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venerdì 13 marzo 2015

CHAMPIONS ED EUROPA LEAGUE: DAL PSG ALLA FIORENTINA, IL CALCIO DI CLUB HA SMARRITO IL LEGAME COL TERRITORIO


Mercoledì scorso, ottavi di Champions League a Stamford Bridge, Chelsea contro Paris Saint Germain: blues con due soli inglesi in campo (i centrali difensivi Terry e Cahill), ospiti con un unico francese (il centrocampista Matuidi). Ieri sera, ottavi di Europa League, derby italiano (e sottolineo "italiano") fra Fiorentina e Roma:  solo che gli italiani, nei due undici iniziali, erano appena due (due su ventidue!), ed entrambi nelle file giallorosse, De Rossi (ben presto uscito di scena) e Florenzi. Ecco, questo è, a grandi linee, il calcio di club degli anni Dieci, perlomeno ai piani più alti. Anzi, tanto perché sia chiara da subito la mia posizione, non è calcio, non lo è più. 
MULTINAZIONALI - Questi tornei continentali, soprattutto il più prestigioso per censo e.. giro di miliardi, hanno in cartellone spettacoli di altissimo livello tecnico, sovente una delizia per gli occhi. Ma si tratta, appunto, di spettacolo: il football autentico, nella sua essenza originaria e genuina, è un'altra cosa. Siamo quasi alla logica "globetrotters": pochi potentati economici hanno dapprima creato una élite di super società pressoché impenetrabile (si guardino vincitori e protagonisti di Champions degli ultimi quattro - cinque anni), e ne hanno poi trasformato i roster in "all stars", con campioni e campionissimi prelevati da ogni parte del mondo, ma quasi sempre stando alla larga dai vivai locali. Un PSG o un Chelsea potrebbero tranquillamente operare, giocare e avere sede a Dubai, a Mosca o in qualsiasi altra parte del globo: Londra e Parigi c'entrano poco, quasi nulla. 
CAMPANILISMO E LEGAME COL TERRITORIO - L'essenza del calcio, si diceva, sta anche, per me soprattutto, nella sua rappresentatività nazionale, nel legame e nell'identificazione col territorio. Che non è provincialismo, ma capacità di alimentare un po' di sano campanilismo nel tifoso ma anche nel calciatore, di rinsaldare il senso di appartenenza a un luogo: sono sentimenti che, declinati in senso positivo (alla larga cioè da eccessi di sciovinismo) hanno decretato nel Novecento il successo di ogni sport, e soprattutto l'oceanico favore popolare coagulatosi attorno al football. 
Personalmente sono uno che, pur coltivando una moderata nostalgia per certi aspetti di un mondo calcistico che non c'è più, ha sempre voluto guardare avanti, cercando il buono pure nelle tante, troppe novità che dal Duemila in poi hanno caratterizzato l'evoluzione di questa disciplina. Ma accettare il progresso non significa farsi andar bene tutto: in compagini come il Chelsea e il Paris Saint Germain, o come la Fiorentina e la Roma di ieri sera (ma mettiamoci anche l'Inter o il Napoli, per restare in ambito EL) la rappresentatività nazionale non esiste, il legame col territorio è stato buttato alle ortiche. E quindi si sono sradicate e rinnegate le radici stesse del fenomeno calcio.
GLOBALIZZAZIONE NEFASTA - Spogliatoi in cui si parlano dieci o più lingue, accozzaglie di calciatori di formazione diversa, nessun autentico collante morale a tenerli insieme, se non i contratti, peraltro assai volatili: non più atleti ma grigi professionisti, che vanno dove ti offrono di più, si chiami anche Anzhi, e chissenefrega se il prestigio del club è inesistente, basta che paghi bene. Danni di una globalizzazione male interpretata e portata agli eccessi, che non si può applicare a tutto: il calcio ha, ebbene sì, una propria valenza culturale, che consiste anche nella salvaguardia e nella valorizzazione della "produzione" locale. Incredibile che, dalla sentenza Bosman in poi, nessun fine giurista abbia trovato qualche machiavellico dispositivo per dare contorni concreti a questo rilievo culturale, e arginare la deriva della circolazione indiscriminata di atleti. 
PIU' ITALIA NEL PSG - Un trionfo nella seconda coppa continentale di una delle compagini nostrane (il Torino devo purtroppo escluderlo, per i suoi mezzi limitati) è certo auspicabile per alimentare il nostro esangue ranking UEFA, ma non sarebbe in alcun modo un termometro attendibile dello stato di salute del pallone tricolore, di cui esse non sono espressione. Il livello di un movimento calcistico, sul piano strettamente tecnico, si misura innanzitutto dalla capacità del vivaio nazionale di produrre elementi di valore, per poi portarli a rapida e proficua maturazione, e non certo dalle illusorie affermazioni di pittoreschi ensemble di brasiliani, croati, sloveni, greci e ivoriani. Idem, ovviamente, nel caso di un trionfo in Champions del PSG, per il quale siamo anzi al paradosso: significherebbe poco o nulla per il football transalpino (così come nulla significò per noi quello dell'Inter straniera nel 2010), mentre sarebbe un segnale interessante per l'Italia, visto che nella squadra di Laurent Blanc militano ben tre azzurrabili, assai più di quelli che è possibile rintracciare in molte realtà di vertice della nostra Serie A. 
ARISTOCRAZIA IMPENETRABILE - I club dell'élite internazionale, si diceva, hanno ormai dato vita a un'aristocrazia impenetrabile, nella quale è pressoché impossibile entrare per spontaneo progresso tecnico (se non in maniera sporadica), ma solo dotandosi di proprietà facoltose, russe o arabe purché immettano nelle casse societarie abbondante liquidità. Atletico Madrid e Borussia Dortmund sono luminose eccezioni, l'augurio è che lo possa essere la Juventus, la quale peraltro, negli anni della piena maturità del suo gruppo di nazionali azzurri (dei Buffon e dei Barzagli, dei Bonucci, dei Chiellini e dei Pirlo), ha dimostrato di non poter andare oltre un determinato limite. 
SCOUTING STRABICO - In questa gruppuscolo ormai destinato a spartirsi la Champions per molti lustri, oltreché a dettar legge nelle rispettive patrie, si è anche perso il concetto di scouting: perché non ci vuole particolare fiuto  di mercato per andare a pescare in giro per il mondo il Verratti o il Diego Costa, il Pastore o l'Azpilicueta, il Courtois o il Thiago Silva. Il lavoro di scouting rimane invece un lodevole punto di forza delle società di seconda fascia europea, quindi di quasi tutte le italiane qui citate, ma, ripetiamo, non si vede perché questa operazione "scova talenti" debba essere indirizzata pressoché esclusivamente verso l'estero. Dicono che i giovanissimi di casa nostra costino troppo: ammesso e non concesso che sia del tutto vero, ci sarà pure un modo per porre un tetto, anche se mi rendo conto che ben poco si può fare, dopo essersi dotati di una presidenza federale impresentabile e votata al totale immobilismo. Ma non sono convinto che sia tutto qui il problema, e prima poi anche questo ostracismo al "prodotto interno lordo calcistico" dovrà essere chiarito, una volta per tutte. 
NON CI RESTANO CHE LE NAZIONALI... - Qualche firma prestigiosa ritiene che le competizioni per rappresentative nazionali abbiano ormai ampiamente perso fascino e appeal, a tutto vantaggio della Champions League e, più in generale, proprio dei tornei fra club. Non è vero (basti pensare alla copertura giornalistica, agli spettatori in loco e attraverso i media vecchi e nuovi, alla passione ma anche al giro di soldi che Mondiali ed Europei continuano a generare): alla luce di quanto scritto sopra, sono proprio quei tornei l'ultimo baluardo a difesa del DNA più autentico e genuino del pallone. Le Nazionali e le loro sfide ridanno vigore al campanile e al senso di appartenenza, al patriottismo sano, e danno la misura più realistica del livello qualitativo di un movimento, dei suoi progressi e dei suoi passi indietro. Quelli di Champions e di Europa League sono solo scontri fra "all stars": emozionanti, gradevoli, ma senza "sugo" storico e di prospettiva. Quasi delle "americanate"... 

4 commenti:

  1. Il tuo non è assolutamente uno sproloquio Carlo, pensavo - partendo da presupposti diversi, eppure simili - di approfondire la cosa sul Guerino, ne parlai già a Marani qualche tempo fa. Il fatto è che come sottolinei è quasi prassi comune che ormai la cosa debba essere passivamente accettata. Non è così, a mio avviso. Io sto preparando anche un articolo che per l'ennesima volta andrà a testimoniare l'attuale inutilità del campionato Primavera, così com'è strutturato, portando alla luce casi eclatanti e dimostrando che i più bravi devono essere gettati (magari gradualmente, altrimenti si bruciano) nella mischia, oppure farsi fare le ossa, nel vero senso della parola, confrontandosi con i professionisti. Hai fatto benissimo a citare i casi di Dortmund e Atl.Madrid che, proprio anche sfruttando talenti del proprio vivaio, hanno saputo costruirsi una fortuna, riuscendo a mantenersi su livelli altissimi da qualche stagione a questa parte. Lo stesso Dortmund ha ancora la possibilità di passare il turno in Champions e superare questo anno di transizione, seguito all'addio di Lewandowski. A proposito mi veniva da pensare ieri che forse avevi ragione a non entusiasmarti troppo per il passaggio in massa del turno scorso in Europa League da parte delle italiane. Credo che saranno ben poche quelle che faranno strada. Tra l'altro guardando bene le formazioni delle maggiori squadra impegnate nella competizione minore d'Europa, è triste rimarcare che anche in quel caso le più accreditate sono infarcite di stranieri, vedi le russe ad esempio

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    1. Grazie Gian, e conosco bene anche la tua sensibilità e attenzione sul tema. Allora spero di leggere presto questo tuo dossier sul torneo Primavera. Sì, è vero, si tende ad accettare tutto questo come un aspetto inevitabile di un inevitabile progresso, in molti (non noi) hanno perso la capacità di scindere bene e male anche in cose tutto sommato futili come il calcio.
      Io a vedere queste multinazionali senza capo né coda provo solo un senso di distacco e di amarezza (e lo stesso vale per il Genoa, la squadra che seguo più da vicino e che ha messo da parte la coraggiosa "italianizzazione" estiva per sposare anch'essa, a gennaio, una politica nettamente esterofila). Ma ripeto, quando la residua spinta del vivaio nostrano si sarà azzerata e il calcio italiano sarà ridotto a livello ungherese, allora ci sollazzeremo a vedere le esibizioni dei nostri club multinazionali, che potrebbero giocare in Serie A come nella Eredivisie o nella Lega indiana.
      Riguardo all'Europa League, il Toro ha beccato un avversario superiore, però ad esempio l'Inter poteva tranquillamente giocarsela col forte Wolfsburg... Due squadre in semifinale: ci metterei la firma.

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  2. E' un signor articolo Carlo. Un'ottima tesi elaborata, anche se non sono pienamente d'accordo, o meglio...
    Si perde qualcosa, si perde scouting, si perde "buona-gestione-societaria", si perde senso d'appartenenza, ma si va verso qualcos'altro che può avere diversi fattori positivi.
    Società più solide, più certezze per i calciatori (sul campo e fuori) e spettacolo.
    Ad esempio io sono dell'idea che alcune grandi multinazionali, come l'Ethiad o la Red Bull, stanno sì smembrando club che hanno una loro storia, ma stanno creando sicuramente delle società calcistiche -NY RedBull e le sue 4 filiali nel mondo e Manchester City+ NY City+ Melbourne City- molto solide e, per questo, con un ottimo potenziale.

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    1. Ciao Ale, e grazie. Sul piano dello spettacolo propriamente detto non posso che darti ragione, e l'ho anche scritto nell'articolo. Su tutto il resto, boh: società più solide, ma parliamo di una ristretta élite di società che monopolizza e sempre più monopolizzerà mercato e trofei. Quello che tu fai è un discorso, molto preciso, di assetti finanziari che, secondo me, avvantaggia veramente pochi, e va nel senso di una ulteriore disumanizzazione e spoetizzazione del calcio, intesa come perdita delle radici, quelle radici che ho descritto e che, lo ricordo ancora una volta, hanno decretato il successo del pallone nel secolo scorso.

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