura di un suo vecchio successo, cosa che personalmente non gli perdono). 
Ecco, questi sono i cardini su cui impostare l'allestimento di un buon "cartellone" per Sanremo 2012. Cercando al contempo di non ripetere gli errori commessi: la gara delle Nuove proposte relegata a orari impossibili e quasi clandestina, in mezzo ai vari momenti di spettacolo; il ricorso, cui si accennava poc'anzi, a cantanti, ci si consenta, passati di cottura, che sarebbero parsi fuori tempo massimo già in un Festival degli anni Ottanta, non dico nel Duemila. Tra l'altro, questa illimitata apertura di credito ai vari Leali, Zanicchi e Patty Pravo ha invece tolto spazio vitale a quella che io chiamo la generazione di mezzo, tutti quei cantanti saliti alla ribalta negli anni Novanta e agli inizi di questo secolo, i vari Di Cataldo, Vallesi, Groff e Salemi che avrebbero avuto, e hanno, tanto bisogno della kermesse rivierasca per mantenersi in quota. Ecco, la speranza è che fra poco più di quattro mesi si trovi un po' di spazio anche per loro.
Dovrebbe invece ridursi l'influsso dei talent, obiettivamente pesantissimo ed eccessivo nelle ultime edizioni.  Amici non ha proposto di recente alla ribalta sensazionali rivelazioni (casomai c'è da vedere se Alessandra Amoroso, talento vero, accetterà finalmente di mettersi in gioco all'Ariston), non si sa ancora quale impatto potrà avere X Factor nella nuova versione "satellitare", anche perché arriva subito dopo il clamoroso fallimento (dove il termine fallimento risulta riduttivo...) del suo erede targato Rai, Star Academy, chiuso per disperazione dopo tre puntate. E un ultimo consiglio: allargare, anche di poco, la schiera dei cantanti in gara (magari portando i Big da 14 a 16) e il numero di concorrenti partecipanti alla finale: l'anno scorso solo in dieci arrivarono al sabato, troppo pochi, e la serata venne riempita con momenti di spettacolo che in realtà lasciarono un grande vuoto (Ranieri bravissimo, per carità, ma inspiegabile la sua esibizione fiume, essendo un artista già massicciamente presente nel corso dell'anno sulla tv pubblica). Perché, ad esempio, non riservare all'atto conclusivo anche la gara finale fra i giovani, che così potrebbero contare su un bel po' di visibilità in più? 

giovedì 13 ottobre 2011

DUE O TRE COSE SU CASSANO

Tormentone Cassano. I vizi, le virtù e le inquietudini del discusso "mezzo fuoriclasse" barese sono tornati prepotentemente alla ribalta nelle ultime ore. Inevitabile, sia per la bella prestazione contro l'Irlanda del Nord, degna chiusura dell'eccellente girone di qualificazione europeo azzurro, sia per le sue dichiarazioni post gara, snodatesi tra un bagno di umiltà ("Ho vinto poco? Se uno vince tanto o poco se lo è meritato") e propositi di abbandono ("Voglio fare altri tre anni bene e poi smettere"). 
Premesso che certe dichiarazioni, come il 99 per cento di quelle di ogni uomo di calcio, lasciano il tempo che trovano, e che vanno ad arricchire l'infinita collezione di una "cassaneide" oltremodo stucchevole (fatta di alti e bassi, ascese e ricadute, dichiarazioni sagge e altre da mattocchio, di un "tutto e il contrario di tutto" specchio di una personalità tumultuosa e contraddittoria), ciò che mi preme in questa sede è esporre la mia posizione sul giocatore e sul suo percorso professionistico. Non amo parlare sulla scia dell'ultima impressione: quando qui a Genova, da parte di certa stampa compiacente, si tessevano le lodi di un Cassano ormai maturo e distante anni luce dai colpi di testa di un tempo, ero fra i pochi (per chi mi conosce, visto che all'epoca non avevo un blog in cui esprimere le mie opinioni) a mostrare scetticismo su questa improvvisa conversione, e i fatti successivi un po' di ragione me l'han data. Insomma, ho sempre cercato di andare oltre la facciata e le verità ufficiali, cercando di valutare le cose a tutto tondo. 
SEGNO DEL DESTINO? - Quando Cassano fece la sua fragorosa comparsa sulla scena calcistica nazionale (ricordiamolo: Bari - Inter del dicembre 1999, gol strepitoso a Ferron) anch'io fui tra quelli che pensarono che una prodezza del genere non potesse essere un caso, ma che stesse per nascere un nuovo fenomeno del football internazionale. Una parentesi: mi colpiva, in quegli anni, una singolare coincidenza, che all'epoca, nella mia ingenuità, interpretai come un sicuro segno del destino: il barese è un classe '82, oltretutto nato il 12 luglio, il giorno dopo la finale mondiale che aveva regalato all'Italia l'ultimo (in quel momento) titolo iridato. Un altro giovane virgulto che sarebbe esploso qualche anno dopo, Alberto Gilardino, è anche lui un '82, nato il 5 luglio, stessa data della memorabile sfida Italia - Brasile. Ecco, io speravo che in un giorno non lontano potessero essere proprio questi due fuoriclasse in pectore, venuti al mondo nei giorni della massima gloria di Zoff, Pablito e compagni, a riportare in Italia la Coppa FIFA, nel segno di un ideale fil rouge fra le due conquiste. 
I PRIMI FUOCHI D'ARTIFICIO - Poi, le cose sono andate un po' diversamente. Gila non ha rispettato in toto le folgoranti promesse di inizio carriera, ma ha fatto comunque una carriera di alto livello, diciamo pure da campione, e un Mondiale l'ha vinto, anche se non da protagonista assoluto. Il barese avere iniziato bene: fiammate e mattane nella Roma di re Totti, ma anche un ottimo Europeo nel 2004: gettato nella mischia per disperazione da Trap dopo il deludente esordio con la Danimarca, lo ripagò con un gol alla Svezia (vanificato dalle tremarelle tattiche del CT) e un altro alla Bulgaria, per una vittoria che non evitò l'eliminazione. Lippi voleva farne un cardine della sua prima gestione, tanto da arrivare a dire: "Vedrete che Antonio si stuferà di giocare in Nazionale". Alcune prove incoraggianti, come quella di Milano con la Scozia, poi il passaggio al Real, dove recitò da comparsa e anche meno. Fu l'inizio di un periodo nero, in cui personalmente cominciai a nutrire seri dubbi sulla effettiva consistenza del fenomeno Cassano. Fuori dal giro azzurro, salvo una fugace apparizione all'inizio dell'era Donadoni, poi l'approdo alla Samp, quando già la schiera dei suoi estimatori si era assottigliata. 
LA SUA VERA DIMENSIONE - L'esperienza genovese, conclusa in modo traumatico ancorché "misterioso", ha dato secondo me la vera misura del giocatore Cassano. In sintesi: il fuoriclasse promesso non è mai veramente sbocciato: forte coi deboli, raramente decisivo nelle grandi sfide a livello nazionale (eccezion fatta per alcune rimarchevoli prestazioni nella stagione 2009/10, irripetibile per la Sampdoria ed, evidentemente, anche per lui), praticamente mai nei big match internazionali. Lo ho dimostrato nel deludente Euro 2008, con prestazioni "da compitino", e lo ha ribadito anche nel girone eliminatorio appena concluso: sei gol, sì, ma due alle Far Oer, due all'Estonia e due all'Irlanda del Nord sperimentale di Pescara. Nelle sfide decisive con Slovenia e Serbia è toccato ad altri togliere le castagne dal fuoco. Ecco perché l'ho chiamato "mezzo fuoriclasse". Alzi la mano chi si ricorda, contro squadre di primissimo piano, una prestazione azzurra all'altezza della sua fama. Forse l'amichevole agostana con la Spagna: ma, per quanto anch'io abbia ritenuto importante quel match nel percorso di crescita della Nazionale, sempre di amichevole si trattava.
SOPRAVVALUTATO - Ingeneroso? Forse, perché in fondo son sempre gol che portano punti, e fan comodo anche quelli. Ma son gol relativamente facili, contro avversari di seconda o terza schiera: non è questo ciò che si sarebbe dovuto chiedere a uno come lui. Da potenziale top player a gingillo umorale, utile a scardinare difese magari non trascendentali, ma contro le quali può capitare che altri attaccanti, meno fantasiosi e in giornata no, finiscano per sbattere la testa senza risultati. Utile, insomma, ma da qui ad averne fatto, come ha deciso Prandelli, uno dei cardini della ricostruzione azzurra il passo è stato per me troppo lungo. Il giocatore, di occasioni per mostrare il suo valore ne ha avute a bizzeffe: Roma, Real, Milan, Nazionale e Champions League. Ha quasi trent'anni e quello che ha fatto è sotto gli occhi di tutti. 
GERARCHIE - Per questo, molto modestamente, ritengo azzardato puntare forte su di lui ora che l'asticella sta per alzarsi, ora che non avremo più di fronte le suddette rappresentative, ma compagini di tutt'altro spessore. Pazzini, Rossi e Balotelli, ciascuno per motivi diversi, meritano più di Fantantonio la possibilità di giocarsi i posti in prima linea. Altrimenti, non vorrei si ricreasse la "sindrome Del Piero". Ricordate? Tutti i commissari tecnici che si succedevano sulla nostra panchina continuavano inspiegabilmente a puntare su di lui, quando era ormai acclarato che Pinturicchio avesse una particolare idiosincrasia per gli impegni ultimativi in maglia azzurra, nelle fasi finali di Europei e Mondiali. E Del Piero è uno che in carriera ha fatto mille cose più di Cassano.  
Per questo, al momento, preferisco non partecipare al coro di osanna per l'Antonio ritrovato. Quante volte l'abbiamo ritrovato? E quante volte lo abbiamo (e si è) perso? Se poi, in Polonia e Ucraina, saprà fare per la prima volta in carriera quello che avrebbe dovuto fare tantissime volte, visto il talento donatogli da madre natura, ossia vincere qualcosa da protagonista, beh, nonostante quello che ho scritto non sarò certo meno felice di altri!

domenica 9 ottobre 2011

UN'ITALIA "QUASI" EUROPEA

Per mezz'oretta, è stata già un'Italia da Europeo: spietata, autoritaria, sicura di sé, in poche parole "adulta". Partite come quella di venerdì sera al Marakanà rappresentano la dimostrazione di quali ancora siano, nonostante la cattiva gestione politica e finanziaria, i disagi dei vivai e l'invasione straniera che sta soffocando le nuove leve nostrane, le enormi potenzialità del nostro movimento calcistico, della nostra scuola. Si badi, non si sta parlando qui della caratura tecnica della squadra azzurra: ho già scritto, e lo ribadisco, che abbiamo avuto, eccome, Nazionali più forti di questa. Il riferimento è alle risorse di talento e di classe in dote al nostro calcio, che in una congiuntura così critica come quella attuale hanno comunque permesso un rinnovamento dei ranghi tale da portarci a una resurrezione fragorosa, a poco più di un anno da uno dei più colossali disastri nella storia della nostra rappresentativa. 
Quindici mesi fa, subito dopo il Mondiale, i più pessimisti parlavano di anno zero per il nostro calcio, i più ottimisti dicevano che, pur dovendosi attendere un miglioramento, sarebbe stato difficile rivedere l'Italia su livelli decenti in tempi brevi. La squadra di Prandelli, invece, ha bruciato le tappe. Il 2011 è stato un anno di esami superati: c'era quello, fondamentale, della qualificazione europea, perché puoi crescere finché vuoi ma se non ottieni risultati tutto viene vanificato; e poi c'era quello, ben più importante in prospettiva, della valutazione della caratura internazionale del gruppo azzurro. Caratura internazionale ridotta ai minimi storici dalla seconda, sciagurata gestione Lippi.
Dopo gli impacci della prima fase della nuova era, culminata nell'orrida amichevole di Klagenfurt con la Romania (saggio di non gioco all'ennesima potenza), il test di febbraio a Dortmund con i tedeschi ha fatto scattare la scintilla: al cospetto di una delle Nazionali al momento più forti al mondo (dopo il Mondiale, la conferma nello strepitoso ruolino di marcia nel girone di qualificazione europeo, fatto di sole vittorie), i nostri hanno sfoderato gli artigli, giocando a testa alta e senza paura e strappando un meritato pareggio in rimonta. Il gruppo ha assunto una fisionomia tecnica e tattica definita e ha visto sbocciare prepotentemente la propria personalità, liberandosi nel contempo dell'enorme carico psicologico ereditato dai disastri mondiali: dopo, tutto è venuto di conseguenza. Le vittorie in Slovenia e Ucraina, l'affermazione agostana sulla Spagna, il successo qualificazione ostinatamente inseguito e alfine raggiunto nel retour match con gli sloveni a Firenze e, a coronamento, il pari di Belgrado. Tutti risultati ottenuti mai rinunciando al gioco, che magari procede a strappi e non sempre attinge vette di eccellenza, ma c'è, si vede, e si vede la volontà della squadra di voler manovrare, costruire, senza più affidarsi a soluzioni caotiche ed estemporanee. 
Torniamo dunque al punto di partenza: al Marakanà, la prima mezz'ora è stata giocata su livelli che, già da ora, ci consentirebbero di affrontare il viaggio in Polonia e Ucraina con legittime speranze. Autorevolezza, concretezza, carattere. Giocatori senza più tremarella al cospetto dei grandi impegni internazionali (la crescita impetuosa di Marchisio ne è il miglior emblema), capaci di reggere alla pressione di un ambiente caldo e ostile con la forza dei nervi distesi. Si dirà: con la qualificazione in tasca si gioca più tranquilli. Già, ma con la qualificazione in tasca si può anche andare su certi campi a sbracare e a prendere sonori ceffoni. In circostanze ambientali oggettivamente sfavorevoli e contro una compagine comunque di buona grana tecnica, i nostri hanno esercitato un predominio tattico e di manovra evidente, a tratti irretendo perfino l'avversario. 
Poi, non essendo ancora al livello delle grandi, è chiaro che non potesse durare. Germania  e Spagna, già qualificate, hanno vinto sui campi di grosse squadre che si giocavano tutto o quasi, Turchia  e Repubblica Ceca. A noi, questo killer instinct ancora manca, ma la sensazione è che stia prendendo forma. Il resto l'ha fatto la furia serba, di fronte alla quale del resto sono andate in difficoltà, in passato, anche compagini azzurre più scafate di quella attuale (penso all'Italia del Trap del 2003, evocata nel mio precedente post, o a quella bearzottiana che nell'81, da quelle parti, soffrì le pene dell'inferno, uscendo indenne grazie alle prodezze di Zoff). 
Rimane, a parte il punto, un patrimonio prezioso da salvaguardare. Un patrimonio di mentalità e personalità. E qualche problema tattico e tecnico da risolvere: Chiellini, ad esempio, è meglio che ritorni al centro, perché sulla fascia non è più in grado di fornire quello sprint nelle proiezioni che sanno dare Criscito e Balzaretti. Il centrocampo si sta rivelando la sorpresa più piacevole di questa Italia: è necessario però che gravi meno lavoro sulle spalle di questo splendido Pirlo,  e che Montolivo si assuma più responsabilità e lavori più palloni: ha le doti per diventare un autentico califfo della zona nevralgica, è cresciuto molto ma da lui è lecito attendersi ancora di più. Detto di un Marchisio cursore e incursore devastante, c'è un attacco che deve concretizzare di più: a Belgrado si poteva andare sul 2-0, Rossi in azzurro continua a sbagliare troppo sotto porta, ma il suo contributo di vivacità e di soluzioni offensive resta fondamentale. Abbinarlo ad attaccanti leggeri come Cassano però non è il massimo, secondo me: Pazzini e Balotelli meritano la maglia da titolare, Matri rimane una eccellente alternativa e il cittì crede molto in Osvaldo, a proposito del quale non si comprendono le perplessità sulle sue origini: il ragazzo è italo - argentino e ha già fatto parte della nostra Under 21, perché mai non potrebbe giocare nella rappresentativa maggiore? 
In vista di Pescara, ha ragione il tecnico a non voler rivoluzionare la formazione, per non rischiare l'effetto Cipro (l'ultima partite delle ultime eliminatorie mondiali, che Lippi, già qualificato, affrontò con un undici inedito rischiando una sconfitta storica, prima che Gilardino gli togliesse le castagne dal fuoco), ma c'è la necessità di far crescere l'esperienza internazionale di giocatori che potranno venir utili, come Sirigu, Astori, Aquiliani e Giovinco. 

mercoledì 5 ottobre 2011

AMARCORD: SERBIA - ITALIA DEL 2003, L'ILLUSIONE AZZURRA DEL TRAP

Serbia - Italia è una sfida quasi inedita. Chiariamo subito: di precedenti, con la vecchia Jugoslavia unita, ce ne sono a bizzeffe, quasi tutti storicamente significativi, alcuni di grandissima rilevanza (pensiamo solo alla doppia finale dell'Europeo '68 a Roma, l'unico finora vinto dagli azzurri). Ma, tutti lo sapranno però è sempre meglio ribadirlo, la mitica selezione plava, così come l'abbiamo conosciuta fino agli anni Novanta, era un'altra cosa: c'erano dentro serbi, croati, bosniaci, sloveni, macedoni, montenegrini, insomma, tutte le etnìe di quel martoriato Paese. Dal '91 in poi, in seguito ad eventi politici e bellici che sarebbe lungo e anche improprio rievocare in questa sede, le varie realtà hanno via via acquisito autonomia anche sportiva, prima la Slovenia e a seguire tutte le altre. 
La Jugoslavia, pur ridotta in pratica alle sole Serbia e Montenegro,  mantenne comunque il suo nome, anche calcisticamente, fino al 4 febbraio del 2003, e in tale veste iniziò le qualificazioni a Euro 2004: il confronto con l'Italia giocato a Napoli nell'ottobre del 2002, e chiusosi sull'1-1 (Mijatovic e Del Piero in gol, quest'ultimo con una deviazione avversaria), rappresentò di fatto l'ultimo confronto fra la nostra rappresentativa e quella slava. 
NASCE LA SERBIA - MONTENEGRO - Poco meno di un anno dopo, settembre 2003, gli azzurri trovarono in campo, per il retour match di Belgrado, la nuova rappresentativa della Federazione di Serbia e Montenegro. Ed è questo l'unico precedente ufficiale (ossia coi tre punti in palio) autentico fra le due squadre, al quale fece seguito, nel giugno 2005, un'amichevole disputata a Toronto, nell'ambito di una tournée della selezione di Lippi, e chiusasi sull'1 a 1 (Lucarelli a segno per noi). Si tratta comunque di due precedenti "spuri", perché ben presto anche i montenegrini acquisiranno totale indipendenza anche sui campi di football, e avranno proprio con noi uno dei primi confronti ufficiali, nell'ambito del girone eliminatorio per la Coppa del Mondo in Sudafrica. Ma questa è un'altra storia... 
LA SECONDA ITALIA DEL TRAP - Torniamo dunque a quel confronto di otto anni fa. Era la... seconda Italia targata Trapattoni. La prima, nata e cresciuta fra l'entusiasmo generale, aveva affrontato il Mondiale del 2002 nel ristretto novero delle grandi favorite, ma ne era uscita con le ossa rotte agli ottavi, per fattori esterni (alcuni arbitraggi furono effettivamente vergognosi, e il più scandaloso non fu certo quello famigerato di Byron Moreno nel confronto con la Sud Corea) ma anche interni, ossia rendimento nettamente sotto le attese di diversi protagonisti (in primis Totti, che doveva essere una delle grandi figure del torneo) e clamorosi errori e incertezze di gestione, da parte dei uno dei tecnici più vincenti nella storia del calcio italiano e internazionale. Insomma, si cadde dall'alto e ci si fece malissimo, tanto che la squadra continuò per mesi a portare i segni di quella traumatica esperienza: il dopo - Mondiale, apertosi con una sconfitta con la Slovenia già rievocata su questo blog, proseguì con un incerto avvio nelle eliminatorie europee culminato con la sconfitta in Galles. A quel punto, e si era nel tardo autunno del 2002, la qualificazione per il torneo continentale pareva compromessa, e la panchina del Trap, a cui il presidente federale Carraro aveva rinnovato la fiducia dopo la Corea (non si è mai capito se per convinzione autentica o per... mancanza di alternative immediate) terribilmente traballante. 
Fu a quel punto che ci fu una piccola svolta: il tecnico decise di smuovere l'ambiente aprendo le porte della squadra a giocatori non di primissimo piano, sul piano della militanza di club e dello spessore tecnico, eppure meritevoli di una considerazione che, fino a quel momento, era stata loro negata. A partire dall'amichevole novembrina con la Turchia a Pescara, ecco immessa nel serbatoio azzurro la benzina di gente come Nervo, Di Natale, Corradi, Legrottaglie, Perrotta, Camoranesi, Miccoli. L'intento di Trap era duplice: allargare la rosa dei giocatori con esperienza internazionale, e scuotere alcune grandi figure azzurre che, a partire dal Mondiale, sembravano essere sprofondate nel torpore, forse per mancanza di concorrenza. 
UN 2003 MEMORABILE - L'effetto fu dirompente: la squadra riacquistò brio, molti dei nuovi fornirono un contributo talmente sostanzioso da entrare in pianta stabile nel giro, e la loro presenza servì da stimolo ai vecchi (nel senso di militanza) azzurri, che ritrovarono motivazioni e rendimento. Ne nacque un 2003 sensazionale, con la bellezza di sette vittorie consecutive (una addirittura in Germania, con splendido gol di Vieri) e l'impetuosa risalita nel girone di qualificazione europeo, culminata con il trionfo milanese sul Galles (che aveva inizialmente preso la vetta grazie a una partenza strepitosa): tripletta di Inzaghi e prestazione scintillante, pochi giorni prima della trasferta belgradese. 
Gli slavi, dal canto loro, erano una delle delusioni della fase eliminatoria, essendo incappati in passi falsi incredibili (quattro punti su sei lasciati all'Azerbaigian!), e in quel momento avevano come unico, difficile obiettivo quello del secondo posto nel girone, che avrebbe dato loro l'accesso ai playoff. 
LA SFIDA DI BELGRADO - Ecco, è questo il quadro d'assieme in cui le due squadre, in quel settembre 2003, scesero in campo nel maestoso Marakanà, per la verità mezzo vuoto. Per la nostra squadra era e rimane uno dei campi tradizionalmente più ostici, eppure partimmo favoriti, sull'onda dello straordinario filotto di risultati di cui si è detto e del gioco scintillante mostrato coi britannici. 
La gara dei nostri deluse invece le attese, e rischiò di tramutarsi in un nuovo scivolone trapattoniano. I padroni di casa, consapevoli di essere all'ultimissima spiaggia, ci schiacciarono fin dall'inizio, e fu subito sofferenza. Centrocampo tagliato fuori, ma la difesa resse egregiamente e davanti c'era un Inzaghi in stato di grazia: dopo alcune occasioni fallite dai serbi, Pippo sfruttò un lungo lancio dalla retroguardia incuneandosi nella stranita difesa avversaria e freddando Jevric di sinistro. Quel gol cambiò la partita fino all'intervallo, l'Italia prese possesso delle redini del match, sfiorò il raddoppio con Vieri e si vide negare un rigore ancora sullo scatenato Superpippo. Ma nella ripresa i locali tornarono a caricare col sangue agli occhi, e gli uomini del Trap non riuscirono più a ripartire con i loro contropiede mortiferi: nel finale giunse dunque, meritato, il pari di Ilic.
LO "STELLONE AZZURRO" - Serviva a poco ai serbi, ma era anche un mezzo buco nell'acqua per l'Italia, che avrebbe rischiato di dover andare agli spareggi fra le seconde se non fosse giunto in aiuto il classico italico stellone: il Galles si fece clamorosamente fermare sul pari interno dalla Finlandia, in caso di vittoria si sarebbe presentato al turno finale (da giocare ancora in casa di fronte agli slavi ormai fuori dei giochi) con un punto di vantaggio sui nostri. Così non fu, nell'ultima gara l'Italia dispose con facilità dell'Azerbaigian a Reggio Calabria e volò in Portogallo. Dove il secondo fallimento, dopo quello coreano, consegnò alla storia azzurra Trapattoni come il peggior commissario tecnico del dopoguerra, in rapporto alla qualità del materiale umano avuto a disposizione. 

domenica 25 settembre 2011

CARLETTO PAROLA: UNA ROVESCIATA, UNA LEGGENDA

La rovesciata di Parola. Per chi mastica un po' di calcio al di là dei fatti (spesso non edificanti) suggeriti dalla stretta attualità, si tratta di qualcosa di più di un mero gesto tecnico di eccellenza. E' la vera e propria incarnazione fotografica di un mito, anzi di due miti: quello del calcio italiano, e quello  di una pubblicazione che, forse più di altre, ha contribuito alla diffusione e al consolidamento della passione per il football nel nostro Paese, a partire dagli anni Sessanta. Si parla della raccolta di figurine "Calciatori" edita annualmente dalla Panini, raccolta il cui logo è un giocatore stilizzato impegnato in una rovesciata. 
LA NASCITA DEL MITO - Quel marchio, inconfondibile e ormai riconoscibile in tutto il mondo, è la fedelissima riproduzione di una foto scattata nel freddo pomeriggio del 15 gennaio 1950. Al Comunale di Firenze, già stadio Berta, si giocava Fiorentina - Juventus, ventesima di campionato. Era il primo torneo dopo la sciagura di Superga che aveva cancellato il Grande Torino, la compagine granata che, forte di fuoriclasse quali Valentino Mazzola, Loik, Gabetto, Maroso, Grezar, Menti, Castigliano, aveva dominato la scena calcistica italiana degli anni Quaranta, dando il via alla propria leggenda con la conquista, nel '43, dell'ultimo scudetto ufficiale prima dell'interruzione bellica (nel '44 ci sarebbe stato il torneo di guerra dell'Alta Italia vinto dai Vigili del Fuoco della Spezia, ma fu tutta un'altra storia), e aggiudicandosene poi altri quattro, di seguito, fra il '46 e il '49. 
UNA PARTITA CON POCHE EMOZIONI - Dunque, nel vuoto tecnico creato dalla contemporanea, tragica scomparsa di tanti campioni, la Juve parve da subito la più pronta a raccogliere il testimone dei "leggendari". E in effetti, in quel gennaio occupava con sicurezza la prima posizione, con sei punti di vantaggio sul Milan, secondo, e alla fine avrebbe trionfato, grazie a un equilibrato mix di concretezza e spettacolarità. Era ben messa anche la Fiorentina, quarta: stava cominciando a prendere forma lo squadrone che, dopo tanti piazzamenti di rilievo, avrebbe alfine raggiunto il traguardo tricolore nel 1956, sotto la guida illuminata di quel grande uomo di calcio (in campo e fuori) che rispondeva al nome di Fulvio Bernardini. 
Insomma, scontro al vertice e parata di tante stelle del tempo: dalla parte dei padroni di casa Costagliola, Cervato, Chiappella, Magli, Pandolfini; fra i bianconeri, Viola, Mari, Manente, Parola, Piccinini, Boniperti, Hansen e Praest. Nonostante queste ottime premesse, la sfida deluse le aspettative, fu uno zero a zero con poche emozioni, eccezion fatta per un rigore fallito dal fiorentino Cervato, forse il primo terzino sinistro dalle spiccate propensioni offensive (con conseguente buona prolificità sotto porta) prodotto dalla scuola italiana. 
LA FOTO SUL "CALCIO ILLUSTRATO" - Ma torniamo da dove avevamo iniziato: quel match invernale non sarebbe mai passato alla storia, non fosse stato per una foto pubblicata pochi giorni dopo sul "Calcio illustrato" (se avrò modo, dedicherò un post a parte a questo storico settimanale) a corredo del commento alla gara: la foto ritraeva, per l'appunto, lo juventino Carlo Parola impegnato in una plastica rovesciata, sì, proprio quella rovesciata che sarebbe diventata emblema delle mitiche "figu". Scarna la didascalia: "Acrobazia di Parola", recitava. 
Il mito cominciò così, e non potete immaginare il mio stupore e l'emozione quando, sfogliando questo vecchio numero del "Calcio" che ho la fortuna di possedere, mi sono imbattuto in quello scatto. Un gesto atletico compiuto nell'ambito di una gara che, per il giocatore in questione, fu più che positiva; sentite infatti come la giudicò il grande Renzo De Vecchi, ex gloria azzurra e genoana e per lunghi anni firma di prestigio di quel giornale: "Parola, sempre calmo nel controllo delle situazioni, primeggia nella retroguardia, sempre all'altezza del suo valore". 
CHI ERA PAROLA - A questo punto, corre l'obbligo di spiegare in poche righe che calciatore fosse, il prode "Carletto". Perno della retroguardia, spiegava De Vecchi:  egli era infatti un centromediano, o centrosostegno, ruolo chiave nel calcio d'epoca, forse più in quello d'anteguerra, dominato in larga parte del mondo dal modulo tattico denominato "Metodo", in cui il centromediano era l'autentico fulcro del gioco, colui che, in soldoni, doveva interrompere le trame altrui e far ripartire l'azione, preferibilmente con lanci lunghi  e precisi. Per il ruolo, dunque, erano richieste doti tecniche, atletiche e di "cervello" a livelli di eccellenza. E lo juventino apparteneva all'élite dei migliori del ruolo, anche se il passaggio all'altro modulo in voga in quegli anni, il WM o Sistema, ne mortificò un pochino la  rilevanza tattica "a tutto tondo", limitandola agli aspetti più prettamente difensivi, il che non impediva comunque al "nostro" di spiccare per classe ed efficacia. In Nazionale fu uno dei pochi non granata a potersi ritagliare uno spazio nel periodo dell'apogeo del Torino. Fu poi allenatore di successo, tanto da conquistare uno scudetto, ovviamente alla guida dell'amata Vecchia Signora, nel 1975. 
Insomma, un fuoriclasse vero, che ha raccolto meno riconoscimenti di quanti il suo talento ne avrebbe meritati,  ma che nella leggenda del calcio azzurro c'è entrato comunque. Per la sua carriera e per quella rovesciata del 15 gennaio 1950. 

venerdì 16 settembre 2011

QUANDO ESTATE VOLEVA DIRE FESTIVALBAR

Metà settembre. Fino a quattro anni fa, era questo il periodo, giorno più giorno meno, in cui il Festivalbar celebrava il suo atto conclusivo, la finalissima all'Arena di Verona. Cosa sia stato il Festivalbar, credo siano in pochi a non saperlo: in termini "tecnici", una rassegna canora che attraversava tutta la stagione estiva, partendo a giugno e, dopo una vera e propria tournée che toccava diverse città italiane, chiudendosi nella maniera che abbiamo detto, quando già le giornate si accorciavano e l'autunno faceva capolino; in termini "emozionali", Festivalbar era, semplicemente, l'estate tout court, perlomeno come l'abbiamo intesa noi, ragazzi degli anni Settanta -Ottanta - Novanta: divertimento, spensieratezza e musica, tanta musica. 
I PRIMI ANNI - Festivalbar vide la luce negli anni Sessanta, 1964 per la precisione, grazie a una delle tante geniali intuizioni di quel grande impresario e profondo conoscitore dell'industria musicale (italiana e internazionale) che fu Vittorio Salvetti. A lui, per inciso, si deve anche la salvezza del Festival di Sanremo, che negli anni Settanta, sotto la sua guida, riuscì a risollevarsi dopo alcune edizioni disastrose che ne avevano messo a repentaglio l'esistenza. L'idea alla base di Festivalbar era semplice: mettere in concorso una selezione di canzoni che, a giudizio dell'ideatore e organizzatore, potevano diventare delle hit estive, e sottoporle a "referendum popolare" tramite la gettonatura nei juke box, all'epoca diffusissimi nelle spiagge e nei locali. 
Un'idea vincente: dopo un avvio in sordina (per alcuni anni non vi fu la ripresa televisiva della finalissima), l'esplosione e un successo crescente. Fino al 1982, quella inventata da Salvetti fu una manifestazione dalla struttura assai semplice, direi quasi scarna: presentazione, all'inizio dell'estate, dell'elenco dei partecipanti, poi votazioni per tutti i mesi caldi (con le cartoline voto pubblicate da Sorrisi e Canzoni TV che si aggiunsero alle gettonature) e un solo appuntamento televisivo (su Rai Due), quello con la finalissima, che approdò all'Arena di Verona dopo le prime edizioni divise fra Salice Terme e Asiago. 
IL "DISCOVERDE" - C'era un concorso "satellite", il Discoverde, in pratica la sezione giovani del Festivalbar vero e proprio, che per un tratto viveva di vita propria, anche con qualche passaggio televisivo (quello del 1982, ad esempio, andò in onda sulla Rete Tre  l'8 luglio, in contemporanea con la celeberrima semifinale del Mondiale di Spagna fra Germania Ovest e Francia!), e i primi classificati avevano poi l'onore di esibirsi nel corso della serata finale della kermesse "sorella maggiore". Già con questa formula "minimale" (al di là di qualche leggera variazione che avveniva di quando in quando, ad esempio la suddivisione dei cantanti in gironi di vario genere) il successo che il pubblico le decretò fu comunque enorme, pari al numero di canzoni e di artisti lanciati in orbita. 
IL BOOM TARGATO CANALE 5 - Ma il vero boom avvenne negli anni Ottanta e, benché pesi dirlo di questi tempi, grazie a Silvio Berlusconi e al suo network Canale 5, dove Festivalbar si trasferì nel 1983, cambiando radicalmente struttura (o format, come si dice oggi). Non più solo una serata, ma un vero e proprio tour attraverso l'Italia lungo un'intera estate ("La grande estate giovane di Canale 5", recitava lo slogan dell'epoca) con gran galà conclusivo secondo tradizione, ossia in terra scaligera, nello splendido anfiteatro romano. 
Il successo fu clamoroso: cantanti italiani e stranieri popolarissimi, giovani esordienti lanciati in orbita per carriere folgoranti, meteore da "one shot", un colpo e via per il quale però vieni ricordato ovunque e per tutta la vita, stranieri sconosciuti e destinati a rimanere tali: tutti, indistintamente, acclamati come degli dei in terra dal pubblico delle piazze. E sì, perché l'altro grande segreto del boom fu appunto il tour: portare il Festival in giro per la penisola (e anche fuori dei confini: ricordo ad esempio delle tappe ad Ibiza, sull'onda dei successi di Sandy Marton), riunire venti - trenta cantanti a sera e farli esibire praticamente sulla soglia di casa dei giovani, cioè dei grandi consumatori della musica pop, ragazzi che quei cantanti, prima, potevano solo ascoltarli alla radio, sui dischi o sui nastri, o vederli alla tv o anche ai concerti, ma mai così tanti tutti insieme. 
Se le basi storiche del successo del Festivalbar sono state gettate nella prima fase della sua esistenza, quella televisivamente targata Rai, la leggenda è dunque nata e si è consolidata negli Ottanta, soprattutto, e in misura minore nei Novanta. Era il Festivalbar dei tormentoni, dei Righeira e delle Tracy Spencer, canzoni leggere leggere ma che resistono ancora oggi nel cuore di chi quegli anni li ha vissuti da ragazzino adolescente. 
Il successivo passaggio a Italia Uno, la riduzione delle tappe (con la kermesse che si prendeva una pausa ad agosto) e il momentaneo sfratto dall'Arena di Verona (dove ritornò nel '98), con finali spostate a Villa Manin di Codroipo, Marostica e Napoli (autentiche adunate oceaniche in piazza del Plebiscito) non intaccarono inizialmente l'appeal della manifestazione, che anzi sembrò guadagnare popolarità col passare del tempo, sopravvivendo anche al fisiologico tramonto dei juke box. 
GARA CANORA "ANNACQUATA" - Per noi che ne abbiamo vissuto la fase di massimo splendore, l'appannamento della kermesse è cominciato quando, nel '95, Festivalbar ha perso la sua connotazione di concorso canoro tout court: niente più votazioni palesi, niente più classifiche. Beninteso, c'era sempre il vincitore, anzi i vincitori, trionfatori in categorie che si moltiplicarono progressivamente (miglior straniero, miglior performance, premio radio...), ma la sensazione di gara risultava essere assai annacquata. 
In pratica, una sorta di Grammy in versione italiana, colossale passerella di artisti con riconoscimenti finali. Erano gli anni dei trionfi a ripetizione dei grandi cantautori italiani: Vasco Rossi, Ramazzotti, Pino Daniele, Ligabue, Jovanotti, Zucchero. Ma qualcosa si stava rompendo: la formula senza più mordente (la gara canora è nel sangue degli italiani, e il successo intramontabile di Sanremo lo dimostra in maniera inequivocabile), vincitori largamente prevedibili, e poi l'eterna polemica sul playback, che per tanto tempo ha funzionato, quando  l'industria discografica immetteva sul mercato una mole enorme di prodotti e aveva bisogno di promuoverli massicciamente, e il playback era il mezzo tecnico più rapido e meno dispendioso per raggiungere l'obiettivo. Nel nuovo millennio, questo artifizio è diventato inaccettabile per larga parte degli artisti e per il pubblico: i primi preferiscono di gran lunga l'esibizione dal vivo, e i secondi gradiscono che un cantante dimostri "veramente" le proprie capacità, tanto più in una manifestazione di richiamo come il Festivalbar, che però ha impiegato troppo tempo prima di piegarsi alla logica del "live" (avvenne nel 2002).  
LA CRISI E LA FINE - Tutto questo, unito anche a conduzioni piuttosto infelici (il trio Forrest - Blasi - Canalis del 2006), portò al patatrac del 2008: sembrava tutto pronto ed uscirono addirittura le tradizionali compilation, ma la manifestazione non partì, e l'organizzatore Andrea Salvetti (figlio di Vittorio, prese in mano le redini della rassegna nel '99, dopo la morte del padre) è sempre stato piuttosto vago sui fattori che impedirono la realizzazione del progetto. Si parlò di un anno di pausa, ma Festivalbar non è più tornato. Morto, defunto, senza spiegazioni. Si attribuì la colpa al calo dell'audience (che tuttavia nel 2007 aveva fatto registrare una crescita rispetto all'anno precedente) e alla mancanza di sponsor, ma mai nulla è stato chiarito. 
Oggi, sempre all'Arena di Verona, ci sono i Wind Music Awards, ma, con tutto il rispetto, la magia del Festivalbar era tutta un'altra cosa. E, opinione personalissima, mai come in questo momento la musica italiana avrebbe bisogno di una rassegna del genere, meno celebrativa e più "dinamica" com'era il Festivalbar di patron Salvetti Senior.


Nel video sopra, l'ultima canzone vincitrice assoluta del Festivalbar, nel 2007: "Parlami d'amore" dei Negramaro.

martedì 13 settembre 2011

SERIE A: QUANTO VALGONO LE PRIME GIORNATE?

Sul piano delle emozioni personali, quand'ero ragazzino  la prima giornata di campionato aveva un sapore dolceamaro. Dolce, perché rappresentava l'inizio di un'avventura amatissima e tanto desiderata dopo quattro mesi di snervante attesa (escluso l'antipasto post ferragostano della Coppa Italia). Amaro, perché, ça va sans dire, segnava la fine della stagione estiva, e l'ozio più assoluto passava la mano all'inizio della scuola. 
Oggi che son più grandicello, questi sentimenti sono un po' più sfumati, per tutta una serie di motivi: le fervente attesa non c'è più, sia perché il campionato comincia tardi e inizia presto e in mezzo c'è una pletora di sopravvalutate amichevoli e tornei estivi e un mercato interminabile, sia perché, beh, la consapevolezza del brutto che ruota attorno al calcio, soprattutto al calcio italiano, ha spento un po' la gioia fanciullesca dell'evento. 
Rimane lo sguardo tecnico e critico, e anche da questo punto di vista le sensazioni non sono poi piacevolissime. Mi spiego meglio: dal mio punto di vista, queste prime giornate dovrebbero trascorrere il più in fretta in possibile.  Perché non è "vero" campionato. Sì, certo, l'avvio della nostra Serie A è stato fragoroso: 35 gol, spettacolo di buon livello, grandi emozioni quasi ovunque, protagonisti vecchi e nuovi alla ribalta. Che si poteva chiedere di più, oltretutto al culmine di un'attesa prolungata dall'affaire sciopero?
VERDETTI INATTENDIBILI - D'accordo, ma non è tutto oro quel che luccica. Per un mese almeno, siamo destinati ad assistere a un torneo "in maschera". Le prime giornate di campionato non sono altro che uno strascico del calcio estivo, che è quasi sempre ingannevole e inattendibile per antonomasia. I motivi sono tanti: squadre ancora imballate dalla preparazione fisica, e altre che invece volano oltre le loro effettive potenzialità grazie a una preparazione finalizzata a una partenza lanciata; squadre rivoluzionate dal mercato e quindi ancora alla ricerca del giusto amalgama, o meno rinnovate ma comunque chiamate ad assorbire innesti di giocatori giunti nelle ultimissime giornate (se non addirittura ore) della campagna acquisti, con tutti i problemi di assetto e di inquadratura che ciò comporta; la grande massa di stranieri che ogni anno giunge da noi e che, nella maggior parte dei casi, ha bisogno di tempo per capire il nostro Paese e il nostro calcio, e per integrarsi nella nuova squadra anche solo da un punto di vista sociale. E ancora, squadre che si trascinano problemi ed equivoci nati nei giorni del mercato e del ritiro, e altre che invece vivono sullo slancio di una stagione, quella precedente, conclusa a spron battuto. Tanti fattori il cui influsso dovrà enormemente diminuire, fin quasi a scomparire, col passare del torneo, ma che in questa prima fase rendono i verdetti del torneo di fragilissima attendibilità. 
LA STORIA INSEGNA... - E' la storia a dirlo, basta andare all'ultimo campionato: nella prima giornata il Genoa vinse sul difficile campo di Udine, e quella prodezza, seguita a una campagna acquisti faraonica, fece pensare a un Grifo lanciato verso vette proibite. Alla fine, fu un decimo posto piuttosto anonimo. La stessa Udinese, dopo quel ko ne inanellò altri tre consecutivi: zero punti dopo quattro gare, per poi chiudere il torneo in zona Champions. Zona Champions cui approdò trionfalmente pure il Napoli, che pure nel primo mese di campionato vinse una sola volta e incassò una pesante sconfitta casalinga dal Chievo. Il quale Chievo, a sua volta, in quelle  prime battute vinse anche a Genova col Genoa, oltreché al San Paolo, e dopo quattro giornate si trovò a nove punti come anche il Brescia: ma gli scaligeri si dovettero accontentare della salvezza, che invece sfuggì alle Rondinelle. Partirono di slancio pure Bari e Sampdoria, la cui fine è nota. 
Due anni fa, protagoniste di un avvio entusiasmante furono Juventus (quattro vittorie su quattro) e Genoa (tris di successi nelle prime tre gare), poi impantanatesi in zone di classifica piuttosto anonime. Viceversa, partì con due sconfitte la Roma, in seguito destinata a contendere fino all'ultimo lo scudetto all'Inter, e il Cagliari raccolse un punto in quattro match, salvo poi risollevarsi brillantemente. 
Pochi esempi che bastano a dimostrare come cercare di analizzare sul piano tecnico le prime giornate di Serie A sia difficilissimo e, a ben guardare, inutile, e ciò è tanto più vero da quando il brodo del campionato è stato scioccamente allungato, col passaggio da 18 a 20 partecipanti. Poi, chiaro, non tutto è ingannevole, e qualche segnale destinato a lunga vita qua e là fa capolino: per dire, non ci vuole un grande sforzo di fantasia per capire che questo Napoli, se non accadono cose... turche, è destinato a fare molta strada, così come, ad occhio e croce, lunga e irta di ostacoli sarà per il Lecce la strada verso la salvezza. Per il resto, fidatevi, è meglio aspettare. 
Un'altra considerazione: 35 gol, si diceva, e tutti contenti. Comprensibilissimo, però io continuo a rimpiangere le arcigne e attente difese del calcio italiano che fu. Domenica ho visto cose indegne della nostra tradizione, retroguardie altissime e costantemente prese d'infilata, o dalle maglie assurdamente larghe: ricordiamoci che tanti gol non sono sempre sinonimo di spettacolo e di qualità del gioco.
LO STADIO DELLA JUVE - Alla fine, l'unico, autentico motivo saliente di questa "prima" è arrivato dalla partita delle 12 e 30: e non solo per  l'urlo della Juve, che attendiamo al campionato della riscossa, ma per il teatro in cui questo urlo è stato lanciato: il nuovo stadio bianconero, terreno di gioco a parte, merita solo applausi, e come impatto visivo mi ha riportato alla mente gli impianti avveniristici ammirati a Germania 2006. Siccome ho sempre sostenuto che proprio il calcio tedesco, più di quello spagnolo, debba rappresentare per l'Italia il modello a cui ispirarsi per uscire dalla crisi, ecco, in questo importantissimo segnale lanciato dal club torinese mi piace leggere il primo passo verso una riscossa del nostro movimento. 
CARLO CALABRO' 

sabato 10 settembre 2011

SERIE A: GIOVANI ITALIANI ALLA RIBALTA?

Con Milan - Lazio, la Serie A è partita all'insegna dello spettacolo e dei gol. Ne siamo lieti. In questo clima di crisi ben più che strisciante, dopo le tante brutture che il football ci ha riservato nei mesi scorsi, era importante dare un primo segnale forte a un pubblico un po' disamorato e ulteriormente scosso dalla vicenda sciopero.
Se ne riparlerà.  Quello che ora mi preme è fornire una chiave di lettura diversa al campionato che consumerà in questo week end la sua prima giornata. Nulla di originale, per carità: però l'estate mediatica è trascorsa parlando di grandi colpi sul mercato straniero (rimasti perlopiù nel campo dei sogni e delle intenzioni, ma questo è un altro discorso), con paginate e articolesse dedicate alle celebrazioni di presunti fenomeni d'oltrefrontiera, che fino al giorno prima nessuno, probabilmente nemmeno gli autori dei pezzi, aveva mai sentito nominare. 
Questo andazzo non mi sta bene, poiché ritengo che nel calcio la componente "nazionale" sia fondamentale, e di conseguenza ritengo delittuosa, quali ne siano le ragioni, la politica adottata negli ultimi anni dalle nostre società, quella di riempire le nostre squadre di stranieri, perlopiù modesti, penalizzando sempre più il vivaio nostrano. 
E' per questo che, con questo post, mi propongo di evidenziare come il campionato nascente possa rappresentare un'opportunità anche per molti giovani e giovanissimi italiani. I nomi su cui puntare non mancano: certo, se poi finiranno in panchina alle prime défaillance per lasciare spazio all'argentino o al finlandese di turno, questo è un altro discorso...
PORTIERI - Qui, onestamente, non c'è molto. Da segnare sul taccuino il nome di Consigli, che rivede la Serie A con l'Atalanta. Lo ricordiamo nel gruppo dell'Under 21 di Casiraghi che disputò le Olimpiadi di Pechino. Dopo i promettenti esordi in A, andò incontro ad alcuni svarioni che ne frenarono l'ascesa. In B è tornato su buoni livelli e quest'anno avrà il suo bel da fare per opporsi  ai possenti attacchi della massima categoria. Non dimentichiamoci di Marchetti, che torna in pista con la Lazio dopo una anno di forzata inattività. Era arrivato a diventare il vice Buffon in Nazionale e a giocare da titolare lo sciagurato Mondiale sudafricano (dove non brillò per sicurezza, ma non si macchiò nemmeno di errori gravissimi): riuscirà a recuperare il terreno perduto? 
DIFENSORI - Il centrale del Cagliari Astori, già nel giro azzurro, è atteso alla definitiva consacrazione, mentre si attende una conferma dal fiorentino Camporese, gettato nella mischia l'anno scorso da Mihajlovic e talmente a suo agio fra i grandi da non uscire quasi più di squadra. Occhio ad Acerbi, che il Genoa ha preso dalla Reggina per girarlo al Chievo: forte in marcatura e sui palloni alti, è uno dei prospetti più interessanti per il futuro del calcio italiano. Nel Milan, l'anno scorso, è finalmente esploso Abate, che da cavallone un po' distratto nelle chiusure difensive si è trasformato in calciatore tatticamente disciplinato, pur non rinunciando alla sua efficacia nelle avanzate: deve ripetersi, per puntare dritto alla Nazionale. E, sull'altro versante del campo, il genoano Antonelli, che l'azzurro l'ha già assaggiato, ha i mezzi tecnici e fisici per non far rimpiangere Criscito, anche se è forse meno esplosivo negli inserimenti offensivi. Il Parma scommette sul terzino sinistro Rubin e tenta il recupero di Santacroce, ex Under 21 frenato dagli infortuni in una ascesa che pareva inarrestabile. Non va dimenticato, infine, il laziale Crescenzi, atletico difensore centrale, senso della posizione e personalità già spiccata.
CENTROCAMPISTI - Occhio ad Andrea Poli: nell'Inter non sarà facilissimo trovar spazio, ma è giocatore di classe, temperamento, gran catalizzatore della manovra grazie alla sua visione di gioco. Lo stesso dicasi di Luca Marrone, che ad occhio e croce potrà emergere nella Juve anche perché i vari Marchisio e Pirlo avranno spesso bisogno di rifiatare: incontrista e costruttore, spesso devastante al tiro. Bertolacci, centrocampista del Lecce dalla spiccata vocazione offensiva, l'anno scorso ha avuto un impatto devastante con la Serie A (se lo ricordano bene Juve e Udinese...): saprà ripetersi? 
Si spera riesca finalmente ad affermarsi, dopo anni di anticamera, il senese Bolzoni, che in mezzo al campo dà sostanza e raziocinio: se uscirà indenne dalla sfide infuocate per la salvezza, potrà definitivamente spiccare il volo verso lidi più prestigiosi. Dopo una stagione con più bassi che alti, l'italo - argentino Schelotto riparte da Bergamo, per movimentare un po' il fronte offensivo con le sue sgroppate sulla destra, e troverà valido appoggio nell'ottimo Bonaventura, sensazione dell'ultimo torneo cadetto, fantasia, dinamismo e intelligenza tattica al centro o all'esterno, sovente mortifero in zona gol. 
Ancora: riparte da Cesena Candreva, uno che in mezzo al campo sa faticare ma soprattutto costruire e rifinire: chiamato in azzurro prima degli ultimi Mondiali e poi accantonato abbastanza inspiegabilmente, ha tempo e doti per ritornarci. Un po' come il compagno di squadra a Cesena, Parolo, non più di primo pelo ma approdato tardi alla grande ribalta, eclettico e dinamico, completo, abilissimo nel tiro a rete: già testato da Prandelli, di fronte a un altro campionato da assoluto protagonista non ci stupiremmo di trovarlo nel listone per gli Europei. Con tutto il rispetto, in Romagna è sprecato. 
ATTACCANTI - Gruppone interessante, capitanato da El Shaarawy. Il gioiellino cresciuto in casa Genoa  ed esploso a Padova nell'ultima stagione si trova di fronte a un'annata decisamente impegnativa, al Milan, con una concorrenza terribile. Rischia di fare spesso da spettatore, ma ha già il coraggio e la sfrontatezza dei grandi, e colpi da campione assoluto che ne esaltano la tecnica eccelsa e l'ottima impostazione fisica. Variabile impazzita dell'attacco, può essere uno dei punti cardine del calcio italiano del futuro. Classe sopraffina anche per Fabbrini, jolly offensivo, ispiratore, rifinitore e finalizzatore della manovra. Guidolin crede nei giovani e a Udine dovrebbe trovargli il giusto spazio. 
L'Atalanta ripropone in massima serie Marilungo, protagonista due anni fa di un debutto folgorante con la Samp (subito due gol al Cagliari) e poi un po' intristitosi in cadetteria: ha scaltrezza e fiuto del gol, può far bene. Sempre da Bergamo si attendono buone notizie da Gabbiadini, giovanissimo e già punto fermo dell'Under 21 di Ciro Ferrara. A Lecce si punta molto su Pasquato, estroso tuttofare offensivo che può accendere la terza linea e far impennare le speranze salvezza dei salentini, mentre nella pletorica rosa della Roma dovranno sgomitare Borini, maturato dall'esperienza inglese, e la fantasiosa e ficcante ala Caprari, già al debutto in Champions League. Acquafresca cerca col Bologna di completare il rilancio già avviato a Cagliari,  a Verona dovrebbe facilmente trovar spazio Paloschi, tecnico, rapido, opportunista, concreto, stesso discorso, a Siena, per il talento di scuola interista Destro, che sa essere mortifero sotto porta. 

venerdì 9 settembre 2011

SERIE A: BILANCIO DEL MERCATO (TERZA PARTE)

NOVARA - Ci sarà da soffrire fino in fondo, e la squadra non pare essersi attrezzata adeguatamente per una simile prospettiva. Rimane la certezza Ujkani in porta, mentre la rinuncia al duo delle meraviglie Gonzalez - Bertani potrebbe risultare suicida.
Difesa innervata da Paci e Dellafiore, onesti mestieranti di categoria che però non rappresentano autentiche garanzie, a centrocampo il talento mai del tutto espresso di Pinardi e la promessa Mazzarani, bene l'anno scorso a Modena. Attacco pletorico, ma fra Granoche, Morimoto, Jeda e Meggiorini nessuno sembra in grado di "bollare" con continuità nella massima serie (a parte qualche exploit del brasiliano, risalente però a qualche campionato fa). La sicurezza è Tesser, tecnico pragmatico e voglioso di emergere: basterà?

PALERMO - Poche storie, Zamparini ha quasi rotto il giocattolo. Perdere in un colpo solo cinque pezzi da novanta, cinque colonne della squadra come Sirigu, Cassani, Bovo, Nocerino e Pastore può causare un contraccolpo terrificante anche a squadre di più alto lignaggio, soprattutto se queste colonne non vengono rimpiazzate in maniera dignitosa. A parte Silvestre e Della Rocca, il piatto del mercato piange. Aggiungiamoci l’incertezza societaria legata alla posizione di Sogliano e il benservito dato a Pioli: d’accordo la grave eliminazione in Coppa, ma si trattava di calcio d’estate e di una squadra appena all’inizio del suo percorso, oltretutto già turbata da gravi incertezze tecniche e da continui terremoti dirigenziali. Lavorare in certe condizioni è disumano anche per tecnici più scafati (vedasi Rossi), figuriamoci per un bravo emergente come Pioli.
In porta, fra Benussi e lo svalutato Rubinho, non c'è da stare molto allegri, a meno di sorprese da parte del greco Tzorvas. Meglio la difesa dove, a parte l'ex catanese, rimangono comunque Munoz e super Balzaretti, uno dei migliori atleti espressi dal calcio italiano negli ultimi dieci anni. Al centro le certezze sono Migliaccio e Della Rocca, Zahavi e Aguirregaray scommesse affascinanti, mentre Acquah, Bacinovic e soprattutto Ilicic dovranno bruciare le tappe della maturazione. Barreto porta buona tecnica e versatilità, anche se non è uno che possa farti fare il salto di qualità. In attacco si resta appesi  ai guizzi e alla velocità di Hernandez e alla classe di Miccoli, mentre Pinilla dovrà essere più concreto e continuo. Nessun allarmismo perché la squadra c'è comunque, ma al momento l'Europa League sembra un obiettivo tutt'altro che facile da raggiungere e il rischio è quello di rimanere intruppati nel gruppone di centroclassifica.

PARMA - Si riparte da Colomba, che è già una garanzia di assoluta affidabilità. In difesa, i punti di forza sono Mirante, ormai assestatosi su di un livello di buona continuità verso l'alto, e l'ottimo Zaccardo, difensore goleador. Occhio a Rubin, mentre l'operazione rilancio di Santacroce, ex (per ora?) grande promessa del nostro calcio, è affascinante ma anche rischiosa. Al centro, in bocca al lupo a Galloppa, che si spera abbia del tutto superato il gravissimo infortunio di un anno fa, mentre molto dipenderà dalla concretezza e dall'esperienza del combattente Blasi e dalle scorribande sulla fascia sinistra di Modesto. Ad occhio e croce, però, si avvertirà parecchio la mancanza di Candreva, cervello e ispiratore.
In attacco non c'è più Amauri, l'anno scorso spesso decisivo, però è arrivato Floccari, e ci si può stare. Crespo sparerà le ultime cartucce e ci si attende qualcosa in più da Palladino, gran talento ma fragilissimo sia fisicamente sia mentalmente, meno da Biabiany, confusionario e inconcludente nell'annus horribilis della Samp. Dove può arrivare questo Parma? Il termometro delle sue ambizioni sarà Giovinco: ormai stabilmente nel giro azzurro, se il traguardo dell'Europeo lo ispirerà al punto giusto potrebbe portare il Parma ben oltre una salvezza tranquilla, magari assegnandogli il ruolo di mina vagante.

ROMA - Le incertezze societarie hanno fatto passare in secondo piano un mercato assolutamente degno di nota. Il portiere della Nazionale vicecampione del mondo, Stekelenburg; uno dei giovani centrali difensivi più apprezzati a livello europeo, Kjaer; uno dei difensori di più alto rendimento al mondo negli ultimi anni, l'eclettico Heinze. E ancora, Gago e Lamela, giovani argentini cercati un po' da tutti, Bojan, gioiellino scuola Barcellona, Osvaldo, l'italo - argentino che si è fatto onore nella Liga, la speranza Borini... In più sono rimaste certezze come Cassetti, Burdisso, Perrotta, Pizarro, De Rossi, che se è quello delle ultime apparizioni in Nazionale, buon per i tifosi della Roma. Per non parlare di Borriello, che pure sembrava destinato alla partenza.
Sopra tutti c'è, come sempre, Totti: è in parabola discendente, d'accordo, ma l'anno scorso è stato ancora decisivo. Non credo sia un problema per la società giallorossa: deve sapersi gestire bene lui, con umiltà, e deve saperlo gestire bene Luis Enrique, la vera, autentica scommessa di Di Benedetto. Potenzialmente, se l'allenatore spagnolo saprà vederci chiaro nel bel mix a disposizione e se l'ambiente si calmerà, è una "Magica" da primissimi posti.

SIENA - Un anno di purgatorio e si riparte, con l'obiettivo di sempre: la permanenza in categoria. Sarà dura, ma i toscani sono abituati a lottare fino all'ultima giornata. Le frecce al loro arco non mancano: il punto di forza è il centrocampo, che ha trovato in D'Agostino uno potenzialmente in grado di sparigliare le carte sul grande tavolo della corsa alla salvezza. Se ne avrà voglia, l'ex Udinese può far girare l'attacco a mille, inventare e risolvere lui stesso più di una partita. Poi è arrivato Mannini: "sfiduciato" da Napoli e Sampdoria, porta in dote, a parte l'ovvia voglia di riscatto, corsa, polmoni, agonismo e inserimenti micidiali, ma anche una discontinuità che finora ne ha frenato l'ascesa verso livelli che pure sarebbero alla sua portata. Occhio al giovane Bolzoni, centrale d'ordine e di sostanza.
La difesa si avvale del rientro in Italia, dopo la discreta esperienza spagnola, di Contini, un'iniezione di qualità in un reparto che appare un po' fragilino, anche se i vari Terzi e Del Grosso garantiscono grinta e applicazione. In attacco il solito Calaiò, che deve dimostrarsi bomber da A e non solo da B, la scommessa Gonzalez, reduce dagli exploit novaresi, e il promettentissimo Destro, che alle prime apparizioni in massima serie col Genoa ha convinto (subito in gol al debutto col Chievo). Tre incognite per la categoria, un bel rischio.

UDINESE - I Pozzo hanno scelto l'anno sbagliato per monetizzare il tanto lavoro di crescita di talenti svolto negli ultimi anni. Via Zapata, Inler e Sanchez, tre pesanti menomazioni. Si può anche comprendere che in un calcio come il nostro, caratterizzato da una assurda disparità di risorse finanziarie fra le poche grandi e tutte le altre, le società medie e piccole non possano che seguire una politica di tale genere, ma, ecco, forse almeno uno dei magnifici tre lo si poteva tenere, cercando un importantissimo approdo ai gironi di Champions che, come si è visto, non era fuori portata.
Rimane comunque una signora squadra. Le certezze: il portiere pararigori Handanovic, la roccia difensiva Domizzi, i generosi terzini Pasquale e Armero, gli eclettici centrocampisti Pinzi e Isla, il tecnico e veloce Asamoah, un Floro Flores reduce da una mezza stagione, al Genoa, che è stata la migliore della carriera, e l'intramontabile Di Natale, fuoriclasse (almeno a livello nazionale) per il quale sono ormai finiti gli aggettivi. La scommessa è Fabbrini, giocatore che può svariare su tutto il fronte offensivo, suggeritore e finalizzatore, uno dei talenti più puri delle nostri bistrattate ultime leve. Guidolin può mantenere l'Udinese a livelli di tutto rispetto.
CARLO CALABRO'