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martedì 29 maggio 2012

27 ANNI FA LA STRAGE DELL'HEYSEL (2)


                                     I morti nel settore Z dopo la carica degli Animals

LA STRAGE DEL SETTORE Z - Ciò che accadde dopo è, purtroppo, cronaca nera trasformatasi in storia. Ricostruzioni scritte e parlate, in questi 27 anni, ce ne sono state a iosa. Limitiamoci dunque a dare singoli flash: le cariche violente e ripetute dei teppisti pseudotifosi del Liverpool, accecati dall'odio e pieni di alcool fino alle orecchie, verso il settore Z della curva nord dello stadio belga, i cui pacifici e inermi occupanti non solo non opposero resistenza, ma anzi fuggirono, presi da un sacrosanto panico, cercando salvezza verso il campo di gioco e, nel contempo, spostandosi sulla destra, verso il muretto di sostegno laterale della curva. 
Mentre gli inglesi assaltavano e venivano giù a ondate sempre più furenti, picchiando, anzi massacrando con spranghe, bottiglie rotte e pezzi di cemento asportati dai gradoni i poveri tifosi che incontravano sulla loro strada, questi ultimi si ritraevano sempre più; in breve in uno spazio ridotto, in basso a destra, si assembrò una quantità enorme di persone: la pressione di quella massa sul fragile muretto di sostegno divenne insostenibile e la struttura crollò, facendo precipitare al suolo, per alcuni metri, diversi tifosi: alcuni trovarono la morte, per altri, paradossalmente, fu una via di salvezza, la valvola di sfogo all'innaturale cumulo umano che si era formato. 
Nel mentre, nella calca in molti morivano schiacciati, calpestati e asfissiati, altri lacerati e infilzati dalle recinzioni metalliche che separavano la gradinata dal terreno di gioco, contro le quali gli sventurati erano stati compressi dalla folla urlante e in cerca di salvezza alle loro spalle. Recinzioni che alfine furono abbattute dalla spinta della marea umana, visto che gli addetti alla sorveglianza a lungo impedirono ai tifosi terrorizzati l'ingresso sul prato, arrivando addirittura a manganellare chi riusciva a scavalcare. Una Caporetto senza se e senza ma delle forze dell'ordine e del sistema di sicurezza, superficialità e dilettantismo allo stato puro. Il bilancio immediato di quella follia (follia ultras e organizzativa) fu di 38 vittime, la 39esima si aggiunse nei giorni successivi, spirando dopo una breve agonia. 


                                     Il settore Z semivuoto e disastrato dopo la catastrofe

LA PARTITA - Quello del match vero e proprio è un altro punto dolente della vicenda. Giocare per consentire alle forze dell'ordine di organizzare in sicurezza l'uscita dallo stadio, così pareva e così i capitani delle due squadre, Neal e Scirea, avevano annunciato all'altoparlante in un messaggio alle rispettive tifoserie. D'accordo: ma poi perché dare veste ufficiale alla gara? L'aver fatto giocare una finale di Coppa Campioni "burocraticamente autentica" in uno stadio - cimitero, coi morti che, probabilmente, al fischio d'inizio erano ancora allineati all'ingresso della tribuna centrale, rimane una vergogna incancellabile, la perdita della verginità per un certo tipo di calcio già professionalizzato ma ancora genuino, un calcio che scomparve definitivamente quella sera di tarda primavera. 
Interrogativo meno rilevante ma ancora oggi molto sentito: fu partita vera, sul piano tecnico? Sì e no. No di certo nel primo tempo, giocato a ritmi nemmeno da amichevole, ma da accademia, con toni agonistici quasi inesistenti e pochi affondo davvero pericolosi, non più di uno per parte. Tutt'altra musica nella ripresa (che qualche funzionario Uefa, nell'intervallo, abbia ricordato alle due squadre che di partita ufficiale si trattava, e quindi era il caso di mettere nella contesa un po' più di combattività? Mia supposizione, sia chiaro): i giocatori cominciarono a fronteggiarsi con vigoria fisica sempre maggiore (su tutti un Tardelli assai battagliero), la Juve creò pochino in avanti e badò soprattutto al controllo degli avversari, in particolare con un Brio ineccepibile in marcatura sul temutissimo Rush; un paio di volte riuscì però ad azionare il contropiede, e con uno di questi fece centro: lancio lungo di Platini per il velocissimo Boniek, fuga centrale e atterramento ben prima di entrare in area: l'arbitro svizzero Daina concesse un incredibile rigore e Roi Michel lo trasformò. 
Gli inglesi reagirono furiosamente, Tacconi si erse a miglior uomo in campo sventando due palle gol nitidissime, poi il direttore di gara, lui invece peggiore in campo, non sanzionò col penalty un intervento falloso in area di Bonini. Secondo molti questa è stata una vittoria "meritata" dalla Juve: per quel che può valere (nulla, perché quella sera il calcio nulla valeva) non lo fu: i bianconeri ebbero poche occasioni, al contrario degli avversari; sì, azzeccarono il match sul piano tattico ma vinsero, alla resa dei conti, grazie a un rigore inesistente a favore e uno nitido a sfavore non concesso: i successi meritati sono altri.


                                            Platini segna su rigore all'Heysel

L'ESULTANZA - Rimane la constatazione di come la trance agonistica possa davvero annebbiare la mente, far perdere il lume della ragione, rendere incapaci di valutare le situazioni nella loro globalità, quasi regredendo all'età infantile: non in altra maniera riuscirei a spiegare il clima di ritrovato entusiasmo sugli spalti che caratterizzò la fase finale della contesa, e soprattutto l'esultanza finale dei giocatori torinesi, prima con salti e urla di giubilo sotto la tribuna d'onore, poi con un mezzo giro di campo transitando sotto la curva del tifo organizzato juventino. Tutto documentato dalla tv, mentre non esistono testimonianze video, e ne esistono pochissime fotografiche, del ritorno in campo, poco dopo, di Platini e compagni con la Coppa, consegnata loro negli spogliatoi da un funzionario Uefa o, forse, direttamente dal presidente della Federazione europea di calcio, Jacques Georges. 
Scene spiegabili, ripeto, con una trance agonistica accresciuta dalla lunga attesa del match (il cui inizio era slittato di circa un'ora e mezza), oppure dall'ambiguità, dalla mancanza di chiarezza da parte delle autorità: se hanno chiesto di giocare la situazione non può essere così grave, si devono essere detti in molti in campo e sugli spalti, sennò con che coraggio si può fare calcio in uno scenario di morte? Ma qui si aprirebbe un altro capitolo infinito: i giocatori sapevano? E, se sì, quanto? Ancora oggi esistono versioni discordanti: nel decennale dell'Heysel Tacconi ammise che lui e i suoi compagni erano a conoscenza della tragedia. Testimonianze precedenti e successive vanno in direzione parzialmente opposta: si sapeva, sì, ma non del tutto. 
La sensazione è che molti dei protagonisti siano oppressi da un insostenibile senso di vergogna, e che quindi incontrino tremende difficoltà nell'ammettere che, sì, quella maledetta notte loro sapevano, ma un po' furono costretti a comportarsi in un determinato modo, a "recitare una parte", a fingere una partita vera e una vittoria vera per "ragion di Stato", un po' lo fecero spontaneamente, perché è ciò che succede quando calchi il campo di gioco e il pallone comincia a rotolare: tutto il resto scompare, conta solo il gol. E' pazzesco, ma sono stati scritti saggi corposi sulle potenzialità anche psicologiche e sociali del football, c'è ben poco di che sorprendersi. 
Diverso il discorso per chi, il giorno dopo, scendendo la scaletta dell'aereo che lo riportava in patria, alzò la Coppa al cielo; e ancora più diverso per il comportamento di tutti quei tifosi rimasti in Italia che, dopo aver seguito minuto per minuto sugli schermi di Rai Due l'evolversi del dramma, a fine partita scesero per le strade a festeggiare. Inaccettabile, imperdonabile. (2 - Fine)

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