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mercoledì 2 marzo 2016

LE MIE RECENSIONI: "CREED - NATO PER COMBATTERE", OSCAR MORALE PER STALLONE



Niente Oscar per Sylvester Stallone. Non sono così esperto di cinema da poter valutare la correttezza della decisione dell'Academy. Mi limito a sottolineare che in "Creed - Nato per combattere", il buon vecchio Sly ha offerto una prova d'attore di notevole caratura. Ma è "Creed" nel suo complesso ad essere opera riuscita, solida, senza cedimenti. Sorprendente, verrebbe da dire, perché il filone Rocky pareva esser stato spremuto fino all'ultima goccia: l'episodio numero sei, il "Rocky Balboa" di ormai dieci anni fa, ci aveva già mostrato il fuoriclasse del ring in versione invecchiata, alle prese con la caparbia volontà di non arrendersi al tempo che passa fino a tornare a combattere in maniera perfino credibile. 
"Creed" (regia di Ryan Coogler) non è tecnicamente il settimo capitolo della saga dello "stallone italiano": è uno spin-off, si direbbe in gergo, una storia ritagliata attorno a un coprotagonista della serie (Apollo Creed, prima augusto avversario e poi allenatore di Rocky). Però racchiude tutte le atmosfere, i sapori, le malinconie e le impennate epiche del filone principale. E' la vicenda di Creed junior (Michael B. Jordan), figlio naturale del popolarissimo pugile morto inopinatamente nel combattimento - esibizione contro Ivan Drago (Rocky IV, 1986): non ha mai conosciuto il padre, vuole ripercorrerne le orme agonistiche ma tenendo accuratamente nascoste, fin quando possibile, le sue "nobili" origini, per arrivare in alto da solo, senza la spinta del cognome famoso (in Italia sarebbe una mosca bianca, anzi, verrebbe trattato alla stregua di un pazzo...). La sua identità la rivela però al vecchio Rocky, ormai attempato gestore di un ristorante italiano, il quale, dopo non poche esitazioni, accetta di prenderlo sotto la sua ala protettiva. 
Starà allo spettatore pagante scoprire come andrà a finire. Certo, in apparenza il canovaccio narrativo, nella sua struttura principale, non si discosta granché da quello tipico di tutta la saga, e molto sommariamente si potrebbe sintetizzare così: lancio della sfida, evento drammatico, allenamento sfiancante, scontro finale. Ma sarebbe ingeneroso ridurre "Creed" a questo: come già era avvenuto in "Rocky Balboa", la pellicola recupera alcuni degli stilemi più genuini e meno commerciali dei primi episodi. C'è quell'atmosfera decadente di glorie sportive ormai lontane e non adeguatamente tesorizzate, c'è il ritorno alle origini popolane di Rocky, i quartieri della periferia più problematica, le vecchie palestre impregnate dell'acre odore del sudore e frequentate da giovanotti provvidenzialmente tolti dalla strada. C'è un'umanità di fondo che negli episodi centrali, il terzo (soprattutto) e il quarto, aveva fatto posto a una narrazione più di grana grossa, più fondata sulla retorica a buon mercato (per quanto tutto sommato centrata) e sulla spettacolarizzazione di combattimenti coinvolgenti oltremisura ma dallo svolgimento improbabile, con colpi che nella realtà avrebbero verosimilmente causato fulminei decessi dei contendenti. 
"Creed" segna un ritorno a una dimensione più realistica della boxe e del mondo non sempre dorato che la circonda. E riporta definitivamente Rocky sulla terra, impietosamente di fronte a un passato disseminato di troppi lutti e a un presente che lo costringerà ad affrontare il nemico più insidioso, quello che si fa largo nel tuo corpo e che emerge dai referti delle analisi cliniche, roba che al confronto Clubber Lang e Drago erano passeggiate di salute. Proprio questo dramma personale porta la vecchia gloria Sly a ricalibrare la propria vita, a scoprire nuovi orizzonti, a capire, dopo l'ovvio scoramento iniziale, che ci sono sempre nuove sfide da lanciare e nuovi affetti da coltivare anche quando tutto sembra perduto: senza abbassare la guardia, proprio come sul ring. Ecco: questo Rocky mai così fragile, mai così uomo, dimesso eppure sempre fiero di ciò che ha rappresentato e rappresenta, è uno dei punti di forza del film: lo è perché Stallone ne riproduce mirabilmente, sul grande schermo, tutte queste sfumature dell'animo e del carattere, confermando la perfetta simbiosi col personaggio che più ne ha segnato la carriera, e col quale forse proprio in questa occasione ha raggiunto la totale identificazione. 
In questo senso, l'Oscar non sarebbe stato immeritato, ma i trofei, in certi casi, poco contano. Agli spettatori rimarrà una pellicola che sa trasmettere emozioni vere, sia per la vicenda del vecchio campione sia per la spigolosa caparbietà del giovane rampante. E' un film riuscito perché, comunque, la mozione dei sentimenti non va a detrimento di altri aspetti più prettamente cinematografici: non può mancare la storia d'amore per Creed junior, anche questa però non banale, visto il problema di salute che affligge la fanciulla (problema vissuto peraltro con rassegnata serenità), mentre l'avversario finale, l'inglese Ricky Conlan, è senz'altro il più odioso e antipatico fra quelli proposti dalla saga, una figura lontana dalla simpatica arroganza di Apollo, dal chiassoso e verboso rodomonte Clubber Lang - Mister T e dalla feroce, metodica freddezza di Drago. Da lacrimuccia il répechage, nel ruolo di madre del giovane Adonis Creed, di Phylicia Rashad, ossia la signora Robinson della popolarissima serie tv anni Ottanta. L'unico elemento kolossal di una pellicola che ha scelto il basso profilo è forse la lussuosa cornice dell'incontro finale, che si svolge davanti a decine di migliaia di spettatori nello stadio dell'Everton a Liverpool. Un piccolo cedimento alla voglia hollywoodiana di grandeur che possiamo tutto sommato perdonare.  

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