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sabato 22 dicembre 2018

SANREMO 2019: IL CAST PIU' SPIAZZANTE E CONTEMPORANEO DI SEMPRE. RENGA, NEK, ARISA, VOLO E ULTIMO CORRONO PER LA VITTORIA, MA OCCHIO AI NUOVI...


Sarà il Sanremo della svolta? Lo si è detto più volte in passato, e spesso a sproposito. Stavolta, però, qualcosa di diverso è accaduto: dopo l'approccio relativamente "morbido" dell'anno scorso, con la composizione di un cast tutto sommato classicheggiante impreziosito da qualche artista di nicchia, Claudio Baglioni ha rotto gli indugi confezionando un Festival "da trincea", coraggioso, spiazzante, non banale. Raramente si era visto un gruppo di concorrenti come quello annunciato nelle due serate televisive dedicate alle nuove leve: l'angolo - nostalgia è stato quasi completamente azzerato, eccezion fatta per il tributo a due grandi dive pop, e si è fatto spazio a rappresentanti dei mondi indie e rap in una misura senza precedenti. 
CAST-AZZARDO - A proposito di precedenti: andando indietro nel tempo, i cast che più si avvicinano a quello appena reso noto, per livello di "azzardo" osato dal direttore artistico di turno, sono quelli del 2014 e del 2017. L'ultimo Fazio offrì la ribalta a personaggi fuori dal grande giro commerciale, quali Perturbazione, Bloody Beetroots, Riccardo Sinigallia e Giuliano Palma; la terza rassegna griffata Carlo Conti propose fra i big tanti giovani (Elodie, Sylvestre, Comello, Bravi, Meta, Raige) sicuramente non in linea con i gusti un po' datati del pubblico dell'ammiraglia Rai. Ma stavolta l'asticella si è davvero alzata: molti fra i magnifici 24 di Sanremo 2019 rappresentano una sfida all'ordine costituito del microcosmo festivaliero, e soprattutto una finestra spalancata sul mercato. E già, perché il cantautore romano sprovveduto non lo è di certo: non si è cullato sugli allori dell'audience dell'ultima kermesse, perché il gradimento televisivo non è andato di pari passo con quello discografico; solo i due vincitori Meta e Moro, Annalisa, Lo Stato sociale e Ultimo hanno raggiunto il traguardo del disco di platino coi loro singoli, mentre la compilation, tradizionale ammazza - classifiche, si è fermata all'oro. E Sanremo non può permettersi di diventare un evento esclusivamente televisivo: deve essere in linea con le tendenze canore della penisola, anticiparle o comunque seguirle, lanciare opere che poi possano godere di lunga e florida vita anche fuori dall'Ariston e lontano dalla settimana rivierasca. 
VINTAGE AI MINIMI STORICI - Su questo presupposto nasce il listone unico del 69esimo Festivalone. Un cast "giovane e per i giovani", avrebbe detto il caro vecchio patron Vittorio Salvetti; un cast che vuole aiutare l'industria musicale italiana a uscire dalle secche, implementando il giro d'affari grazie a nomi sulla cresta dell'onda. Così, come si diceva, lo spazio amarcord è quasi scomparso: lo occupano soltanto Patty Pravo e Loredana Bertè, l'ex ragazza del Piper che viene considerata l'ultima diva della nostra canzone, e una donna che, dopo anni difficili sul piano umano e professionale, ha saputo rilanciarsi grazie anche a ritrovate doti vocali. La prima, oltretutto, non sarà sola, ma si presenterà accompagnata da Briga, una delle tante stelline made in "Amici". 
POKER D'ASSI PER LA VITTORIA - Il pop italiano tradizionale, pur se adeguato ai tempi, è rappresentato da grossissimi calibri come Francesco Renga, Il Volo, Arisa e Nek, ossia tre ex vincitori e un artista che, tornato alla ribalta con l'inatteso secondo posto del 2015 ("Fatti avanti amore"), ha la possibilità di prendersi la rivincita proprio sui tre ex bambini prodigio, che quell'anno arrivarono primi al traguardo. Si tratta di quattro superbig che da soli basterebbero a rendere avvincente la gara di febbraio: a rigor di logica e tenendo conto del palmarès e degli exploit recenti, proprio loro dovrebbero giocarsi il successo finale assieme a un Ultimo in stato di grazia, rivelazione a 24 carati. Occhio però, perché da un lotto di Campioni così anticonvenzionale potrebbero venire fuori sorprese anche clamorose: del resto, gli Stato Sociale non hanno forse sfiorato il trionfo un anno fa, da sconosciuti o quasi al pubblico generalista? 
SANREMO SI SVECCHIA - Sarà un Sanremone molto "indie" e molto rap, genere quest'ultimo pressoché ignorato dall'edizione 2018 ma che non poteva rimanere fuori dal nuovo Festival, dopo un anno in cui ha quasi monopolizzato le prime posizioni delle chart. Ecco dunque Zen Circus, Motta, Ex Otago, Ghemon, Achille Lauro: roba da far venire i capelli bianchi, non fosse che l'utente medio di Rai 1 i capelli bianchi già li ha... Battute a parte, più contemporaneità di così si muore: Sanremo si svecchia, e lo fa veramente, con fatti concreti; pronto, se è il caso, anche a pagare dazio all'Auditel. Cosa che peraltro, secondo me, non accadrà, perlomeno non in termini catastrofici: gli spettatori del festival si sono dimostrati, negli ultimi tempi, molto più ricettivi alle novità di quanto si pensi. Si diceva infatti dell'edizione 2017, piena di volti tutt'altro che tradizionali eppure baciata da un successo catodico oceanico. Così come le innovazioni nel format, alla fine, non incidono più di tanto: l'anno passato, con l'abolizione delle eliminazioni, si pensava a una fuga dei teleutenti, e invece...
CHI DOMINA LE CHART - Torniamo al cast, che strizza come non mai l'occhio ai ragazzini, ai millennials: assieme ai nomi appena citati, ecco i Boomdabash, artefici del ritorno alla ribalta della Bertè col loro singolo estivo "Questa sera non ti dico no", ecco Irama ed Enrico Nigiotti, già cimentatisi fra le Nuove Proposte sanremesi ma passati anche attraverso i talent; e poi la coppia Federica Carta - Shade, big a tutti gli effetti grazie al triplo platino con "Irraggiungibile". Sì, perché questi ragazzotti sono tutti collezionisti di certificazioni FIMI, è gente che i dischi ancora riesce a venderli, e questo per chi "costruisce" il Festival dovrebbe sempre essere un punto fermo nella scelta di larga parte dei concorrenti, per mantenersi a galla nel mutevole mare magnum della musica leggera.
ROCK, CANTAUTORATO, IMPEGNO - Il quadro dei partecipanti si completa con personaggi ugualmente stuzzicanti: pilastri del rock italiano come i Negrita, una Paola Turci giustamente riscoperta grazie alla splendida partecipazione del 2017, e ancora Daniele Silvestri, per la quota "cantautorato di classe"; poi un altro ex vincitore come Simone Cristicchi, che però torna... sul luogo del delitto dopo aver percorso strade artistiche diverse e controcorrente (teatro civile), e un Nino D'Angelo che di primo acchito non inserirei nella quota vintage in quanto ha sempre dimostrato di sapersi costantemente rinnovare, e non a caso si presenterà in Riviera assieme a Livio Cori, rapper e attore. C'è infine Anna Tatangelo, unica rappresentante degli artisti perennemente in cerca di rilancio o della definitiva affermazione, categoria che fino a pochi anni fa faceva la parte del leone nel cast e che invece Baglioni ha ridotto ai minimi termini: visto che, al proposito, fra gli altri aveva presentato un pezzo anche Lisa, vengono da farsi domande sull'effettiva utilità di uno show pur riuscito come "Ora o mai più", che nei mesi scorsi ha tratto fuori dall'oblìo ottimi talenti musicali anni Ottanta e Novanta, per i quali però le porte di Sanremo continuano a rimanere sbarrate. 
ROVAZZI E BAUDO: PROMOSSI. COMMOZIONE PER GENOVA - Il listone unico, come è noto, è stato quest'anno integrato dai vincitori delle due serate di Sanremo Giovani, Einar e Mahmood, che quindi avranno la possibilità di scontrarsi ad armi pari con i suddetti Big. Qualche considerazione sulla kermesse pre natalizia va fatta, e non mi sottraggo. Ha innanzitutto funzionato alla perfezione la coppia Rovazzi - Baudo: il primo è sembrato un presentatore carico di esperienza specifica, tale è stata la disinvoltura con la quale si è mosso sul palco del teatro del Casinò; il secondo, pur lievemente appannato dall'inclemente trascorrere del tempo, non ha avuto autentici momenti di cedimento e ha retto dignitosamente la scena, mostrando anche una notevole preparazione sui tanti nomi "da ventunesimo secolo" inseriti da Baglioni fra i Campioni. Struggente e commovente, anche perché in parte inattesa, è stata la parentesi che giovedì il Pippo nazionale ha dedicato alla tragedia di Ponte Morandi e alle difficoltà di una Genova che però sta già ripartendo, con dignità e volontà feroce, in questo ben spalleggiato dai "nostri" Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu.
LA GARA DEI GIOVANI? MEGLIO A FEBBRAIO - Parlando della gara, l'idea di riservare al concorso degli emergenti uno spazio autonomo in dicembre non mi è parsa sinceramente granché: il gradimento del pubblico è risultato assai tiepido, i ragazzi in competizione sono stati relegati a una platea ristretta, sottraendo loro quella sconfinata del Festival vero e proprio. Tutto questo, mentre negli ultimi anni le nuove proposte avevano trovato una collocazione più degna, tolte dalla semiclandestinità delle ore notturne e piazzate, da Carlo Conti per primo, in apertura delle varie serate. Non è questo il modo per aiutare i giovani a trovare visibilità: i giovani devono andare in gara a febbraio, inseriti nella formula che nel tempo si è dimostrata la più azzeccata ed efficace. Questa novità, invece, terrà lontani dall'Ariston talenti autentici come La Zero e il suo impegno sociale da teatro-canzone (sulla scia di Mirkoeilcane), gli originali e in parte già affermati La Rua, l'energico rock dei Mescalina, la varietà musicale di Fedrix and Flaw, la spiazzante contemporaneità dei Sisma, l'estro di Marte Marasco, la presenza scenica di Federico Angelucci, le doti autoriali di Federica Abbate. Mi sembra un passo all'indietro, più che un balzo nel futuro.

mercoledì 12 dicembre 2018

VERSO SANREMO 2019: GIRO D'ORIZZONTE SUI POSSIBILI BIG IN GARA A FEBBRAIO


Dicembre inoltrato: è tempo di fare il tradizionale punto sulla marcia di avvicinamento al Sanremo "dei grandi", quello in programma dal 5 al 9 febbraio prossimi. Le indiscrezioni quest'anno sono iniziate con larghissimo anticipo, col risultato che per due - tre mesi i nomi sulla bocca di tutti sono restati grosso modo gli stessi, in una litanìa financo stancante: limiti del giornalismo da web, che ogni giorno deve battere il ferro di un argomento particolarmente gettonato (e non vi sono dubbi che il Festivalone lo sia) anche se, in definitiva, non si hanno clamorose verità da rivelare al popolo degli internauti. Nella mia analisi seguirò il metodo già adottato per le edizioni passate, "annusando" un po' l'aria del mercato discografico, cercando di orientarmi fra rumors più o meno attendibili e aggiungendo qualche pronostico sulla base esclusiva di miei semplici "desiderata". Citerò molti papabili, perché il mio intento non è azzeccare il cast pedina per pedina (giochino che ho già fatto su Facebook con amici, ma, appunto, di un giochino si tratta), quanto compiere un giro d'orizzonte il più possibile completo e credibile. 
I SUPERBIG - Nelle ultime settimane si è parlato delle possibili partecipazioni, in concorso, di autentici mattatori delle chart "anni Dieci": dalla debuttante di lusso Alessandra Amoroso, sempre presente nelle voci della vigilia e puntualmente assente dal listone definitivo, a Francesco Renga, che non gareggia dal 2014 (quando mancò a sorpresa un trionfo che avrebbe largamente meritato, con "Vivendo adesso"); dai Modà, per i quali è giunto il momento di lanciare un nuovo progetto discografico, a Giusy Ferreri, spesso sfortunata a Sanremo ma interprete di due clamorose "summer hits" in tempi recenti, "Roma-Bangkok" e "Amore e capoeira". E poi, ancora, due vincitori dell'era Conti, Il Volo e Francesco Gabbani: soprattutto per i primi si tratterebbe di una ricomparsa sorprendente, visto che i tre ex bambini prodigio, ad occhio e croce, non hanno bisogno della spinta promozionale festivaliera per alimentare un'attività già intensissima anche in ambito internazionale; ma è pur vero che, finora, la loro luminosa carriera si è retta essenzialmente sulle cover, mentre sarebbe ora di sfornare un altro inedito in grado di farsi ricordare. Volendo, i tempi sarebbero maturi anche per una rentrée di Emma, mai più tornata a concorrere dopo il primo posto del 2012. Pressoché impossibile, ovviamente, vedere in lizza contemporaneamente tutti questi assi pigliatutto delle classifiche: verrebbe fuori un Festival monstre, in stile anni Sessanta, quando davvero la crema della canzone italiana andava in Riviera a proporre le nuove produzioni, senza paura di affrontare le forche caudine dell'eliminazione. 
RITORNI DAL PASSATO RECENTE - Azioniamo ora la macchina del tempo e passiamo in rassegna i cast degli ultimi Festivaloni, per cercare di capire chi potrebbe rimettersi in gioco fra i concorrenti di quelle edizioni. Non è escluso possano concedere un immediato bis Diodato, Le Vibrazioni e i Kolors, dopo partecipazioni ben accolte da critica e pubblico ma dagli esiti commerciali non esaltanti: Diodato, presentatosi con la convincente "Adesso", ha pagato forse lo scotto di non avere avuto un album pronto per cavalcare l'onda di popolarità regalatagli dall'Ariston, Sarcina e compagni si sono confermati con una buona prestazione estiva ("Amore zen"), il gruppo di Stash aveva portato in gara una orecchiabile e moderna "Frida" che però non ha sfondato come era logico attendersi, strano destino che ha riguardato molte pregevoli composizioni ascoltate nel primo Sanremo griffato Baglioni. Non dovrebbe mancare Ultimo, trionfatore fra i debuttanti e, lui sì, protagonista di un notevole exploit in fatto di vendite, mentre è lecito aspettarsi un... turno di riposo da parte di Noemi e Annalisa, assidue frequentatrici della rassegna, con l'artista ligure che è stata fra i pochi in lizza nel 2018 a centrare il traguardo del disco di platino. 
In tanti sono pronti a scendere in pista a ventiquattro mesi di distanza dall'ultima volta: Paola Turci, tornata prepotentemente alla ribalta a Sanremo 2017, una Bianca Atzei perennemente alla ricerca della consacrazione così come Chiara Galiazzo, Elodie reduce da una felice stagione calda grazie al duetto con Michele Bravi in "Nero Bali", due habitués del Festival come Michele Zarrillo  e Marco Masini, e Gigi D'Alessio, benché scottato dall'eliminazione subìta con "La prima stella". Fra i partecipanti all'edizione 2016, hanno buone carte da giocare Arisa (anche lei ex vincitrice, non dimentichiamolo), Dolcenera e Valerio Scanu, mentre Francesca Michielin potrebbe anche permettersi di rimanere a casa per la terza volta consecutiva, dopo un 2018 trionfale (un disco d'oro e uno di platino con "Io non abito al mare", un oro e due platino per "Fotografia" con Carl Brave e Fabri Fibra). Direttamente dal 2015 è attesa una possibile riemersione di Anna Tatangelo, Nesli, Gianluca Grignani e Irene Grandi, senza dimenticare Enrico Nigiotti, medaglia d'argento in quell'occasione fra i Giovani e successivamente esploso con "L'amore è", certificato platino. Si parla poco di Nek, eppure, rimettendosi in gioco dopo l'ospitata dell'anno passato, potrebbe tranquillamente ambire alla vittoria, definitiva consacrazione di una già ottima carriera. 
RAF E GLI ALTRI VETERANI - A proposito di Sanremo 2015: fu l'anno in cui Raf decise di ripresentarsi sul palco ligure dopo una lunghissima assenza. Ebbene, nei mesi scorsi si è ricomposto il duo con Umberto Tozzi: averli in gara aggiungerebbe prestigio al roster dei partecipanti, e sarebbe un'idea nel solco della coppia Facchinetti - Fogli schierata nell'ultima edizione. Sull'argomento, da citare le sibilline dichiarazioni del duo a "Verissimo" (ringrazio per la segnalazione l'amico Luca Valerio): "Molti  ce lo chiedono, noi siamo disponibili, ma non abbiamo ancora ricevuto comunicazioni". Che li si voglia dirottare nel "festival parallelo", quello animato dai superospiti italiani in passerella senza i rischi della gara? E, visto che si parla di ex Pooh, dopo i due già citati e dopo Red Canzian potrebbe essere la volta di Dodi Battaglia. Altri veterani in ballo sono Massimo Ranieri, Patty Pravo e Iva Zanicchi, mentre pressoché certa è la presenza di Loredana Bertè, prepotentemente riportata in orbita dal boom estivo coi Boomdabash e rifiorita anche sul piano vocale. 
IN CERCA DI RILANCIO - Si è parlato prima degli ex vincitori: detto del Volo, di Gabbani, Renga, Arisa ed Emma, potrebbero tentare l'impresa sanremese anche Marco Carta, quel Simone Cristicchi che negli ultimi tempi ha preferito il teatro di impegno civile alla musica pop, e Raphael Gualazzi, trionfatore fra i giovani nel 2011 e sempre portatore di proposte mai banali, ma che deve un po' rinfrescare il suo repertorio, visto che l'ultimo successo, la gradevole "L'estate di John Wayne", risale a due anni fa. C'è chi è ancor più bisognoso di un rilancio in grande stile: fra questi, un capitolo a parte lo merita un drappello di personaggi uscito dal tunnel grazie allo show di Amadeus "Ora o mai più". Penso a talenti cristallini come Lisa, Massimo Di Cataldo e i Jalisse: in particolare, la coppia che si impose a sorpresa a Sanremo '97 ha cominciato a prendersi delle belle rivincite, con la...Jalissa Alessandra Drusian che ha poi confermato il suo magic moment proponendosi in forma smagliante a "Tale e Quale show". C'è sempre la speranza di rivedere altre eccellenti artiste come Syria, Mietta, Alexia, Silvia Salemi, Mariella Nava, Marina Rei, tutte in diversa misura protagoniste degli anni Novanta e tutte ingiustamente snobbate dalla rassegna rivierasca, da un bel po' di tempo a questa parte. 
QUOTA RAFFINATEZZA, GIOVANI RAMPANTI E RAP - Un angolino per le proposte più "sofisticate" non è mai mancato, e men che meno mancherà con Baglioni confermato sulla tolda di comando. Le possibilità sarebbero infinite, per portare all'Ariston qualcosa di più ricercato eppur di grande impatto: Simona Molinari, Sergio Cammariere, Daniele Silvestri, Niccolò Fabi, Teresa De Sio, Niccolò Agliardi, e ragazzi "di nicchia" come Erica Mou, Patrizia Laquidara, Chiara Dello Iacovo, Zibba, Paolo Simoni, tutti lanciati dalla sezione Nuove proposte sanremese, fra l'altro. Proprio come Irama, che però ha trovato la consacrazione attraverso altre vie e che ora va ricompreso nella categoria dei giovani rampanti, dei nuovi protagonisti di classifiche, streaming e airplay. È un papabile, così come lo sono Riki, Thomas e Briga, tutti direttamente da Amici, o, alzando il livello, Levante, Baby K., Maneskin e Thegiornalisti.
A proposito dei preferiti dai ragazzi, va doverosamente aperto il capitolo rap, genere che è stato il mattatore assoluto del 2018, piaccia o non piaccia (a me non piace, sia messo agli atti, per non parlare della terribile "trap"). Quasi ignorato nel Sanremo numero 68, stavolta difficilmente il direttore artistico potrà passare oltre: da vedere se sarà il caso di reclutare personaggi già visti su quel palco e non in cima alle preferenze del pubblico, come Rocco Hunt e Clementino, o se si tenterà di puntare ai bersagli grossi inseguendo nomi di grido come Guè Pequeno, Emis Killa, Capo Plaza. Non dimentichiamo poi la quota Indie, un mazzo da cui salta spesso fuori qualche carta a sorpresa e imprevedibile, come Lo Stato Sociale del 2018. Infine, il regolamento lascia teoricamente aperte le porte agli stranieri: peraltro, negli ultimi anni solo il primo Carlo Conti inserì fra i big una cantante di fuorivia, Lara Fabian (e secondo indiscrezioni rimasero fuori star come Anastacia, Michael Bolton e Randy Crawford).  

mercoledì 21 novembre 2018

CLUB ITALIA: DOPO LA VITTORIA SUGLI USA IL BILANCIO ANNUALE È IN ATTIVO, ASPETTANDO CHE FIORISCANO GLI ATTACCANTI

                                                  Kean, primo "millennial" azzurro

"Nuovi cieli azzurri, dopo un anno nero", cantava Pupo a Sanremo '83. Versi che ben si adattano al momento attuale del Club Italia. Giunti al termine del primo periodo della gestione Mancini, un periodo contraddistinto da amichevoli e gare di Nations League, si può ben dire che la luce in fondo al tunnel sia finalmente comparsa: non è ancora vivida, ma c'è, è lì, pronta ad essere raggiunta. Da Genova a Genk, dal match con l'Ucraina a quello con gli Stati Uniti, abbiamo potuto finalmente intravedere qualcosa che somiglia molto da vicino a una squadra vera. I progressi sono stati perfino inaspettati nella loro rapidità: perché se è vero che solo dalla sesta partita col neo CT in panca il gioco ha preso a lievitare in misura considerevole, è altresì innegabile che prima c'era stato il buio o quasi, col fondo toccato in occasione delle due mortificanti sfide di andata con Polonia e Portogallo. 
PIEDI BUONI, ESPERIENZA E GIOVANI - C'è un gruppo che sta prendendo forma, c'è una manovra di buona qualità estetica ma anche efficace, visto che le palle gol, nelle ultime partite, sono state prodotte in quantità ben più che accettabile, col picco toccato ieri sera in Belgio. Si è creato un buon mix fra esperienza e gioventù: tanta esperienza in difesa, con Bonucci e Chiellini che stanno anche preparando la strada al definitivo ingresso fra i titolari di Romagnoli, Caldara, Rugani e magari qualche Under pronto ad esplodere (Romagna? Calabresi?), tanta gioventù nella zona nevralgica, la più bella sorpresa di quest'ultimo scorcio di 2018, un reparto che, grazie ai piedi buoni e alla precisione nel palleggio di Verratti, Jorginho e Barella, riesce a impadronirsi dell'iniziativa in ogni incontro, perdendola solo per... esaurimento fisico, come avvenuto sabato scorso coi portoghesi; senza contare che dietro al trio titolare stanno emergendo virgulti di notevole credibilità: contro gli States abbiamo ad esempio visto all'opera un Sensi nelle vesti di debuttante di lusso, sicuro in ogni giocata, aggressivo, propenso al sacrificio, ordinato e razionale. 
PRECEDENTI INCORAGGIANTI. LA RINASCITA DOPO STOCCARDA '74 - Dunque, penso sia lecito, dopo l'ultima uscita della Nazionale in quest'anno solare, abbandonarsi a un cauto ottimismo. Del resto, azionando la macchina nel tempo e tornando indietro ad altre fasi di ricostruzione azzurra, le analogie con quella odierna sono molto più numerose di quanto si pensi. Pensiamo al biennio successivo al fallimento di Stoccarda '74, il Mondiale del tramonto degli eroi "messicani": la nostra rappresentativa, che Fulvio Bernardini guidò da solo per una stagione prima di essere affiancato da Bearzot, fu a lungo preda di una esasperante sterilità offensiva proprio come la selezione del Mancio. È sufficiente citare i numeri: nelle sei partite ufficiali del '74/75, l'Italia andò a segno solo due volte (di cui una su rigore), vinse un'unica gara (deludente 1-0 in casa della Finlandia), ne perse tre e si esibì in spettacoli calcistici decisamente modesti, con la sola eccezione di un ottimo primo tempo in casa dei super olandesi, in un confronto poi comunque perso per 1-3. 
IL RODAGGIO DI GRAZIANI, BETTEGA E VIALLI - Giusto ricordare, per onestà, che a inizio '75 ci furono anche due amichevoli non ufficiali nelle quali i nostri riuscirono a sprigionare un'insolita potenza di fuoco in prima linea: quattro reti alla Norvegia e ben dieci agli USA. Ma, appunto, furono impegni di allenamento di non grande attendibilità, come anche la stampa dell'epoca riconobbe. Pure l'avvio della stagione '75/76 fu contraddistinto da altre recite all'insegna di un'incisività quasi nulla: un gol in tre match, ad opera del centrocampista Capello, prodezza che fruttò una vittoria di prestigio sull'Olanda. Dalle uscite successive, con Grecia e Portogallo, gli attaccanti cominciarono ad ingranare: ma i Graziani, i Pulici e i Bettega erano in rosa già da prima, erano scesi in campo più volte, senza trovare mai il successo personale. E anche dopo Mexico '86, la rifondazione da parte di Azeglio Vicini fu assai laboriosa. Ricordate Vialli? Per tre anni, dall'87 al '90, fu il simbolo della bella e scintillante "giovane Italia", di cui divenne implacabile finalizzatore con strepitose prodezze sotto porta; eppure, debuttante in azzurro nel novembre '85, dovette accumulare varie presenze prima di sbloccarsi, con un gol al materasso Malta nel gennaio '87. Nel frattempo, a tenere in piedi sul piano offensivo la nostra compagine dovettero pensare i difensori o le puntuali reti del sempreverde Spillo Altobelli. 
SELEZIONE NATURALE - Sottolineo questi precedenti perché, allora come oggi, la nostra prima linea sembrava formata da "punteros" di scarso peso internazionale: calciatori che poi hanno invece dimostrato di poterci stare alla grande, sulle ribalte più impegnative. Ecco quindi che occorrono pazienza e fiducia: spesso si tratta solo di andare a regime, di trovare i giusti automatismi con i compagni, di smaltire l'emozione dei primi passi con la casacca tricolore. Poi, chiaro, ci sarà una naturale selezione, e non tutti potranno far parte del gruppo che affronterà il difficile impegno del 2019, ossia le qualificazioni ad Euro 2020: rimarranno i migliori o i più pronti, proprio come ai tempi di Bernardini e Bearzot, quando Chinaglia e Savoldi sparirono presto dai radar a vantaggio dei campioni prima citati, che scrissero diversi luminosi capitoli della storia del Club Italia. 
IMMOBILE, LASAGNA E GLI ALTRI: PROSPETTIVE AZZURRE - Ecco perché, dunque, la sterilità offensiva attuale deve preoccupare ma non allarmare. Finché si manovra con brillantezza e si creano occasioni, vuol dire che c'è un'ottima base su cui lavorare. Dopodiché, bisognerà iniziare a concretizzare, ed ecco quindi la necessità di passare al setaccio le pedine dell'attacco: per Immobile, ad esempio, le prove d'appello a disposizione stanno per esaurirsi, mentre Lasagna va rivisto, anche dopo i tre gol mancati ieri sera al cospetto degli americani. Una sfida, quella di Genk, in cui la nostra prodigalità ha rasentato l'autolesionismo: hanno sfiorato la segnatura anche Chiesa, Bonucci (splendido l'assist su punizione di Sensi) e Berardi con un bel sinistro dal limite nel primo tempo, e nella ripresa Verratti di testa, Grifo (sorpresissima delle convocazioni) con un potente destro deviato dal portiere Horvath, Kean (primo Millennial azzurro) con un tiro cross rasoterra e il citato Lasagna, ripetutamente. A fil di sirena è arrivato il sospirato gol, un gol bello e difficile, frutto di una pregevole triangolazione fra un Verratti lucido e propositivo fino al termine e il neo entrato Politano, a segno di destro sull'uscita del guardiano avversario. Una parziale conferma di quanto scritto dopo San Siro: se non ci sono attaccanti centrali che realizzano, occorre percorrere strade alternative; fra queste, quella di affidarsi agli inserimenti di incursori come l'interista, o come Bernardeschi e Insigne, è sicuramente una delle più praticabili, ma non basta a renderci competitivi. La punta di peso va cercata, e se non si trova va costruita con un lavoro paziente e certosino. 

VERSO SANREMO 2019: PUBBLICATO IL REGOLAMENTO. A FEBBRAIO SARÀ GARA A GIRONE UNICO


Con la pubblicazione del regolamento sul sito ufficiale, la marcia di avvicinamento a Sanremo 2019 entra nel vivo. È arrivata la conferma, nero su bianco, di ciò che il direttore artistico Claudio Baglioni aveva già annunciato e ampiamente illustrato fin dalla scorsa estate. Il Festivalone cambia volto, dunque, per l'ennesima volta nella sua quasi settantennale storia: da rilevare, però, che non ci troviamo di fronte a novità assolute, quanto al ripescaggio di formule vincenti del passato, in parte rivedute e corrette per l'occasione. Vale per lo sdoppiamento della kermesse con una ribalta autunnale riservata agli emergenti, un'invenzione di Pippo Baudo che risale agli anni Novanta; e vale per quanto accadrà dal 5 al 9 febbraio prossimi. 
Si torna al listone unico di concorrenti, questa l'innovazione: concorso fra ventiquattro cantanti, ventidue big più i due giovani vincitori della rassegna che andrà in scena a dicembre. Non accadeva dal 2004, è accaduto solo due volte negli ultimi quarant'anni. Eppure, si tratta del format base con cui la kermesse rivierasca è nata, è cresciuta e si è affermata. Le edizioni del boom di popolarità e di vendite discografiche, quelle fra il '64 e il '71, si svolsero tutte secondo questo canovaccio, ma con una differenza sostanziale rispetto a ciò che avverrà nel Festival numero 69: all'epoca, c'era gara senza esclusione di colpi fin dalla prima serata, c'erano le eliminazioni. Vedettes italiane e straniere rischiavano da subito di essere sbattute fuori, e in effetti molti nomi eccellenti dovettero mandar giù bocconi amarissimi: da Celentano a Modugno, da Cher a Marianne Faithfull, i delusi non si contavano, in quegli epici Sanremo all'arma bianca. Era una formula che piaceva al pubblico televisivo dei tempi, appassionato di lotte canzonettistiche allo spasimo, era verosimilmente poco amata dagli artisti ma evidentemente gradita agli industriali della musica, i quali altrimenti non avrebbero fornito ogni anno agli organizzatori i nomi più prestigiosi presenti sul mercato. 
Oggi, invece, niente eliminazioni: in ventiquattro partiranno e in ventiquattro arriveranno. È il marchio di fabbrica della gestione Baglioni: accadde infatti anche nell'ultima edizione, quando tutti i partecipanti giunsero fino alle due competizioni conclusive (venerdì i giovani, sabato i "grandi"). Da buon cantautore italiano, categoria da sempre refrattaria alle gare, una volta chiamato a dirigere la più importante ha voluto da subito "ammorbidirne" i contorni, riducendo al minimo i rischi di brutte figure per i partecipanti. E va detto che ci ha visto giusto: molti temevano un tracollo di audience, dopo anni in cui la platea italiana si era abituata a sfide serratissime, a un Sanremo estremamente competitivo, pur con varie sfumature; invece, la kermesse 2018 è stata un successo televisivo. La delusione è semmai venuta dal riscontro commerciale delle canzoni in lizza, tutt'altro che esaltante. Riscontro che personalmente mi ha sorpreso, in quanto ritenevo e ritengo tuttora di buon livello qualitativo il pacchetto di proposte presentate quest'anno all'Ariston.
Se, dunque, sul piano del gradimento catodico il buon Claudio dovrebbe essere in una botte di ferro, sarà invece chiamato a lavorare di cesello per scovare opere in grado di imporsi anche a manifestazione conclusa. Rispetto all'ultima edizione firmata da Carlo Conti, trionfante sia sul piccolo schermo sia nei negozi di dischi reali e virtuali, la prima dell'artista romano si è contraddistinta per un cast più variegato, multiforme, aderente ma non troppo al gusto corrente: c'erano alcuni dei divi del momento, come Meta - Moro, Noemi e Annalisa, ma anche veterani da tempo un po' fuori dal grande giro commerciale, penso a Barbarossa, ad Avitabile o ai Decibel, e proposte di alto taglio autoriale come quella del trio Vanoni - Bungaro - Pacifico. Quest'anno occorrerà probabilmente fare meglio i conti con l'attuale realtà discografica italiana, il che vorrà dire ad esempio aprire le porte a qualche rapper, ma non solo. 
Già, perché il panorama musicale del Bel Paese è oggi molto più ricco di quanto si creda, se si ha la buona volontà di non fermarsi al mainstream e all'heavy rotation radiofonica. C'è una nicchia affollatissima di ragazzi da tempo sulla breccia con produzioni di notevole livello. Qualche nome? Ce ne sono tantissimi, ma mi piace citare Patrizia Laquidara, Paolo Simoni, Erica Mou, Zibba, Antonio Maggio, Simona Molinari, Chiara Dello Iacovo (tutti passati dal vivaio sanremese in tempi più o meno recenti, fra l'altro), gente che ha ampiamente dimostrato di saper fare musica D.O.C., che ha il suo giro di fans e di serate, ma che rischia di rimanere confinata a vita in un limbo lontano dai riflettori delle grandi platee. E Claudio Baglioni ha la personalità, il coraggio, gli orizzonti culturali per dare una chance anche a qualcuno di loro, oltre ai soliti noti. Il girone unico, in tal senso, rappresenta un'opportunità unica per fare un Sanremo diverso, più ricco di tendenze canore, più "democratico".  

domenica 18 novembre 2018

NATIONS LEAGUE: PASSA IL PORTOGALLO MA L'ITALIA C'È, ECCOME. DIFESA SOLIDA E CENTROCAMPO DI LUSSO, MANCA IL BOMBERONE

                                                   
                                                                         Verratti, fra i migliori

Delusione? Suvvia, non scherziamo. Solo gli ottimisti a oltranza potevano sperare in un aggancio in extremis della final four di Nations League: il vero obiettivo di questo primo scorcio di stagione, per l'Italia, era la salvezza, ed è stato ottenuto brillantemente in Polonia. Non un'impresa da poco, se pensiamo ai balbettii di inizio torneo e se vediamo la fine che ha fatto la Germania, passata in pochi mesi dagli altari planetari alla polvere della Serie B europea. È ancora una Nazionale in cantiere, la nostra, e solo nell'ottica della ricostruzione in corso vanno interpretati i segnali giunti dalla sfida di San Siro col Portogallo (il quale anche in caso di sconfitta avrebbe poi avuto un bel match point contro Piatek e compagni). 
OCCASIONI A GO GO - Segnali positivi e bicchiere mezzo pieno, senza alcun dubbio. In settembre, i nostri ragazzi naufragavano a Lisbona dopo una recita all'insegna dell'impotenza offensiva e del disagio tattico: ebbene, sembra passato un secolo. Ieri sera, per un'ora abbondante, la squadra di Mancini ha confermato gli enormi progressi già emersi a Genova e in terra polacca. Il ritrovato gusto per il gioco manovrato, la precisione nel tocco di palla e nei passaggi, la volontà di tenere sempre e comunque pallino, di aggredire. I campioni d'Europa in carica sono stati totalmente in balìa degli azzurri: incapaci di imporre la loro classica ragnatela, impossibilitati a ripartire, costretti ad armare una mera difesa passiva. Ai punti, in quei due terzi di gara, la vittoria italiana è stata schiacciante, con occasioni in serie: Insigne dalla distanza ha chiamato Rui Patricio a una difficile parata, e sulla ribattuta Immobile ha calciato alto; Florenzi ha sfiorato il palo con un destro dal limite; ancora Immobile, splendidamente liberato davanti al portiere da Verratti, si è fatto respingere la conclusione dall'estremo portoghese; Bonucci di testa, su punizione di Insigne, ha mandato sull'esterno della rete; e dulcis in fundo, in avvio di ripresa, Chiesa ha mancato il bersaglio da pochi metri (tiro deviato in corner) dopo una bella combinazione Verratti - Biraghi. 
CENTROCAMPO DI QUALITÀ, INSIGNE OK, IMMOBILE DOUBLE FACE - Il problema del Club Italia del Mancio, a ben vedere, è tutto qui: manca il killer instinct, manca la capacità di finalizzare. Non è poco, sicuramente, ma il quadro complessivo pare decisamente roseo: incredibilmente roseo, direi, se si pensa a come eravamo ridotti. Il centrocampo, che aveva fatto naufragio nelle prime uscite stagionali, ha ormai trovato una buona quadratura: Verratti si è reso protagonista della sua prova più autorevole in maglia tricolore, impadronendosi delle redini del gioco e non limitandosi, come spesso gli è capitato, a dare il meglio in interdizione; accanto a lui, anche Jorginho è lievitato a ottimi livelli di rendimento, mostrando inoltre una personalità che raramente si era vista nelle sue apparizioni pre Chorzow; Barella si è confermato giocatore coraggioso e utile nelle due fasi, deve solo trovare continuità nell'arco dei novanta minuti.
Purtroppo, l'ottima tessitura del reparto di mezzo si è scontrata con l'evanescenza della prima linea, in cui il solo Insigne ha mostrato vivacità e intraprendenza (anche per lui, la migliore prestazione di sempre in rappresentativa), mentre Chiesa si è dannato l'anima con scarsi risultati (e a volte scarsa collaborazione dei compagni); quanto a Immobile, polveri bagnate come troppo spesso gli capita quando è chiamato a indossare la casacca nazionale: clamoroso, in particolare, il gol mancato in avvio dopo la staffilata di Lorenzino.
GAP FISICO - Oltre all'incapacità di pungere, il campanello d'allarme è giunto dal netto calo fisico dell'ultima mezz'ora, che ha consentito a un Portogallo fin lì annichilito di assumere il controllo delle operazioni arrivando persino a sfiorare un'immeritata vittoria, con un velenoso tiro di William Carvalho sul quale Donnarumma si è esibito in un intervento sensazionale, confermando il buon rendimento recente in azzurro. La scarsa resistenza atletica sulla lunga distanza è un limite che caratterizza molte formazioni nostrane nei confronti internazionali, da diversi anni a questa parte, ma ci si può lavorare, e del resto il problema del Meazza è stato a monte: cioè arrivare a quella fase finale col fiato corto, senza aver prima concretizzato l'enorme mole di pregevole lavoro svolto. 
DILEMMA OFFENSIVO: CUTRONE È LA SOLUZIONE? - Torniamo dunque al problema - base: non c'è il bomber, il Vieri o l'Inzaghi della situazione, capace di trasformare in gol anche la palla più sporca (fermo restando che un po' tutti debbono aggiustare la mira...). Con Balotelli di nuovo in... purgatorio, con Belotti che solo ora sta uscendo da un periodo opaco, con Immobile Dottor Jekyll e Mister Hyde, rimane da provare Cutrone, e fossimo nel cittì non staremmo più tanto a pensarci su: il ragazzino sciorina fiuto del gol e capacità realizzative fin dai primissimi passi mossi in Serie A, ha doti tecniche e sfrontatezza giuste per ben figurare anche in un contesto di elevata competitività. In alternativa, bisogna sperare in una "operazione Napoli", ossia inventarsi un fromboliere dal nulla come riuscì a Sarri con Mertens quando si vide privato di Higuain, suo naturale terminale offensivo, oppure creare una cooperativa del gol come fece Lippi con la sua Italia mondiale 2006. Operazioni difficili che richiedono tempo, applicazione ed esercitazioni ripetute: e il tempo è poco per questa Nazionale, che nel 2019 si vedrà proiettata nelle qualificazioni all'Europeo itinerante, un obiettivo che non possiamo mancare. 
PIU' CONFERME CHE SMENTITE - Detto questo, il paragone fra le due "delusioni milanesi" a distanza di un anno, Svezia e Portogallo, non regge, checché ne dicano certi commentatori: nel novembre 2017 eravamo azzerati, avevamo toccato il fondo. Oggi, l'opera di ricostruzione della selezione ha raggiunto un grado insperato: centrocampo qualitativo, difesa dal rendimento ottimale (con un Chiellini che ha onorato al meglio la sua centesima maglia azzurra), "movimentatori offensivi" in palla (non solo Insigne ma anche Bernardeschi, la cui assenza si è avvertita non poco contro i lusitani), occorre trovare chi la "sbatta" dentro. Ma il bicchiere, lo ripetiamo, resta mezzo pieno: l'Italia c'è, c'è di nuovo, e un mese dopo, contro un avversario più forte della Polonia, ha fornito più conferme che smentite. Guardiamo avanti con moderata fiducia. 

lunedì 15 ottobre 2018

NATIONS LEAGUE: IN POLONIA UN'ITALIA DA STROPICCIARSI GLI OCCHI. GIOCO DI GRANA FINISSIMA, MA URGE PESO IN ATTACCO


Da stropicciarsi gli occhi. Non è ancora giunto il momento di celebrare la rinascita della Nazionale italiana: la strada è lunga e occorre pazienza, lo ha sottolineato a più riprese lo stesso cittì Mancini. Però due indizi possono cominciare a fare qualcosa che si avvicina a una prova: se già nell'amichevole genovese con l'Ucraina si erano visti quarantacinque minuti di buone trame, aggressività e ripetuti pericoli per la porta avversaria, in un test più difficile e probante, quello di Nations League in casa della Polonia, ultimativo scontro salvezza, abbiamo assistito a una crescita ulteriore e persino insperata, nelle proporzioni. 
I BIDONI SONO ALTRI... - Piccolo promemoria: quella attuale, secondo molti esperti e appassionati (non secondo me, e il blog lo testimonia) è una generazione azzurra di scarti, scarponi, mezze calzette. Ebbene, non penso che calciatori di modeste qualità siano in grado di giocare gare come quella di Chorzow. Le squadre mediocri possono cavarsela, spesso ma non sempre, gettando il cuore oltre l'ostacolo, puntando su "garra" e applicazione ferrea delle consegne tattiche. Ma ieri sera in Slesia è accaduto qualcosa di diverso: ha preso forma un undici capace di far gioco, e di farlo bene. Da stropicciarsi gli occhi, sì: idee chiare e abilità nel metterle in pratica, precisione quasi assoluta nel tocco di palla e nei passaggi (cosa che in azzurro non si vedeva da anni, davvero), manovre in velocità condotte con disinvoltura e fluidità, un controllo del match pressoché costante, contro una Polonia che aveva le nostre stesse necessità di classifica, che giocava in casa e che è comunque una formazione già fatta e finita al contrario della nostra, e tuttavia si è vista costretta a difendersi a oltranza affidandosi a sporadici contropiede, nati spesso dai rari errori del nostro pacchetto di mezzo. 
CRESCITA ESPONENZIALE - Una squadra di calcio. Con una manovra razionale, lineare ma al contempo bella a vedersi. Sinceramente, alla luce del dignitosissimo materiale umano a disposizione, auspicavo sì un sensibile progresso a breve termine, ma non mi aspettavo di vedere così presto, in questa difficilissima gestione manciniana, espressioni di gioco a tal punto elevate. Poi possiamo dire tutto e il contrario di tutto per sminuire la prova dei nostri, come è tipico degli incontentabili tifosi e critici di casa nostra: potremmo ad esempio parlare della selezione biancorossa in parabola discendente già dal grigio Mondiale russo, e quindi non propriamente una potenza di primo piano del football europeo. Sarà, ma è la stessa rappresentativa che, senza strafare, ci aveva agevolmente bloccati a Bologna, sfiorando il trionfo. E allora, prendiamo almeno atto del fatto che la crescita è in corso, che i bagliori del Ferraris non erano fatti isolati e legati alla mancanza di una tangibile posta in palio. E aggiungiamo che per catalogare i Florenzi e i Verratti, i Chiesa e i Bernardeschi come mediocri, forse bisognerebbe attendere qualche prova ulteriore e sospendere il giudizio. 
RISOLTO IL REBUS DEL CENTROCAMPO? - Poteva finire zero a zero, certo: sarebbero rimaste l'amarezza per una vittoria sacrosanta mancata per questione di centimetri, ma anche la soddisfazione di aver finalmente cominciato a intravedere la luce in fondo al tunnel. Una cosa per volta: il rebus del centrocampo, per esempio, pare esser stato risolto, anche se il pallone può smentire domani quello che dice oggi. Il ritorno di Verratti e l'innesto di Barella hanno rivitalizzato anche Jorginho. Ciò vuol dire che il talento, soprattutto nel settore nevralgico, è importantissimo, ma non è tutto: perché ad esempio i Pellegrini e i Cristante visti a inizio stagione sono fior di virgulti su cui si potrà continuare a contare, ma la "chimica", l'alchimia giusta è sbocciata fra i tre che hanno occupato la fascia mediana nelle ultime due uscite. Sono tre ragazzi che posseggono personalità e che, ognuno in percentuali diverse, sanno abbinare qualità e quantità, sanno giocare di fino (e a Chorzow l'hanno fatto ripetutamente) ma anche mulinare la clava, e a tal proposito ha compiuto grossi passi avanti rispetto a Genova soprattutto il giovane cagliaritano, a tratti persino troppo deciso in interdizione. 
FLORENZI TORNA UNA SICUREZZA, BIRAGHI SI RISCATTA - Nelle retrovie, Bonucci e Chiellini hanno chiuso a doppia mandata la porta davanti a un Donnarumma sempre convincente nelle poche occasioni in cui è dovuto intervenire (due volte su Grosicki, sostanzialmente). Le due "chiocce" tengono caldo il posto per Rugani, Caldara e Romagnoli, che avranno modo di inserirsi con serenità in una compagine non più provvisoria ma già delineata in buona parte, e quindi ben sicura sulle proprie gambe. Sulle fasce, Florenzi è tornato una risorsa fondamentale per il Club Italia, davvero inesauribile nelle due fasi e puntuale negli inserimenti offensivi; meno continuo e preciso Biraghi, il cui gol finale in spaccata su corner "monda" comunque tutti i peccati. Già, il gol: se dovessimo giudicare solo sulla scorta delle ultime partite, sembra rimasto l'unico problema grave della selezione azzurra. In realtà altri aspetti sono da mettere a punto, ed è giusto essere preparati fin da ora ai probabili sbalzi di rendimento che potranno caratterizzare, com'è normale che sia, la maturazione di un gruppo giovane e non molto esperto a livello internazionale. Ma è un dato di fatto che, se non la metti dentro, in certe competizioni non si va lontano. Abbiamo dovuto aspettare il raro acuto di un terzino nei minuti di recupero per incamerare un successo che, ai punti, avevamo strameritato molto prima. 
LE OCCASIONI CI SONO, I GOL ARRIVERANNO - Ribadisco tuttavia quanto avevo scritto dopo l'Ucraina: creare occasioni, concludere a rete con frequenza, essere presenti nell'area avversaria in maniera sempre e comunque insidiosa, è un'eccellente base di partenza per costruire qualcosa di importante. E in Polonia l'Italia ha tirato pericolosamente con una frequenza che, al cospetto di avversari di una certa statura, non faceva registrare probabilmente dall'Europeo del 2016, dalle splendide sfide con Belgio e Spagna: nel primo tempo, ci hanno provato due volte ciascuno Jorginho e Insigne (con un legno a testa), e Szczesny, che già aveva sventato uno splendido diagonale del nostro italo-brasiliano, ha tolto dalla porta un'inzuccata di Chiellini e un destro di Florenzi, giunto al culmine di uno dei tanti scambi in velocità condotti dai nostri fra trequarti e sedici metri.
Nella ripresa, un tiro alto di Biraghi su traversone da destra e due tentativi di Bernardeschi, con un bel sinistro da fuori e, prima, con un colpo di testa da posizione favorevolissima su cross di Chiesa, mandato sciaguratamente a lato. Non vincere una gara così, con una tale messe di palle - gol, sarebbe stato da guinness dei primati... È bene che anche chi arriva da dietro sia incisivo sotto porta, come ha saputo fare il laterale della Fiorentina, ma gli attaccanti devono finalizzare. Il trio davanti ha confermato quanto di buono e di meno buono mostrato a Marassi: ottimo tourbillon, prontezza nel proporsi, caparbietà, ma manca ancora il killer instinct. Con un Vieri o un Pippo Inzaghi al centro, la vittoria avrebbe potuto assumere proporzioni clamorose. Vieri e Inzaghi non li abbiamo più, ma forse potrebbe bastare un Belotti nuovamente al top, o magari un Cutrone che, parere mio, è già da Nazionale maggiore... 

giovedì 11 ottobre 2018

CLUB ITALIA: CON L'UCRAINA AZZURRI BELLI A METÀ. BUONE TRAME DEL TRIO OFFENSIVO, ESORDIO DI SPESSORE PER BARELLA


Siamo in una fase della "ricostruzione azzurra" in cui occorre guardare al bicchiere mezzo pieno, perché sennò è finita. L'Italia continua a non vincere, manca l'appuntamento per la quinta volta consecutiva. Certo, c'è chi ha fatto peggio in passato, anche in tempi più o meno recenti: penso all'ultima declinante stagione del cittì Prandelli, che fra il 2013 e il 2014 rimase a secco di successi per sette gare, per non parlare dell'insospettabile Bearzot dell'annata post Mundial '82, nella quale mise insieme soltanto tre pareggi e tre sconfitte. 
FRA CALCIO E TRAGEDIA - È dunque il caso di non essere troppo schizzinosi, anche se da parte del Mancio ci si aspettava un avvio più convincente, sul piano dei risultati. Teniamoci quanto di buono ha espresso la Nazionale nel rendez - vous di Marassi con gli ucraini di mister Shevchenko, una di quelle gare che risulta oltremodo difficile da valutare in chiave strettamente calcistica, in quanto troppo labile è il confine fra fatto tecnico e quadro emotivo, nella fattispecie legato alla particolare (diciamo pure drammatica) situazione che Genova sta vivendo dal 14 agosto scorso. "Genova nel cuore": il logo simbolo del crollo del ponte Morandi ieri sera campeggiava sulle magliette sfoggiate dai bambini durante l'inno, sulle maniche delle casacche indossate dagli azzurri, sul tabellone luminoso dello stadio. E poi c'è stato il caloroso applauso di atleti e pubblico al minuto 43, 43 come le vittime di quell'assurda, ingiustificabile catastrofe. 
CRESCITA IN ATTACCO - Ecco, diciamo che, per quanto occorra sempre pesare le parole allorché si accostano calcio e vere tragedie della vita, fino a quel fatidico minuto i nostri calciatori hanno onorato l'impegno che si erano prefissi, quello di regalare ai genovesi qualche minuto di serenità e di spensieratezza. E' stata così la migliore Italia della nuova gestione, un'Italia volitiva, aggressiva, con le idee ben chiare e con la capacità di arrivare frequentemente al tiro, capacità che era quasi totalmente mancata nelle precedenti uscite. Il primo tempo poteva concludersi con un vantaggio persino insperato per la nostra rappresentativa: hanno concluso pericolosamente Bernardeschi, Chiesa, Bonucci, Insigne e Barella, e il portiere ucraino Pyatov ci ha sovente messo affannose pezze. Si è invece arrivati all'intervallo a reti bianche, con la constatazione che l'incapacità di concretizzare risulta al momento uno dei più grandi limiti della Nazionale, un limite che la tiene a distanza notevole dalle migliori espressioni del football europeo. Però il passo avanti c'è stato, perché una cosa sono le recite all'insegna dell'impotenza offensiva tipo quelle recentissime con Polonia e soprattutto Portogallo, un'altra è mancare occasioni per imprecisione propria e bravura del numero uno avversario, occasioni che però sono state costruite con apprezzabile continuità. Insomma, è banale dirlo, ma per segnare bisogna creare palle gol: e se si creano, prima o poi i gol arrivano. 
RIPRESA "ANNACQUATA" - Molte le cose apprezzabili viste nel primo tempo: in primis, la rapidità e l'incisività delle nostre incursioni in avanti, con un trio d'attacco che ha girato tutto sommato su buoni livelli. Insigne in crescita pur se intermittente, Chiesa meno preciso del solito ma comunque sempre nel vivo delle azioni, Bernardeschi il migliore del lotto per intraprendenza e proprietà di palleggio. Giusto che la gioia della rete sia toccata a lui nella ripresa, pur se con la complicità di quel Pyatov fino ad allora decisivo, ma a quel punto la partita aveva già cambiato volto. Italia in flessione atletica, Ucraina in crescita e pure fortunata, visto che riusciva a trovare il pari alla prima vera azione insidiosa, con un tiro di Malinovskiy sugli sviluppi di un corner, quel Malinovskiy che poi coglieva una clamorosa traversa direttamente su punizione (e dopo pochi secondi Donnarumma salvava su inzuccata di Stepanenko). Arrivavano anche le sostituzioni in serie, ben sei, ad annacquare il gioco dei nostri e a rendere del tutto inattendibile buona parte della ripresa.
CENTROCAMPO PLAUSIBILE, BARELLA OK - Prima, si erano avute notizie confortanti anche dalla zona nevralgica, conclamato tallone d'Achille di questo abbozzo di Nazionale "mancinesca". Dopo le recite imbarazzanti di Bologna e Lisbona, si è visto un reparto più concreto e in palla, grazie soprattutto a Verratti, peraltro come al solito più utile nella fase di interdizione che in quella di costruzione, e all'esordiente Barella, che si è confermato elemento di ottima statura e che ha fatto sentire il peso del suo gioco soprattutto dalla trequarti in avanti, sfiorando anche la segnatura con una bordata dalla distanza. Poche invece le indicazioni da una retroguardia scarsamente impegnata per larga parte della gara, con un Florenzi valido ma non precisissimo in fase di spinta e un Bonucci che ogni tanto ha cercato di dare sbocchi alternativi alla manovra come faceva nelle precedenti gestioni azzurre, con lanci lunghi peraltro mai sfruttati dai compagni. 
Null'altro da aggiungere su Italia - Ucraina: una mezza partita che ha regalato il bicchiere mezzo pieno di cui si è detto all'inizio. Basterà per la trasferta in Polonia? Difficile dirlo, ma intanto Bobby-gol può lavorare su una base tecnica più confortante, su elementi cardine che si stanno ritrovando (Verratti, Insigne), e su alcuni piedi buoni (Bernardeschi, Barella) che, accumulando ancora un po' di esperienza, hanno tutto per incrementare il tasso di pericolosità del Club Italia. Si va avanti a piccoli passi, insomma, ma si va, e guai a lasciarsi abbattere. 

martedì 18 settembre 2018

WIND SUMMER FESTIVAL 2018: TRIONFA "AMORE E CAPOEIRA" IN UNA BELLA FINALE ALL'INSEGNA DEL LIVE, DELLE GRANDI PERFORMANCE E DELLA MUSICA ITALIANA


"Amore e Capoeira" è la canzone dell'estate, secondo il Wind Summer Festival 2018. Cominciamo da qui, dalla notizia principale, per raccontare un'edizione della kermesse, quella conclusasi domenica sera a Milano, che è risultata sotto molti aspetti diversa dalle precedenti. A partire proprio dal brano vincitore: che può piacere o non piacere, ma è stato l'autentico tormentone di questi tre mesi di canicola, né più né meno di un "Vamos a la playa" o di un "Run to me", esempi old school di quell'easy pop vacanziero tanto rimpianto dai nostalgici e che negli ultimi anni sta conoscendo, mi pare, una nuova era di benessere. Già con questo verdetto c'è stata una inversione di tendenza rispetto all'albo d'oro della kermesse, che ha dato gloria a titoli non certo entrati nella storia della musica da spiaggia, da "Liar liar" di Cris Cab a "This girl" di Kungs, fino allo stesso "Pamplona" del 2017, che ha goduto di buonissimi riscontri di mercato ma non aveva le stimmate di quei pezzi in grado di caratterizzare un'estate e di imprimersi nella memoria popolare. In tal senso l'unica eccezione, finora, era stata  la gettonatissima "El mismo sol" di Alvaro Soler, incoronata nel 2015.
NOVITÀ FONDAMENTALI - Il trionfo del quartetto Takagi - Ketra - Sean Kingston - Giusy Ferreri rappresenta quindi una certificazione "nero su bianco" di ciò che davvero è andato per la maggiore nella stagione ormai giunta al capolinea: certificazione che, ad esempio, mancò proprio alla citata "Vamos a la playa" dei Righeira, i quali non vinsero il Festivalbar dell'83 solo perché erano schierati... fuori concorso (il successo andò alle "Bollicine" di Vasco Rossi). E già che si parla di Festivalbar, debbo ribadire quanto più volte scritto negli anni passati, ossia che la manifestazione targata Wind ha ormai assunto la stessa dignità dell'illustre antenata. 
Dodici mesi or sono, per dire la verità, non ero stato tenerissimo col Summer Festival, che aveva segnato un po' il passo rispetto agli esordi, essendo diventato un concorso prevedibile e privo di pathos proprio come le ultime edizioni della gara ideata dal compianto Vittorio Salvetti. Quest'anno si è invece recuperato terreno, soprattutto per il deciso cambio di rotta nella struttura dell'evento: non più quattro serate a giugno trasmesse in tv in differita e poi addio, ma l'aggiunta, fondamentale, di una finalissima settembrina in diretta. per decretare una canzone dell'estate con tutti i crismi, ossia pesandone il rendimento lungo tutto l'arco della bella stagione. Una modifica alla formula che, nel mio piccolo, suggerivo da anni, che è stata finalmente apportata e che fa davvero del "Summer" il Festivalbar 2.0. 
UN PREMIO E DUE TORMENTONI - "Amore e capoeira" sugli scudi, si diceva: un brano che non ha messo d'accordo tutti quantomeno a livello testuale, con quel riferimento alla "favela", cioè a una realtà sociale drammatica e complessa, nell'ambito di una composizione che è un inno al disimpegno balneare. L'orecchiabilità però c'è tutta, e in fondo è ciò che più conta per i principali fruitori di questo genere canzonettistico, ossia gli adolescenti e i giovani in generale, coloro che hanno più facile accesso alle piattaforme video online e ai moderni mezzi di fruizione della musica; aggiungiamoci, ad aumentarne l'appeal, il curioso balletto a far da coreografia, con le ragazze che si...  sculacciano amabilmente il sedere in fila indiana: più buffo e simpatico che sensuale, ma anche questo fa parte del gioco. Non era presente, ma un "ex aequo" morale coi vincitori lo merita Baby K., la cui "Da zero a cento" ha spopolato nell'heavy rotation radiofonica e nelle vendite (doppio platino, mica poco), usufruendo del martellante spot Vodafone nella fase di lancio per poi camminare benissimo con le proprie gambe. 
LA QUALITÀ DI MALIKA - Mancava dunque dal cartellone una protagonista assoluta delle ultime settimane, ma le altre hit del periodo c'erano più o meno tutte: dal mix vintage - contemporaneo dei Thegiornalisti in "Felicità puttana" alla ritrovata ispirazione di Luca Carboni, che ha presentato "Una grande festa". Accattivante il ritmo proposto dall'inedito trio Elodie - Michele Bravi - Gué Pequeno in "Nero Bali" (disco di platino) e da Irama, con una "Nera" intessuta di vaghe ispirazioni spagnoleggianti allo stile Soler (doppio platino anche per il vincitore di Amici '17): tutti brani, come si vede, che hanno saputo uscire dai circuiti promozionali e spiccare il volo  sul piano della resa commerciale: non è poco, di questi tempi. Le Vibrazioni continuano a godersi una brillante seconda giovinezza: avevano già fatto centro a Sanremo con "Così sbagliato", hanno proseguito con la trascinante "Amore zen", rock a gradazione moderata. "Bye bye" ci ha proposto un'Annalisa immersa in sonorità vagamente dance, stesso universo in cui ha pescato la Malika Ayane di "Stracciabudella", titolo bislacco per un brano sostanzioso, che poggia su un tappeto sonoro asciutto ed essenziale, con suggestioni disco anni Novanta, il tutto valorizzato da una voce sempre al top: forse la produzione più coraggiosa e meno mainstream fra quelle del Summer Festival, pur in un ambito di assoluto easy listening, 
ROVAZZI, BERTÈ E CONTAMINAZIONI MUSICALI - Ermal Meta ha puntato sulla semplicità, il testo di "Io mi innamoro ancora" parla di felicità e amore in tutte le sue varianti, senza complicate implicazioni, il tutto rafforzato da una base ritmica al solito pregevole e accattivante. Sul versante "crazy", continua a impazzare Fabio Rovazzi, uno che ha estro da vendere ma deve stare attento a non rimanere imprigionato nel personaggio di quello che deve sempre stupire a tutti i costi: ad ogni modo, "Faccio quello che voglio" funziona discretamente, grazie soprattutto al supporto di Emma, più incisivo di quelli di Nek e Al Bano. E a proposito di "pazzarielli" (in senso buono) va registrato l'ennesimo ritorno in auge dell'immarcescibile Loredana Berté, che ha ritrovato un'apprezzabile vocalità mettendola al servizio del reggae dei Boomdabash ("Questa sera non ti dico no"), con un risultato estremamente convincente. Proprio il matrimonio fra pop e altri generi è stato uno dei fatti salienti di questa estate canora: abbiamo già detto del trio Elodie - Bravi - Pequeno, aggiungiamoci il rapper Carl Brave e la commistione melodica con Francesca Michielin che ha dato vita a "Fotografia". Del resto, la stessa "Amore e capoeira" è un esperimento musicale in cui confluiscono vari stili, e con cui si tenta anche il lancio in Europa del "Baile do favela", nuovo ritmo brasiliano in forte ascesa.
HAPPENING DELLE SETTE NOTE, CON TANTO LIVE - Detto del premio come miglior giovane assegnato alla talentuosa cantautrice Federica Abbate ("Pensare troppo mi fa male"), va sottolineato come la finalissima del Summer Festival abbia saputo superare il concetto di asettica passerella di brani in stile playlist radiofonica, per diventare  a tratti un vero e proprio happening, uno show con tutti i crismi. In tale contesto vanno inquadrate le performance di Ornella Vanoni, che ha riproposto il pezzo di Sanremo con Bungaro e Pacifico e poi il classico "Senza fine", di Nek, che ha celebrato i vent'anni di "Se io non avessi te" (Dio, come passa il tempo...), di J-Ax e Gigi D'Alessio con pout-pourri dei loro cavalli di battaglia, di Fabrizio Moro che prima di eseguire l'intensa "L'eternità" ha ripescato dal suo recente repertorio la struggente "Portami via", anche questa targata Sanremone (2017): un equilibrato mix fra i successi del momento e i grandi classici, dunque. E poi c'è stato tanto live, tante voci vere con le loro imperfezioni (neanche molte, per la verità), ma le rassegne soprattutto a questo servono: portare i cantanti a fornire saggi autentici delle loro doti interpretative. Insomma, tanti piccoli ingredienti a comporre una pietanza risultata, quest'anno, particolarmente gustosa. Con un quid in più: come si evince dai nomi letti sopra, è stato il trionfo della musica italiana, una musica italiana che si è però data uno spessore internazionale, nella ricerca di nuovi sound e nelle collaborazioni artistiche. La bandiera d'oltrefrontiera è stata tenuta alta da un habitué delle chart estive, il già citato e immancabile Alvaro Soler, con una "Cintura" carina pur se non trascendentale. 
I DUBBI SULLA QUALITÀ DELLE PROPOSTE: E SE FRA VENT'ANNI... - In chiusura, ci vorrebbe una valutazione sulla qualità complessiva della proposta musicale di questa manifestazione: in giro si sentono giudizi tranchant sulla decadenza della canzone leggera italiana. La crisi c'è, ma è una crisi più di sistema che di valore del "prodotto": una crisi che chiude molte porte alla scena indie e che impedisce la coltivazione del "vivaio" nazionale, delle nuove leve; e poi, certo, c'è pure il calo delle vendite, con i musicisti chiamati oggi a puntare meno sui negozi di dischi (reali e digitali) e più sui concerti. Ma i tormentoni, di grande impatto al primo ascolto eppure ben confezionati, continuano a venire fuori, e i ragazzi che affollano questo e altri eventi continuano a cantare in coro le canzoni dei loro beniamini. Esattamente come facevano trent'anni fa con "Bravi ragazzi", con "Fotoromanza", con "Easy lady" e altre ancora. Nel loro piccolo tutte evergreen, certo, ma nessuno può dire con certezza che quelle di oggi non entreranno in egual misura nell'immaginario collettivo. Fra vent'anni, perché mai i quindicenni o i ventenni del 2018 non dovrebbero ricordare con nostalgia le loro estati scandite da Ferreri, Baby K, Giornalisti, Elodie o Rovazzi? 

martedì 11 settembre 2018

NATIONS LEAGUE: ITALIA ALL'ANNO ZERO DOPO IL KO IN PORTOGALLO. SI SALVANO SOLO DONNARUMMA, CALDARA E ROMAGNOLI


Mettiamola così: la difesa parrebbe (grosso modo) a posto almeno in tre elementi su cinque, il centrocampo è inesistente, l'attacco velleitario e inconsistente. Ci troviamo dunque quasi a un terzo del lavoro di ricostruzione della Nazionale. Non male, dopo appena cinque gare della gestione Mancini. C'è un pizzico di amaro sarcasmo in queste parole, lo ammetto, ma anche un fondo di verità. Perché, al punto in cui siamo, bisogna accontentarsi dei piccoli passi, dei progressi quasi impercettibili che, partita dopo partita, emergono dal grigiore di prestazioni globalmente insufficienti. Siamo all'anno zero, inutile negarlo. Il Club Italia è nel mezzo del tunnel, ben lontano dall'uscita. Ripropongo il paragone, azzardato nel precedente post, con l'era Bernardini (la più ardita, rivoluzionaria e fruttuosa rivoluzione azzurra che si ricordi) e col "buco nero" di risultati seguito alla mancata ammissione al Mondiale '58. Cosa vuol dire? Vuol dire che, salvo improbabili impennate, ci attende una lunga fase interlocutoria, con la Nazionale in "laboratorio" o, come scritto sabato, in bacino di carenaggio. 
SCONFITTE PER MATURARE - Delle difficoltà cui deve far fronte Bobby Gol per affrontare questa delicatissima congiuntura abbiamo già detto: aggiungiamoci la necessità di sperimentare e far ruotare uomini, alla ricerca della formula giusta, nel bel mezzo di un torneo ufficiale che prevede addirittura la retrocessione in una "Serie B" europea, eventualità niente affatto remota, per noi, dal basso del nostro unico punticino in due incontri. La Nations League, han detto tutti, è nata soprattutto per ridurre al minimo le amichevoli, considerate perlopiù inutili. E invece proprio di amichevoli, dei cari vecchi test match di una volta, avrebbe bisogno oggi questa squadra senza identità, per rigenerarsi gradualmente, riacquistare coraggio, assumere una certa quadratura, trovare un blocco fisso attorno al quale ruotare di volta in volta le restanti pedine. Ma tant'è, nulla ci si può fare, e allora prepariamoci a inanellare sconfitte ed esperienza, come la pallida Azzurra del '74/75, quella di Fuffo, per l'appunto: un'Italia nuova di zecca che inevitabilmente fallì la qualificazione agli Europei '76, sciorinò prestazioni sconcertanti quanto quelle attuali, ma lanciò giovanotti come Gentile, Rocca, Antognoni e Graziani, bollati da implacabili giudizi critici come elementi non all'altezza del glorioso passato della rappresentativa. Consultare gli archivi online dei quotidiani per credere. 
DA BROCCHI A CAMPIONI? - Nessun paragone irriverente, da parte mia, fra quei super atleti e gli spauriti nazionali d'oggidì, beninteso. Era solo per dire che anche fuoriclasse di statura internazionale, molti dei quali destinati al trionfo mondiale dell'82, hanno avuto esordi balbettanti, tanto da sembrare pallide controfigure di campioni. È l'unica luce di ottimismo in mezzo a tanto grigiore. Forse alla fine rimarrò solo a urlare che queste nostre nuove leve non sono così scarse come sembrano, ma ne sono convinto, così come sono convinto che il problema vero sia un altro, cioè l'impossibilità, per l'ultima covata azzurra, di maturare minutaggio nelle sfide di alto ed altissimo livello. Perché non si diventa brocchi dopo aver furoreggiato in tutte le selezioni giovanili (ci può essere semmai una crisi di crescita, un ritardo nella maturazione), non si può esser brocchi se, prima di far fiasco nella Maggiore, si gioca alla grande col club (un esempio per tutti, il Cristante dell'anno passato, per non parlare del Jorginho delle ultime stagioni, o del Verratti del Paris Saint Germain). Ci sono, probabilmente, anche problemi di adattamento tattico, per via delle differenze fra i ruoli ricoperti nelle società di appartenenza e quelli assegnati in Nazionale, ma anche questo è un tributo da pagare alla fase sperimentale avviata dal nuovo cittì, da non prolungare però oltre il dovuto.
DALLA DIFESA LE NOTE POSITIVE - Pazienza ci vuole, tanta pazienza, lo ripeterò fino alla noia. La Nazionale italiana, quella vera, quella con le quattro stelle, al momento non c'è, né potrebbe essere altrimenti dopo lo schiaffo mondiale e dopo il depauperamento del vivaio degli ultimi due lustri. È in corso un casting dagli esiti incerti, ma il Mancio ha del buon materiale: deve solo far quadrare il cerchio. Fosse facile... Guardiamo allora, come detto all'inizio, alle cose da salvare, perché un'analisi del rendimento complessivo della squadra al Da Luz sarebbe sconfortante. Il commento è presto fatto: qualche sporadico lampo, qualche manovra di discreta fattura nella prima frazione (ma le migliori occasioni per i portoghesi), il nulla o quasi nella ripresa, con Andrè Silva a siglare il gol della giusta vittoria rossoverde. Di buono, da parte nostra, c'è stata la conferma ad alti livelli di Donnarumma, con una prestazione anche più convincente rispetto a quella, già positiva, di Bologna. Davanti a lui, Caldara e Romagnoli, pur fra qualche sbavatura, hanno mostrato discreta sicurezza e buon tempismo, chiudendo molte delle falle che si sono aperte davanti alla difesa. Da promuovere, il duo centrale, anche perché chiamato a un compito improbo, com'era capitato ai veterani Bonucci e Chiellini contro la Polonia: esposti a tutte le intemperie da un centrocampo che non filtra, non rilancia, non costruisce. 
SENZA CENTROCAMPO, CONDANNATI ALLA MEDIOCRITÀ - È lì, nella zona nevralgica, il vero dramma dell'Italia, ciò che la pone a distanza siderale dalle migliori espressioni del calcio continentale (lasciamo stare il resto del mondo, per il momento...). In queste prime due uscite stagionali, il reparto si è sciolto come neve al sole: dai citati Jorginho e Cristante a Pellegrini e Bonaventura, fino a Gagliardini, nessuno si è espresso a livelli accettabili. Non si tratta di fuoriclasse, ma di buoni giocatori che hanno in canna colpi sicuramente migliori del pochissimo fin qui mostrato con la casacca tricolore. Palle perse, banali errori di tocco, poche idee, corse a vuoto: è chiaro che su queste basi non si può costruire un gioco plausibile, un complesso compatto e ordinato. Il male azzurro è lì, ben più che in un attacco asfittico.
ATTACCO, QUESTO SCONOSCIUTO - Certo la prima linea non è esente da colpe: manca totalmente di forza penetrativa. In 180 minuti fra Immobile, Belotti, Balotelli e Zaza nessuno si è mai preso la responsabilità della conclusione, del tentativo anche ardito: nel primo tempo i nostri sono anche giunti pericolosamente in area con alcune belle trame in velocità, ma nei sedici metri hanno tentennato, temporeggiato, ceduto il pallone alla ricerca di soluzioni migliori che non esistevano, consentendo alla difesa di casa di piazzarsi con modesto affanno. Quante vere occasioni ci sono state, per i nostri, ieri sera, intendo di quelle che ti fanno gridare al "quasi gol"? La risposta è imbarazzante: potrei metterci il colpo di testa di Zaza nel finale, e poi? 
PROBLEMI ANCHE SULLE FASCE - L'unico a tentare sempre il tiro, a conferma della sua visione "verticale" del campo di cui ho già più volte scritto, è Chiesa junior, incappato però in una serata di scarsa vena, con una conclusione centrale e una ciabattata: ma almeno ci ha provato, senza esitare. A questo siamo ridotti: a plaudire ai tentativi... Dopodiché, lo ripeto, una prima linea, per essere efficiente, ha anche bisogno di una rampa di lancio dietro di sé, e questa Italia al momento non ce l'ha. Latita pure una figura di gioco che sarebbe fondamentale per ampliare il ventaglio di soluzioni offensive e portarci più frequentemente in zona pericolosa, ossia la spinta sulle fasce: Zappacosta e Biraghi a Bologna erano stati troppo timidi, non hanno fatto meglio a Lisbona Lazzari, che ha alternato qualche discreta incursione a troppi blackout soprattutto in fase di contenimento, e Criscito, assai frenato in propulsione e spesso falloso dietro (c'era probabilmente il rigore su Pizzi). 
ULTIMI ESPERIMENTI E POI UN UNDICI BASE - In sintesi: ripartiamo da Donnarumma, Caldara e Romagnoli, aggiungiamoci Bernardeschi e Chiesa visti su buoni standard coi polacchi. Il resto è da inventare. Ci sono ancora ragazzi da sperimentare, i nomi li ho fatti nel precedente post, e gente come Barella, Benassi, Mandragora e Cutrone non potrà fare anticamera ancora a lungo. Sussiste poi la fondata speranza che a ottobre cresca la condizione atletica, tradizionale tallone d'Achille azzurro in settembre e più che mai vitale per una compagine come la nostra, senza picchi di classe a cui aggrapparsi nei momenti no. Li si provi, dunque, dopodiché occorrerà cominciare a tirare le somme, creare uno zoccolo duro e mettere minuti, minuti, minuti di calcio internazionale nelle gambe dei prescelti. Cambiare nove undicesimi di formazione a quattro giorni di distanza lo si può fare adesso, con i conseguenti scompensi, ma le gerarchie andranno chiarite al più presto. 

sabato 8 settembre 2018

NATIONS LEAGUE: LA NUOVA ITALIA ANCORA NON È NATA. BUONE NUOVE DA BERNARDESCHI E CHIESA


No, ancora non ci siamo. E del resto era prevedibile. Non si supera con disinvoltura un evento sportivamente drammatico come quello di poco più di un anno fa. Dopo la mancata qualificazione ai Mondiali, vergogna inaccettabile per un movimento calcistico fra i più prestigiosi del globo, sui campi italiani si è ripreso a giocare quasi come se nulla fosse, si è tornati ad occuparsi delle faccenduole dei club, del mercato, delle schermaglie politiche in Federazione. Tutto è proseguito secondo il solito tran tran, mentre si sarebbe dovuto approntare un organico piano di emergenza per superare il momento storicamente più delicato del nostro football. 
Invece, la stagione è cominciata all'insegna dei soliti problemi, anzi, peggio. Bene ha fatto il cittì Mancini a sottolineare il minutaggio sempre più ridotto a disposizione dei calciatori di casa nostra, bene ha fatto a diramare una lista di convocati fra le più rivoluzionarie di sempre, nel non nascosto tentativo di "forzare la mano" ai colleghi della Serie A. Forzare la mano: anche se non è elegante citarsi (ma chi se ne frega...), è un ragionamento che feci qui sul blog in tempi assolutamente non sospetti, sia dopo Euro 2012 (quando alla guida della Nazionale c'era un Prandelli ben disposto verso le nuove leve, al punto di convocare gente come Perin e De Sciglio che avevano poca o nulla esperienza in campionato), sia agli albori dell'era Ventura. Allora come oggi, si trattava di mettere i tecnici dei club di fronte al fatto compiuto, chiamando e facendo giocare emergenti di valore costretti invece in panchina o in tribuna nelle società di appartenenza. Pare proprio essere l'unica via, se è vero che, rispetto ai due precedenti sopra citati, la situazione è tutt'altro che migliorata. 
MALEDETTA ESTEROFILIA - Bobby gol è un selezionatore che merita rispetto, fiducia e soprattutto pazienza, tanta pazienza, molta più di quella che fu riservata ai predecessori. Lavora in condizioni terribili: costruire una compagine decente pescando in un massimo torneo iper affollato da pedatori d'oltrefrontiera, buona parte dei quali di dubbia qualità, è impresa titanica. Non fidatevi di chi dice che "tanto non cambia niente, i migliori emergono comunque, italiani o stranieri che siano". I fatti dicono che non è così: difficile, per un giovanotto che si affaccia al calcio professionistico, dimostrare di essere migliore di altri, se viene sistematicamente tenuto ai margini per ovvia mancanza di esperienza. Abbiamo i Cutrone, per dire, che segnano gol a raffica, risolvono le partite, ma si sente comunque il bisogno di acquistare un Higuain che ha probabilmente già dato il meglio, costringendo il ragazzino di turno a masticare amaro nelle retrovie e a sbattersi il doppio, il triplo, per conquistarsi scampoli di gloria. Quello rossonero è un caso limite, la punta dell'iceberg di un fenomeno che sta radendo al suolo il nostro vivaio. Un vivaio che però continua incredibilmente a sfornare talenti, come dimostrano certi ottimi risultati recenti delle nostre rappresentative giovanili, ma non è neanche questo il vero problema: il dramma è che poi la crescita, e quindi il miglioramento, l'affinamento, di queste nuove leve viene brutalmente arrestato da un calcio italiano malato di esterofilia perniciosa.  
BACINO DI CARENAGGIO - Questa lunga premessa per dire che, vista la difficile congiuntura, il balbettante esordio in Nations League degli azzurri non deve né sorprendere né destare scandalo. È bastata una Polonia compatta ma con pochi picchi di classe (Lewandowski, Zielinski, e poi?), per metterci in ambasce. Inutile ragionare su eventuali errori di formazione del coach, che, pure, secondo me ci sono stati: giusto che compia il suo giro d'orizzonte provando più uomini possibile, giusto che conceda di mettere minuti nelle gambe a un Balotelli che, se in forma, rimane di gran lunga la bocca da fuoco più efficace, esperta, smaliziata a sua disposizione. È inevitabile che questo nuovo torneo debba rappresentare solo una sorta di bacino di carenaggio, per il Club Italia: a vincere coppe ci si penserà, si spera, più avanti.
DUE CHE SALTANO L'UOMO: INCREDIBILE! - Di buono, la gara di Bologna ci ha mostrato un Donnarumma finalmente sicuro e decisivo con almeno due interventi salva risultato, e due peperini che saltano l'uomo, cosa che in azzurro non si vedeva da tempo: Bernardeschi, che pure ha commesso i suoi errori ma li ha compensati con una presenza costante nel vivo del gioco offensivo (suoi sono stati i tiri più pericolosi indirizzati verso la porta polacca) e un grande coraggio nel tentare soluzioni ardite; e poi quel Chiesa ancora una volta rivelatosi fondamentale, arrivando dalla panchina a vivacizzare una prima linea sterile con le sue accelerazioni e con la sua visione verticale del campo, col suo puntare sempre verso la porta avversaria senza troppo cincischiare. 
REBUS ATTACCO, CON INSIGNE SOTTO LA LENTE - Ecco, cominciamo col dire che, giocando col 4-3-3, due così devono essere titolari fissi. Al servizio del vero Supermario, non della pallida e acciaccata controfigura di ieri sera, o di una punta che sappia sbatterla dentro, una buona volta. Potrebbe essere proprio il Cutrone di turno, a meno che Belotti e Immobile, implacabili con le maglie di Toro e Lazio, non vadano oltre i limiti che ne hanno troppo spesso caratterizzato le prove in rappresentativa. A tal proposito, e sempre rimanendo in,,, zona d'attacco, uno che sta esaurendo i suoi bonus, spiace dirlo, è Insigne. Il ragazzo ha classe, brillantezza, piedi buoni, ma troppo grande continua a essere la differenza di rendimento fra Napoli e Club Italia, né è pensabile di poter costruire la squadra attorno a lui: stiamo parlando di un buonissimo giocatore, a tratti ottimo se inserito in un determinato contesto tattico, ma non di un fuoriclasse che risolve le partite da solo. 
CENTROCAMPO DA RIFARE - Altro elemento per il quale il tempo stringe è Gagliardini, che del resto anche in maglia Inter ha solo in parte mantenuto le promesse degli esordi post atalantini. Al Dall'Ara è naufragato assieme ai compagni del centrocampo: il reparto è stato il vero tallone d'Achille della squadra, deficitario in entrambe le fasi, prigioniero di una mediocrità tecnica inaccettabile per una compagne del nostro lignaggio. In una zona nevralgica che ha prodotto solo errori e confusione, non ha convinto neppure Jorginho, rigore a parte: ma c'è almeno la speranza che l'esperienza ad altissimo livello col Chelsea serva ad accrescerne personalità e caratura internazionale. Per intanto, nel mezzo sarebbe il caso di dare chances a talenti in vorticosa ascesa come Barella, Benassi, Cristante, Mandragora, il cui rendimento recente li mette ai vertici nel campo di scelta a disposizione del trainer. 
LE ALTERNATIVE PER LA DIFESA - La difesa, infine, ha discretamente lavorato, facendosi carico anche del lavoro di chi avrebbe dovuto "schermarla": ma sulle fasce troppo timido è parso l'apporto di Zappacosta e Biraghi, che meritano comunque altri test, anche se pure ai lati non mancano le scelte alternative: da Calabria a Barreca, da Lazzari (intuizione del coach) a quel Piccini assurdamente "dimenticato" all'estero, sperando soprattutto in un recupero dell'ottimo Conti (forse il migliore della compagnia). Nel frattempo sarebbe forse il caso di insistere su Criscito, che in questa prima fase di ricostruzione può essere un'utile chioccia, mentre la sensazione è che sia di troppo un veterano fra Bonucci e Chiellini (entrambi, ricordiamolo, protagonisti del fallimento dell'autunno scorso), con Caldara e Romagnoli (più Rugani, se troverà spazio nella Juve) che premono alle spalle. 
URGE UNA VITTORIA DI PESO - Non è un momento come tanti: forse mai come ora sarebbe lecito e giusto rivoluzionare totalmente (salvando giusto un paio di "totem" per la continuità di spogliatoio e l'esperienza), buttare i babies nella mischia senza remore. Chi potrebbe mai rimproverare a Mancini di aver messo da parte coloro che si sono fatti sbattere fuori da Russia 2018? Siamo in una fase storica in cui bisogna agire con la mano pesante, come fece Fulvio Bernardini al termine dell'era dei messicani. Dopodiché, ripeto, occorrerà anche armarsi di santa pazienza, perché una Nazionale competitiva non si ricostruisce in quattro e quattr'otto, soprattutto quando il bacino in cui scegliere gli uomini giusti è così assurdamente ridotto.
Del resto, il passato ci insegna che dopo la prima mancata qualificazione mondiale, nel 1958, trascorsero anni prima di rivedere un barlume di luce. Anni di partite, di girandole di formazioni, di presunti astri sorti e tramontati nel giro di pochi match. Anni senza vittorie. Dopo la sconfitta con l'Irlanda del Nord che ci costò l'estromissione da Svezia '58, ci vollero 24 mesi prima che la nostra selezione tornasse a battere qualcuno (la Svizzera). Di una vittoria di spessore avrebbero bisogno il Mancio e la sua truppa: non poteva esserla quella del maggio scorso con l'Arabia, ma strappare i tre punti alla Polonia avrebbe potuto darci una mano a superare anche quell'impasse mentale che si è impadronito dei nostri dopo il tonfo svedese. 

sabato 25 agosto 2018

GENOA: RITORNO IN CAMPO COL LUTTO NEL CUORE E SULLE MAGLIE. PROSPETTIVE DELLA SQUADRA DOPO IL MERCATO


Proviamo a ricominciare. Non è facile, perché l'angoscia, lo sgomento, riempiono ancora il cuore. La vita continua per chi resta, funziona così e lo sappiamo, ma Genova è ancora una città immersa nel dramma, e parlare di calcio, della nuova Serie A, risulta arduo. Quasi fastidioso, direi, dopo aver assistito con amarezza a quanto avvenuto sabato scorso, con la disputa dei due anticipi il giorno stesso dei funerali di Stato delle vittime di Ponte Morandi, il giorno del lutto nazionale. Qualcosa di offensivo verso chi è morto, verso le famiglie distrutte, verso una città e un Paese che hanno subìto una delle più gravi sciagure del dopoguerra. 
CHI SI È FERMATO E CHI NO - Certo, non c'erano precedenti univoci in fatto di sospensione di eventi sportivi, e in passato ho visto di peggio: penso ai match di Champions League giocati tranquillamente l'11 settembre 2001, penso alle tre-partite-tre della Nazionale azzurra disputate in Messico nei giorni immediatamente successivi alla strage dell'Heysel (anzi, una addirittura la sera stessa, il 29 maggio 1985), senza andare indietro al secondo conflitto mondiale, quando si giocava a pallone anche dopo i bombardamenti. Per questo mi rendevo conto delle difficoltà, anche organizzative oltreché economiche, che si frapponevano al rinvio di tutta la prima giornata: mi sarebbe bastato che Chievo - Juventus e Lazio - Napoli si disputassero il giorno dopo, e invece si è persa un'altra occasione per avvicinare alla vita reale il dorato mondo parallelo del calcio milionario. Per cui, avanti pure, ma poi non si lamentino, i padroni del vapore, se sempre più persone, anche tifosi un tempo caldissimi, guarderanno con sempre maggior sospetto e distacco al football e ai suoi protagonisti. Le due genovesi invece si sono fermate, e ci mancava pure. Ora però tocca anche a loro, e sarà il Genoa ad aprire la stagione del Ferraris, domani sera contro l'Empoli, con le maglie listate a lutto e con 43 minuti di silenzio della Gradinata Nord, uno per ciascuna delle vittime del ponte maledetto. 
IL NUOVO GENOA SENZA TRE ASSI - Guardiamo dunque avanti e dedichiamo qualche riga alla rituale analisi della nuova rosa rossoblù. Un Grifone rivoltato come un calzino, come è spesso avvenuto nella gestione Preziosi, e in quanto tale sostanzialmente non giudicabile. Gli stessi supporters sono un po' disorientati, e non nascondono la loro perplessità di fronte ai tanti stranieri - scommessa e al pressoché totale annullamento del gruppo storico. Partiamo proprio da qui: il Genoa ha perso Perin, Izzo, Laxalt, tre pezzi da novanta, tre colonne della squadra da lungo tempo. Aggiungiamoci l'addio a Rigoni, che nell'ultima stagione ha avuto qualche problema ma il cui contributo di sostanza, di cuore e di gol alla causa non può essere dimenticato; e mettiamoci pure Bertolacci, a lungo in altalena fra Genova e Milano e alla fine rimasto in rossonero. Manca quindi totalmente il cosiddetto collante dello spogliatoio, con la continuità "morale" affidata in pratica al solo Pandev. 
RIECCO LA BANDIERA CRISCITO - Però c'è stato il ritorno più gradito e atteso: quello di Mimmo Criscito, vecchia bandiera e nuovo capitano (e salvatosi per un soffio dalla strage del 14 agosto: era transitato sul viadotto poco prima). Un veterano non certo stracotto e che ha ancora molto da dare, tanto che il nuovo cittì Mancini gli ha subito affidato le chiavi della fascia sinistra azzurra. Ad occhio e croce è un acquisto che vale doppio, se non triplo: esperienza anche internazionale, grazie alla lunga e proficua militanza russa, carisma, strettissimo legame con l'universo Genoa e ottimo livello tecnico. L'unica riserva è sulla sua capacità atletica di reggere un campionato intero, e per questo la società aveva tentato di prendere l'ex Palermo Lazaar, trattativa che sembrava già giunta a buon fine e poi sfumata in dirittura d'arrivo. Ma il confermatissimo Ballardini potrà nel caso supplire con soluzioni di emergenza, come il dirottamento di Pedro Pereira o, ancor meglio, del più adattabile Lazovic su quel lato del campo. La corsia di destra dovrebbe invece essere territorio di caccia dell'ottimo Romulo, oriundo che ai tempi di Prandelli approdò addirittura alla Nazionale, arrivando a un passo da Brasile 2014, e che comunque potrà rendersi molto utile anche nella zona mediana.  
DA PERIN A MARCHETTI - Saracinesca Perin ha ritenuto opportuno andare a giocarsi il posto con Szczesny alla Juve: non sarà facile, anche se credo che, a fine stagione, l'italiano sarà comunque riuscito a mettere insieme un buon numero di presenze. Al suo posto ecco Marchetti, numero uno con un grande passato alle spalle ma reduce da un paio di stagioni laziali disgraziate, fra problemi fisici e di ambiente. Se recuperato al cento per cento, è un portiere ben più che sufficiente per le ambizioni del Grifo, però ricordiamoci cos'era il suo predecessore: uno dei pochi "guardiani" in Italia in grado di garantire punti extra, con le sue prodezze fra i pali. L'alternativa è Radu, che ha colpito positivamente il tecnico durante il ritiro.
ECCO LISANDRO E GUNTER - La retroguardia potrà ancora contare sul califfo Spolli, monumentale l'anno passato, sull'affidabile Zukanovic, sul prospetto Biraschi, assai positivo nel 2017/18, e sul "colpaccio" Lisandro Lopez, lungamente inseguito e artigliato fra non poche sofferenze, altro elemento maturo che deve solo ritrovare confidenza col terreno di gioco, visto col binocolo nei sei mesi all'Inter; senza dimenticare quel Gunter che in precampionato ha mostrato una apprezzabile solidità. 
LE INCOGNITE, LE CERTEZZE E I TANTI "UNIVERSALI" - Criscito, Romulo, Marchetti, Lisandro: sulla carta quattro assi in grado di far compiere il salto di qualità alla squadra. In pratica, due di loro, il portiere e il centrale difensivo, accompagnati da qualche incognita di troppo. Così come Sandro, rinforzo per il centrocampo, che nei voti di zio Balla dovrebbe essere quell'uomo di sostanza e di generosità mancato nelle ultime stagioni, ma che è giunto sotto la Lanterna gravato da acciacchi non di poco conto. La zona nevralgica può comunque contare su uomini che sono garanzia di rendimento, come il quadrato, lucido ed eclettico Hiljemark e il talentuoso creatore di gioco Bessa, oltre al jolly Omeonga. Tutto da scoprire Rolon, già cercato in passato, mentre Mazzitelli è un giovane con ampi margini di crescita, nel frattempo in grado di assicurare lavoro oscuro  e un buon contributo in fase propositiva. Altro tuttofare, dunque, in un Genoa che nella ricchezza di giocatori universali potrebbe trovare l'arma vincente per scardinare situazioni tattiche difficili. 
L'ATTACCO: I REDUCI... - Veniamo al reparto "costruisci palle gol e finalizzale", un po' il tallone d'Achille dell'ultimo Genoa, salvatosi in anticipo grazie a praticità e impermeabilità difensiva, in un'annata disgraziata per chi doveva "sbatterla" dentro. Tanti sono i pretendenti alle maglie da titolari: c'è un Pandev che nel girone di ritorno dell'ultimo torneo ha mostrato di avere ancora qualche ottima freccia al proprio arco, se usato con parsimonia; c'è Lapadula che parte un po' da "sopportato", visto che per tutta l'estate si è parlato di varie possibili destinazioni lontano dalla Liguria, ma al tirar delle somme è rimasto e allora è chiamato a fare molto, molto di più rispetto al deludente score della prima stagione rossoblù. E ancora, Medeiros dovrà continuare sul suo ottimo trend, fornendo assist e tirando fuori dal cilindro sciccherie come quelle messe a segno nella primavera scorsa contro Cagliari e Verona. Spiace per Pepito Rossi, ma è stato giusto almeno tentare una scommessa che già dall'inizio si annunciava difficilissima.
... E I NUOVI - Ma le attese sono concentrate tutte sui nuovi. Il polacco Piatek si è subito calato nella parte come meglio non poteva: ottimo nelle amichevoli precampionato, stratosferico in Coppitalia col Lecce, travolto con un suo poker. Non sarà sempre festa, ma il ragazzo pare non essere un bluff. Se si conferma almeno in parte sullo stesso standard, potremmo vederne delle belle, soprattutto se troverà spazio e gloria anche il pulcino Favilli, novello Vieri quantomeno per caratteristiche fisiche e tecniche, anche lui in grande evidenza nell'estate calcistica con la maglia juventina. E dalla B arriva Kouamè, giovanissimo, rapido e mortifero in cadetteria: la A è tutt'altra cosa, lo sappiamo, ma è comunque da seguire attentamente. Tre scommesse, d'accordo, ma ora più che mai è necessario puntare sui giovani; se poi sono italiani, ancora meglio, e Favilli è una speranza vera. 
PROSPETTIVE - La sintesi? I nomi, sia quelli dei veterani sia quelli degli emergenti, sono da centroclassifica senza patemi, lontano dalle sofferenze che accompagnarono la squadra per tre quarti dell'ultima stagione. Poi, chiaro, certi tasselli dovranno andare a posto, e l'abbiamo detto: il recupero alle antiche misure di Marchetti e Sandro, l'auspicata esplosione della linea verde in avanti, la tenuta di veterani come Spolli, la conferma di Bessa e Medeiros. Se è vero che si è monetizzato, Preziosi e Perinetti non hanno risparmiato risorse ed energie per rinnovare la squadra con elementi all'altezza della categoria, nei limiti concessi dal budget. Perinetti, appunto, rappresenta una garanzia per la tenuta della società a tutti i livelli, e lo si è visto l'anno scorso; sul campo, la sicurezza numero uno è invece Ballardini, finalmente non più "tappabuchi" ma trainer dall'inizio, come meritava dopo la terza eccezionale salvezza genoana. Allenatore concreto ma in grado anche di tirare fuori scampoli di calcio godibile, se con gli uomini adatti a disposizione. Dovrebbe bastare per rimediare all'addio delle vecchie bandiere.