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mercoledì 27 giugno 2018

MONDIALI 2018: GERMANIA ADDIO. LA COREA AFFONDA I CAMPIONI, SOLO L'OMBRA DEI MERAVIGLIOSI TRIONFATORI DI RIO


Quella volta che incappò nella sua prima vera "Corea", alla Germania (Ovest) andò decisamente meglio: dopo la sconfitta shock con l'Algeria all'esordio nel Mundial '82, riuscì ugualmente a passare il turno in maniera non troppo elegante (la famosa partita-vergogna di Gijon con l'Austria) per poi spingersi faticosamente fino alla finalissima con l'Italia. Stavolta, invece, il tonfo è senza rimedio, ed è probabilmente il più fragoroso nella gloriosissima storia della Nationalmannschaft: 0-2 coi sudcoreani, e vacanze anticipate. In primis un dato che fa riflettere: per la terza volta consecutiva, e per la quarta negli ultimi cinque Mondiali, la squadra detentrice della coppa è costretta a salutare la compagnia già dopo le tre partite del primo turno. In linea di massima, la ragione è sempre la stessa: più che l'appagamento (perché i veri campioni non si stancherebbero mai di vincere), si tratta di una questione di logorio psico-fisico per i continui impegni ad altissimo livello richiesti al nucleo dei titolarissimi, in parte anche conseguenza dello scarso coraggio mostrato dai vari cittì nel rinfrescare le squadre a loro affidate, immettendo forze nuove. Fedeltà ai veterani oltre ogni evidenza: il tranello in cui caddero, in misure diverse, Bearzot ('86) e Lemerre (2002), Lippi (2010) e Del Bosque (2014).
INUTILE RICONOSCENZA - Una storia che si ripete da lustri, una lezione che non viene mai mandata a memoria. Ma fa scalpore che sia oggi accaduto alla Germania: la Nazionale solida e irriducibile per eccellenza, quella che è sempre e comunque sul pezzo, che può anche non vincere il trofeo ma un piazzamento, in un modo o nell'altro, riesce spessissimo a metterlo nell'albo d'oro; quella squadra espressione di un movimento che, a partire dai tempi del Mondiale 2006, abbiamo sempre ammirato per l'ottimo lavoro effettuato sui vivai, per aver "costruito" in casa tanti giovani di statura internazionale che assicuravano un ricambio pressoché costante.
DAL 2014 AL 2018, UN ABISSO - Tutto ciò è andato in frantumi fra Mosca, Sochi e Kazan. I veri tedeschi, in questo torneo, non si sono mai visti, se non, in parte, all'inizio e nel secondo tempo del match con gli svedesi, del quale avevo discettato in questo articolo pochi giorni fa. Fra i campioni del mondo 2014 e questa grigia versione delle selezione teutonica c'è un abisso: dove prima spiccavano brillantezza, precisione, continuità, compattezza, concretezza, in questi giorni abbiamo visto una compagine lacunosa sotto ogni aspetto. Già avevamo sottolineato i gravi squilibri fra i reparti emersi nelle prime due gare, e anche oggi la Corea del Sud ha approfittato della quasi totale mancanza di filtro davanti alla difesa dei bianchi per avventurarsi in numerosi contropiede: le sono mancati attaccanti adeguati alla ribalta iridata (quante esitazioni nell'andare al tiro, dopo un ottimo lavoro in fase di costruzione e rifinitura!), altrimenti avrebbe potuto dare contorni ancor più nitidi alla sua impresa. 
ANCHE KROOS DELUDE. AGGRAPPATI A GOMEZ - Contro gli asiatici, i detentori hanno ruminato gioco senza costrutto, con un possesso palla fin troppo fitto ma che produceva ben pochi sbocchi offensivi; la manovra subiva continui rallentamenti, certo per la buona copertura del campo attuata dai rossi, ma anche per la scarsa ispirazione di chi avrebbe dovuto accendere la lampadina in avanti: parlo di un Ozil che pare ormai alla fine della sua parabola in rappresentativa, ma anche Kroos, salvatore della patria con la Svezia, ha avuto rare intuizioni felici. Poi le occasioni non sono mancate, è vero: Goretzka di testa, Gomez due volte, Hummels, tutti da distanza ravvicinata, tutti rintuzzati dai difensori e dal saettante portiere Jo Hyun Woo. Ma a ben altra pressione offensiva, a ben altri forcing ci aveva abituati la Mannschaft: erano, quelli di questo pomeriggio, attacchi portati senza la necessaria lucidità, senza la freddezza sotto porta che è una caratteristica storica dei tedeschi, è nel loro DNA; e che la pericolosità sia aumentata con l'ingresso in campo dell'anziano Supermario non è neppure tanto incoraggiante: se l'ex Fiorentina sa ancora essere più vivo e incisivo in area rispetto a un Timo Werner, per fare il nome di una nuova leva, ebbene Low, o chi verrà dopo di lui, qualche domanda dovrà farsela, sia sulla bontà della selezione effettuata per Russia 2018, sia sulla prontezza degli emergenti per cimenti così impegnativi. 
COME L'ITALIA IN SUDAFRICA - La disfatta teutonica ha avuto contorni simili a quella azzurra in Sudafrica, otto anni fa: anche allora le prime due uscite dell'Italia avevano destato preoccupazione, ma restò la convinzione che le poche cose buone mostrate dai nostri potessero bastare per fare punti con la Slovacchia e approdare quantomeno agli ottavi: poi sappiamo come andò. Allo stesso modo, oggi nessuno avrebbe scommesso non dico su una sconfitta, ma neppure su una mancata vittoria di Neuer e compagni, eppure... Succede che si rompa la magia di una squadra che si pensava invincibile o giù di lì, e che il tramonto avvenga in maniera lenta ma inesorabile, come per l'Italia dell'82, o repentinamente, come per questa Germania che, come spesso si usa dire in ambito calcistico, non avrebbe fatto gol neppure se avesse giocato per un'altra ora, e che sul finire è stata punita dalle stilettate di Kim Young Gwon (tocco ravvicinato sugli sviluppi di un corner, con convalida dopo revisione VAR) e di Son Heung Min, in contropiede a porta vuota, con il citato Neuer a cercare improbabile gloria in avanti. 
IL LOGORIO DEL... PALLONE MODERNO - No, non eravamo abituati alla fragilità tedesca, una fragilità tale da aver zavorrato gli ex campioni trascinandoli fino all'ultimo posto nel girone. Nella loro storia una sola uscita di scena immediata in Coppa del Mondo, prima di quella odierna: nel 1938 in Francia, nientemeno, in un ottavo a eliminazione diretta per mano della Svizzera. E' casomai interessante rilevare che questi "spodestamenti" avvengono con impressionante regolarità nel calcio del Duemila, mentre fino alla fine del secolo scorso la kermesse iridata non aveva riservato "cadute degli Dei" così sorprendenti: solo il Brasile venne subito eliminato da detentore nel '66, mentre un caso a parte rappresenta quello dell'Italia del '50, che si presentò sì nelle vesti di bicampione venendo immediatamente estromessa dalla Svezia, ma all'epoca si era alla ripresa della Coppa del Mondo dopo ben dodici anni di interruzione per via della tragedia del secondo conflitto mondiale, e per sovrappiù il nostro calcio fu gravemente menomato, tecnicamente e moralmente, dall'annientamento del Grande Torino nella sciagura di Superga, datata 1949.
Dal 2002 a oggi, come detto all'inizio, quattro volte su cinque. I calciatori di punta delle selezioni trionfatrici sono, nel quadriennio successivo (ma spesso anche prima), sottoposti  a uno stress elevatissimo, arrivando a giocare un numero esorbitante di partite stagionali: logico che il logorìo sia più rapido, rispetto a quello dei pedatori di un tempo. Il segreto lo abbiamo detto: rinnovare, rinnovare, rinnovare, conservando un ridotto drappello di vecchi fusti a far da chioccia. Rimanere legati ai grandi vecchi pareva un problema soprattutto italiano, ma trovare tracce di questa ritrosia al cambiamento nella Nazionale-panzer era proprio l'ultima cosa che potessi aspettarmi. Pazienza: una caduta così traumatica servirà ai nostri "carissimi nemici" ad essere più umili, sentirsi meno "irriducibili" e più umani (già: la trita faccenda degli irriducibili tedeschi non dovremmo più sentirla almeno per due anni, si spera...), e a individuare le cause dei problemi (non molti, ma ci sono). Loro, almeno, dovrebbero saper affrontare la contingenza negativa e uscirne rafforzati, come han sempre fatto in passato. 

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