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martedì 18 settembre 2018

WIND SUMMER FESTIVAL 2018: TRIONFA "AMORE E CAPOEIRA" IN UNA BELLA FINALE ALL'INSEGNA DEL LIVE, DELLE GRANDI PERFORMANCE E DELLA MUSICA ITALIANA


"Amore e Capoeira" è la canzone dell'estate, secondo il Wind Summer Festival 2018. Cominciamo da qui, dalla notizia principale, per raccontare un'edizione della kermesse, quella conclusasi domenica sera a Milano, che è risultata sotto molti aspetti diversa dalle precedenti. A partire proprio dal brano vincitore: che può piacere o non piacere, ma è stato l'autentico tormentone di questi tre mesi di canicola, né più né meno di un "Vamos a la playa" o di un "Run to me", esempi old school di quell'easy pop vacanziero tanto rimpianto dai nostalgici e che negli ultimi anni sta conoscendo, mi pare, una nuova era di benessere. Già con questo verdetto c'è stata una inversione di tendenza rispetto all'albo d'oro della kermesse, che ha dato gloria a titoli non certo entrati nella storia della musica da spiaggia, da "Liar liar" di Cris Cab a "This girl" di Kungs, fino allo stesso "Pamplona" del 2017, che ha goduto di buonissimi riscontri di mercato ma non aveva le stimmate di quei pezzi in grado di caratterizzare un'estate e di imprimersi nella memoria popolare. In tal senso l'unica eccezione, finora, era stata  la gettonatissima "El mismo sol" di Alvaro Soler, incoronata nel 2015.
NOVITÀ FONDAMENTALI - Il trionfo del quartetto Takagi - Ketra - Sean Kingston - Giusy Ferreri rappresenta quindi una certificazione "nero su bianco" di ciò che davvero è andato per la maggiore nella stagione ormai giunta al capolinea: certificazione che, ad esempio, mancò proprio alla citata "Vamos a la playa" dei Righeira, i quali non vinsero il Festivalbar dell'83 solo perché erano schierati... fuori concorso (il successo andò alle "Bollicine" di Vasco Rossi). E già che si parla di Festivalbar, debbo ribadire quanto più volte scritto negli anni passati, ossia che la manifestazione targata Wind ha ormai assunto la stessa dignità dell'illustre antenata. 
Dodici mesi or sono, per dire la verità, non ero stato tenerissimo col Summer Festival, che aveva segnato un po' il passo rispetto agli esordi, essendo diventato un concorso prevedibile e privo di pathos proprio come le ultime edizioni della gara ideata dal compianto Vittorio Salvetti. Quest'anno si è invece recuperato terreno, soprattutto per il deciso cambio di rotta nella struttura dell'evento: non più quattro serate a giugno trasmesse in tv in differita e poi addio, ma l'aggiunta, fondamentale, di una finalissima settembrina in diretta. per decretare una canzone dell'estate con tutti i crismi, ossia pesandone il rendimento lungo tutto l'arco della bella stagione. Una modifica alla formula che, nel mio piccolo, suggerivo da anni, che è stata finalmente apportata e che fa davvero del "Summer" il Festivalbar 2.0. 
UN PREMIO E DUE TORMENTONI - "Amore e capoeira" sugli scudi, si diceva: un brano che non ha messo d'accordo tutti quantomeno a livello testuale, con quel riferimento alla "favela", cioè a una realtà sociale drammatica e complessa, nell'ambito di una composizione che è un inno al disimpegno balneare. L'orecchiabilità però c'è tutta, e in fondo è ciò che più conta per i principali fruitori di questo genere canzonettistico, ossia gli adolescenti e i giovani in generale, coloro che hanno più facile accesso alle piattaforme video online e ai moderni mezzi di fruizione della musica; aggiungiamoci, ad aumentarne l'appeal, il curioso balletto a far da coreografia, con le ragazze che si...  sculacciano amabilmente il sedere in fila indiana: più buffo e simpatico che sensuale, ma anche questo fa parte del gioco. Non era presente, ma un "ex aequo" morale coi vincitori lo merita Baby K., la cui "Da zero a cento" ha spopolato nell'heavy rotation radiofonica e nelle vendite (doppio platino, mica poco), usufruendo del martellante spot Vodafone nella fase di lancio per poi camminare benissimo con le proprie gambe. 
LA QUALITÀ DI MALIKA - Mancava dunque dal cartellone una protagonista assoluta delle ultime settimane, ma le altre hit del periodo c'erano più o meno tutte: dal mix vintage - contemporaneo dei Thegiornalisti in "Felicità puttana" alla ritrovata ispirazione di Luca Carboni, che ha presentato "Una grande festa". Accattivante il ritmo proposto dall'inedito trio Elodie - Michele Bravi - Gué Pequeno in "Nero Bali" (disco di platino) e da Irama, con una "Nera" intessuta di vaghe ispirazioni spagnoleggianti allo stile Soler (doppio platino anche per il vincitore di Amici '17): tutti brani, come si vede, che hanno saputo uscire dai circuiti promozionali e spiccare il volo  sul piano della resa commerciale: non è poco, di questi tempi. Le Vibrazioni continuano a godersi una brillante seconda giovinezza: avevano già fatto centro a Sanremo con "Così sbagliato", hanno proseguito con la trascinante "Amore zen", rock a gradazione moderata. "Bye bye" ci ha proposto un'Annalisa immersa in sonorità vagamente dance, stesso universo in cui ha pescato la Malika Ayane di "Stracciabudella", titolo bislacco per un brano sostanzioso, che poggia su un tappeto sonoro asciutto ed essenziale, con suggestioni disco anni Novanta, il tutto valorizzato da una voce sempre al top: forse la produzione più coraggiosa e meno mainstream fra quelle del Summer Festival, pur in un ambito di assoluto easy listening, 
ROVAZZI, BERTÈ E CONTAMINAZIONI MUSICALI - Ermal Meta ha puntato sulla semplicità, il testo di "Io mi innamoro ancora" parla di felicità e amore in tutte le sue varianti, senza complicate implicazioni, il tutto rafforzato da una base ritmica al solito pregevole e accattivante. Sul versante "crazy", continua a impazzare Fabio Rovazzi, uno che ha estro da vendere ma deve stare attento a non rimanere imprigionato nel personaggio di quello che deve sempre stupire a tutti i costi: ad ogni modo, "Faccio quello che voglio" funziona discretamente, grazie soprattutto al supporto di Emma, più incisivo di quelli di Nek e Al Bano. E a proposito di "pazzarielli" (in senso buono) va registrato l'ennesimo ritorno in auge dell'immarcescibile Loredana Berté, che ha ritrovato un'apprezzabile vocalità mettendola al servizio del reggae dei Boomdabash ("Questa sera non ti dico no"), con un risultato estremamente convincente. Proprio il matrimonio fra pop e altri generi è stato uno dei fatti salienti di questa estate canora: abbiamo già detto del trio Elodie - Bravi - Pequeno, aggiungiamoci il rapper Carl Brave e la commistione melodica con Francesca Michielin che ha dato vita a "Fotografia". Del resto, la stessa "Amore e capoeira" è un esperimento musicale in cui confluiscono vari stili, e con cui si tenta anche il lancio in Europa del "Baile do favela", nuovo ritmo brasiliano in forte ascesa.
HAPPENING DELLE SETTE NOTE, CON TANTO LIVE - Detto del premio come miglior giovane assegnato alla talentuosa cantautrice Federica Abbate ("Pensare troppo mi fa male"), va sottolineato come la finalissima del Summer Festival abbia saputo superare il concetto di asettica passerella di brani in stile playlist radiofonica, per diventare  a tratti un vero e proprio happening, uno show con tutti i crismi. In tale contesto vanno inquadrate le performance di Ornella Vanoni, che ha riproposto il pezzo di Sanremo con Bungaro e Pacifico e poi il classico "Senza fine", di Nek, che ha celebrato i vent'anni di "Se io non avessi te" (Dio, come passa il tempo...), di J-Ax e Gigi D'Alessio con pout-pourri dei loro cavalli di battaglia, di Fabrizio Moro che prima di eseguire l'intensa "L'eternità" ha ripescato dal suo recente repertorio la struggente "Portami via", anche questa targata Sanremone (2017): un equilibrato mix fra i successi del momento e i grandi classici, dunque. E poi c'è stato tanto live, tante voci vere con le loro imperfezioni (neanche molte, per la verità), ma le rassegne soprattutto a questo servono: portare i cantanti a fornire saggi autentici delle loro doti interpretative. Insomma, tanti piccoli ingredienti a comporre una pietanza risultata, quest'anno, particolarmente gustosa. Con un quid in più: come si evince dai nomi letti sopra, è stato il trionfo della musica italiana, una musica italiana che si è però data uno spessore internazionale, nella ricerca di nuovi sound e nelle collaborazioni artistiche. La bandiera d'oltrefrontiera è stata tenuta alta da un habitué delle chart estive, il già citato e immancabile Alvaro Soler, con una "Cintura" carina pur se non trascendentale. 
I DUBBI SULLA QUALITÀ DELLE PROPOSTE: E SE FRA VENT'ANNI... - In chiusura, ci vorrebbe una valutazione sulla qualità complessiva della proposta musicale di questa manifestazione: in giro si sentono giudizi tranchant sulla decadenza della canzone leggera italiana. La crisi c'è, ma è una crisi più di sistema che di valore del "prodotto": una crisi che chiude molte porte alla scena indie e che impedisce la coltivazione del "vivaio" nazionale, delle nuove leve; e poi, certo, c'è pure il calo delle vendite, con i musicisti chiamati oggi a puntare meno sui negozi di dischi (reali e digitali) e più sui concerti. Ma i tormentoni, di grande impatto al primo ascolto eppure ben confezionati, continuano a venire fuori, e i ragazzi che affollano questo e altri eventi continuano a cantare in coro le canzoni dei loro beniamini. Esattamente come facevano trent'anni fa con "Bravi ragazzi", con "Fotoromanza", con "Easy lady" e altre ancora. Nel loro piccolo tutte evergreen, certo, ma nessuno può dire con certezza che quelle di oggi non entreranno in egual misura nell'immaginario collettivo. Fra vent'anni, perché mai i quindicenni o i ventenni del 2018 non dovrebbero ricordare con nostalgia le loro estati scandite da Ferreri, Baby K, Giornalisti, Elodie o Rovazzi? 

martedì 11 settembre 2018

NATIONS LEAGUE: ITALIA ALL'ANNO ZERO DOPO IL KO IN PORTOGALLO. SI SALVANO SOLO DONNARUMMA, CALDARA E ROMAGNOLI


Mettiamola così: la difesa parrebbe (grosso modo) a posto almeno in tre elementi su cinque, il centrocampo è inesistente, l'attacco velleitario e inconsistente. Ci troviamo dunque quasi a un terzo del lavoro di ricostruzione della Nazionale. Non male, dopo appena cinque gare della gestione Mancini. C'è un pizzico di amaro sarcasmo in queste parole, lo ammetto, ma anche un fondo di verità. Perché, al punto in cui siamo, bisogna accontentarsi dei piccoli passi, dei progressi quasi impercettibili che, partita dopo partita, emergono dal grigiore di prestazioni globalmente insufficienti. Siamo all'anno zero, inutile negarlo. Il Club Italia è nel mezzo del tunnel, ben lontano dall'uscita. Ripropongo il paragone, azzardato nel precedente post, con l'era Bernardini (la più ardita, rivoluzionaria e fruttuosa rivoluzione azzurra che si ricordi) e col "buco nero" di risultati seguito alla mancata ammissione al Mondiale '58. Cosa vuol dire? Vuol dire che, salvo improbabili impennate, ci attende una lunga fase interlocutoria, con la Nazionale in "laboratorio" o, come scritto sabato, in bacino di carenaggio. 
SCONFITTE PER MATURARE - Delle difficoltà cui deve far fronte Bobby Gol per affrontare questa delicatissima congiuntura abbiamo già detto: aggiungiamoci la necessità di sperimentare e far ruotare uomini, alla ricerca della formula giusta, nel bel mezzo di un torneo ufficiale che prevede addirittura la retrocessione in una "Serie B" europea, eventualità niente affatto remota, per noi, dal basso del nostro unico punticino in due incontri. La Nations League, han detto tutti, è nata soprattutto per ridurre al minimo le amichevoli, considerate perlopiù inutili. E invece proprio di amichevoli, dei cari vecchi test match di una volta, avrebbe bisogno oggi questa squadra senza identità, per rigenerarsi gradualmente, riacquistare coraggio, assumere una certa quadratura, trovare un blocco fisso attorno al quale ruotare di volta in volta le restanti pedine. Ma tant'è, nulla ci si può fare, e allora prepariamoci a inanellare sconfitte ed esperienza, come la pallida Azzurra del '74/75, quella di Fuffo, per l'appunto: un'Italia nuova di zecca che inevitabilmente fallì la qualificazione agli Europei '76, sciorinò prestazioni sconcertanti quanto quelle attuali, ma lanciò giovanotti come Gentile, Rocca, Antognoni e Graziani, bollati da implacabili giudizi critici come elementi non all'altezza del glorioso passato della rappresentativa. Consultare gli archivi online dei quotidiani per credere. 
DA BROCCHI A CAMPIONI? - Nessun paragone irriverente, da parte mia, fra quei super atleti e gli spauriti nazionali d'oggidì, beninteso. Era solo per dire che anche fuoriclasse di statura internazionale, molti dei quali destinati al trionfo mondiale dell'82, hanno avuto esordi balbettanti, tanto da sembrare pallide controfigure di campioni. È l'unica luce di ottimismo in mezzo a tanto grigiore. Forse alla fine rimarrò solo a urlare che queste nostre nuove leve non sono così scarse come sembrano, ma ne sono convinto, così come sono convinto che il problema vero sia un altro, cioè l'impossibilità, per l'ultima covata azzurra, di maturare minutaggio nelle sfide di alto ed altissimo livello. Perché non si diventa brocchi dopo aver furoreggiato in tutte le selezioni giovanili (ci può essere semmai una crisi di crescita, un ritardo nella maturazione), non si può esser brocchi se, prima di far fiasco nella Maggiore, si gioca alla grande col club (un esempio per tutti, il Cristante dell'anno passato, per non parlare del Jorginho delle ultime stagioni, o del Verratti del Paris Saint Germain). Ci sono, probabilmente, anche problemi di adattamento tattico, per via delle differenze fra i ruoli ricoperti nelle società di appartenenza e quelli assegnati in Nazionale, ma anche questo è un tributo da pagare alla fase sperimentale avviata dal nuovo cittì, da non prolungare però oltre il dovuto.
DALLA DIFESA LE NOTE POSITIVE - Pazienza ci vuole, tanta pazienza, lo ripeterò fino alla noia. La Nazionale italiana, quella vera, quella con le quattro stelle, al momento non c'è, né potrebbe essere altrimenti dopo lo schiaffo mondiale e dopo il depauperamento del vivaio degli ultimi due lustri. È in corso un casting dagli esiti incerti, ma il Mancio ha del buon materiale: deve solo far quadrare il cerchio. Fosse facile... Guardiamo allora, come detto all'inizio, alle cose da salvare, perché un'analisi del rendimento complessivo della squadra al Da Luz sarebbe sconfortante. Il commento è presto fatto: qualche sporadico lampo, qualche manovra di discreta fattura nella prima frazione (ma le migliori occasioni per i portoghesi), il nulla o quasi nella ripresa, con Andrè Silva a siglare il gol della giusta vittoria rossoverde. Di buono, da parte nostra, c'è stata la conferma ad alti livelli di Donnarumma, con una prestazione anche più convincente rispetto a quella, già positiva, di Bologna. Davanti a lui, Caldara e Romagnoli, pur fra qualche sbavatura, hanno mostrato discreta sicurezza e buon tempismo, chiudendo molte delle falle che si sono aperte davanti alla difesa. Da promuovere, il duo centrale, anche perché chiamato a un compito improbo, com'era capitato ai veterani Bonucci e Chiellini contro la Polonia: esposti a tutte le intemperie da un centrocampo che non filtra, non rilancia, non costruisce. 
SENZA CENTROCAMPO, CONDANNATI ALLA MEDIOCRITÀ - È lì, nella zona nevralgica, il vero dramma dell'Italia, ciò che la pone a distanza siderale dalle migliori espressioni del calcio continentale (lasciamo stare il resto del mondo, per il momento...). In queste prime due uscite stagionali, il reparto si è sciolto come neve al sole: dai citati Jorginho e Cristante a Pellegrini e Bonaventura, fino a Gagliardini, nessuno si è espresso a livelli accettabili. Non si tratta di fuoriclasse, ma di buoni giocatori che hanno in canna colpi sicuramente migliori del pochissimo fin qui mostrato con la casacca tricolore. Palle perse, banali errori di tocco, poche idee, corse a vuoto: è chiaro che su queste basi non si può costruire un gioco plausibile, un complesso compatto e ordinato. Il male azzurro è lì, ben più che in un attacco asfittico.
ATTACCO, QUESTO SCONOSCIUTO - Certo la prima linea non è esente da colpe: manca totalmente di forza penetrativa. In 180 minuti fra Immobile, Belotti, Balotelli e Zaza nessuno si è mai preso la responsabilità della conclusione, del tentativo anche ardito: nel primo tempo i nostri sono anche giunti pericolosamente in area con alcune belle trame in velocità, ma nei sedici metri hanno tentennato, temporeggiato, ceduto il pallone alla ricerca di soluzioni migliori che non esistevano, consentendo alla difesa di casa di piazzarsi con modesto affanno. Quante vere occasioni ci sono state, per i nostri, ieri sera, intendo di quelle che ti fanno gridare al "quasi gol"? La risposta è imbarazzante: potrei metterci il colpo di testa di Zaza nel finale, e poi? 
PROBLEMI ANCHE SULLE FASCE - L'unico a tentare sempre il tiro, a conferma della sua visione "verticale" del campo di cui ho già più volte scritto, è Chiesa junior, incappato però in una serata di scarsa vena, con una conclusione centrale e una ciabattata: ma almeno ci ha provato, senza esitare. A questo siamo ridotti: a plaudire ai tentativi... Dopodiché, lo ripeto, una prima linea, per essere efficiente, ha anche bisogno di una rampa di lancio dietro di sé, e questa Italia al momento non ce l'ha. Latita pure una figura di gioco che sarebbe fondamentale per ampliare il ventaglio di soluzioni offensive e portarci più frequentemente in zona pericolosa, ossia la spinta sulle fasce: Zappacosta e Biraghi a Bologna erano stati troppo timidi, non hanno fatto meglio a Lisbona Lazzari, che ha alternato qualche discreta incursione a troppi blackout soprattutto in fase di contenimento, e Criscito, assai frenato in propulsione e spesso falloso dietro (c'era probabilmente il rigore su Pizzi). 
ULTIMI ESPERIMENTI E POI UN UNDICI BASE - In sintesi: ripartiamo da Donnarumma, Caldara e Romagnoli, aggiungiamoci Bernardeschi e Chiesa visti su buoni standard coi polacchi. Il resto è da inventare. Ci sono ancora ragazzi da sperimentare, i nomi li ho fatti nel precedente post, e gente come Barella, Benassi, Mandragora e Cutrone non potrà fare anticamera ancora a lungo. Sussiste poi la fondata speranza che a ottobre cresca la condizione atletica, tradizionale tallone d'Achille azzurro in settembre e più che mai vitale per una compagine come la nostra, senza picchi di classe a cui aggrapparsi nei momenti no. Li si provi, dunque, dopodiché occorrerà cominciare a tirare le somme, creare uno zoccolo duro e mettere minuti, minuti, minuti di calcio internazionale nelle gambe dei prescelti. Cambiare nove undicesimi di formazione a quattro giorni di distanza lo si può fare adesso, con i conseguenti scompensi, ma le gerarchie andranno chiarite al più presto. 

sabato 8 settembre 2018

NATIONS LEAGUE: LA NUOVA ITALIA ANCORA NON È NATA. BUONE NUOVE DA BERNARDESCHI E CHIESA


No, ancora non ci siamo. E del resto era prevedibile. Non si supera con disinvoltura un evento sportivamente drammatico come quello di poco più di un anno fa. Dopo la mancata qualificazione ai Mondiali, vergogna inaccettabile per un movimento calcistico fra i più prestigiosi del globo, sui campi italiani si è ripreso a giocare quasi come se nulla fosse, si è tornati ad occuparsi delle faccenduole dei club, del mercato, delle schermaglie politiche in Federazione. Tutto è proseguito secondo il solito tran tran, mentre si sarebbe dovuto approntare un organico piano di emergenza per superare il momento storicamente più delicato del nostro football. 
Invece, la stagione è cominciata all'insegna dei soliti problemi, anzi, peggio. Bene ha fatto il cittì Mancini a sottolineare il minutaggio sempre più ridotto a disposizione dei calciatori di casa nostra, bene ha fatto a diramare una lista di convocati fra le più rivoluzionarie di sempre, nel non nascosto tentativo di "forzare la mano" ai colleghi della Serie A. Forzare la mano: anche se non è elegante citarsi (ma chi se ne frega...), è un ragionamento che feci qui sul blog in tempi assolutamente non sospetti, sia dopo Euro 2012 (quando alla guida della Nazionale c'era un Prandelli ben disposto verso le nuove leve, al punto di convocare gente come Perin e De Sciglio che avevano poca o nulla esperienza in campionato), sia agli albori dell'era Ventura. Allora come oggi, si trattava di mettere i tecnici dei club di fronte al fatto compiuto, chiamando e facendo giocare emergenti di valore costretti invece in panchina o in tribuna nelle società di appartenenza. Pare proprio essere l'unica via, se è vero che, rispetto ai due precedenti sopra citati, la situazione è tutt'altro che migliorata. 
MALEDETTA ESTEROFILIA - Bobby gol è un selezionatore che merita rispetto, fiducia e soprattutto pazienza, tanta pazienza, molta più di quella che fu riservata ai predecessori. Lavora in condizioni terribili: costruire una compagine decente pescando in un massimo torneo iper affollato da pedatori d'oltrefrontiera, buona parte dei quali di dubbia qualità, è impresa titanica. Non fidatevi di chi dice che "tanto non cambia niente, i migliori emergono comunque, italiani o stranieri che siano". I fatti dicono che non è così: difficile, per un giovanotto che si affaccia al calcio professionistico, dimostrare di essere migliore di altri, se viene sistematicamente tenuto ai margini per ovvia mancanza di esperienza. Abbiamo i Cutrone, per dire, che segnano gol a raffica, risolvono le partite, ma si sente comunque il bisogno di acquistare un Higuain che ha probabilmente già dato il meglio, costringendo il ragazzino di turno a masticare amaro nelle retrovie e a sbattersi il doppio, il triplo, per conquistarsi scampoli di gloria. Quello rossonero è un caso limite, la punta dell'iceberg di un fenomeno che sta radendo al suolo il nostro vivaio. Un vivaio che però continua incredibilmente a sfornare talenti, come dimostrano certi ottimi risultati recenti delle nostre rappresentative giovanili, ma non è neanche questo il vero problema: il dramma è che poi la crescita, e quindi il miglioramento, l'affinamento, di queste nuove leve viene brutalmente arrestato da un calcio italiano malato di esterofilia perniciosa.  
BACINO DI CARENAGGIO - Questa lunga premessa per dire che, vista la difficile congiuntura, il balbettante esordio in Nations League degli azzurri non deve né sorprendere né destare scandalo. È bastata una Polonia compatta ma con pochi picchi di classe (Lewandowski, Zielinski, e poi?), per metterci in ambasce. Inutile ragionare su eventuali errori di formazione del coach, che, pure, secondo me ci sono stati: giusto che compia il suo giro d'orizzonte provando più uomini possibile, giusto che conceda di mettere minuti nelle gambe a un Balotelli che, se in forma, rimane di gran lunga la bocca da fuoco più efficace, esperta, smaliziata a sua disposizione. È inevitabile che questo nuovo torneo debba rappresentare solo una sorta di bacino di carenaggio, per il Club Italia: a vincere coppe ci si penserà, si spera, più avanti.
DUE CHE SALTANO L'UOMO: INCREDIBILE! - Di buono, la gara di Bologna ci ha mostrato un Donnarumma finalmente sicuro e decisivo con almeno due interventi salva risultato, e due peperini che saltano l'uomo, cosa che in azzurro non si vedeva da tempo: Bernardeschi, che pure ha commesso i suoi errori ma li ha compensati con una presenza costante nel vivo del gioco offensivo (suoi sono stati i tiri più pericolosi indirizzati verso la porta polacca) e un grande coraggio nel tentare soluzioni ardite; e poi quel Chiesa ancora una volta rivelatosi fondamentale, arrivando dalla panchina a vivacizzare una prima linea sterile con le sue accelerazioni e con la sua visione verticale del campo, col suo puntare sempre verso la porta avversaria senza troppo cincischiare. 
REBUS ATTACCO, CON INSIGNE SOTTO LA LENTE - Ecco, cominciamo col dire che, giocando col 4-3-3, due così devono essere titolari fissi. Al servizio del vero Supermario, non della pallida e acciaccata controfigura di ieri sera, o di una punta che sappia sbatterla dentro, una buona volta. Potrebbe essere proprio il Cutrone di turno, a meno che Belotti e Immobile, implacabili con le maglie di Toro e Lazio, non vadano oltre i limiti che ne hanno troppo spesso caratterizzato le prove in rappresentativa. A tal proposito, e sempre rimanendo in,,, zona d'attacco, uno che sta esaurendo i suoi bonus, spiace dirlo, è Insigne. Il ragazzo ha classe, brillantezza, piedi buoni, ma troppo grande continua a essere la differenza di rendimento fra Napoli e Club Italia, né è pensabile di poter costruire la squadra attorno a lui: stiamo parlando di un buonissimo giocatore, a tratti ottimo se inserito in un determinato contesto tattico, ma non di un fuoriclasse che risolve le partite da solo. 
CENTROCAMPO DA RIFARE - Altro elemento per il quale il tempo stringe è Gagliardini, che del resto anche in maglia Inter ha solo in parte mantenuto le promesse degli esordi post atalantini. Al Dall'Ara è naufragato assieme ai compagni del centrocampo: il reparto è stato il vero tallone d'Achille della squadra, deficitario in entrambe le fasi, prigioniero di una mediocrità tecnica inaccettabile per una compagne del nostro lignaggio. In una zona nevralgica che ha prodotto solo errori e confusione, non ha convinto neppure Jorginho, rigore a parte: ma c'è almeno la speranza che l'esperienza ad altissimo livello col Chelsea serva ad accrescerne personalità e caratura internazionale. Per intanto, nel mezzo sarebbe il caso di dare chances a talenti in vorticosa ascesa come Barella, Benassi, Cristante, Mandragora, il cui rendimento recente li mette ai vertici nel campo di scelta a disposizione del trainer. 
LE ALTERNATIVE PER LA DIFESA - La difesa, infine, ha discretamente lavorato, facendosi carico anche del lavoro di chi avrebbe dovuto "schermarla": ma sulle fasce troppo timido è parso l'apporto di Zappacosta e Biraghi, che meritano comunque altri test, anche se pure ai lati non mancano le scelte alternative: da Calabria a Barreca, da Lazzari (intuizione del coach) a quel Piccini assurdamente "dimenticato" all'estero, sperando soprattutto in un recupero dell'ottimo Conti (forse il migliore della compagnia). Nel frattempo sarebbe forse il caso di insistere su Criscito, che in questa prima fase di ricostruzione può essere un'utile chioccia, mentre la sensazione è che sia di troppo un veterano fra Bonucci e Chiellini (entrambi, ricordiamolo, protagonisti del fallimento dell'autunno scorso), con Caldara e Romagnoli (più Rugani, se troverà spazio nella Juve) che premono alle spalle. 
URGE UNA VITTORIA DI PESO - Non è un momento come tanti: forse mai come ora sarebbe lecito e giusto rivoluzionare totalmente (salvando giusto un paio di "totem" per la continuità di spogliatoio e l'esperienza), buttare i babies nella mischia senza remore. Chi potrebbe mai rimproverare a Mancini di aver messo da parte coloro che si sono fatti sbattere fuori da Russia 2018? Siamo in una fase storica in cui bisogna agire con la mano pesante, come fece Fulvio Bernardini al termine dell'era dei messicani. Dopodiché, ripeto, occorrerà anche armarsi di santa pazienza, perché una Nazionale competitiva non si ricostruisce in quattro e quattr'otto, soprattutto quando il bacino in cui scegliere gli uomini giusti è così assurdamente ridotto.
Del resto, il passato ci insegna che dopo la prima mancata qualificazione mondiale, nel 1958, trascorsero anni prima di rivedere un barlume di luce. Anni di partite, di girandole di formazioni, di presunti astri sorti e tramontati nel giro di pochi match. Anni senza vittorie. Dopo la sconfitta con l'Irlanda del Nord che ci costò l'estromissione da Svezia '58, ci vollero 24 mesi prima che la nostra selezione tornasse a battere qualcuno (la Svizzera). Di una vittoria di spessore avrebbero bisogno il Mancio e la sua truppa: non poteva esserla quella del maggio scorso con l'Arabia, ma strappare i tre punti alla Polonia avrebbe potuto darci una mano a superare anche quell'impasse mentale che si è impadronito dei nostri dopo il tonfo svedese.