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martedì 25 ottobre 2011

LE MIE RECENSIONI: EX - AMICI COME PRIMA

Chi l'ha detto che il cinema italiano non sia più in grado di produrre commedie leggere di qualità, nel solco della più creativa e prospera tradizione nostrana? Certo, è pur vero che personaggi come Sordi, Manfredi e Tognazzi padre, e i tanti film che li videro protagonisti, rimangono al momento inavvicinabili, ma sarebbe ingiusto negare il fatto che stia finalmente sbocciando una generazione di attori brillanti e talentuosi, capaci di inondare di brio e di felici trovate le sceneggiature loro affidate. 
"Ex - Amici come prima" di Carlo Vanzina, da qualche settimana nelle sale, è un esempio di quanto detto. La pellicola si snoda attraverso le diverse vicende  di una serie di coppie che… scoppiano e si riaccoppiano: c'è chi, come Vincenzo Salemme e Tosca d'Aquino, nei panni di un importante uomo politico italiano e dell'avida moglie, sembra inizialmente andare d'amore e d'accordo, ma in realtà il fuoco cova sotto la cenere e a far esplodere il dissidio sarà nientemeno che il premier di un immaginario Paese dell’Est europeo (Repubbliche baltiche), impersonato da Natasha Stefanenko; c'è chi vive momenti di dubbi e di tentazioni appena dopo le nozze, come il neo sposino Enrico Brignano con la fin troppo premurosa Teresa Mannino, e c'è infine chi si ritrova single e la prende molto molto male (Ricky Memphis e Gabriella Pession) o con il piglio dell'uomo e della donna di mondo rotti a tutte le esperienze (Alessandro Gassman e Anna Foglietta), ma finisce comunque col ritrovare l'amore attraverso le vie più tortuose e impensate. 
Il risultato è un filmetto agile e gradevole, sostenuto da una sceneggiatura magari non originalissima ma solida e priva di autentici tempi morti (il mestiere della Vanzina family emerge in tutto il suo spessore), impreziosita da un cast assemblato con sapienza e ottimamente amalgamato, con interpreti persino sorprendenti per vivacità e brillantezza. Se Gassman è un animale da palco e da pellicola che nella parte dell’uomo vissuto, affascinante e spiritoso eppur romantico trova la sua collocazione ideale, Teresa Mannino non avverte minimamente il passaggio dal piccolo schermo, con i suoi tempi comici e i suoi schemi, alla ribalta cinematografica. Gabriella Pession abbina all’indubbio fascino anche una spontaneità recitativa e una vis comica su cui presto ritorneremo in altro articolo, mentre non sorprende Enrico Brignano, una macchina da risate e un geniale improvvisatore (certe scene, in effetti, sembrano reggersi anche su alcune sue intuizioni “a braccio”, cosa che del resto tutti i grandi comici del passato hanno ammesso di aver fatto spesso durante le riprese dei loro film).
Paolo Ruffini continua a recitare la parte del giovin toscanaccio giovialone, sempre allegrotto e disinvolto negli atteggiamenti e nel linguaggio: bene, è il suo momento e per ora è giusto così, a patto che non finisca col rimanere prigioniero del personaggio. Forse un po’ troppo impostata e schematica la splendida Anna Foglietta, non del tutto convincente Memphis nel ruolo del single disperato, sorprendente la Stefanenko, credibile nelle vesti seriose dell’eminente personalità politica e in quelle dell’amante sospesa fra tentazione dell’avventura e rispetto per un marito che non la rende felice; la coppia Salemme – D’Aquino strizza un po’ troppo l’occhio a certi abusati cliché della napoletanità (abbastanza pesantuccia e stucchevole la storpiatura in chiave… baltica del brano “Funiculì funiculà”, che l'attore usa per conquistare la bella Natasha) ma ne esce tutto sommato bene, soprattutto la versatile Tosca, non più solo ridanciana e solare ma in versione carrierista e acchiappa – soldi.
Non mancano le scene destinate a diventare autentici cult: la lettera immaginaria e improvvisata di Brignano alla moglie Teresa Mannino, e il single impenitente Ruffini che viene aiutato a infilarsi un preservativo dai disinvolti familiari dell’amichetta di turno.  Nulla di originale (la scena della lettera è una pietra miliare del cinema italiano, e leggo in rete che anche quella del profilattico non è una novità assoluta) ma se le variazioni sul tema sono ben riuscite, che male c’è? Infine, anche qualche velato riferimento, nei dialoghi Stefanenko – Salemme, alla attuale situazione italiana, ossia alla moralità privata dei politici in quanto personaggi pubblici. Ci può stare.  

lunedì 24 ottobre 2011

SIMONCELLI E L'ASSURDO DI ESSERE UCCISI DALLA PASSIONE DI UNA VITA

Di fronte alla morte, trovare parole che non sconfinino nella retorica pelosa del "sono sempre i migliori quelli che se ne vanno" è terribilmente difficile, almeno per me. Il silenzio sarebbe la risposta migliore, eppure c'è una rabbia sorda che senti salire dentro e che devi esternare, in qualche modo. Conoscevo Marco Simoncelli solo per immagini, servizi e interviste guardati distrattamente in tv e su Internet. Nulla so delle sue gesta e del suo curriculum da centauro, perché non seguo gli sport motoristici, e anzi ho sempre avuto una certa difficoltà a considerare come sport autentici l'automobilismo e il motociclismo. Più in generale, non amo le due ruote, né come mezzo di trasporto della nostra quotidianità, né tantomeno come "strumento di lavoro" per atleti professionisti. Sono protagoniste, dirette o indirette, della morte di un'infinità di giovani, ogni giorno, in ogni parte del mondo, in circostanze del tutto diverse fra loro ma con un unico, orribile finale: sangue e corpi esanimi sull'asfalto, a volte di una pista, molto più spesso di una strada. 
Fra le tante cose che ho letto e sentito oggi, c'è il sollievo espresso da molti al pensiero che Marco sia comunque morto nel pieno dell'esercizio di una professione che, per lui, era soprattutto la passione di una vita intera. Beh, non sono d'accordo. Non esistono valori (no, nemmeno la Patria), lavori o passioni per cui valga la pena rischiare la pelle, o che rendano più leggera  la sfida alla morte e, in chi resta, più sopportabile il dolore per il trapasso. Di più: morire a causa di ciò che fino a pochi istanti prima è stato solo fonte di gioia e ragione di vita è atroce. E' un non-senso. Anzi, un tradimento bello e buono del destino, o di ciò che presiede alle nostre esistenze, qualsiasi cosa sia. Se poi a morire per questi futili motivi è un ragazzo poco più che ventenne, con una vita intera davanti, beh, al di là dello sgomento ti viene davvero voglia di spaccare qualcosa. Come amo dire spesso in certe circostanze, con un'espressione forse un po' infantile ma che mi tengo stretta, morire a certe età dovrebbe essere semplicemente vietato.
Simoncelli e gli altri che purtroppo lo hanno preceduto amavano le due ruote, vivevano per esse, ad esse hanno sacrificato tempo ed energie per sperare, un giorno, di venirne ripagati. Certo, non gliel'ha consigliato il medico di mettersi a cavallo di una moto per lavoro, e sapevano dei grossi rischi cui si può andare incontro. Anche su questo ci sarebbe da discutere: negli ultimi anni si è fatto sempre un gran parlare degli elevatissimi livelli di sicurezza raggiunti dal circuito motomondiale, fra corazze per i piloti e sistemi elettrici per le moto. D'accordo, c'è sempre l'imponderabile, ma al di sopra di tutto rimane il fatto che una disciplina sportiva non dovrebbe contemplare "per statuto" la possibilità di lasciarci le penne. Cosa che può accadere in tutte le attività agonistiche, beninteso, ma fortuitamente: nella motoGP, invece, l'uso del mezzo e le velocità folli ti fanno già mettere in conto che una gara la puoi iniziare, ma potresti non vederne la fine, perché magari vieni strappato via da questa terra prima di scorgere la bandiera a scacchi del traguardo. Parlando di sport, e non di guerra, queste "regole" sono inaccettabili. 
Un pensiero controcorrente e che rasenta l'assurdo, me ne rendo conto, essendo riferito a uno show business che va avanti da decenni e che continuerà dopo questa tragedia, in quanto circondato da entusiasmo genuino e da interessi economici enormi. Ma mi conforta, questo sì, che simile riflessione l'abbia fatta anche chi di motociclismo vive davvero. Penso a Mattia Pasini, collega e fraterno amico di Simoncelli, che su Facebook ha scritto: "Sono convinto che te ne sei andato facendo quello che amavi, ma questo non serve a riempire il vuoto che ci hai lasciato. Sto riflettendo se realmente ne vale la pena, fare sacrifici, rischiare la pelle, dedicare tutta la vita x rimanere un ricordo....sappi però che se andrò avanti x inseguire quel sogno lo farò per te!". Già: vale la pena rischiare la pelle per rimanere un ricordo?
Addio Marco, ti sia lieve la terra. 

giovedì 20 ottobre 2011

SANREMO: COME SARA' IL MORANDI BIS?

Dunque, tocca di nuovo a Morandi. Il padrone di casa del Festival di Sanremo sarà ancora lui. In attesa di vedere come sarà composto il gruppo di lavoro col quale il Gianni nazionale condividerà questa esperienza, ecco qualche valutazione in libertà. 
E' decisamente una scelta in controtendenza rispetto agli standard delle ormai numerose "gestioni Mazzi". I Festival svoltisi sotto l'egida dell'attuale direttore artistico si sono sempre contraddistinti per il vorticoso, continuo ricambio dei presentatori. Di più: non si trattava soltanto di cercare ogni anno un diverso anchorman (o anchorwoman), ma di trovare un personaggio e un'idea di conduzione e di spettacolo sempre nuova, sempre originale, sempre spiazzante anche solo rispetto all'anno precedente. Nulla di male, direte voi: l'effetto novità dev'essere alla base di ogni spettacolo televisivo. Certo, ma il Festival di Sanremo è uno spettacolo sui generis: almeno per noi nostalgici, il festivalone rimane essenzialmente una rassegna canora, una passerella competitiva di cantanti più o meno noti e più o meno giovani, una vetrina per la musica italiana. Tale dovrebbe essere anche oggi, anzi, a maggior ragione, essendo rimasto in pratica l'unico spazio televisivo di un certo spessore dedicato alla promozione della canzone leggera di casa nostra. E tuttavia, tocca accettare il fatto che, da quando la Rai ne cura direttamente l'organizzazione, e ancor più nell'ultimo decennio, l'aspetto spettacolare, le caratteristiche di show di matrice... catodica abbiano preso il sopravvento sulla tenzone canzonettistica. 
Quando Sanremo era veramente Sanremo, non era necessario cercare ogni anno una formula di conduzione diversa e sorprendente: potevano esserci dieci edizioni di seguito con Bongiorno o con Baudo, tanto ciò che contava era il contenuto musicale. Se proprio qualcosa di originale doveva essere inserita nello spettacolo, occorreva cercarla nell'allestimento del cast degli artisti in gara, andando ad esempio a pescare qualche nome distante dagli standard festivalieri. Ecco, la scelta effettuata quest'anno, cioè quella di confermare il mattatore del 2011, potrebbe anche essere incoraggiante in questo senso: meno tempo e meno risorse da impiegare per la scelta di un nuovo padrone di casa (anche se c'è da mettere insieme il suo gruppo di lavoro sul palco, collaboratori e collaboratrici, ma quello è il meno, se così si può dire), e più energie da rivolgere alla composizione di un cast di concorrenti qualitativo e in grado di reggere, da solo o quasi, la sfida dell'audience, anche alla luce di un regime di austerity economica della tv pubblica che, come già si era intuito l'anno passato, renderà assai difficile l'arrivo in forze di costosissime guest stars d'oltrefrontiera. 
Il cast, dunque. Da comporre pazientemente cercando di prendere il meglio delle ultime tre edizioni targate Mazzi, e colmando i buchi neri emersi. L'ultimo triennio della rassegna, che ha visto oltretutto un prepotente rilancio in termini di ascolti televisivi, si è caratterizzato in primis per una cospicua valorizzazione del vivaio sanremese: c'è stato il lancio di artisti di spessore come Arisa, Malika Ayane, Karima, Simona Molinari, Irene Fornaciari, Nina Zilli e Raphael Gualazzi (quest'ultimo addirittura secondo all'ultimo Eurofestival), e c'è stato il coraggio di proporre tanti giovani virgulti, sbocciati in un recente passato sul palco dell'Ariston, anche nella categoria regina del Festival, quella dei Big, fatto avvenuto in maniera massiccia nel 2010, con la partecipazione dei vari Cristicchi, Moro, Sonhora, Povia e le già citate Arisa e Malika. E se nell'ultimo anno sono ricomparsi volti un po' logori (un po' tanto, a dire il vero) come Al Bano e Patty Pravo, è anche vero che Morandi e il suo staff si sono riscattati portando a gareggiare cantautori solitamente allergici alle gare canore, come Vecchioni e Battiato (pur se quest'ultimo con una presenza piuttosto distaccata e sussiegosa e con la rimasticatura di un suo vecchio successo, cosa che personalmente non gli perdono). 
Ecco, questi sono i cardini su cui impostare l'allestimento di un buon "cartellone" per Sanremo 2012. Cercando al contempo di non ripetere gli errori commessi: la gara delle Nuove proposte relegata a orari impossibili e quasi clandestina, in mezzo ai vari momenti di spettacolo; il ricorso, cui si accennava poc'anzi, a cantanti, ci si consenta, passati di cottura, che sarebbero parsi fuori tempo massimo già in un Festival degli anni Ottanta, non dico nel Duemila. Tra l'altro, questa illimitata apertura di credito ai vari Leali, Zanicchi e Patty Pravo ha invece tolto spazio vitale a quella che io chiamo la generazione di mezzo, tutti quei cantanti saliti alla ribalta negli anni Novanta e agli inizi di questo secolo, i vari Di Cataldo, Vallesi, Groff e Salemi che avrebbero avuto, e hanno, tanto bisogno della kermesse rivierasca per mantenersi in quota. Ecco, la speranza è che fra poco più di quattro mesi si trovi un po' di spazio anche per loro.
Dovrebbe invece ridursi l'influsso dei talent, obiettivamente pesantissimo ed eccessivo nelle ultime edizioni.  Amici non ha proposto di recente alla ribalta sensazionali rivelazioni (casomai c'è da vedere se Alessandra Amoroso, talento vero, accetterà finalmente di mettersi in gioco all'Ariston), non si sa ancora quale impatto potrà avere X Factor nella nuova versione "satellitare", anche perché arriva subito dopo il clamoroso fallimento (dove il termine fallimento risulta riduttivo...) del suo erede targato Rai, Star Academy, chiuso per disperazione dopo tre puntate. E un ultimo consiglio: allargare, anche di poco, la schiera dei cantanti in gara (magari portando i Big da 14 a 16) e il numero di concorrenti partecipanti alla finale: l'anno scorso solo in dieci arrivarono al sabato, troppo pochi, e la serata venne riempita con momenti di spettacolo che in realtà lasciarono un grande vuoto (Ranieri bravissimo, per carità, ma inspiegabile la sua esibizione fiume, essendo un artista già massicciamente presente nel corso dell'anno sulla tv pubblica). Perché, ad esempio, non riservare all'atto conclusivo anche la gara finale fra i giovani, che così potrebbero contare su un bel po' di visibilità in più? 

giovedì 13 ottobre 2011

DUE O TRE COSE SU CASSANO

Tormentone Cassano. I vizi, le virtù e le inquietudini del discusso "mezzo fuoriclasse" barese sono tornati prepotentemente alla ribalta nelle ultime ore. Inevitabile, sia per la bella prestazione contro l'Irlanda del Nord, degna chiusura dell'eccellente girone di qualificazione europeo azzurro, sia per le sue dichiarazioni post gara, snodatesi tra un bagno di umiltà ("Ho vinto poco? Se uno vince tanto o poco se lo è meritato") e propositi di abbandono ("Voglio fare altri tre anni bene e poi smettere"). 
Premesso che certe dichiarazioni, come il 99 per cento di quelle di ogni uomo di calcio, lasciano il tempo che trovano, e che vanno ad arricchire l'infinita collezione di una "cassaneide" oltremodo stucchevole (fatta di alti e bassi, ascese e ricadute, dichiarazioni sagge e altre da mattocchio, di un "tutto e il contrario di tutto" specchio di una personalità tumultuosa e contraddittoria), ciò che mi preme in questa sede è esporre la mia posizione sul giocatore e sul suo percorso professionistico. Non amo parlare sulla scia dell'ultima impressione: quando qui a Genova, da parte di certa stampa compiacente, si tessevano le lodi di un Cassano ormai maturo e distante anni luce dai colpi di testa di un tempo, ero fra i pochi (per chi mi conosce, visto che all'epoca non avevo un blog in cui esprimere le mie opinioni) a mostrare scetticismo su questa improvvisa conversione, e i fatti successivi un po' di ragione me l'han data. Insomma, ho sempre cercato di andare oltre la facciata e le verità ufficiali, cercando di valutare le cose a tutto tondo. 
SEGNO DEL DESTINO? - Quando Cassano fece la sua fragorosa comparsa sulla scena calcistica nazionale (ricordiamolo: Bari - Inter del dicembre 1999, gol strepitoso a Ferron) anch'io fui tra quelli che pensarono che una prodezza del genere non potesse essere un caso, ma che stesse per nascere un nuovo fenomeno del football internazionale. Una parentesi: mi colpiva, in quegli anni, una singolare coincidenza, che all'epoca, nella mia ingenuità, interpretai come un sicuro segno del destino: il barese è un classe '82, oltretutto nato il 12 luglio, il giorno dopo la finale mondiale che aveva regalato all'Italia l'ultimo (in quel momento) titolo iridato. Un altro giovane virgulto che sarebbe esploso qualche anno dopo, Alberto Gilardino, è anche lui un '82, nato il 5 luglio, stessa data della memorabile sfida Italia - Brasile. Ecco, io speravo che in un giorno non lontano potessero essere proprio questi due fuoriclasse in pectore, venuti al mondo nei giorni della massima gloria di Zoff, Pablito e compagni, a riportare in Italia la Coppa FIFA, nel segno di un ideale fil rouge fra le due conquiste. 
I PRIMI FUOCHI D'ARTIFICIO - Poi, le cose sono andate un po' diversamente. Gila non ha rispettato in toto le folgoranti promesse di inizio carriera, ma ha fatto comunque una carriera di alto livello, diciamo pure da campione, e un Mondiale l'ha vinto, anche se non da protagonista assoluto. Il barese avere iniziato bene: fiammate e mattane nella Roma di re Totti, ma anche un ottimo Europeo nel 2004: gettato nella mischia per disperazione da Trap dopo il deludente esordio con la Danimarca, lo ripagò con un gol alla Svezia (vanificato dalle tremarelle tattiche del CT) e un altro alla Bulgaria, per una vittoria che non evitò l'eliminazione. Lippi voleva farne un cardine della sua prima gestione, tanto da arrivare a dire: "Vedrete che Antonio si stuferà di giocare in Nazionale". Alcune prove incoraggianti, come quella di Milano con la Scozia, poi il passaggio al Real, dove recitò da comparsa e anche meno. Fu l'inizio di un periodo nero, in cui personalmente cominciai a nutrire seri dubbi sulla effettiva consistenza del fenomeno Cassano. Fuori dal giro azzurro, salvo una fugace apparizione all'inizio dell'era Donadoni, poi l'approdo alla Samp, quando già la schiera dei suoi estimatori si era assottigliata. 
LA SUA VERA DIMENSIONE - L'esperienza genovese, conclusa in modo traumatico ancorché "misterioso", ha dato secondo me la vera misura del giocatore Cassano. In sintesi: il fuoriclasse promesso non è mai veramente sbocciato: forte coi deboli, raramente decisivo nelle grandi sfide a livello nazionale (eccezion fatta per alcune rimarchevoli prestazioni nella stagione 2009/10, irripetibile per la Sampdoria ed, evidentemente, anche per lui), praticamente mai nei big match internazionali. Lo ho dimostrato nel deludente Euro 2008, con prestazioni "da compitino", e lo ha ribadito anche nel girone eliminatorio appena concluso: sei gol, sì, ma due alle Far Oer, due all'Estonia e due all'Irlanda del Nord sperimentale di Pescara. Nelle sfide decisive con Slovenia e Serbia è toccato ad altri togliere le castagne dal fuoco. Ecco perché l'ho chiamato "mezzo fuoriclasse". Alzi la mano chi si ricorda, contro squadre di primissimo piano, una prestazione azzurra all'altezza della sua fama. Forse l'amichevole agostana con la Spagna: ma, per quanto anch'io abbia ritenuto importante quel match nel percorso di crescita della Nazionale, sempre di amichevole si trattava.
SOPRAVVALUTATO - Ingeneroso? Forse, perché in fondo son sempre gol che portano punti, e fan comodo anche quelli. Ma son gol relativamente facili, contro avversari di seconda o terza schiera: non è questo ciò che si sarebbe dovuto chiedere a uno come lui. Da potenziale top player a gingillo umorale, utile a scardinare difese magari non trascendentali, ma contro le quali può capitare che altri attaccanti, meno fantasiosi e in giornata no, finiscano per sbattere la testa senza risultati. Utile, insomma, ma da qui ad averne fatto, come ha deciso Prandelli, uno dei cardini della ricostruzione azzurra il passo è stato per me troppo lungo. Il giocatore, di occasioni per mostrare il suo valore ne ha avute a bizzeffe: Roma, Real, Milan, Nazionale e Champions League. Ha quasi trent'anni e quello che ha fatto è sotto gli occhi di tutti. 
GERARCHIE - Per questo, molto modestamente, ritengo azzardato puntare forte su di lui ora che l'asticella sta per alzarsi, ora che non avremo più di fronte le suddette rappresentative, ma compagini di tutt'altro spessore. Pazzini, Rossi e Balotelli, ciascuno per motivi diversi, meritano più di Fantantonio la possibilità di giocarsi i posti in prima linea. Altrimenti, non vorrei si ricreasse la "sindrome Del Piero". Ricordate? Tutti i commissari tecnici che si succedevano sulla nostra panchina continuavano inspiegabilmente a puntare su di lui, quando era ormai acclarato che Pinturicchio avesse una particolare idiosincrasia per gli impegni ultimativi in maglia azzurra, nelle fasi finali di Europei e Mondiali. E Del Piero è uno che in carriera ha fatto mille cose più di Cassano.  
Per questo, al momento, preferisco non partecipare al coro di osanna per l'Antonio ritrovato. Quante volte l'abbiamo ritrovato? E quante volte lo abbiamo (e si è) perso? Se poi, in Polonia e Ucraina, saprà fare per la prima volta in carriera quello che avrebbe dovuto fare tantissime volte, visto il talento donatogli da madre natura, ossia vincere qualcosa da protagonista, beh, nonostante quello che ho scritto non sarò certo meno felice di altri!

domenica 9 ottobre 2011

UN'ITALIA "QUASI" EUROPEA

Per mezz'oretta, è stata già un'Italia da Europeo: spietata, autoritaria, sicura di sé, in poche parole "adulta". Partite come quella di venerdì sera al Marakanà rappresentano la dimostrazione di quali ancora siano, nonostante la cattiva gestione politica e finanziaria, i disagi dei vivai e l'invasione straniera che sta soffocando le nuove leve nostrane, le enormi potenzialità del nostro movimento calcistico, della nostra scuola. Si badi, non si sta parlando qui della caratura tecnica della squadra azzurra: ho già scritto, e lo ribadisco, che abbiamo avuto, eccome, Nazionali più forti di questa. Il riferimento è alle risorse di talento e di classe in dote al nostro calcio, che in una congiuntura così critica come quella attuale hanno comunque permesso un rinnovamento dei ranghi tale da portarci a una resurrezione fragorosa, a poco più di un anno da uno dei più colossali disastri nella storia della nostra rappresentativa. 
Quindici mesi fa, subito dopo il Mondiale, i più pessimisti parlavano di anno zero per il nostro calcio, i più ottimisti dicevano che, pur dovendosi attendere un miglioramento, sarebbe stato difficile rivedere l'Italia su livelli decenti in tempi brevi. La squadra di Prandelli, invece, ha bruciato le tappe. Il 2011 è stato un anno di esami superati: c'era quello, fondamentale, della qualificazione europea, perché puoi crescere finché vuoi ma se non ottieni risultati tutto viene vanificato; e poi c'era quello, ben più importante in prospettiva, della valutazione della caratura internazionale del gruppo azzurro. Caratura internazionale ridotta ai minimi storici dalla seconda, sciagurata gestione Lippi.
Dopo gli impacci della prima fase della nuova era, culminata nell'orrida amichevole di Klagenfurt con la Romania (saggio di non gioco all'ennesima potenza), il test di febbraio a Dortmund con i tedeschi ha fatto scattare la scintilla: al cospetto di una delle Nazionali al momento più forti al mondo (dopo il Mondiale, la conferma nello strepitoso ruolino di marcia nel girone di qualificazione europeo, fatto di sole vittorie), i nostri hanno sfoderato gli artigli, giocando a testa alta e senza paura e strappando un meritato pareggio in rimonta. Il gruppo ha assunto una fisionomia tecnica e tattica definita e ha visto sbocciare prepotentemente la propria personalità, liberandosi nel contempo dell'enorme carico psicologico ereditato dai disastri mondiali: dopo, tutto è venuto di conseguenza. Le vittorie in Slovenia e Ucraina, l'affermazione agostana sulla Spagna, il successo qualificazione ostinatamente inseguito e alfine raggiunto nel retour match con gli sloveni a Firenze e, a coronamento, il pari di Belgrado. Tutti risultati ottenuti mai rinunciando al gioco, che magari procede a strappi e non sempre attinge vette di eccellenza, ma c'è, si vede, e si vede la volontà della squadra di voler manovrare, costruire, senza più affidarsi a soluzioni caotiche ed estemporanee. 
Torniamo dunque al punto di partenza: al Marakanà, la prima mezz'ora è stata giocata su livelli che, già da ora, ci consentirebbero di affrontare il viaggio in Polonia e Ucraina con legittime speranze. Autorevolezza, concretezza, carattere. Giocatori senza più tremarella al cospetto dei grandi impegni internazionali (la crescita impetuosa di Marchisio ne è il miglior emblema), capaci di reggere alla pressione di un ambiente caldo e ostile con la forza dei nervi distesi. Si dirà: con la qualificazione in tasca si gioca più tranquilli. Già, ma con la qualificazione in tasca si può anche andare su certi campi a sbracare e a prendere sonori ceffoni. In circostanze ambientali oggettivamente sfavorevoli e contro una compagine comunque di buona grana tecnica, i nostri hanno esercitato un predominio tattico e di manovra evidente, a tratti irretendo perfino l'avversario. 
Poi, non essendo ancora al livello delle grandi, è chiaro che non potesse durare. Germania  e Spagna, già qualificate, hanno vinto sui campi di grosse squadre che si giocavano tutto o quasi, Turchia  e Repubblica Ceca. A noi, questo killer instinct ancora manca, ma la sensazione è che stia prendendo forma. Il resto l'ha fatto la furia serba, di fronte alla quale del resto sono andate in difficoltà, in passato, anche compagini azzurre più scafate di quella attuale (penso all'Italia del Trap del 2003, evocata nel mio precedente post, o a quella bearzottiana che nell'81, da quelle parti, soffrì le pene dell'inferno, uscendo indenne grazie alle prodezze di Zoff). 
Rimane, a parte il punto, un patrimonio prezioso da salvaguardare. Un patrimonio di mentalità e personalità. E qualche problema tattico e tecnico da risolvere: Chiellini, ad esempio, è meglio che ritorni al centro, perché sulla fascia non è più in grado di fornire quello sprint nelle proiezioni che sanno dare Criscito e Balzaretti. Il centrocampo si sta rivelando la sorpresa più piacevole di questa Italia: è necessario però che gravi meno lavoro sulle spalle di questo splendido Pirlo,  e che Montolivo si assuma più responsabilità e lavori più palloni: ha le doti per diventare un autentico califfo della zona nevralgica, è cresciuto molto ma da lui è lecito attendersi ancora di più. Detto di un Marchisio cursore e incursore devastante, c'è un attacco che deve concretizzare di più: a Belgrado si poteva andare sul 2-0, Rossi in azzurro continua a sbagliare troppo sotto porta, ma il suo contributo di vivacità e di soluzioni offensive resta fondamentale. Abbinarlo ad attaccanti leggeri come Cassano però non è il massimo, secondo me: Pazzini e Balotelli meritano la maglia da titolare, Matri rimane una eccellente alternativa e il cittì crede molto in Osvaldo, a proposito del quale non si comprendono le perplessità sulle sue origini: il ragazzo è italo - argentino e ha già fatto parte della nostra Under 21, perché mai non potrebbe giocare nella rappresentativa maggiore? 
In vista di Pescara, ha ragione il tecnico a non voler rivoluzionare la formazione, per non rischiare l'effetto Cipro (l'ultima partite delle ultime eliminatorie mondiali, che Lippi, già qualificato, affrontò con un undici inedito rischiando una sconfitta storica, prima che Gilardino gli togliesse le castagne dal fuoco), ma c'è la necessità di far crescere l'esperienza internazionale di giocatori che potranno venir utili, come Sirigu, Astori, Aquiliani e Giovinco. 

mercoledì 5 ottobre 2011

AMARCORD: SERBIA - ITALIA DEL 2003, L'ILLUSIONE AZZURRA DEL TRAP

Serbia - Italia è una sfida quasi inedita. Chiariamo subito: di precedenti, con la vecchia Jugoslavia unita, ce ne sono a bizzeffe, quasi tutti storicamente significativi, alcuni di grandissima rilevanza (pensiamo solo alla doppia finale dell'Europeo '68 a Roma, l'unico finora vinto dagli azzurri). Ma, tutti lo sapranno però è sempre meglio ribadirlo, la mitica selezione plava, così come l'abbiamo conosciuta fino agli anni Novanta, era un'altra cosa: c'erano dentro serbi, croati, bosniaci, sloveni, macedoni, montenegrini, insomma, tutte le etnìe di quel martoriato Paese. Dal '91 in poi, in seguito ad eventi politici e bellici che sarebbe lungo e anche improprio rievocare in questa sede, le varie realtà hanno via via acquisito autonomia anche sportiva, prima la Slovenia e a seguire tutte le altre. 
La Jugoslavia, pur ridotta in pratica alle sole Serbia e Montenegro,  mantenne comunque il suo nome, anche calcisticamente, fino al 4 febbraio del 2003, e in tale veste iniziò le qualificazioni a Euro 2004: il confronto con l'Italia giocato a Napoli nell'ottobre del 2002, e chiusosi sull'1-1 (Mijatovic e Del Piero in gol, quest'ultimo con una deviazione avversaria), rappresentò di fatto l'ultimo confronto fra la nostra rappresentativa e quella slava. 
NASCE LA SERBIA - MONTENEGRO - Poco meno di un anno dopo, settembre 2003, gli azzurri trovarono in campo, per il retour match di Belgrado, la nuova rappresentativa della Federazione di Serbia e Montenegro. Ed è questo l'unico precedente ufficiale (ossia coi tre punti in palio) autentico fra le due squadre, al quale fece seguito, nel giugno 2005, un'amichevole disputata a Toronto, nell'ambito di una tournée della selezione di Lippi, e chiusasi sull'1 a 1 (Lucarelli a segno per noi). Si tratta comunque di due precedenti "spuri", perché ben presto anche i montenegrini acquisiranno totale indipendenza anche sui campi di football, e avranno proprio con noi uno dei primi confronti ufficiali, nell'ambito del girone eliminatorio per la Coppa del Mondo in Sudafrica. Ma questa è un'altra storia... 
LA SECONDA ITALIA DEL TRAP - Torniamo dunque a quel confronto di otto anni fa. Era la... seconda Italia targata Trapattoni. La prima, nata e cresciuta fra l'entusiasmo generale, aveva affrontato il Mondiale del 2002 nel ristretto novero delle grandi favorite, ma ne era uscita con le ossa rotte agli ottavi, per fattori esterni (alcuni arbitraggi furono effettivamente vergognosi, e il più scandaloso non fu certo quello famigerato di Byron Moreno nel confronto con la Sud Corea) ma anche interni, ossia rendimento nettamente sotto le attese di diversi protagonisti (in primis Totti, che doveva essere una delle grandi figure del torneo) e clamorosi errori e incertezze di gestione, da parte dei uno dei tecnici più vincenti nella storia del calcio italiano e internazionale. Insomma, si cadde dall'alto e ci si fece malissimo, tanto che la squadra continuò per mesi a portare i segni di quella traumatica esperienza: il dopo - Mondiale, apertosi con una sconfitta con la Slovenia già rievocata su questo blog, proseguì con un incerto avvio nelle eliminatorie europee culminato con la sconfitta in Galles. A quel punto, e si era nel tardo autunno del 2002, la qualificazione per il torneo continentale pareva compromessa, e la panchina del Trap, a cui il presidente federale Carraro aveva rinnovato la fiducia dopo la Corea (non si è mai capito se per convinzione autentica o per... mancanza di alternative immediate) terribilmente traballante. 
Fu a quel punto che ci fu una piccola svolta: il tecnico decise di smuovere l'ambiente aprendo le porte della squadra a giocatori non di primissimo piano, sul piano della militanza di club e dello spessore tecnico, eppure meritevoli di una considerazione che, fino a quel momento, era stata loro negata. A partire dall'amichevole novembrina con la Turchia a Pescara, ecco immessa nel serbatoio azzurro la benzina di gente come Nervo, Di Natale, Corradi, Legrottaglie, Perrotta, Camoranesi, Miccoli. L'intento di Trap era duplice: allargare la rosa dei giocatori con esperienza internazionale, e scuotere alcune grandi figure azzurre che, a partire dal Mondiale, sembravano essere sprofondate nel torpore, forse per mancanza di concorrenza. 
UN 2003 MEMORABILE - L'effetto fu dirompente: la squadra riacquistò brio, molti dei nuovi fornirono un contributo talmente sostanzioso da entrare in pianta stabile nel giro, e la loro presenza servì da stimolo ai vecchi (nel senso di militanza) azzurri, che ritrovarono motivazioni e rendimento. Ne nacque un 2003 sensazionale, con la bellezza di sette vittorie consecutive (una addirittura in Germania, con splendido gol di Vieri) e l'impetuosa risalita nel girone di qualificazione europeo, culminata con il trionfo milanese sul Galles (che aveva inizialmente preso la vetta grazie a una partenza strepitosa): tripletta di Inzaghi e prestazione scintillante, pochi giorni prima della trasferta belgradese. 
Gli slavi, dal canto loro, erano una delle delusioni della fase eliminatoria, essendo incappati in passi falsi incredibili (quattro punti su sei lasciati all'Azerbaigian!), e in quel momento avevano come unico, difficile obiettivo quello del secondo posto nel girone, che avrebbe dato loro l'accesso ai playoff. 
LA SFIDA DI BELGRADO - Ecco, è questo il quadro d'assieme in cui le due squadre, in quel settembre 2003, scesero in campo nel maestoso Marakanà, per la verità mezzo vuoto. Per la nostra squadra era e rimane uno dei campi tradizionalmente più ostici, eppure partimmo favoriti, sull'onda dello straordinario filotto di risultati di cui si è detto e del gioco scintillante mostrato coi britannici. 
La gara dei nostri deluse invece le attese, e rischiò di tramutarsi in un nuovo scivolone trapattoniano. I padroni di casa, consapevoli di essere all'ultimissima spiaggia, ci schiacciarono fin dall'inizio, e fu subito sofferenza. Centrocampo tagliato fuori, ma la difesa resse egregiamente e davanti c'era un Inzaghi in stato di grazia: dopo alcune occasioni fallite dai serbi, Pippo sfruttò un lungo lancio dalla retroguardia incuneandosi nella stranita difesa avversaria e freddando Jevric di sinistro. Quel gol cambiò la partita fino all'intervallo, l'Italia prese possesso delle redini del match, sfiorò il raddoppio con Vieri e si vide negare un rigore ancora sullo scatenato Superpippo. Ma nella ripresa i locali tornarono a caricare col sangue agli occhi, e gli uomini del Trap non riuscirono più a ripartire con i loro contropiede mortiferi: nel finale giunse dunque, meritato, il pari di Ilic.
LO "STELLONE AZZURRO" - Serviva a poco ai serbi, ma era anche un mezzo buco nell'acqua per l'Italia, che avrebbe rischiato di dover andare agli spareggi fra le seconde se non fosse giunto in aiuto il classico italico stellone: il Galles si fece clamorosamente fermare sul pari interno dalla Finlandia, in caso di vittoria si sarebbe presentato al turno finale (da giocare ancora in casa di fronte agli slavi ormai fuori dei giochi) con un punto di vantaggio sui nostri. Così non fu, nell'ultima gara l'Italia dispose con facilità dell'Azerbaigian a Reggio Calabria e volò in Portogallo. Dove il secondo fallimento, dopo quello coreano, consegnò alla storia azzurra Trapattoni come il peggior commissario tecnico del dopoguerra, in rapporto alla qualità del materiale umano avuto a disposizione.